ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Un Presidente alla Corte edu. Guido Raimondi guarda al passato, al presente e al futuro del giudice europeo dei diritti umani.
di Roberto Conti
Guido Raimondi, tornato in Corte di Cassazione come Presidente di sezione, ha accettato di ripercorre su Giustizia Insieme la recente esperienza, prima di giudice, poi di Vice Presidente e quindi di Presidente, alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Lo ha fatto a tutto campo, da uomo e giurista raffinato, toccando con estrema semplicità e naturalezza alcuni dei temi nodali- e per questo più problematici- che ruotano attorno al ruolo ed alla funzione della Corte edu, ma anche guardando alle sfide che quell’organo di giustizia internazionale sarà chiamato ad affrontare nell’epoca del post Covid-19.
Innumerevoli gli spunti che escono da questo colloquio informale, trasformato in un prezioso affresco dalle risposte di Raimondi che, oltre a ripercorrere alcune delle questioni più rilevanti esaminate dalla Corte edu, non ha mancato di soffermarsi sulle tecniche di decisione, sui meccanismi di formazione delle pronunzie e sulle relazioni personali maturate a Strasburgo, svelando aspetti forse inediti al grande pubblico.
Una Corte europea che dalle parole del suo presidente emerito esce più umanizzata e soprattutto legata inscindibilmente ai giudici nazionali, con i quali condivide il dovere di leale cooperazione al servizio dei diritti.
Se poi si guarda al complesso dei diritti convenzionali, di prima e di ultima generazione, resi viventi dalla giurisprudenza della Corte edu, ci si accorge non solo della loro ineludibilità e straordinaria attualità anche nei tempi incerti dell’emergenza, ma anche di quanto essi rappresentino ben più di una semplice sommatoria di singole posizioni giuridiche soggettive. Si tratta, a ben considerare, di un mosaico capace di descrivere il patrimonio delle persone, sempre meritevole di essere garantito e protetto in modo concreto ed efficace, anche in tempo di pandemia.
È dunque il tempo della fedeltà ai principi ed ai valori fondanti dell'Europa che Raimondi finisce con l'auspicare vibratamente anche rispetto all'attuale contesto "eccezionale e bizzarro" nei quale siamo tutti sospesi, ma non meno consapevoli di dovere condurre la nave con fermezza e con tutti gli sforzi possibili verso l’unico porto sicuro immaginabile, quello dei diritti della persona, attorno al quale vanno coagulate le energie delle persone oneste che hanno a cuore le sorti dell’umanità.
Sommario:1. La pandemia e la Corte edu. 2.Il processo davanti alla Corte edu. 3. I diritti di matrice convenzionale. 4. La Corte edu, i populismi e le derive autoritarie. 5. La Corte edu e le Corti nazionali. 6. La Corte edu e il Giudice Raimondi. 7. Riapprodo in Corte di Cassazione. 8. Dove va la Corte edu presieduta da Robert Spano?
1.La pandemia e la Corte edu
Guido, sembra in questo tempo risvegliarsi nella collettività il bisogno di protezione dei diritti fondamentali: circolazione, movimento, relazioni personali. Alcuni sostengono che questi diritti debbano comunque essere scavalcati dall’interesse alla salvaguardia della vita e della salute. Quanto questi diritti sono “disponibili” e qual è il ruolo del giudice nazionale, al quale spetta di interpretare la legge in modo convenzionalmente e costituzionalmente orientato?
Questo è un tempo effettivamente bizzarro ed eccezionale. Provvedimenti straordinari sono stati presi, con limitazioni importanti delle nostre libertà.
Noto che il dibattito sulla compatibilità di queste misure con la Costituzione e con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo è già acceso. C’è chi ha preso posizione nel senso che le decisioni italiane sul blocco delle attività e sul confinamento a domicilio della popolazione avrebbero richiesto una deroga alla Convenzione europea ai sensi del suo articolo 15, che riguarda l’ipotesi di “…guerra o altra pubblica emergenza che minacci la vita della nazione”.
Personalmente credo che, nonostante l’unicità della situazione e la mancanza di precedenti, il reticolo di protezione dei diritti fondamentali assicurato dalla Costituzione e dalla Convenzione, senza dimenticare la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in una con il normale funzionamento del giudice delle leggi, delle corti europee e dei giudici nazionali, sia idoneo a rassicurare circa la solidità dello Stato di diritto e della democrazia anche nel presente momento. A tutti questi livelli è già possibile, e lo sarà in futuro, quando sperabilmente l’emergenza sarà alle nostre spalle, la verifica giurisdizionale della compatibilità delle misure prese – e quindi della loro effettiva proporzionalità – con questi parametri, che garantiscono la nostra libertà.
Certamente, ed è una preoccupazione già sollevata da molti, la sospensione di fatto dell’attività giurisdizionale per un tempo non trascurabile, con l’eccezione delle questioni urgenti, fa pensare, dato che è proprio la possibilità di contare su di una giurisdizione indipendente che garantisce lo Stato di diritto e la democrazia, come sottolinea la recente serie di sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea pronunciate relativamente al sistema giudiziario polacco. Confido dunque che l’attività giurisdizionale possa riprendere al suo ritmo normale il più presto possibile.
Ritengo che non vi sia un pericolo per la democrazia e che l’analisi giuridica sui provvedimenti di questi mesi potrà più opportunamente svilupparsi con la pacatezza che si accompagnerà al ritorno alla normalità. Per esempio, ho letto un intervento secondo il quale la condizione di noi tutti, cioè di persone confinate a domicilio, sarebbe da inquadrare come una privazione di libertà, che quindi chiamerebbe in causa l’art. 13 della Costituzione e l’art. 5 della Convenzione europea, piuttosto che l’art. 16 della Convenzione e l’art. 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione europea, relativi alla libertà di circolazione. Se così fosse la violazione di nostri fondamentali diritti sarebbe flagrante, ma probabilmente non è così. In ogni caso possiamo fare affidamento su giudici credibili, a tutti i livelli che ho evocato, per le opportune verifiche.
A proposito della necessità di considerare i presenti avvenimenti con pacatezza, ho molto apprezzato un recente intervento di Tiziano Scarpa, Una rispettosa risposta a Giorgio Agamben, che invita noi tutti, replicando alle preoccupazioni espresse dall’illustre filosofo, a non precipitarci a considerare l’attuale situazione come il fallimento del sistema democratico ed il trionfo della barbarie.
Per rispondere alla domanda precisa, il ruolo del giudice nazionale, cioè del giudice interno, è fondamentale; dico un’ovvietà, essendo quest’ultimo il vero perno del sistema, anche nell’ottica della Convenzione europea, che è basata sul principio di sussidiarietà, che fa sì che nella complessiva considerazione del meccanismo europeo di protezione dei diritti umani primario sia il ruolo dei giudici domestici, dai quali in definitiva dipende la concreta realizzazione dei diritti, e secondario quello del giudice europeo.
Si è detto che i nostri padri costituenti non avevano preconizzato una situazione simile a quella che in questi mesi sta attanagliando il mondo. Si può traslare, secondo te, questo giudizio alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo sottoscritta nel 1950 a Roma?
Le due Carte sono quasi coeve. Come ho appena ricordato, i padri della Convenzione avevano pensato ad introdurvi un meccanismo derogatorio – l’articolo 15 – che permettesse agli Stati che si venissero a trovare in situazioni di guerra o di altro grave pericolo pubblico, di limitare le garanzie convenzionali. Quindi, in questo senso, avevano previsto la possibilità che la guerra o altre situazioni eccezionali potessero indurre gli Stati contraenti a ritenersi non più in grado, per un certo tempo, di assicurare l’intero livello di protezione previsto dalla Convenzione. Dal punto di vista della tutela dei diritti umani credo che sia una previsione felice, perché permette agli Stati che si trovino ad affrontare situazioni estreme di non denunciare la Convenzione, ma di limitarne l’applicazione, entro confini precisi e sotto il controllo della Corte europea.
Detto questo, personalmente ritengo che il nostro Paese abbia fatto bene a non attivare la procedura dell’art. 15, così sottoponendosi al pieno controllo della Corte sull’applicazione di tutte le misure prese e su quelle a venire. Non c’è dubbio che delle criticità potranno emergere, per esempio, nel caso in cui le violazioni alle limitazioni degli spostamenti dovessero essere autonomamente qualificate come “penali” dalla Corte in applicazione dei c.d. criteri “Engel”, ci si potrà chiedere se la descrizione della fattispecie “incriminatrice” sia sufficientemente chiara e precisa così da rispondere alle esigenze dell’art. 7 della Convenzione (legalità dei delitti e delle pene), ma credo che questo faccia parte della “fisiologia” del sistema.
La tenuta delle garanzie democratiche durante la pandemia. Abbiamo tutti vissuto in prima persona misure particolarmente restrittive, di decisioni giudiziarie che hanno confermato, in via cautelare, tali misure addirittura derogando, in una vicenda decisa da una Corte britannica, in maniera esplicita all’art.15 CEDU. Ma in che misura l’art.15 giustifica uno “stato di eccezione”?
Come dicevo, l’applicazione dell’art. 15 avviene sotto lo stretto controllo della Corte. Perché il meccanismo dell’art. 15 sia attivato occorre una decisione del Paese interessato, decisione che deve precisare i limiti delle deroghe che si intendono adottare e che va notificata al Consiglio d’Europa. Evidentemente spetta in primo luogo allo Stato interessato valutare la sussistenza, al di fuori dell’ipotesi bellica, di “una pubblica emergenza che minacci la vita della nazione”, ma la Corte non si disinteressa della questione e, sebbene naturalmente rispettosa del “margine di apprezzamento” che indubbiamente spetta allo Stato specie in una materia così delicata, non mancherebbe di intervenire se si trovasse di fronte ad una valutazione arbitraria dello stesso Stato, con la conseguenza della piena applicabilità, quindi senza deroghe, delle garanzie convenzionali. Si deve dunque trattare di un pericolo reale. Non va poi dimenticato che ci sono alcuni diritti fondamentalissimi – il c.d. “nucleo duro” della Convenzione – che sono esclusi dal meccanismo derogatorio di cui all’art. 15. Si tratta, per esempio, del diritto alla vita (art. 2) e del diritto a non essere sottoposti a tortura o a pene o trattamenti disumani o degradanti.
2.Il processo davanti alla Corte edu.
Il processo da remoto come effetto della crisi da Covid-19. Anche la Corte edu si è attrezzata a gestire la pandemia. In che modo?
Si, la Corte di Strasburgo si è attrezzata per lavorare “da remoto”, e lo ha fatto in piena trasparenza, pubblicando un comunicato stampa che contiene in dettaglio la descrizione di queste particolari modalità di lavoro. Il comunicato stampa è visibile sul sito della Corte al seguente indirizzo web: https://hudoc.echr.coe.int/eng-press#{%22itemid%22:[%22003-6677746-8882977%22]}.
Le funzioni della Corte sono assicurate nella misura del possibile. La Corte esamina regolarmente le richieste di applicazione di misure provvisorie ai sensi dell’art. 39 del suo Regolamento.
Il processo è stato fin qui considerato come collegato, in termini spaziali, all’aula del Tribunale o della Corte. La modifica di questo assetto e la smaterializzazione del processo, realizzata con l’utilizzazione di un “mezzo” che serve al processo ma governato dal giudice pone questioni rilevanti dal punto di vista della tutela dei diritti di matrice convenzionale delle parti e dei loro difensori? Quali rischi intravedi rispetto alla tutela dei diritti delle persone e dei difensori dall’uso del processo da remoto, in ambito civile e penale?
Forse qui la mia risposta è influenzata dall’anagrafe, ma forse no. Non sono un laudator temporis acti nostalgico del “buon tempo antico”, che poi tanto buono non era. Credo che la giustizia debba servirsi di tutte le tecnologie disponibili per poter funzionare al meglio e che i giudici abbiano il dovere di tenersi al passo delle innovazioni portate dal progresso della scienza e della tecnica. Detto questo, credo che le esigenze del giusto processo siano assicurate in pieno quando vi è interazione reale, e non solo virtuale, dei suoi protagonisti. Riconosco che vi sono situazioni, come quella nella quale ci troviamo, nella quale l’alternativa all’uso delle tecnologie che permettono le riunioni “da remoto” sarebbe la paralisi della giustizia, e quindi credo che ora questa modalità di lavoro sia giustificata da un corretto bilanciamento dei diversi interessi in gioco. Ma permettimi di considerarla un male necessario.
Non si può escludere che taluni, parti o difensori, riterranno incisi i loro diritti convenzionali da queste modalità di funzionamento del processo, tanto da investire la Corte di Strasburgo delle relative questioni. Non mi azzardo a prevedere quale potrebbe essere la risposta della Corte europea, ma sono sicuro che sarà una risposta di buon senso.
Veniamo al processo innanzi alla Corte edu. Può considerarsi realmente giusto, dopo l’introduzione di filtri in entrata particolarmente rigorosi ed improntati ad un formalismo che a volte è sembrato inconciliabile con la prospettiva di effettività e di living instrument che irradia, a dire della stessa Corte edu, l’intera Convenzione europea dei diritti dell’uomo?
Sì, il numero eccessivo di ricorsi ha spinto la Corte ad assumere un atteggiamento “difensivo” nei confronti della massa enorme di ricorrenti che premono alle sue porte. Quando si affronta questo argomento bisogna però tener ben presente la distinzione tra il livello amministrativo e quello giurisdizionale delle attività di filtro.
Dal punto di vista amministrativo, con la riforma dell’art. 47 del Regolamento, è stata effettivamente imposta ai ricorrenti l’esigenza di un elevato rigore formale nella redazione del formulario di ricorso. In particolare, chi intende proporre un ricorso è tenuto a contenere in spazi predeterminati e relativamente esigui la descrizione della fattispecie litigiosa, l’indicazione delle norme che si assumono violate e delle relative ragioni. Vero è che è possibile allegare un’appendice con un testo più lungo e dettagliato, ma il ricorso deve essere “autosufficiente”, cioè deve permettere ad un primo esame, da parte della Cancelleria, ed eventualmente poi, al livello giurisdizionale, del giudice unico, di stabilire, senza la necessità di leggere l’appendice, se esso sia palesemente inammissibile, per difetto di una delle condizioni di ammissibilità, compresa la manifesta infondatezza. Credo che questo rigore formale sia un sacrificio imposto ai ricorrenti giustificato dalla situazione in cui versa la Corte. Non va dimenticato, poi, che il rigetto” amministrativo” del ricorso non è senza rimedio, purché non sia decorso il termine convenzionale di sei mesi dalla decisione interna definitiva, perché il ricorrente potrà inviare un nuovo ricorso rispettoso delle prescrizioni formali richieste.
Sul versante “giurisdizionale” del filtro, cioè con riguardo al giudice unico, si era criticata l’assenza di motivazione delle decisioni di questa “parcellare” formazione di giudizio della Corte. A questo si è cercato di porre rimedio, per cui ora le decisioni del giudice unico contengono una sia pur scheletrica motivazione che permette al ricorrente – e al suo difensore – di comprendere le ragioni del rigetto.
Si tratta di misure che la Corte è stata costretta a prendere proprio per preservare – nei limiti del possibile – la propria capacità di dare risposte adeguate ai ricorsi meritevoli.
Un focus sui rapporti fra giudici e strutture interne della Corte edu? Ma chi scrive le sentenze della Corte? Qual è il processo decisionale che porta alla discussione del caso, prima, ed alla sua decisione, poi?
A differenza della Corte costituzionale e della Corte di giustizia dell’Unione europea, all’interno delle quali vi è un sistema di assistenti di studio, o di referendari, cioè di giuristi che assistono il giudice e sono scelti da lui o da lei, la Corte europea funziona con giuristi che sono inquadrati nella Cancelleria, sono organizzati in Divisioni strutturate su base “nazionale” (Divisione “italiana”, Divisione “francese” e così via) e non dipendono direttamente dai giudici, con i quali, però, essi sono evidentemente chiamati a collaborare strettamente.
I progetti di decisioni e di sentenze sono predisposti dai giuristi su istruzioni del giudice relatore. Normalmente il prodotto “quasi -finale” del relatore, cioè il progetto di decisione o di sentenza da presentare alla Camera, nell’ambito di una riunione di Sezione, è il frutto di diversi interventi sul testo effettuati in riunioni dirette o a distanza in via elettronica nel dialogo tra relatore e giurista. A livello di Grande Camera lo schema è lo stesso, ma la procedura è più complessa. Quanto nel progetto ci sia del relatore e quanto del giurista dipende ovviamente dalla personalità dell’uno e dell’altro. Non credo, sulla base della mia esperienza, che ci sia il rischio di prevaricazioni del giurista sul giudice, il quale ha il dovere di presentare alla formazione giudicante la soluzione che scienza e coscienza gli comandano di prediligere, se necessario imponendosi sul giurista, nel caso questi abbia una diversa opinione, sempre ovviamente in modo rispettoso. Il rispetto dei ruoli, che rimangono distinti, deve ovviamente funzionare nei due sensi.
A livello di Camera il progetto viene fatto circolare tra tutti i componenti della Sezione, compresi quelli che non sono chiamati in prima battuta a comporre il collegio giudicante, e che sono supplenti, almeno quindici giorni prima della data fissata per la camera di consiglio (le udienze pubbliche sono rarissime a livello di Camera). Tutti i giudici possono, prima della riunione, rivolgere domande al relatore e avanzare proposte, normalmente per via elettronica). In camera di consiglio il Presidente dà innanzitutto la parola al relatore, e poi al giudice “nazionale”, se diverso, quindi tutti i giudici che lo desiderano prendono la parola e la Camera delibera. Una volta presa la decisione, il testo del provvedimento viene letto e approvato collegialmente. Nel caso vengano richieste modifiche importanti, l’esame del caso può essere rinviato ad una riunione successiva. Per modifiche meno importanti si lascia al relatore la possibilità di proporre testi in via elettronica che vengono approvati senza la necessità di una riconvocazione formale (c.d. procedura di pigeon hole). In caso di sentenza, il Presidente raccoglie le intenzioni dei giudici che desiderano redigere un’opinione separata – concordante o dissenziente – e fissa il termine per il suo deposito. Al termine della deliberazione, la Camera può segnalare l’opportunità che la sentenza, o decisione, faccia l’oggetto, in ragione della sua importanza, di un comunicato stampa separato, ma la decisione su questo spetta al Presidente della Corte.
Quanto dura un processo innanzi alla Corte edu? Esistono delle regole, conoscibili dall’esterno, che fissano una durata massima dei processi? Esistono delle corsie preferenziali per alcune tipologie di ricorsi?
Questo è un punto dolente. I procedimenti della Corte, nonostante le misure prese, misure delle quali abbiamo parlato, per permettere alla Corte di eliminare rapidamente i ricorsi non meritevoli, sono troppo lunghi. Questa è una realtà che non bisogna nascondere. Non ci sono regole fisse sulla durata massima dei procedimenti. Nel giugno 2009 la Corte ha emendato il suo Regolamento introducendo una politica di esame dei ricorsi secondo criteri di priorità e non più secondo lo stretto ordine cronologico (art. 41). I criteri, che definiscono sette categorie di ricorsi, sono pubblici e sono consultabili al seguente indirizzo: https://www.echr.coe.int/Documents/Priority_policy_ENG.pdf.
Cosa puoi dirci sulla tutela cautelare convenzionale offerta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo- Quando ci si può rivolgere alla Corte in va urgente e quante chance di successo ha questa “strada”? Un processo, quello davanti alla Corte edu, di parti. Ma chi sono per la Corte edu i “terzi” che possono intervenire in quel giudizio e qual è la ratio di questo intervento?
Alla prima domanda rispondo in modo convintamente affermativo. La tutela cautelare è effettiva, anche se non può definirsi propriamente “convenzionale”, nel senso che le misure cautelari non sono previste dalla Convenzione. Questa situazione, per l’appunto, è stata per lungo tempo un fattore di debolezza di questa indispensabile forma di tutela. Fino alla sentenza della Grande Camera nel caso Mamatkulov e Askarov c. Turchia, del 2005, si riteneva che la mancata osservanza da parte di uno Stato convenuto di una misura provvisoria ordinata dalla Corte non integrasse, in sé, un’autonoma violazione, ma potesse al più considerarsi una circostanza aggravante in caso di “condanna” dello stesso Stato. Dal 2005 si ritiene invece che un tale comportamento integri una violazione, indipendente da quella denunciata con il ricorso, della norma che prevede il ricorso individuale, cioè l’art. 34 della Convenzione.
Indipendentemente dalla giuridica obbligatorietà della misura, è evidente che la collaborazione dello Stato nell’esecuzione delle misure provvisorie ha una fondamentale importanza per l’effettività di questo rimedio. Da questo punto di vista credo di poter dire, a conferma della mia opinione suquesto istituto, che i casi di mancata osservanza delle misure provvisorie, anche se purtroppo esistono, sono rarissimi.
La seconda domanda solleva questioni importanti. Le parti processuali davanti alla Corte europea sono solamente il ricorrente, o i ricorrenti, e lo Stato, o gli Stati, convenuti. È nei confronti di questi soggetti che l’art. 46 della Convenzione stabilisce il carattere obbligatorio delle sentenze della Corte. L’articolo 36 della Convenzione stabilisce da una parte il diritto di prendere parte alla procedura – orale e scritta – dello Stato di cui il ricorrente abbia la cittadinanza e, dall’altra, il potere del Presidente della Corte di invitare, nell’interesse di una buona amministrazione della giustizia, un diverso Stato contraente che non sia quindi già parte della procedura o “ogni persona interessata diversa dal ricorrente” a sottoporre commenti scritti o a partecipare alle udienze.
Per questa seconda ipotesi, che è quella che riguarda i c.d. amici curiae, va detto che, anche se il Presidente della Corte è molto attento a non appesantire la procedura, l’alternativa apparente tra la partecipazione con commenti scritti e quella all’udienza, è stata superata, nel senso che in casi particolarmente importanti, soprattutto quando ad intervenire sono Stati contraenti, è stata consentita una partecipazione nella doppia forma; ad esempio, ciò è avvenuto davanti alla Grande Camera nel caso Lautsi c. Italia, relativo all’esposizione del crocefisso nelle scuole pubbliche del nostro Paese.
Nella maggior parte dei casi sono le ONG attive nella difesa dei diritti umani che richiedono di partecipare alle procedure della Corte.
C’è però una dimensione diversa, particolarmente importante, e che può avere dei riflessi nell’ordinamento interno dei Paesi interessati, con riferimento ad una futura possibilità di riapertura dei procedimenti giurisdizionali nazionali in seguito ad un’eventuale “condanna” della Corte, e che è quella della partecipazione alla procedura giurisdizionale europea delle parti del giudizio interno diverse dal ricorrente, cioè di persone che possono essere controinteressate rispetto a quest’ultimo. La prassi della Corte è nettamente orientata ad accogliere le richieste di partecipazione di tali parti. Un esempio è quello del caso Perna, un giornalista che era stato condannato per diffamazione su querela di un magistrato, Giancarlo Caselli. Una volta avviata la procedura europea, Caselli è stato ammesso a partecipare come “terzo interveniente”, ed è intervenuto anche all’udienza della Grande Camera, assistito dal suo difensore. Ovviamente in entrambe le situazioni si parla di “terzi intervenienti”, ma c’è una notevole differenza, giacché è difficile considerare le parti della procedura nazionale come veri “terzi” rispetto alla procedura europea.
L’effettività della tutela dei diritti di matrice convenzionale. Un canone che sta irradiando l’intero ordinamento interno. Come la descriveresti in poche parole?
Userei le parole della Corte, purtroppo impiegate per la prima volta in un caso italiano, Artico, una sentenza del 1980, in un caso in cui ad un imputato era stato assegnato un avvocato d’ufficio che aveva scandalosamente trascurato i suoi doveri difensivi. Al Governo italiano, che si era difeso facendo valere che con la nomina di un difensore le autorità avevano assolto il loro obbligo convenzionale di assicurare una difesa tecnica a chi era accusato di un reato, la Corte rispose che la Convenzione tutela diritti “concreti ed effettivi” e non “teorici ed illusori”. Queste parole tornano spesso nella giurisprudenza della Corte, a dimostrazione che quella dell’effettività dei diritti garantiti dalla Convenzione è una preoccupazione costante dei giudici di Strasburgo.
La teoria del consenso ed il margine di apprezzamento. Croce e delizia della giurisprudenza della Corte. E la certezza del diritto?
La certezza del diritto, o sécurité juridique, per usare l’espressione impiegata dalla Corte, è certamente un valore convenzionale di grandissima importanza, tale da oltrepassare l’ambito dell’art. 6 della Convenzione, e quindi del giusto processo, al quale inerisce, e porsi come idea fondante dello Stato di diritto, e quindi di una delle stesse premesse dell’intero sistema europeo di tutela dei diritti umani. La Corte insiste su questa idea, che per esempio à alla base della censura di situazioni nelle quali è dato assistere ad incertezze ed instabilità eccessive nella giurisprudenza delle Corti supreme, che così vengono meno al loro ruolo di guida delle giurisdizioni di un Paese, attentando, per l’appunto al valore della certezza del diritto.
Detto questo, non credo che la dottrina del margine di apprezzamento, con il suo corollario del consensus europeo, meriti critiche particolari. In fondo questa dottrina è rispettosa del valore della stabilità e della prevedibilità della stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo. La giurisprudenza può – e deve, almeno in certi casi – conoscere un’evoluzione. La prudenza della Corte nel decidere un cambiamento giurisprudenziale, e l’ancoraggio di quest’ultimo, per l’appunto, al consensus europeo, cioè alla constatazione di un’evoluzione sufficientemente diffusa nei sistemi giuridici interni dei Paesi contraenti, mi sembrano cautele poste esattamente a presidio del valore della certezza del diritto.
3. I diritti di matrice convenzionale
Il bisogno di Stato sociale che sembra emergere, in modo imponente, dopo la pandemia, quanta protezione potrà avere riconosciuta dalla CEDU e dal suo giudice ed in che termini?
Quello dei diritti sociali è un grande tema. I limiti che indubbiamente derivano dal testo convenzionale, che senza dubbio è dedicato a diritti c.d. “di prima generazione”, cioè di carattere civile e politico e non a diritti economici e sociali, per i quali esiste un separato strumento del Consiglio d’Europa, la Carta sociale europea del 1961, rivista nel 1996, non hanno impedito alla giurisprudenza della Corte di tutelare le c.d. “propaggini sociali” dei diritti civili e politici.
Con la sentenza nel caso Airey c. Irlanda, del 1979, che riguardava il caso di una signora che, dovendo iniziare una procedura giurisdizionale e non avendo i mezzi per pagare un avvocato, si doleva del mancato rispetto del suo diritto di adire il giudice, di cui all’art. 6 della Convenzione europea, la giurisprudenza della Corte europea ha fatto un passo in avanti. Al Governo irlandese, che si era difeso facendo valere la natura per l’appunto sociale e non civile o politica del diritto invocato dalla ricorrente, la Corte ha risposto che non vi sono “compartimenti stagni” tra le due categorie di diritti, per cui se misure di carattere sociale sono necessarie per l’effettivo esercizio di uno dei diritti previsti dalla Convenzione, lo Stato contraente è tenuto ad adottarle.
Inoltre, sempre in tema di diritti sociali, la Corte ha valorizzato l’art. 14 della Convenzione, sul divieto di discriminazione, e lo stesso art. 1 del Protocollo addizionale, cioè la norma che protegge la proprietà.
Sotto il primo profilo, la giurisprudenza ha attribuito all’art. 14 – che in sé non ha una valenza indipendente, perché stabilisce un principio di non discriminazione non in assoluto, ma con riferimento ai diritti protetti dalla Convenzione – un suo autonomo valore affermando che se uno Stato contraente adotta delle misure sociali alle quali non sarebbe tenuto a termini della Convenzione, se tali misure rientrano in senso lato “nell’ambito di applicazione” (sous l’empire) di una delle disposizioni sostanziali della Convenzione, allora quello Stato è tenuto, in base all’art. 14, a dispensare la misura in modo non discriminatorio. Per esempio, nel caso Dhahbi c. Italia del 2014, la Corte ha trovato una violazione dell’art. 14 perché lo Stato italiano, dopo aver istituito una provvidenza – un assegno – per il nucleo familiare ('articolo 65 della legge n. 448 del 1998), aveva escluso dai beneficiari della misura i non cittadini (il ricorrente era tunisino, anche se successivamente aveva acquisito la cittadinanza italiana), e la Corte ha ritenuto discriminatoria, perché non adeguatamente giustificata, questa disparità di trattamento.
Sotto il secondo profilo, quello della tutela della proprietà, la Corte ha chiarito, con la sentenza Stec c. Regno Unito del 2006, che le prestazioni sociali assicurate dallo Stato, indipendentemente se esse siano di natura previdenziale (cioè collegate ad una contribuzione dei beneficiari) ovvero puramente assistenziali (cioè gravanti interamente sul pubblico erario), godono della protezione di cui all’art. 1 del Protocollo addizionale, per cui esse non possono essere incise dallo Stato se non entro i limiti fissati da questa norma (occorre una base legale, uno scopo legittimo e una relazione di proporzionalità tra la misura presa, cioè la riduzione o la soppressione del beneficio e lo scopo perseguito).
Naturalmente questa apertura della giurisprudenza della Corte verso i diritti sociali non deve creare aspettative eccessive. La Convenzione resta uno strumento dedicato ai diritti “di prima generazione”, per cui gli interventi della Corte in questo settore, certamente di importanza vitale specialmente in vista delle gravissime difficoltà economiche che ci aspettano all’esito dell’attuale emergenza sanitaria, non potranno certamente avere un impatto decisivo. Ma, con i suoi limiti, la tutela sarà certamente effettiva.
La proprietà come diritto fondamentale. Una prospettiva che a molti giuristi interni non piace e che anzi si porrebbe in posizione inconciliabile con la prospettiva costituzionale espressa dall’art.42 Cost. Eppure il numero dei ricorsi che ruotano attorno al diritto al rispetto dei beni è particolarmente elevato. Qual è la tua opinione? Ho appena parlato del ruolo della norma, l’art. 1 del Protocollo addizionale, che protegge la proprietà, il “terribile diritto”, per usare l’espressione di Stefano Rodotà, a tutela dei diritti sociali, il che fornisce già una prima risposta a coloro che rimproverano alla Convenzione di essere il frutto di una concezione neoliberista del diritto. Ricordo un bel volume del 2015 di Cesare Salvi, Capitalismo e diritto civile, nel quale questa tesi viene sostenuta. Salvi muove dalla tutela, ritenuta, eccessiva, che la giurisprudenza della Corte europea accorda ai proprietari espropriati, ai quali si riconosce, in linea di principio, la commisurazione dell’indennizzo al valore venale del bene espropriato, osservando che, per l’appunto, ciò sarebbe in contraddizione con l’impostazione della nostra Costituzione che, garantendo con il suo art. 42 la “funzione sociale” della proprietà, imporrebbe necessariamente un indennizzo inferiore al valore venale del bene espropriato affinché la differenza sia destinata al soddisfacimento dei diritti sociali dei bisognosi.
È vero che, a differenza dell’art. 42 della Costituzione, il Protocollo addizionale non parla di “funzione sociale” della proprietà, ma non credo che vi sia una vera contraddizione, giacché sia nel controllo dell’uso della proprietà sia nell’esproprio assume grande rilievo nella norma europea l’”interesse generale”, nel quale può rientrare anche la funzione sociale della proprietà. Nella stessa sentenza Scordino c. Italia (n. 1) del 2006, che lo stesso Cesare Salvi, in un altro scritto, aveva assunto a paradigma della attitudine “neoliberista” della Corte, non esclude affatto che in determinate circostanze l’indennizzo espropriativo possa essere determinato in misura inferiore al valore venale del bene espropriato, per esempio allorché l’esproprio si collochi in un contesto di riforma economica, sociale o politica ovvero, con formula apertissima, sia collegato a “circostanze particolari” (v. § 102 della sentenza). In definitiva credo che il Protocollo addizionale permetta agli Stati il perseguimento di politiche economiche e sociali rispettose del principio della funzione sociale della proprietà.
Legalità formale e legalità sostanziale: un dissidio insoluto o apparente?
Domanda per la quale la risposta dovrebbe essere sviluppata in alcuni volumi. Mi limito a dire che il principio di legalità, assolutamente fondamentale nella Convenzione europea, viene certamente inteso in senso sostanziale dalla giurisprudenza della Corte. Per esempio, tutte le volte in cui la possibilità per lo Stato di limitare un diritto è ancorata ad una base legislativa, in pratica sempre, la Corte non si accontenta dell’esistenza di una legge in senso formale, ma pretende che la legislazione invocata dallo Stato risponda a certe caratteristiche di qualità, sia cioè facilmente accessibile ai consociati, e in particolare ai destinatari del suo comando, e sia sufficientemente precisa e dettagliata in modo da assicurare agli interessati la garanzia della prevedibilità degli effetti della loro condotta. In mancanza di tali caratteristiche, la Corte considera che manca la base legislativa, il che è sufficiente ad integrare la violazione della Convenzione indipendentemente dalla verifica della legittimità del fine e della proporzionalità della misura limitativa.
I minori, coppie separate, le relazioni familiari ed i Covid-19 messi a dura prova le relazioni familiari ed i diritti in gioco. E la CEDU che dice sul punto?
La giurisprudenza della Corte in materia di tutela dei minori e di rapporti di famiglia è molto ricca ed articolata. Non potrei certamente tratteggiarne efficacemente gli aspetti caratteristici in una semplice risposta. Mi limito a ricordare che, in sintonia con la Convenzione delle Nazioni Unite del 1989 sui diritti del fanciullo, la stella polare della Corte, quando si tratta di bambini, è l’interesse superiore del minore. Vorrei anche ricordare la preoccupazione della Corte per la tutela del legame di sangue, tutela che deve senz’altro cedere di fronte all’interesse del minore in presenza di comportamenti non congrui dei genitori biologici, ma che deve essere mantenuta, magari con l’impegno di adeguate risorse da parte delle pubbliche autorità, quando la difficoltà per i genitori biologici di assicurare ai bambini un ambiente adeguato dipenda non da loro colpa, ma da situazioni che sfuggono al loro controllo.
Sempre sul tema della famiglia, ed avendo presenti i rischi aggravati che l’attuale situazione di limitazione degli spostamenti comporta per le vittime, specialmente le donne, evidentemente, di violenza domestica, vorrei ricordare la speciale attenzione che la giurisprudenza della Corte riserva a questa piaga sociale, rispetto alla quale precisi obblighi, anche di natura positiva, vengono affermati a carico degli Stati contraenti.
Al largo delle coste italiane bagnate dal Mediterraneo stazionano ancora migranti, spesso bloccati su navi delle ONG. Si è letto, in questi giorni, di provvedimenti amministrativi che hanno imposto la quarantena ai soggetti provenienti da territori extra UE per il sospetto di essere portatori di contagio da Covid-19.Misura adeguate, secondo te, a rispettare i diritti delle persone in gioco rapportati agli interessi degli italiani?
Non porrei la questione in termini di contrapposizione degli interessi dei migranti rispetto a quelli “degli italiani”, in una prospettiva che opponga “noi” a “loro”. Non c’è un “loro” e un “noi” nella filosofia della Convenzione, che protegge le persone semplicemente in base alla loro appartenenza alla famiglia umana. In questa prospettiva il carattere regionale del sistema europeo di tutela dei diritti umani non deve far perdere di vista la sua impostazione universalistica, che discende dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, rispetto alla quale la filiazione della Convenzione è con forza affermata nel Preambolo di quest’ultima. Si dice, secondo me con piena ragione, che i sistemi regionali di protezione dei diritti umani sono “vettori locali di un messaggio globale” (local carriers of a global message).
Detto questo, la giurisprudenza della Corte ha sempre riconosciuto il diritto sovrano degli Stati di controllare i loro confini e quindi di regolare i flussi migratori. In ogni caso deve essere rispettata la dignità umana e, come per chiunque altro, le eventuali limitazioni o anche privazioni di libertà alle quali migranti irregolari possano essere sottoposti devono essere poste in essere nel rispetto di tutte le condizioni previste dalla Convenzione, compreso, nei casi appropriati, un adeguato controllo giurisdizionale.
Detenuti al 41 bis ord.pen., condizioni di salute incompatibili con il regime detentivo in carcere per effetto del coronavirus. Abbiamo letto di recenti provvedimenti dei tribunali di sorveglianza che hanno concesso gli arresti domiciliari a boss mafiosi. Ancora una volta diritti fondamentali e valori che attengono alla sicurezza nazionale in gioco, chiamati ad essere bilanciati? Che fare?
La questione è di grandissima importanza non solo dal punto di vista del diritto, ma anche, ovviamente, da quello sociale e politico.
Credo che la Corte si sia recentemente pronunciata su di una richiesta di misura provvisoria, ai sensi dell’art. 39 del suo Regolamento, volta ad ottenere l’indicazione allo Stato italiano di misure urgenti per fronteggiare l’emergenza alla quale ti riferisci, cioè l’altissimo rischio che l’attuale pandemia presenta in una situazione di sovraffollamento carcerario, non ritenendo che sussistessero le condizioni per la concessione della misura. Questo non esclude, naturalmente, l’esame nel merito del ricorso, a tempo debito. Vedremo cosa ci dirà la Corte. Personalmente credo che trattenere in detenzione persone per le quali le autorità non sono in grado di assicurare una ragionevole protezione dal rischio di contagio certamente sollevi degli interrogativi quanto alla compatibilità con la Convenzione di una tale situazione.
Morti su morti per effetto del covid-19. L’Italia devastata. Le generazioni più anziane le più colpite e le più vulnerabili rispetto a strutture sanitarie che, nel nord del Paese, non hanno spesso potuto offrire loro un’assistenza adeguata e sono state chiamate a “scelte tragiche”, spesso preferendo altri soggetti con maggiori chance di sopravvivenza. Si prospetta un contenzioso poderoso a livello interno ma, allo stesso tempo, provvedimenti legislativi volti a limitare la responsabilità dei sanitari. Come si pone la CEDU rispetto a questo fascio di problemi?
Come si sa, dagli articoli 2,3 e 8 della Convenzione, che tutelano rispettivamente il diritto alla vita,all’integrità fisica e psichica delle persone e quello alla vita privata e familiare, discendono per gli Stati obblighi positivi di indagine e di repressione delle condotte dolose, o anche colpose, che possano aver provocato lesioni di quei beni fondamentalissimi. Per quanto riguarda in generale la responsabilità per colpa, ed in particolare quella medica, a partire dalla sentenza Calvelli e Ciglio c. Italia la giurisprudenza non richiede che la risposta dello Stato sia necessariamente di carattere penale, se gli strumenti posti a disposizione sul piano civile o amministrativo sono sufficienti allo scopo. Non c’è dubbio che l’eventuale concessione di uno “scudo” ai sanitari possa sollevare degli interrogativi con riferimento a tali obblighi, ma non è certamente possibile azzardare una previsione su quali potrebbero essere le risposte della Corte a tali questioni.
Extraordinary renditions, torture e diritto alla verità
La posizione della Corte edu sul tema della tortura è stata, nel corso degli anni, di grande importanza anche per il nostro Paese. La vicenda delle "extraordinary renditions" che ha coinvolto ha chiamato la Corte dove tu hai lavorato a scrutinare vicende che hanno riguardato i rapporti fra Stati, i limiti del segreto di stato e la funzione stessa degli organi giudiziari interni. Cosa si prova a dovere mettere in discussione le pronunzie della Corte costituzionale in nome della protezione dei diritti di matrice convenzionale
Si, certamente, e questo è un capitolo particolarmente doloroso per il nostro Paese, che vorremmo veramente vedere pienamente affrancato dalla piaga della tortura, mentre purtroppo diverse sentenze della Corte hanno dovuto constatare nei confronti dell’Italia la violazione dell’art. 3 della Convenzione nella sua forma più grave, per l’appunto quella della tortura.
Penso in particolare alla sentenza Cestaro del 2015, relativa ai fatti di violenza poliziesca svoltisi nella scuola Diaz durante il G8 di Genova nel 2001. Dopo la sentenza, nell’ambito delle attività culturali organizzate dalla Cancelleria all’interno della Corte, è stato proiettato il film di Daniele Vicari “Diaz - Don't Clean Up This Blood”, del 2012, che racconta la vicenda in maniera particolarmente cruda anche se, purtroppo, temo, non esagerata rispetto alla realtà. Ho ritenuto mio dovere non declinare l’invito ad assistere alla proiezione che mi era stato rivolto dal personale, anche se, come puoi immaginare, non è stato facile. Devo dire che, nonostante la tristezza e la difficoltà del momento, e senza voler commentare la sentenza, cosa che non ho fatto neanche in quell’occasione, la proiezione del film mi ha fatto riflettere una volta di più sul grande valore che il sistema europeo di tutela dei diritti umani possiede anche per democrazie mature ed avanzate come la nostra, anche nell’ambito delle quali, disgraziatamente, delle derive sono sempre possibili.
Non bisogna poi dimenticare che la sentenza Cestaro ha portato all’approvazione da parte del nostro Parlamento della legge sulla tortura, che ha colmato una lacuna del nostro ordinamento che veniva denunziata da moltissimo tempo. So che da vari circoli la legge viene criticata come insufficiente, ma in ogni caso si tratta di uno sviluppo positivo, al quale non è certo che si sarebbe giunti senza questa decisione della Corte europea.
Sulle “extraordinary renditions” c’è stata una serie di sentenze della Corte di Strasburgo, a partire da quella della Grande Camera nel caso El Masri c. FYROM del 2012, sentenze delle quali si è molto parlato, anche se le conclusioni della Corte - che ha in genere constatato la violazione dell’art. 3 sotto il profilo sostanziale, appunto la tortura cui le vittime venivano esposte nei Paesi di destinazione, e processuale, come nel caso italiano a proposito dell’impossibilità di procedere alla punizione dei responsabili a causa delle norme sul segreto di Stato, dell’art. 5 sulla tutela della libertà personale, dell’art. 8 sulla tutela della vita privata e familiare e dell’art. 13 della Convenzione sul diritto ad un ricorso effettivo – non possono aver sorpreso nessuno, tanto essere erano per la verità scontate. Tutte sono state adottate all’unanimità.
L’ultima parte della tua domanda richiederebbe da parte mia un commento specifico alla sentenza che riguarda il caso italiano del rapimento dell’imam di Milano Abu Omar, cioè Nasr e Ghali c. Italia, commento dal quale ti chiederei di esonerarmi, avendo io partecipato a quest’ultima decisione. Mi limito a ricordare che anche questa sentenza è stata adottata all’unanimità, mentre quella della Corte costituzionale alla quale ti riferisci riflette una dicotomia tra il giudice relatore e quello redattore della sentenza, segno della difficoltà della decisione e della compresenza di opinioni diverse.
La tua domanda ha però una portata più ampia, che involge il rapporto tra la Corte di Strasburgo e le alte corti nazionali. Come ho già detto si tratta di un rapporto essenziale per il futuro del sistema. In questo quadro non solo il rispetto delle reciproche posizioni deve essere massimo, ma occorre disponibilità all’ascolto da entrambe le parti. Su questo permettimi di essere ottimista. Difficoltà ce ne saranno sempre, ma esse saranno superabili, se lo spirito di lealtà e di collaborazione, che indubbiamente esiste, ed è stato rafforzato dall’intensificarsi negli ultimi anni di molteplici attività di cooperazione, permarrà in futuro.
Esiste e se sì in che termini, un diritto alla verità nella Convenzione e nella giurisprudenza della Corte edu che consenta di derogare ad altri valori convenzionalmente protetti di fronte a temi di particolare rilevanza.
Il diritto alla verità è un tema che, specialmente negli ultimi tempi, è stato notevolmente dibattuto tra gli specialisti dei diritti umani. Esso è evocato dal preambolo e dell’art. 24 § 2 della Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone contro le sparizioni forzate, aperta alla firma a New York il 20 dicembre 2006, e trova riscontro in diverse pronunce di organi giurisdizionali o quasi-giurisdizionali internazionali, come il Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite.
La Corte di Strasburgo non ha evocato spesso il concetto di “diritto alla verità”, anche se vi è una sviluppatissima giurisprudenza sulla dimensione procedurale degli articoli 2 e 3 della Convenzione, giurisprudenza che stabilisce il diritto delle vittime di violenze o dei loro familiari ad un’inchiesta effettiva, condotta da autorità indipendenti rispetto a quelle implicate nei fatti e alla quale le vittime abbiano adeguato accesso, inchiesta che conduca all’accertamento dei fatti e alla punizione dei responsabili. La giurisprudenza precisa che si tratta di un’obbligazione di mezzi, non di risultato.
Proprio nel caso El Masri, che ho evocato nella risposta sulle extraordinary renditions, la Corte, che era stata invitata dalle parti intervenienti, specialmente l’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, ad esprimersi sul “diritto alla verità” al § 191 della sentenza, ha detto di voler esplicitamente trattare un aspetto dell’inadeguatezza dell’inchiesta che aveva fatto seguito ai fatti di quella vicenda, cioè il suo impatto, per l’appunto sul “diritto alla verità” a proposito delle circostanze di causa. A questo proposito, la Corte ha sottolineato “la grande importanza di questo ricorso non solo per il ricorrente e la sua famiglia, ma anche per le altre vittime di crimini simili e per l’opinione pubblica, che hanno il diritto di sapere cosa è successo”. È interessante notare come la Corte non si sia limitata ad affermare un diritto delle vittime della violazione denunciata, ma sia andata oltre, parlando di un diritto ad essere informati delle vittime di crimini simili e del “grand public”. In precedenza, la Corte era stata invitata da un terzo interveniente a farlo nel caso Varnava c. Turchia del 2009, relativo alle sparizioni forzate a Cipro del Nord dopo l’invasione turca del 1974, ma non aveva raccolto l’invito. Lo stesso si è verificato nel caso Janowiec c. Russia, del 2013.
Detto questo, non credo che il richiamo al diritto alla verità, almeno allo stato attuale di sviluppo della giurisprudenza della Corte, possa avere una valenza derogatoria rispetto ad altri valori convenzionalmente protetti, anche se, come ho detto, dalla sentenza El Masri emerge una notevole apertura, del resto coerente con la consolidata giurisprudenza della Corte, verso questo concetto.
4. La Corte edu, i populismi e le derive autoritarie
Come hai vissuto, nella Tua funzione di Presidente della Corte edu il periodo del fallito golpe turco, tra spinte ad interventi radicali della Corte edu evocate insistentemente ed esigenze correlate al rispetto delle garanzie interne?
Certamente un periodo molto difficile, che del resto non è ancora terminato. So bene che l’atteggiamento della Corte, che, sia pure nel rigore delle sue decisioni giurisdizionali, che spesso hanno concluso nel senso della violazione della Convenzione da parte della Turchia a causa delle straordinarie misure repressive adottate dopo il fallito golpe del 2016, ha continuato a “dialogare” con le autorità turche, è stato vivacemente criticato da vari circoli, turchi e non, che hanno accusato la Corte di una sorta di “connivenza” con un potere autoritario.
La storia dirà se la Corte si è comportata bene. Personalmente non posso che auspicare la più ampia libertà di commento e anche di critica alla prassi seguita dai giudici di Strasburgo.
So bene che certi circoli più radicali dell’opposizione al leader al potere in Turchia auspicavano, come dici tu, una presa di posizione più netta da parte della Corte, cioè una constatazione giurisprudenziale del fallimento della democrazia in Turchia. Secondo queste posizioni la Corte avrebbe dovuto affermare solennemente la mancanza di una giustizia indipendente in quel Paese.
Non spetta a me prospettare delle valutazioni politiche. Ma quale sarebbe stata la conseguenza di una tale affermazione? Una volta constatata l’assenza in Turchia di un apparato giurisdizionale indipendente, come avrebbe potuto il Comitato dei Ministri tollerare la presenza nell’organizzazione di uno Stato mancante dei requisiti statutari per la partecipazione al Consiglio d’Europa? La conseguenza sarebbe stata l’uscita della Turchia dal Consiglio d’Europa e dalla Convenzione europea. Sarebbe stato meglio per la popolazione turca?
Non voglio certo dire con questo che sono state considerazioni di questo genere a spingere la Corte verso posizioni che possono essere state ritenute “indulgenti” verso il regime turco, perché sono convinto che i giudici che sono intervenuti hanno sempre agito secondo scienza e coscienza, senza farsi condizionare da considerazioni più o meno politiche. Da osservatore oramai esterno alla Corte, penso però di poter dire che alla fine dei conti trattenere la Turchia nel sistema abbia servito meglio la causa dei diritti umani di quanto avrebbe potuto fare la sua espulsione.
Il rischio di derive autoritarie all'interno dei Paesi europei e il ruolo della Corte edu. Cosa possiamo o dobbiamo attendere dal giudice dei diritti umani?
È un tema estremamente importante e delicato. Non dobbiamo mai dimenticare che la libertà e la democrazia non sono acquisite per sempre, ma occorre quotidianamente operare per preservarle.
Nel mio ultimo discorso inaugurale dell’anno giudiziario della Corte, tenuto nel gennaio dello scorso anno, ho notato un segnale preoccupante, e cioè l’aumento dei casi di violazione dell’art. 18 della Convenzione. L’art. 18 riguarda l’abuso da parte degli Stati delle limitazioni ai diritti previste dalla Convenzione, cioè i casi nei quali certi Stati procedono a incidere su di un diritto individuale, per esempio arrestando una persona sulla base di accuse penali pretestuose, accuse che in realtà celano l’intenzione di colpire un avversario politico. Ebbene, nel discorso notavo che da quando la Convenzione era entrata in vigore la Corte aveva constatato la violazione dell’art. 18 in dodici casi. Ora, ben cinque di questi dodici casi si riferivano a sentenze pronunciate nel solo 2018.
Questi segnali, come anche la pressione sul principio dell’indipendenza della magistratura, cardine dello Stato di diritto – che emerge per esempio dalla serie di sentenze, alle quali mi riferivo prima, emesse recentemente dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nei confronti della Polonia – devono indurre alla massima vigilanza.
5. La Corte edu e le Corti nazionali
Il giudicato nazionale contrario alla sentenza della Corte edu in ambito civile e amministrativo: la posizione inaugurata dal Corte cost.n.123/217 costituisce per Te una soluzione appagante?
So che il tema ti sta a cuore, perché ho letto il tuo bel commento alla sentenza n. 123 del 2017. Credo che la Corte costituzionale abbia fatto tutto quello che poteva, indirizzando un monito sia al legislatore sia alla Corte di Strasburgo.
Dopo la coraggiosissima sentenza n. 113 del 2011, che ha introdotto per via di giurisprudenza costituzionale la possibilità di revisione delle sentenze penali in seguito alla constatazione di serie violazioni della Convenzione europea, la Corte costituzionale ha confermato l’esigenza, che era stata indicata dal giudice rimettente, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, di un meccanismo volto a permettere, nelle stesse circostanze, la revisione di sentenze non penali, ma ha affermato allo stesso tempo di non poter provvedere con una sentenza additiva, vista la necessità di tener conto di tutti gli interessi in gioco, in primo luogo quelli delle parti processuali rimaste estranee alla procedura giurisdizionale europea, per cui è necessario un intervento del Parlamento, che è stato esplicitamente invitato a legiferare.
Dal canto suo, penso che la Corte di Strasburgo trovi assolutamente pertinente l’invito della Corte costituzionale a favorire la partecipazione alla procedura europea delle parti della procedura nazionale diverse dal ricorrente, cosa che del resto corrisponde già alla sua prassi.
Proporzionalità e ragionevolezza. La “corsetta” vietata al tempo del Covid-19 ha riacceso un dibattito fra operatori e gente comune anche in ragione dell’invocato principio di precauzione. Espressioni che sembrano evocare alcun dei parametri della CEDU e della Costituzione. Quanto sono uguali e quanto sono, secondo Te, diversi e quanto il giudice comune può ad essi ispirarsi nell’esercizio delle sue funzioni?
Non credo che vi siano sensibili differenze tra le due Carte. Nell’applicazione quotidiana delle norme da parte del giudice “comune”, per usare l’espressione impiegata dalla nostra Corte costituzionale, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sulla proporzionalità delle misure limitative dei diritti può essere particolarmente utile perché, a differenza di quella della Corte costituzionale, origina da casi concreti.
Il dialogo fra le Corti: una realtà, un bluff o un’opportunità che va sperimentata in concreto? Il Protocollo n.16 sarà mai reso esecutivo in Italia?
Sulla sorte del Protocollo n. 16 in Italia non mi azzardo a fare previsioni. Ho accompagnato il Primo Presidente Mammone, lo scorso gennaio, in occasione della sua audizione da parte della Commissione parlamentare presso la quale pende il DDL di ratifica del Protocollo, e ho avuto modo di prendere la parola esprimendo, come lui stesso, il mio parere assolutamente favorevole alla ratifica. Nello stesso senso si è recentemente espresso, autorevolmente, tra gli altri, il Prof. Ruggeri. So che ci sono opinioni diverse.
Come ho detto in tante altre occasioni, per me il dialogo tra le Corti è tutt’altro che un bluff. Direi anzi che è l’unica speranza per il sistema messo in piedi dalla Convenzione europea nel 1950. Al numero eccessivo di ricorsi ho già accennato.
È teoricamente possibile, ma realisticamente improbabile, che gli Stati contraenti dotino la Corte di risorse tali da risolvere il problema dell’arretrato. Personalmente non credo che questa sia la soluzione. Il fatto è che, specie da alcuni Paesi, tra i quali purtroppo c’è il nostro, arriva alla Corte un numero di ricorsi non manifestamente inammissibili tale da rivelare un funzionamento difettoso dello Stato di diritto e quindi, in altre parole, un livello non soddisfacente di applicazione della Convenzione all’interno del sistema nazionale.
Occorre quindi migliorare tale livello, e l’unica strada – a parte la necessità, in certi casi, di investimenti nel settore della giustizia – è quella della collaborazione delle corti nazionali con la Corte di Strasburgo, e quindi del loro coinvolgimento, anche psicologico, nella missione di applicare la Convenzione, missione per la quale vi è una responsabilità condivisa tra il livello nazionale e quello europeo.
Intendiamoci, dialogo non significa obbedienza cieca dei giudici nazionali ai dicta di Strasburgo. Al contrario, anche la Corte di Strasburgo deve essere all’ascolto dei giudici nazionali e del loro eventuale motivato dissenso, al quale deve essere data adeguata risposta.
Per queste ragioni personalmente ho assegnato al progetto di Rete delle corti superiori europee della Corte di Strasburgo un’alta priorità nel corso del mio mandato di Presidente e sono molto lieto che lo stesso sia stato fatto dal mio successore immediato, il Presidente Sicilianos. Per le stesse ragioni auspico che il Protocollo n. 16, che è già in vigore sul piano internazionale, e che istituzionalizza, per così dire, questa collaborazione, sia ratificato il più largamente possibile, anche dal nostro Paese.
6. La Corte edu e il Giudice Raimondi
Hai cessato da poco le funzioni presso la Corte europea dei diritti dell’uomo. Un giudice italiano designato dall’Italia, eletto dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e poi eletto Presidente dai giudici della Corte. Te lo aspettavi?
Certamente no. Naturalmente, a parte la ovvia gratificazione personale, la stima dei miei colleghi, che si è manifestata già con la mia elezione a vice-Presidente della Corte poco più di due anni dopo il mio arrivo a Strasburgo, poi con l’elezione, e anche la rielezione, a Presidente, mi ha fatto particolarmente piacere in quanto segno di considerazione per il nostro Paese e per la qualità del suo “prodotto” giuridico.
Nessuno conosce meglio della Corte di Strasburgo, inondata di ricorsi italiani in tema di eccessiva lunghezza del processo, le difficoltà del nostro sistema giudiziario, da moltissimo tempo afflitto da una grave crisi di efficienza. Allo stesso tempo, però, ho potuto notare l’apprezzamento sincero dei miei colleghi sia per l’alto livello tecnico delle sentenze delle nostre giurisdizioni, specie quelle superiori, sia per la dottrina italiana, considerata battistrada e guida scientifica in tanti settori del diritto.
Quanto ti manca la Corte europea, il modo di lavorare, i rapporti con i tuoi colleghi?
L’esperienza di giudice a Strasburgo è certamente unica. La ricchezza di stimoli, anche culturali, che promana dalla frequentazione di tanti colleghi provenienti non solo da aree geografiche, ma da percorsi professionali diversissimi tra loro, non ha eguali.
Naturalmente, pur trattandosi di un corpo relativamente ristretto, formato da 47 persone, non c’erano frequentazioni intense con tutti i colleghi al di là delle occasioni di lavoro. Rapporti più stretti, come è naturale, si stringevano all’interno delle sezioni. C’era poi ogni lunedì sera una cena tenuta in un ristorante, la “Petite Mairie”, aperta a tutti in linea di principio, ma che di fatto vedeva la partecipazione di soli colleghi francofoni, una minoranza relativamente esigua. Ricordo queste cene, nelle quali si parlava di tutto, dalla letteratura, al teatro, al cinema, all’arte, alla politica, con una certa nostalgia. Poi c’era (e c’è) il “Gruppo di riflessione”, un’iniziativa molto felice. Si tratta di una forma di utilizzazione della “pausa pranzo” (dalle 12 alle 14) mediante una colazione, alla quale sono invitati a partecipare tutti i giudici (e solo i giudici), ciascuno dei quali paga per sé. L’evento si tiene circa una volta al mese e c’è un comitato scientifico che programma gli interventi e seleziona gli argomenti da trattare. Alle 12.30, terminato il pasto, uno dei colleghi tiene una relazione su un tema d’interesse e si apre poi un dibattito totalmente libero. I temi riguardano spesso, ovviamente, questioni delle quali i giudici si occupano quotidianamente, ma non solo. Ricordo che in una delle occasioni nelle quali sono stato invitato a fungere da relatore mi hanno chiesto di parlare della dottrina italiana di diritto internazionale.
7. Riapprodo in Corte di Cassazione
Il Tuo ritorno al giudiziario nazionale. Affinità o diversità di approccio?
Idealmente mi sono sempre sentito parte della Corte di cassazione, che avevo lasciato nel 2003, dopo quasi sei anni, trascorsi in gran parte alla Procura generale e in misura minore alla sezione tributaria, che era stata istituita un paio d’anni dopo il mio arrivo nel 1997.
Questo naturalmente non era sufficiente a farmi sentire assolutamente tranquillo quanto alla mia possibilità di riprendere a Piazza Cavour con un heri dicebamus, dopo un’assenza di 16 anni, periodo durante il quale c’era stato un ricambio quasi completo dei magistrati della Corte e riforme numerose e profonde avevano modificato sensibilmente i metodi di lavoro.
Per questo, come ho detto in uno scritto recente pubblicato su questa rivista in occasione della jubilación di Vincenzo Di Cerbo, Presidente titolare della Sezione lavoro - Tra Roma e Monaco di Baviera, un grande giudice: Vincenzo Di Cerbo - sono particolarmente grato a lui e a tutti i colleghi di questa Sezione, che mi hanno accolto fraternamente e mi hanno fatto subito sentire di nuovo a casa, accordandomi immediatamente credito e fiducia nelle mie capacità di rimettermi al passo. Devo dire che il mio lavoro alla Sezione mi dà grandissime soddisfazioni, professionali e umane, e devo confessare che vedo con un certo timore approssimarsi il traguardo del limite di età…
8. Dove va la Corte edu presieduta da Robert Spano?
Il giudice Robert Spano è stato da poco eletto presidente della Corte edu. Cosa puoi dirci avendo lavorato con lui?
Con Robert Spano c’è sempre stato un rapporto speciale. A parte la grandissima stima professionale che ho sempre nutrito per questo giovane e brillantissimo giurista, che a poco più di quarant’anni, quando è arrivato alla Corte, era stato magistrato, professore universitario e Preside della Facoltà di giurisprudenza, nonché Ombudsman del suo Paese, pubblicando scritti di esemplare chiarezza che rivelavano una notevole profondità di pensiero, non bisogna dimenticare la nostra comune origine napoletana, un po’ attenuata per lui, nato e cresciuto a Reykjavík, ma pur sempre di padre vomerese.
Robert è certamente un giudice che crede sinceramente al sistema della Convenzione, anche se, ed è a mio sommesso avviso un gran bene, non è un militante dei diritti umani. Credo quindi che il suo equilibrio e le sue grandi qualità professionali, che lo rendono assolutamente credibile sia presso i Governi sia presso i ricorrenti, accompagneranno con successo la Corte nel tempo del suo mandato di Presidente.
In conclusione, quale ruolo sarà chiamata a svolgere la Corte edu nei prossimi anni, secondo la tua esperienza?
La mia speranza è che si alleggerisca finalmente, grazie ad una migliore cooperazione dei giudici nazionali, il carico di ricorsi che attualmente grava sulla Corte, in modo che ad essa venga consentito di concentrarsi sullo sviluppo e sull’affinamento della sua giurisprudenza, che, in quanto sintesi dei valori fondamentali minimi che devono valere per l’intero continente europeo, continui a rappresentare una guida autorevole per le giurisdizioni dei Paesi contraenti.
La condivisione di tali valori, in una con la garanzia assicurata dal giudice europeo, è la più solida assicurazione del perpetuarsi della democrazia, dello Stato di diritto e della tutela dei diritti umani. Credo che si tratti di una prospettiva realistica, le chiavi del cui successo, per quanto dicevo prima, si trovano nelle mani delle corti nazionali, specialmente quelle costituzionali e supreme, giacché tutto dipende dalla misura e dalla lealtà della loro collaborazione con la Corte di Strasburgo.
Grazie
Intervista a Maurizio De Lucia, Dino Petralia e Lia Sava
di Andrea Apollonio
Gli aiuti che i governi nazionali e le istituzioni europee e internazionali si apprestano a mettere in campo per fronteggiare la tragica situazione economico-sociale che l'Italia - come il resto del mondo - sta vivendo a causa della diffusione del Coronavirus, rappresentano un'immissione di risorse pubbliche pari soltanto a quella registrata nel dopoguerra: allora come adesso, l'esigenza è "ricostruire", sgombrando il campo dalle macerie della depressione.
Da quel piano di aiuti a questo, sono intercorsi settant'anni: di storia repubblicana, ma anche di prolificazione delle mafie. Settant'anni in cui le mafie - ed in particolare Cosa Nostra siciliana - si sono esponenzialmente arricchite con i soldi pubblici puntualmente erogati dallo Stato per fronteggiare ogni sorta di emergenza. E' una storia che Maurizio De Lucia (oggi procuratore capo di Messina), Lia Sava (oggi procuratore generale di Caltanissetta) e Dino Petralia (oggi procuratore generale di Reggio Calabria) conoscono bene, anche per la lunga militanza nella procura palermitana; e che rievocano, intessendo conoscenze professionali e ricordi personali.
E' a loro che Giustizia Insieme, nell'intento di contribuire efficacemente al dibattito sui rischi di infiltrazioni mafiose nella gestione emergenziale delle risorse pubbliche e dell'elargizione - anche tramite linee di credito garantite dallo Stato - di aiuti economici ai privati, ha rivolto domande che, andando oltre le semplificazioni giornalistiche, invitano a scavare più a fondo.
I tre procuratori in quest'intervista formulano proposte che tentano un difficile bilanciamento tra i vari interessi in gioco. Lo scenario che tratteggiano è fosco, puntato di chiaroscuri, dal quale emerge anche un messaggio rassicurante: se è vero che il nostro Paese non ha dimenticato l'oramai trentennale lezione impartita da Giovanni Falcone, che chiede anzitutto al legislatore cautele e controlli sui flussi finanziari (fonte primaria del rafforzamento mafioso), questa volta non si permetterà alle cosche di trarre profitto dalle difficoltà economico-sociali del nostro Paese.
§§§
1. Qualche tempo fa il quotidiano tedesco conservatore Die Welt ha pubblicato un articolo in cui si affermava che in Italia la mafia aspettava soltanto i soldi che l'Unione Europea avrebbe erogato per l'emergenza Coronavirus, suscitando aspre critiche da parte di politici italiani. Qualche giorno dopo, però, due voci autorevoli della magistratura inquirente italiana, Francesco Greco e Giovanni Melillo, hanno messo in guardia il Governo, che nel Decreto Credito non avrebbe previsto adeguati strumenti di controllo del rischio di finanziamento privato (ma con garanzie pubbliche) delle mafie e delle loro imprese; rischio, anzi, che i due Procuratori definiscono "assai concreto". Viene dunque spontaneo chiederVi, anzitutto: l'emergenza sanitaria da Covid19 può davvero rappresentare una grande opportunità di arricchimento per le organizzazioni mafiose?
Lia Sava: L’emergenza sanitaria da Covid 19 rappresenta, senza ombra di dubbio, una straordinaria ed inaspettata opportunità di arricchimento per le organizzazioni mafiose. Trattasi di questione complessa, che deve essere affrontata senza semplificazioni o approssimazioni di sorta ma, al contrario, va analizzata alla luce di ciò che ben conosciamo in ordine alle dinamiche delle organizzazioni di stampo mafioso operanti non solo in Italia ma anche all’estero. Siamo di fronte ad una partita che si sta già giocando fra le mafie e gli organi dello Stato chiamati a contrastarle e dal cui esito finale dipende il futuro della economia legale del nostro Paese. Non vi è crisi che non venga sfruttata dalla criminalità organizzata come un’opportunità di guadagno e l’emergenza in atto, inaspettata e di proporzioni inimmaginabili, se non scatteranno idonei meccanismi volti a garantire legalità e trasparenza nella redistribuzione della liquidità della quale famiglie ed imprese hanno necessità impellente, potrebbe determinare una crescita esponenziale dei profitti scaturenti dal malaffare. La rapida diffusione del Covid 19 in Italia ha colto tutti impreparati ma le grandi mafie sono in grado di farvi fronte più agevolmente perché nel loro tessuto connettivo è insita la capacità di rapido adattamento ai mutamenti economici e sociali e questo è tratto distintivo ben noto alle Forze di Polizia e alla magistratura inquirente.
Invero, prima ancora del quotidiano tedesco Die Welt, due circolari della DAC (la Direzione Centrale Anticrimine) della Polizia di Stato indirizzate a tutti i Questori d’Italia, in data 27 marzo e 4 aprile, hanno segnalato la necessità prestare grande attenzione e, quindi, contrastare le prevedibili infiltrazioni mafiose ed attività corruttive nel settore degli appalti pubblici e delle forniture sanitarie conseguenti alle misure restrittive adottate per contrastare la diffusione del coronavirus. Lo scenario che possiamo ipotizzare è, dunque, allarmante. Le imprese riconducibili alla criminalità organizzata cercheranno di infiltrarsi, con svariate modalità che dovremo riuscire ad intercettare, in diversi settori del circuito produttivo, alcuni dei quali particolarmente attivi in fase di emergenza, pensiamo alle forniture alimentari ed a particolari presidi medici, ed in altri che, al contrario, sono stati messi in ginocchio dalla stessa crisi come, ad esempio, il settore turistico e l’edilizia. Le mafie cercheranno di inserirsi a vario titolo nelle maglie interstiziali dei circuiti produttivi in difficoltà con strumenti poliedrici e verosimilmente raffinati ma che dovremmo aver imparato a conoscere attraverso le risultanze di indagini e processi in materia di criminalità mafiosa che abbiamo celebrato negli ultimi venticinque anni nel nostro paese.
Allora: la sfida è tutta qui. Non vi è crisi che non costituisca un’opportunità per le mafie di accrescere il loro potenziale, sfruttando il consenso sociale che possono recuperare distribuendo generi alimentari, prestando denaro. Lo Stato deve certamente snellire l’accesso al credito per le imprese in difficoltà perché la rapidità, in questa partita, è fondamentale ma attenzione: questa rapidità non deve significare meno controlli. Se la parola magica è “ liquidità” (che le mafie tendono a fornire attraverso prestiti rapidi che condurranno alla compartecipazione nell’impresa fino a fagocitarla) occorrerà essere tempestivi a contrastare le infiltrazioni nei settori particolarmente a rischio.
La partita la vincerà lo Stato se sapremo arginare l’accaparramento da parte di imprese mafiose dei sussidi sia nazionali che europei e delle gare di appalto. Ovviamente si dovrà prestare particolare attenzione al settore sanitario, dove occorrerà scongiurare che nella fase due si abbassino la tutela di legalità ed i controlli per la partecipazioni agli appalti e sarà indispensabile anche un senso etico nella ripartenza da parte degli imprenditori, direi un’ etica paziente che costituirà uno dei fattori indispensabili per vincere la nostra partita. Infatti, al fine di rafforzare la capacità di tenuta dell’imprenditoria sana ed al fine di contrastare le mire espansionistiche del crimine organizzato, se da un lato è utile semplificare le leggi per l’erogazione del credito, dall’altro è essenziale essere capaci di effettuare sempre una rapidissima valutazione ex ante dei rischi criminali connessi ad una normativa prima che la stessa sia emanata, prendendo spunto proprio dalle risultanze di indagini delle Direzioni Distrettuali Antimafia ed Antiterrorismo degli ultimi anni. Ad esempio, prima di varare una nuova normativa, occorrerebbe verificare se la criminalità organizzata ha utilizzato, in passato, proprio quei meccanismi che, per ipotesi, la disciplina in fieri verrebbe a consentire.
Maurizio De Lucia: Innanzitutto non metterei in connessione le affermazioni ed i luoghi comuni del quotidiano tedesco con le molto più concrete e analitiche osservazioni dei procuratori di Napoli e Milano; dopodiché il pericolo di interessamenti delle mafie su tutto quello che l’emergenza del coronavirus comporta è certamente reale.
E’ la storia delle mafie che ci parla della loro capacità di cogliere tutte le occasioni possibili per accrescere il loro potere.
Individuo in particolare quattro profili, del resto già segnalati da autorevoli colleghi e commentatori:
quello di sostituirsi allo Stato nel sostegno alle fasce più deboli della popolazione, aumentando in tal modo il proprio consenso sociale, sia utilizzando “risorse” proprie, che gestendo i fondi che gli stessi decreti anticrisi destinano allo scopo. Penso in particolare alle presenze mafiose in diverse amministrazioni comunali di piccoli centri del Sud Italia dove il rischio, in assenza di verifiche e controlli è certamente concreto;
quello di utilizzare le risorse pubbliche e i canali di finanziamento offerti dalla legislazione anticrisi sia per impossessarsene che quali utili canali di riciclaggio;
quello di acquisizione delle molte imprese che saranno vittime della crisi;
quello, forse il più pericoloso per le implicazioni che comporta, di riuscire ad infiltrarsi negli appalti pubblici che verranno. Non dimentichiamo che gli appalti, da sempre costituiscono per le mafie l’anticamera del salotto che consente di parlare con l’economia e con la politica. Il rischio concreto di controlli poco stringenti è che riviva quel tavolino che negli anni '80 del secolo scorso vedeva seduti insieme uomini di Cosa nostra, imprenditori e politici. Ricordiamoci che quel “tavolino” fu favorito anche da una imponente stagione di spese pubbliche in deroga effettuate in Sicilia per un valore in pochi anni di 5000 miliardi delle vecchie lire.
Dino Petralia: Basti ricordare cosa ha rappresentato l’EXPO per Milano o la ricostruzione del dopo sisma in Abruzzo ed altri grandi eventi ancora in cui il flusso di denaro è stato enorme e soprattutto a rischio di accesso ad un’imprenditoria troppo disinvolta. Se non coinvolta col crimine organizzato.
Detto ciò, credo anche che il DL credito/liquidità non sia la sede esatta per pianificare controlli e meccanismi di filtro antimafioso. Disponiamo già di uno strumentario cospicuo di meccanismi preventivi di controllo e intervento e su questo l’ANAC ha svolto un ruolo assai determinante e fruttuoso; occorre raffinare e allertare e su questo registro il grido d’allarme di Greco e Melillo mi pare opportuno e tempestivo.
2. Sempre nel Decreto Credito - che il premier Conte ha definito una "potenza di fuoco con 400 miliardi di garanzie per le imprese" - sembra si sia rinunciato tanto al tradizionale controllo prefettizio sui beneficiari della misura (nei confronti dei richiedenti il finanziamanto), tanto alla tracciabilità dell'uso del finanziamento (denaro), attraverso il ricorso obbligatorio a conti dedicati. Nella Vostra esperienza di capi di importanti uffici inquirenti, in realtà meridionali fortemente caratterizzate dalla presenza mafiosa, quanto sono importanti i presidi amministrativi e bancari nell'arginare il rischio di elargizione dei fondi alle imprese che rispondono a interessi criminali? Ed è secondo voi opportuno, nell'ambito di un'emergenza sanitaria (e quindi economico-sociale) che impone di bilanciare tutti gli interessi in gioco, privilegiare la speditezza e la fluidità del finanziamento, rinunciando alla rigorosità - e ai tempi - dei controlli a monte?
Maurizio De Lucia: I controlli sono importanti, è evidente, ma è anche evidente che non devono svolgere un ruolo frenante dell’intervento a sostegno delle imprese in un momento così difficile per il Paese. Distinguerei. I controlli bancari devono ispirarsi, come in parte già è, al principio “conosci il tuo cliente”, mi riesce difficile immaginare una banca che eroga fondi, sia pure integralmente garantiti dallo Stato, ad un soggetto – imprenditore che non sia già suo cliente e quindi noto. In questo senso si potrebbe pensare proprio ad un coinvolgimento e a delle responsabilità della banca, del resto già ampiamente presenti nel nostro ordinamento. Quanto ai controlli amministrativi, devono essere accelerati con un grosso sforzo di informatizzazione della macchina pubblica, si può anche qui pensare a controlli che avvengano in itinere e non al termine di ogni passaggio della procedura di finanziamento, ma non credo si possa pensare a rinunciarvi.
Dino Petralia: Le grandi Procure si dedicano in modo mirato a quest’ambito di indagini - in proposto la struttura di tutti i grandi uffici requirenti prevede Dipartimenti di Economia, Pubblica amministrazione etc. - e in ogni caso le Direzioni Distrettuali Antimafia indagano laddove le speculazioni economico-finanziarie maturano in contesti mafiosi. Una polizia giudiziaria ormai altamente specializzata completa i ranghi di un fronte investigativo-inquirente davvero formidabile.
Tuttavia, si tratta pur sempre di un sistema che opera ex post, ossia all’indomani dei fatti e dunque tardivo rispetto agli obiettivi di una cascata di liquidità che mai come va tenuta immune dal rischio di infiltrazioni corrosive e fagocitanti.
Si fronteggiano, da un lato, l’esigenza di garantire ossigeno operativo e sostegno finanziario alle imprese e al sistema economico in genere, dall’altro, il bisogno - insopprimibile e vitale - di snellire le procedure di erogazione in modo da accelerare il processo di ripresa. Due esigenze delle quali nessun sacrificio dell’una o dell’altra può giustificare però uno slabbramento dei sistemi di controllo. Ne risentirebbe l’efficacia dell’obiettivo e la stessa tenuta della democrazia.
Occorre allora potenziare i sistemi attuali che non sono pochi né inadatti e semmai allertarli convogliandoli sotto una regia comune, ma in ogni caso scongiurando appesantimenti burocratici in grado di ritardare e infiacchire l’itinerario che dalla fonte conduce all’erogazione economica.
La magistratura è comunque pronta al resto, ma auguriamoci che non ce ne sia bisogno!
Lia Sava: Per rispondere alla domanda ritengo necessario fare il punto degli interventi fino ad ora svolti per il sostegno alle imprese per far fronte alla crisi da covid 19. In prima battuta sono state emanate disposizioni per la sospensione di mutui, sono state concesse agevolazioni per il pagamento di affitti, è stato rinviato il pagamento di alcune tasse ed è stata prevista l’erogazione di 600 euro per chi ha chiuso la propria attività a seguito dell’emergenza covid 19 e per autonomi iscritti con gestione separata. Con il decreto dell’8 aprile 2020 nr. 23 è stata prevista l’iniezione di liquidità per far fronte alla crisi. Ed ancora una volta torna in gioco la parola “liquidità”. Per ottenere questa “liquidità” occorre l’intermediazione delle banche. Ed allora: ecco che la criminalità organizzata potrebbe inserirsi nelle maglie di questo meccanismo e sfruttarne, in qualche modo, la lentezza. In particolare, le imprese che non saranno ritenute meritevoli dalle banche di accesso al credito secondo le linee del decreto dell’8 aprile 2020 nr. 23 sopra richiamato, specie nei settori maggiormente “appetibili” in tempo di coronavirus, come quello agroalimentare, potranno essere, ancora una volta, “tentate” dalle organizzazioni criminali per beneficiare del loro apporto di capitali di provenienza illecita. In questo senso mi ha particolarmente colpito la notizia, a dimostrazione che la criminalità organizzata è pronta con iniezioni di liquidità, ad investire nei settori in crisi, il blocco alla frontiera di un furgone proveniente dai paesi dell’est carico di denaro contante e guidato da soggetti calabresi legati alle ‘ndrine. Allora comprendiamo con assoluta chiarezza che le mafie considerano, anch’esse, la parola “liquidità” come il grimaldello per vincere la partita in atto. Ed, allora, diventa indispensabile ed imprescindibile che i flussi per il rilancio delle attività economiche siano tracciati e controllati, attraverso un monitoraggio anche all’estero. Infatti, la tempistica della liquidità non è indifferente per l’impresa in crisi, mentre le richieste di finanziamento procederanno attraverso passaggi che richiederanno tempo (le imprese devono rivolgersi alla banca di fiducia, che svolgerà l’istruttoria ed inoltrerà la richiesta di garanzia alla Sace che, a sua volta, istruirà la pratica e se la stessa avrà esito positivo verrà emessa la garanzia, contro-garantita dallo Stato, e quindi l’istituto di credito erogherà il denaro richiesto).
Occorrerebbe, dunque, bilanciare il fattore “rapidità nell’erogazione” con strumenti volti ad evitare che fruiscano dei benefici imprese mafiose tali, nella maggior parte dei casi, per interposizioni fittizie, o a imprenditori condannati o indagati per reati sintomatici ( ad esempio: contro la pubblica amministrazione, per reati tributari) o già sottoposti a misure di prevenzione personale o patrimoniale antimafia. Sarebbe, altresì, importante accertare se la liquidità erogata sia effettivamente destinata ad arginare la crisi scaturente dal coronavirus. Inoltre, non possono essere bloccati i meccanismi previsti dal codice degli appalti né si può pensare di prescindere dai certificati antimafia. Invero, si tratta di regole che sono indispensabili, e lo abbiamo compreso proprio attraverso il percorso faticoso delle indagini svolte negli ultimo trentennio, in tema di criminalità organizzata al fine di arginare le sue inquietanti infiltrazioni nel tessuto economico nel nostro paese. Infatti, senza regole chiare che impongano trasparenza massima nel settore delle gare di appalto, si darà un assist determinante che potrebbe consentire alle mafie di vincere la partita a spese dell’economia legale che sarebbe irrimediabilmente compromessa, finendo per annientare i sacrifici e gli sforzi compiuti da forze dell’ordine e magistratura per salvaguardare la libertà di fare impresa senza il cappio della criminalità organizzata.
3. Nel gennaio 2020 la Direzione Distrettuale Antimafia di Messina ha dato il via alla c.d. "Operazione Nebrodi", con decine di arresti e centocinquanta imprese sequestrate. E' stata scoperchiata una truffa milionaria senza precedenti ai danni dell'Unione Europea, in cui mafiosi e colletti bianchi (professionisti, centri di assistenza, funzionari pubblici) agivano di concerto, da anni, per accaparrarsi i fondi agricoli comunitari. Lo scenario che fa intravedere l'emergenza sanitaria da Covid19 potrebbe prevedere lo stesso copione, con imprese create ad hoc per la percezione degli aiuti economici, con il necessario supporto dei colletti bianchi?
Dino Petralia: La Procura di Messina - che mi piace idealmente ribattezzare, al pari di quella di Reggio Calabria, con uno slogan come il Pubblico Ministero dello Stretto - ben conosce il suo lavoro; lo ha dimostrato e lo dimostra! E tuttavia è patrimonio comune a tutta la realtà mafiosa non solo nazionale che i boss strizzano l’occhio famelico al sistema legale, inoculandosi come virus nefasti sia attraverso imprese apparentemente legali ma destinate solo alle più intense grassazioni di denaro pubblico, sia costituendo realtà economiche e commerciali perfettamente lecite grazie ai profitti incamerati.
La mafia fa il suo - potremmo senza equivoci affermare! - ma i pubblici amministratori e dipendenti colludendo sono infedeli, corrotti, apostati del giuramento, e tradiscono due volte: lo Stato per il quale lavorano, la legge che ne regola la disciplina. E vanno puniti tanto duramente quanto i mafiosi.
Lo scenario è dunque doverosamente ipotizzabile.
Lia Sava: Assolutamente si. L’operazione Nebrodi ha indebolito forti cosche ed ha colpito il sistema criminale delle frodi comunitarie che venivano realizzate attraverso un meccanismo peculiare e cioè far apparire propri terreni che non lo sono per trarne beneficio. L’operazione, che evidenziato un sistema ( con collegamenti fra mafia dei Nebrodi, Cosa Nostra Palermitana e Clan Santapaola) analogo in altre realtà territoriali del nostro paese. Invero, anche nel distretto nisseno, abbiamo riscontrato la realizzazione di truffe pianificate, organizzate dalla criminalità organizzata, ove i centri che avrebbero dovuto controllare erano in accordo con le mafie realizzando un vero e proprio sistema criminale. A rendere particolarmente allarmante il fenomeno è stata la circostanza per cui oggetto di concessione in favore dei soggetti legati alla criminalità organizzata sono stati terreni demaniali dei quali Cosa Nostra ha acquisito la disponibilità mediante procedure di evidenza pubblica turbate grazie alla presenza di funzionari compiacenti e/o intimiditi dalle organizzazioni mafiose. Peraltro, lo stesso meccanismo, sempre nel distretto nisseno, è stato ricostruito, nel 2018, dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Caltanissetta, nella c.d. operazione “Terre Emerse” nell’ambito del quale è stata emessa ordinanza di custodia cautelare a carico di n. 12 soggetti per i reati di concorso esterno in associazione mafiosa, intestazione fittizia di beni, truffa aggravata e falso in atto pubblico. L’attività investigativa ha fatto, peraltro, emergere la responsabilità anche di un notaio che ha proceduto alla redazione di atti pubblici di donazione, a favore degli altri indagati, aventi ad oggetto beni appartenenti al demanio forestale della Regione Siciliana. Da ciò si desume in via immediate e diretta che i meccanismi ben collaudati dalla criminalità organizzata e ricostruiti nelle indagini sopra delineate ben potranno essere messi in atto dalle mafie per accaparrarsi della “liquidità” messa in circolo dallo Stato e dall’Unione Europea per far fronte al Covid 19. Le indagini svolte dalle D.D.A. hanno evidenziato, dunque, uno schema comune che, partendo da una parvenza di legalità nell’ iter burocratico ha consentito di ottenere somme ingenti con la complicità di notai e figure professionali di riferimento .
Le mafie, infatti, ormai evolute, fanno della collusione con i colletti bianchi il loro punto di forza e cercano strade apparentemente lecite per amministrare e finanziare i propri affari illeciti, in Sicilia come in Calabria, in Campania , in Puglia, ed in Abruzzo a seguito del terremoto. Nel distretto nisseno, in particolare, l’affinato meccanismo investigativo messo in campo dalla Procura della Repubblica di Enna e l’istituzione di un apposito Gruppo Specializzato di Magistrati in materia di “truffe AGEA” , sfruttando la cooperazione con l’Olaf e altri meccanismi di cooperazione internazionale realizzati anche grazio ad Eurojust, ha consentito il recupero alle casse dello Stato di diversi milioni di euro.
Maurizio De Lucia: A prescindere dalle vicenda specifica che è stata istruita del mio Ufficio e che è ancora sub judice, le mafie, come abbiamo ricordato, hanno interesse ad intercettare qualunque forma di ricchezza e lo fanno attraverso il controllo del territorio e con il ricorso prima ancora che alla minaccia, alla persuasione corruttiva, nei confronti di quella che è stata definita la borghesia mafiosa e che troppo spesso si rivela disponibile a fornire il suo ausilio ai delitti mafiosi, per la verità neppure solo in Sicilia e nel Meridione. La consapevolezza del rischio del ripetersi di fenomeni che sono già stati oggetto di molte verifiche processuali ci deve indurre a tenere altissima la guardia, per farlo è necessario affinare sempre più gli strumenti della legislazione antimafia che abbiamo e curare che essi rimangano saldamente presenti nella legislazione.
4. E' ancora l'esperienza siciliana che torna utile nel ragionamento che stiamo svolgendo, in cui sono stati elaborati con successo - soprattutto rispetto all'erogazione dei fondi agricoli comunitari - protocolli di legalità (penso, in primo luogo, al c.d. "protocollo Antoci"), in grado di avviare un dialogo virtuoso tra enti locali e Prefettura che, grazie ad una serie di controlli incrociati, smascherano i mafiosi travestiti da imprenditori richiedenti fondi pubblici, senza ovviamente rispettare i vincoli e le finalità del finanziamento. Poiché il Decreto Credito varato dal Governo intende promuovere, tramite il sistema bancario, un massiccio finanziamento delle imprese con la garanzia dello Stato, credete possibile esportare l'esperienza dei protocolli di legalità in questo campo, creando quindi (a monte, prima dell'erogazione del finanziamento) un dialogo virtuoso tra istituti di credito, Prefettura e, perché no, in chiave preventiva, magistratura inquirente?
Maurizio De Lucia: I protocolli sono uno strumento utile, ma non vanno santificati (per la verità in nessun campo). Il c.d. protocollo Antoci nell’imporre l’obbligo del certificato antimafia a tutti coloro che volevano accedere ai finanziamenti europei per le terre dei Nebrodi, ha certamente creato un ostacolo in più alla mafia, costringendo i mafiosi ad utilizzare dei prestanome, con conseguenti difficoltà e aumento della catena dei rapporti illeciti e consentendo dunque alla Procura di contestare in maniera massiccia il delitto di cui all’art 512 bis c.p.; ma i delitti ed in senso più ampio il fenomeno dell’infiltrazione mafiosa in quel territorio è stato evidenziato dalle indagini penali. Intercettazioni e controlli posti in essere da carabinieri e guardia di finanza all’interno di una indagine penale, che, alla fine, si rivela l’unico strumento davvero efficace sul fronte della repressione.
Sul piano invece della prevenzione, certamente un dialogo costante tra sistema bancario, forze di polizia e forse anche magistratura non può che realizzare effetti positivi, in questo senso anche specifici protocolli che consentano l’accesso immediato a banche dati e impongano comportamenti virtuosi ai sottoscrittori hanno la loro utilità.
Dino Petralia: Il Protocollo Antoci è stata un’idea tanto semplice quanto provvidenziale! Il punto è riuscire ad osservarlo, cosa che per la mafia agricola (e non solo) dei Nebrodi è accaduta.
Ora, che siano protocolli di legalità o altri meccanismi, ciò che importa è l’affidamento di chi deve farli osservare. E, se si considera che il flusso economico alle imprese per il tramite del sistema bancario oggi sarà davvero imponente, i presidi più attrezzati sono le Prefetture, magari disegnando una geografia di interazione regionale con una regia capofila.
Altro aspetto di sensibilissimo rilievo è quello del rispetto da parte degli operatori finanziari, banche in testa, delle note segnalazioni di operazioni sospette che, per quanto affidate ormai a sistemi (Gianos e altri) strutturati su reti neurali assai sofisticate e intelligenti, fanno capo comunque agli operatori umani. Ed è su tale settore che oggi più che mai il controllo deve concentrarsi!
Lia Sava: Il c.d. “protocollo Antoci” ha avuto un nucleo centrale fondamentale . In sostanza, le aziende che intendono affittare terreni del Parco devono fornire il certificato antimafia della Prefettura non potendo autocertificarsi neppure per bandi con importi inferiori a 150 mila euro e tale meccanismo ha creato effetto moltiplicatore di legalità e trasparenza. Pertanto, poiché il decreto nr. 23 dell’8 aprile 2020 intende promuovere, tramite il sistema bancario, un massiccio finanziamento delle imprese con la garanzia dello Stato la predisposizione di protocolli fra istituti bancari, prefetture, forze dell’ordine e magistratura inquirente potrebbe garantire, in questa direzione, rapidità e trasparenza nell’erogazione della liquidità. Questi protocolli, secondo me, dovrebbero cercare il coinvolgimento delle organizzazioni professionali di riferimento che possono avere un ruolo di strategico di grande importanza.
5. L'orizzonte che tratteggiate è fosco, puntato di chiaroscuri. Siamo partiti dalla semplicistica - e forse preconcetta - posizione del quotidiano Die Welt: e se i tedeschi avessero ragione?
Lia Sava: La strategia per sfumare il chiaro scuro e rendere limpido il panorama nel quale ci muoviamo e nel cui ambito si gioca la partita alla quale ho fatto più volte riferimento occorre mettere in campo, oltre agli strumenti di prevenzione ed investigativi ai quali ho fatto cenno, anche mettere in campo strategie complessive che coinvolgano le grandi imprese “sane” di questo paese che, in questa fase di crisi da Covid 19, devono prendersi cura dei dipendenti ( per evitare che si facciano tentare dall’offerta deviante del crimine organizzato), devono essere attente ad evitare fornitori “ambigui”, adottare buone prassi per la tutela dei clienti. Ma occorrerà anche stare attenti al sistema della “comunicazione” che può diffondere panico o comunicare notizie confuse e contraddittorie, direi emotive, che possono favorire criminalità organizzata nel corso della partita in atto. Ancora, nella seconda fase emergenziale molte imprese dovranno difendersi da iniziative di creditori e dovranno predisporre strumenti di recupero della continuità aziendale. In questo senso, il decreto liquidità ha introdotto novità anche nel campo della “crisi di impresa”. L’obiettivo è palese: salvaguardare le imprese, anche attraverso il coinvolgimento dei soci nell’accrescimento dei flussi di finanziamento verso la società.
Ed è di tutta evidenza, però, che anche in queste maglie si può annidare l’interesse perverso della criminalità organizzata che cercherà di diventare “socio” per sfruttare le potenzialità del sistema. In questo panorama si inserisce il rinvio di un anno dell’entrata in vigore della riforma sulla crisi di impresa. Invero, se lo spirito della riforma è quello di fronteggiare il fisiologico “rischio di impresa” per scongiurane gli effetti negativi, non può essere reso immediatamente attuale per fronteggiare una crisi di straordinaria natura come quella del Covid 19. Segnalo che il Procuratore Generale della Cassazione ha costituto, in questa direzione, un gruppo di studio composto da alcuni Procuratori Generali e da magistrati esperti al fine di studiare gli effetti della crisi e l’impatto della riforma in fieri e ciò anche per individuare i necessari interventi correttivi scaturenti dall’emergenza in atto che, verosimilmente, non sarà di beve durata. Ne consegue che, mai come in questa fase, oltre alla cooperazione fra forze dell’ordine, magistratura, prefetture, organizzazioni di categoria, cooperazione internazionale, sostanziati in cabine di regia ed in protocolli operativi, gli operatori del diritto dovranno “scambiarsi i saperi”. Invero, la normativa civilistica in tema di crisi di impresa, i principi di contabilità e le regole riguardanti la c.d. priorità della continuità aziendale, le norme di diritto commerciale in materia di redazione dei bilanci, le disposizioni che regolano l’accesso ai finanziamenti con procedure semplificate non devono avere segreti per gli investigatori e per la magistratura requirente, proprio per arginare i rischi di infiltrazioni mafiose. La partita è dunque aperta e complicata. Ma possiamo e dobbiamo vincerla. Ancora una volta: attraverso l’etica paziente.
Maurizio De Lucia: L’articolo del Die Welt, al di là del modo, pone un problema, solo che non lo pone all’Italia, ma all’Europa, nella quale non da ora le mafie sono fortemente insediate.
Si può ricordare il contenuto di una intercettazione tra due mafiosi, captata all’indomani della caduta del Muro di Berlino. Uno dei due era a Palermo e l’altro si accingeva ad entrare nell’ex DDR. Ebbene il secondo chiedeva al primo cosa dovesse fare e la risposta era “Compra!” ; “cosa devo comprare?”
“tutto quello che trovi, immobili, alberghi imprese…”
Quello di cui si deve parlare allora è di pensare ad una legislazione antimafia europea che ancora manca e che invece è ineludibile formare.
Come sappiamo oggi la disciplina della materia è affidata alla Decisione Quadro del 24 ottobre 2008 sul contrasto alla criminalità organizzata. Questa decisone ancora non impone agli Stati di introdurre un concetto omogeneo di organizzazione criminale. Se ciascuno Stato va per la sua strada sono le mafie a saper cogliere le smagliature nelle quali infilarsi. Per questo è necessario costruire una normativa europea che tenga conto soprattutto, ma non solo dell’esperienza italiana una sorta di articolo 416 – bis europeo, incentrando la fattispecie sulla presenza di condotte collettive di natura violenta, intimidatoria e corruttiva che producono una alterazione delle “regole del gioco” dell’economia di mercato, del funzionamento della pubblica amministrazione e della formazione del consenso politico. In assenza di una disciplina di tale genere il rischio che le infiltrazioni delle nostre mafie sui nostri appalti avvengano attraverso l’interfaccia di società fiduciarie di diritto olandese o tedesco o di altro paese dell’ Unione è certamente un rischio reale.
Dino Petralia: Dobbiamo impegnarci al massimo affinché l’ipotesi ventilata da Die Welt non abbia affatto ragione!
Il non - processo amministrativo nel diritto dell’emergenza Covid 19.
di Fabio Francario
Sommario: 1.- Processo amministrativo, principi generali del processo e disciplina emergenziale. 2.- Il dl 8 marzo 2020 n 11; 3.- Il d.l. 17 marzo 2020 n. 18. 4.- Il dl 4 aprile 2020 n. 23. 5.- Considerazioni conclusive.
1. Processo amministrativo, principi generali del processo e disciplina emergenziale.
Nell’ambito delle disposizioni generalmente dettate per governare lo svolgimento dell’attività giudiziaria nel periodo dell’emergenza, i diversi decreti legge finora emanati stanno riservando al processo amministrativo un trattamento differenziato. La differenziazione finisce però con il dettare una disciplina che non sembra riconducibile ad alcun principio generale del processo, ingenerando il timore che il diritto dell’emergenza, attraverso una diminuzione oltre misura delle garanzie tipiche di un rimedio processuale giurisdizionale, stia nuovamente degradando il processo amministrativo ad una mera procedura di ricorso.
E’ noto che non basta fregiare una procedura di ricorso con l’appellativo di processo per poterla considerare tale [1] perché è necessario che l’esercizio della funzione giurisdizionale si svolga nel rispetto di principi fondamentali e di regole certe[2].
Nel caso del processo amministrativo ciò si è verificato anche in assenza della codificazione avvenuta con il d lgs 104/2010. Anzi, l’assenza di una compiuta codificazione ha fatto sì che il legame con i principi generali del processo sia sempre stato particolarmente forte, che questi abbiano spesso direttamente integrato le lacune esistenti nella disciplina quando i principi non erano chiaramente espressi da norme già codificate nel c.p.c.. In passato la più autorevole dottrina si è molto impegnata per chiarire che, se il c.p.c. rappresentava un termine di riferimento presso che obbligato per l’integrazione della lacunosa e frammentata disciplina del processo amministrativo, ciò non significava anche che nella ricostruzione degli istituti si dovesse rinunciare a guardare direttamente a principi comuni del diritto processuale[3]. In un costruttivo dialogo con l’Adunanza Plenaria e con la Corte costituzionale, proprio la continua ricerca e l’affinamento dei principi processuali generali ha consentito di chiarire, ben prima dell’entrata in vigore del codice, che quello amministrativo è un processo di parti[4], soggetto pertanto al principio della domanda, al principio dispositivo e al principio del contraddittorio, principi tutti che convivono con l’immanente principio di effettività della tutela giurisdizionale. Ciò ha consentito di ricostruire gli istituti processuali e di governare il processo con ragionevolezza e uniformità anche senza e ancor prima della codificazione del processo amministrativo.
Orbene, se si guardano le norme dettate per contrastare la situazione di emergenza che interessano il processo amministrativo si deve constatare non tanto il fatto che si differenzino da quelle dettate per la generalità degli altri processi, quanto piuttosto, a malincuore, che non rispondono ad alcun principio. Si disperdono infatti in una confusa e contraddittoria disciplina di dettaglio di cui non si sentiva affatto la necessità e che finisce con il produrre un generale disorientamento.
Che la tutela cautelare debba continuare ad essere erogata anche nei periodi di sospensione del processo, quale ne sia la causa, non è una graziosa concessione della attuale decretazione d’urgenza, ma l’applicazione di un fondamentale principio processuale comune, riconducibile al principio di effettività della tutela giurisdizionale, per il quale la tutela cautelare non può subire soluzioni di continuità[5]. Nel caso del processo amministrativo la decretazione non si è limitata a confermare quanto era ovvio e già insito nel sistema, e cioè che la tutela cautelare rimaneva fruibile nel periodo di sospensione e che i processi avrebbero ripreso a svolgersi nei termini e nelle forme ordinarie al termine della sospensione, precisando magari soltanto che le misure emergenziali in atto impedivano unicamente la trattazione orale che, come fatto per il periodo dell’emergenza dal processo civile, veniva sostituita da una comparizione figurata delle parti all’udienza camerale attraverso la presentazione di brevi note d’udienza. Si è invece diffusa nel ridisciplinare forme, tempi e modi del giudizio cautelare[6] e dello stesso giudizio di merito al termine della sospensione. Qualsiasi avvocato dedito alle cause amministrative[7] potrà testimoniare di non aver saputo più con certezza se, come e quando sarebbero state trattate le istanze cautelari durante il periodo dell’emergenza o se fosse tenuto espletare le attività difensive durante il periodo di sospensione o se quelle ugualmente espletate durante tale periodo possano considerarsi ugualmente valide per le udienze fissate al termine della sospensione o se la considerazione delle stesse dipenderà dalla personale interpretazione del giudice o ancora qual sia il loro rapporto con le brevi note che possono essere presentate due giorni prima dell’udienza[8].
2. Il dl 8 marzo 2020 n 11. In verità le cose non erano partite tanto male. Il dl 8 marzo 2020 n 11 detta misure straordinarie per contrastare l’emergenza epidemiologica e contenere gli effetti negativi con riferimento esclusivamente allo svolgimento dell’attività giudiziaria. Con maggior chiarezza rispetto alle analoghe disposizioni dettate per i giudizi civili, penali, tributari e militari, con specifico riferimento al processo amministrativo l’art 3 del decreto prevede di governare l’emergenza applicando eccezionalmente l’istituto processuale della sospensione dei termini (primo comma: “Le disposizioni di cui all’articolo 54, commi 2 e 3, del codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, si applicano altresì dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 22 marzo 2020”). Applicazione logica e razionale dell’istituto processuale che la dottrina processualistica ha sempre ritenuto naturalmente deputato a regolare lo svolgimento dell’attività giudiziaria non solo nel caso delle ferie estive, ma anche in ipotesi di eventi calamitosi[9]. Connaturati al regime di tale istituto, che per i principi codificati nell’art 298 c.p.c. comporta l’interruzione dei termini in corso e un vero e proprio divieto di compiere gli atti processuali, sono l’assoggettamento al regime di sospensione di tutti i termini processuali [10] e, come già ricordato, l’esclusione della tutela cautelare, che deve continuare ad essere garantita per assicurare il rispetto del principio di effettività della tutela giurisdizionale[11]. L’imprevedibilità della sospensione e le particolari ragioni che hanno imposto la sospensione, dovuta alla necessità di evitare spostamenti da e per gli uffici giudiziari e assembramenti negli uffici medesimi per udienze e attività di cancelleria varie, hanno poi logicamente richiesto due particolari accorgimenti: lo spostamento delle udienze già fissate nel periodo di sospensione al termine della stessa (primo comma, secondo cpv: “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto e sino al 22 marzo 2020, le udienze pubbliche e camerali dei procedimenti pendenti presso gli uffici della giustizia amministrativa sono rinviate d’ufficio a data successiva al 22 marzo 2020”) e la eliminazione della udienza camerale, sostituita dalla pronuncia con provvedimento cautelare provvisorio adottato in forma monocratica (“I procedimenti cautelari, promossi o pendenti nel medesimo lasso di tempo, sono decisi, su richiesta anche di una sola delle parti, con il rito di cui all’articolo 56 del medesimo codice del processo amministrativo e la relativa trattazione collegiale è fissata in data immediatamente successiva al 22 marzo 2020”).
Sotto questo profilo la normazione recata dall’art 3 del dl 11/2020 non ha posto particolari problemi interpretativi, tranne che per il caso in cui non fossero state ricalendarizzate le udienze in modo da evitare che venissero in scadenza nel periodo si sospensione i termini a difesa calcolati a ritroso dall’udienza. Problema comunque agevolmente risolvibile chiedendo in tal caso di essere rimessi in termini, possibilità peraltro espressamente prevista dal medesimo decreto (art 3, comma 7).
Per lo svolgimento delle udienze al termine del periodo di sospensione l’art 3 aveva poi previsto, al quarto comma, il passaggio in decisione “sulla base degli atti, salvo che almeno una delle parti abbia chiesto la discussione in udienza camerale o in udienza pubblica con apposita istanza da notificare alle altre parti costituite e da depositare almeno due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione”, udienza che si sarebbe comunque svolta con collegamento da remoto (comma 5).
Un improvvido parere reso dal Consiglio di Stato nell’Adunanza della Commissione speciale del 10 marzo ha però inspiegabilmente escluso che si fosse di fronte ad un’applicazione eccezionale dell’istituto della sospensione dei termini processuali contemplato dall’art 54 del d lgs 104/2010, e che si dovesse ritenere in realtà sospeso unicamente il termine per la notifica del ricorso originando un’incertezza interpretativa della quale francamente non si sentiva alcuna necessità[12].
3. Il d.l. 17 marzo 2020 n. 18. L’art. 84 del d.l. 17 marzo 2020 n. 18 dispone l’abrogazione dell’art 3 del dl 11/2020 regolando diversamente il regime della sospensione, che viene prorogata fino al 15 aprile. La nuova disciplina[13], se per un verso elimina l’incertezza interpretativa originata dal parere del Consiglio di Stato, precisando che sono sospesi “tutti i termini relativi al processo amministrativo”, per l’altro introduce significative innovazioni. Laddove secondo l’art 3 del d.l. 11/2020 la trattazione della domanda cautelare, con decreto monocratico, durante il periodo di sospensione, rimaneva comunque un’eventualità rimessa all’iniziativa di parte, onerata di presentare apposita istanza in tal senso, a prescindere dalla sussistenza dei più restrittivi presupposti richiesti dal primo comma dell’art 56 del d.lgs. 104/2010 (“caso di estrema gravità e urgenza”, in luogo del “pregiudizio grave e irreparabile” richiesto dall’art 55 primo comma per le misure cautelari collegiali); nell’art. 84 viene invece escluso che la trattazione (monocratica) possa dipendere da un’iniziativa di parte e viene imposta come forma “ordinaria” di trattazione durante il periodo della sospensione: “I procedimenti cautelari, promossi o pendenti nel medesimo lasso di tempo, sono decisi con decreto monocratico dal presidente o dal magistrato da lui delegato, con il rito di cui all’articolo 56 del codice del processo amministrativo, e la relativa trattazione collegiale è fissata a una data immediatamente successiva al 15 aprile 2020” (art 84 comma 1, terzo cpv). Opportunamente, si dispone però che la decisione monocratica venga assunta “nel rispetto dei termini di cui all’articolo 55, comma 5, del codice del processo amministrativo” (non prima quindi di venti giorni dalla notifica e di dieci dal deposito), facendo salva la possibilità della parte di chiedere, al ricorrere dei già ricordati più restrittivi presupposti richiesti dal primo comma dell’art. 56, la pronuncia monocratica non solo “secondo il rito” ma “ai sensi” dell’art. 56, senza attendere pertanto i termini di cui all’art 55.
Come eccezione nell’eccezione, il secondo comma dell’art 84 prevede inoltre la possibilità che le controversie possano essere comunque trattate, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, nel periodo compreso tra il 6 e il 15 aprile, ove vi sia l’accordo delle parti; rendendo in tal modo disponibile alle parti la sospensione del processo. Tralasciamo ogni considerazione sulla disposizione dettata, evidentemente sempre “in deroga a quanto previsto dal comma 1”, per la trattazione nel medesimo periodo 6 – 15 aprile dei procedimenti cautelari in cui sia stato emanato decreto monocratico di accoglimento totale o parziale della domanda cautelare.
Al quinto comma, l’art 84 del d.l. 18/2020 conferma la previsione, già recata dall’art 3 del dl 11/2020, di un periodo, che si suppone di transizione verso il rispristino della normalità, nel quale le controversie, sia di merito che cautelari, vengono decise seguendo una procedura semplificata che, in deroga al disciplina ordinaria recata dal codice del processo amministrativo, a fini acceleratori, esclude la discussione in udienza pubblica o camerale: “Successivamente al 15 aprile 2020 e fino al 30 giugno 2020, in deroga alle previsioni del codice del processo amministrativo, tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell’articolo 60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso”.
4. Il dl 4 aprile 2020 n. 23. L’art 36 del dl 4 aprile 2020 n. 23 al primo comma ha prorogato fino all’11 maggio 2020 la sospensione per i processi civili, penali, tributari e militari e dettato nuovamente una disposizione atipica per il processo amministrativo al terzo comma, prevedendo che “Nei giudizi disciplinati dal codice del processo amministrativo sono ulteriormente sospesi, dal 16 aprile al 3 maggio 2020 inclusi, esclusivamente i termini per la notificazione dei ricorsi, fermo restando quanto previsto dall’articolo 54, comma 3, dello stesso codice”.
Viene dunque nuovamente distorta l’applicazione logica e lineare dell’istituto della sospensione dei termini, riproducendo la già criticata e incomprensibile teorizzazione proposta dal Consiglio di Stato nel parere reso dalla Commissione speciale nell’adunanza del 10 marzo 2020 con riferimento al dl 11/2020. Dopo che il dl 18/2020 aveva chiarito che la sospensione dovuta all’emergenza Covid 19 si applicasse “a tutti” i termini processuali.
Si è già detto che rimane in assoluto incomprensibile la logica di ritenere che le peculiari ragioni alla base della attuale eccezionale sospensione dei termini per contrastare l’emergenza Covid 19 impongano la sospensione del solo termine di proposizione del ricorso. Il problema sembrava sopito ma è stato riproposto con forza dal nuovo decreto, costringendo la dottrina a tornare immediatamente sul tema per sottolineare quanto è forse ancora più grave ; e cioè come possa mai “dirsi “equo e imparziale” e rispettoso del principio “della parità delle parti” un processo in cui –nonostante il Governo abbia ritenuto che l’emergenza pandemica fosse ancora tale da giustificare la sospensione dei termini giudiziali civili, penali, tributari e contabili e di quelli per la notifica dei ricorsi dinanzi al giudice amministrativo – le parti (tendenzialmente quelle resistenti e controinteressate) che, per pura (drammatica e assolutamente non prevedibile) ventura, si sono trovate a incorrere nelle scadenze di cui all’art. 54 c.p.a. nel periodo tra il 16 aprile e il 3 maggio prossimi), non possono adeguatamente difendersi contro le censure, le eccezioni e i rilievi che le loro controparti hanno potuto “tranquillamente” redigere e “documentare” in un periodo anteriore all’emergenza (circostanza che, evidentemente, consente a queste ultime una più agevole e limitata produzione documentale e difensiva in vista dell’udienza”[14].
Detto in altri termini: essendo venuta meno la possibilità di chiedere fondatamente la rimessione in termini in vista delle udienze la cui fissazione richieda lo svolgimento dell’attività difensiva nel suddetto arco temporale, la falsa sospensione dei termini obbliga le parti a riaprire e tenere aperti gli studi professionali per poter preparare e svolgere comunque l’attività difensiva nel perdurare dell’emergenza sanitaria e poco importa se l’avvocato non avrà tempo e modo di predisporre le attività difensive (si suppone per le medesime ragioni che inducono a sospendere il termine per la predisposizione e notifica dei ricorsi): la causa passa comunque in decisione all’udienza già fissata. Al di là della mancata considerazione dell’esigenza sanitaria che è alla base di tutte le disposizioni emergenziali, ciò in buona sostanza significa che la disciplina del processo amministrativo, differentemente da quella degli altri processi giurisdizionali, non si preoccupa di garantire la pienezza del contraddittorio, consentendo di sollevare più che fondati dubbi sulla sua costituzionalità[15].
Oltre a quello relativo alla ratio normativa, la disposizione pone comunque anche innumerevoli problemi esegetici, solo in parte risolti dalla relazione illustrativa che precisa che il riferimento ai “ricorsi” comprende quelli “di primo e secondo grado: introduttivo, appello, incidentale e per motivi aggiunti, ecc.”, sui quali non ci si vuole per il momento soffermare preferendo giungere alle osservazioni conclusive del discorso sin qui svolto.
5.- Considerazioni conclusive.
Il solo balletto cui si è assistito, su come debba intendersi l’istituto processuale della sospensione nel giudizio amministrativo (tutti i termini; no, solo quelli per ricorrere; tutti i termini; no, solo quelli per ricorrere), è fatto di per sé deprecabile perché fornisce il classico esempio di una prassi che è la causa prima della paralisi dei processi decisionali di qualsivoglia operatore giuridico in qualsivoglia settore dell’ordinamento: iperproduzione normativa, continuamente cangiante con meccanismi di pura e semplice sovrapposizione alle normative preesistenti, con effetto di disorientamento finale.
Ma in questa sede preme sottolineare che (solo) nel caso del processo amministrativo la disciplina dell’istituto della sospensione si allontani dal rispetto di principi comuni di diritto processuale per approdare ad una falsa sospensione priva di qualsivoglia ratio normativa.
La preoccupazione forse più grave è che tutte queste incertezze interpretative siano al fondo ingenerate da una tendenza volta a diminuire le garanzie processuali nei giudizi amministrativi. Le incertezze interpretative di questa decretazione d’urgenza sono all’evidenza ingenerate da una disciplina eccessivamente analitica che, per un verso, condiziona la rimodulazione in concreto dei calendari delle udienze collegiali come se questi fossero noti al legislatore e come se la finalità da perseguire non fosse quella di evitare gli spostamenti degli operatori da e verso gli uffici giudiziari e gli assembramenti al loro interno per udienze e attività di cancelleria; e che, per l’altro, non si preoccupa di garantire che tale rimodulazione prima di ogni altra cosa dovrebbe invece garantire il rispetto della pienezza del contraddittorio.
Ciò lascia più o meno chiaramente intravedere un disegno che potrebbe prendere corpo nel futuro prossimo venturo, una volta terminata l’emergenza, secondo il quale si potrà praticamente fare a meno di tutta l’attività processuale delle parti diversa dalla proposizione delle domande (memorie, repliche, produzioni documentali, richieste istruttorie e trattazione orale).
La strisciante ma costante riduzione delle garanzie tipiche di un processo giurisdizionale rischia così di ricondurre il processo amministrativo nei limiti originari di una procedura paragiurisdizionale, correndo il rischio, paventato da un insigne Maestro, derivante dal fatto che “se si riconosce al ricorrente la sola potestà di dar vita ad un processo mentre nel contempo sia attribuito al giudice, anche in via concorrente, il potere di determinare l’oggetto del giudizio o la sua effettiva estensione … in realtà si nega in un tale processo ogni garanzia di giustizia”[16].
E’ un rischio che deve essere assolutamente scongiurato per evitare che venga depotenziata l’efficacia e incisività dell’intervento giurisdizionale (non penale) nei confronti dell’attività contra jus della pubblica amministrazione.
A maggior ragion se nell’immediato futuro si dovranno assicurare efficienza e legalità di un piano straordinario di rilancio dell’economia[17].
[1] E. Fazzalari, Procedimento e processo (teoria gen.), in Enc. Dir., XXXVII, Milano, 1987, 821 ss.
[2] “Il processo è uno strumento che fornisce certezza in quanto risolve una situazione d’incertezza che origina la controversia; esso deve essere il più possibile certo” (così C. E. Gallo, Contributo allo studio della invalidità degli atti processuali nel giudizio amministrativo, Milano, 1983, 34). In tema v. di recente i contributi raccolti in F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, Editoriale scientifica, Napoli, 2018 e in F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, Editoriale scientifica, Napoli, 2018.
[3] Per tutti v. M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1979, 301, 302: “Per note ragioni storiche le leggi processuali civili sono diventate la sede di norme che, per il fatto di esprimere o richiamare principi fondamentali del nostro ordine costituzionale o da questi immediatamente derivanti – perché relativi all’esercizio del potere giurisdizionale considerato nella sua essenza unitaria e in rapporto all’autonomia dei soggetti giuridici, costituzionalmente tutelata – valgono per tutti i processi; o di norma tecniche che esprimono principi valevoli ugualmente per tutti i processi ma per ragioni diverse dalla precedente, cioè per il fatto di ricollegarsi alla fondamentale unitaria natura della norma processuale proprio come norma secondaria , dalla quale scaturisce l’identica funzione tecnica di alcuni istituti quale che sia il processo in cui trovano attuazione. La fonte principale d’integrazione diretta del diritto processuale amministrativo è data da questi principi, che non sono però principi propri del processo civile, ma principi di un diritto processuale comune, pur se questo ha la sede di elezione nella legge processuale civile”. Sul significato e sui limiti dell’attuale rinvio dell’art 39 c.p.a. al c.p.c. v. G.P. Cirillo, Diritto processuale amministrativo, Milano, 2017, 11.
[4] Per tutti v. E. Cannada .- Bartoli, voce Processo amministrativo (considerazioni introduttive), in Noviss Dig. It., XIII, 1966, 1077 ss.
[5] Cfr. F. Francario, Regolamento di competenza e tutela cautelare nel processo amministrativo, Napoli, 1990, V. anche M.A. Sandulli, La fase cautelare, in Diritto processuale amministrativo, 4/2010.
[6] C. Saltelli, Note sulla tutela cautelare dell’art 84 del d.l. 27 marzo 2020 n. 18, in Giustamm.it, sottolinea efficacemente che “se sono auspicabili riforme del sistema della giustizia amministrativa per garantire una risposta sempre più pronta ed efficace alle istanze dei cittadini, devono invece sicuramente evitarsi interventi asistematici e parziali di per sé idonei a garantire e ad accrescere la qualità della risposta giurisdizionale”
[7] Non sarebbe inutile ricordare anche la sottolineatura fatta da V. Domenichelli, Sulla ragionevolezza dei termini nel processo amministrativo, in F. Francario, M.A. Sandulli, Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, cit. 371, per cui “i termini processuali sono un incubo e possono togliere il sonno agli avvocati”
[8] Chi abbia dubbi può comunque vedere gli approfondimenti tematici a cura di T. Cocchi, B. Gargari e V. Sordi, in www.giustamm.it. , e la rassegna statistica di G. Veltri, in www.giustizia-amministrativa.it, “emergenza coronavirus”. Si veda in ogni caso il comunicato del 10 aprile 2020 dell’Unione Nazionale Avvocati Amministrativisti avente oggetto “D.L. 8 aprile 2020 n. 23 e giustizia amministrativa”.
[9] S. Cassarino, Manuale di diritto processuale amministrativo, Milano, 1990, 237: “Fra le cause più note di sospensione o di proroga dei termini si possono ricordare gli eventi bellici, le calamità naturali, il mancato funzionamento degli uffici giudiziari, le ferie estive. … La sospensione per calamità naturali (terremoti, mareggiate, alluvioni etc) è disposta dal legislatore (di solito dal Governo con decreto legge) il quale stabilisce il periodo di sospensione”.
[10] Si suol dire che con la sospensione il processo entra in una fase di quiescenza, e cioè che pende ma non procede: cfr. E.T. Liebman, Sulla sospensione propria e “impropria del processo, in Riv. Dir. Proc., 1958, 153 ss; F. Cipriani, Sospensione, in Enc. Giur. Treccani, XXX, Roma, 2004; C. Punzi, L’interruzione del processo, Milano, 1963284 ss; S. Menchini, Sospensione del processo civile, in Enc dir., XLIII, Milano 1990, 55.
[11] V. ante sub nt 16.
[12] L’interpretazione del Consiglio di Stato è stata unanimemente criticata dai commenti dottrinali immediatamente dedicati al d.l. 11/2020. V. in ptcl F. Francario, L’emergenza coronavirus e le misure straordinarie per il processo amministrativo, In Federalismi.it; M.A. Sandulli, Sospensione dei termini processuali dall’8 al 22 marzo: il Parere del CdS sulle misure urgenti anti-COVID-19 non risolve ma aumenta l’insicurezza, in Lamminstrativista.it; F. Volpe, Commento all’art 3, D.L. 8 marzo 2020, n. 11, in LexItalia.it, ai quali adde anche gli Autori citati sub nota seguente.
[13] Per i primi commenti v. F. Francario, L’emergenza Coronavirus e la “cura” per la giustizia amministrativa. Le nuove disposizioni straordinarie per il processo amministrativo, in Federalismi.it – Osservatorio emergenza Covid 19, 23 marzo 2020; M.A.Sandulli, Vademecum sulle ulteriori misure anti Covid 19 in materia di giustizia amministrativa: l’art 84 del decreto “cura Italia”, in Lamministrativista.it ; Id. I primi chiarimenti del Presidente del Consiglio di Stato sul decreto “cura Italia”, ivi; F. Saitta, Sulla decisione di prevedere una tutela cautelare monocratica ex officio nell'emergenza epidemiologica da Covid-19: chi? come? ma soprattutto, perché?, in Federalismi.it – Osservatorio emergenza Covid 19, 6 aprile 2020; N. Paolantonio, Il processo amministrativo dell’emergenza : sempre più speciale, in Giustamm.it.; F. Volpe, Riflessioni dopo una prima lettura dell’art. 84, D.L. 17 marzo 2020, n. 18 in materia di processo amministrativo, in Lexitalia.it.; C. Cataldi, La giustizia amministrativa ai tempi del Covid 19, in Giustamm.it.
[14] M.A. Sandulli, Nei giudizi amministrativi la nuova sospensione dei termini è riservata alle azioni: neglette le posizioni dei resistenti e dei controinteressati e il diritto al pieno contraddittorio difensivo, in Federalismi.it, Osservatorio emergenza COVID 19, 9 aprile 2020; Id., Nei giudizi amministrativi la nuova sospensione dei termini è 'riservata' alle azioni. Con postilla per una proposta di possibile soluzione, ivi.
[15] M.A. Sandulli, op. ult. Cit.
[16] F. Benvenuti, L’istruzione nel processo amministrativo, Padova, 1953, 36.
[17] Per questi profili si rinvia a F. Francario, Guido Corso, Guido Greco, Maria Alessandra Sandulli e Aldo Travi, In difesa di una tutela piena nei confronti della pubblica amministrazione, pubblicato su www.giustizia-amministrativa.it .
Il diritto della crisi d’impresa ai tempi della pandemia di Giovanni Negri
Tra un’emergenza comunque a tempo e il timore che, come spesso avviene nel Paese, non ci sia nulla di più definitivo del provvisorio, anche il diritto della crisi d’impresa vive giornate a loro modo memorabili. Con misure in parte ovvie e altre che difficilmente si sarebbe pensato di leggere. A conferma che certo il mondo della giustizia è investito in queste settimane da un terremoto che sta modificando, quanto in profondità sarebbe prematuro ora stimarlo, innanzitutto tempi e modi della giurisdizione, sia civile sia penale, ma anche punti e norme di diritto sostanziale.
Emergenza a tempo o il tempo dell’emergenza?
Da ultimo con il decreto legge n. 23 in vigore da pochi giorni, è stato messo in campo un arsenale di norme indirizzate in larga parte al mondo delle imprese la cui efficacia andrà sperimentata, ma la cui portata è certo rilevante. E lo è, nella testimonianza dell’eccezionalità del momento, nell’istituire una finestra di tempo, la cui ampiezza varia da misura a misura, all’interno della quale le regole ordinarie, alle quali ci si era abituati ormai da tempo, non valgono più. Oppure quelle con le quali si stava, con fatica, prendendo dimestichezza, arriveranno (forse) solo tra qualche tempo.
I teorici del diritto, naturalmente molto avranno da dibattere sullo stato di eccezionalità e sulle forzature alle quali il legislatore può dare luogo abusandone. Di certo con gli ultimi interventi di diritto dell’economia il Governo ha deciso come prima cosa di comprare tempo, mettendo le aziende al riparo da alcune gravi conseguenze, reali o solo attese, della complicata fase in corso.
Un anno ancora per il Codice della crisi
E allora, se il lockdown porta lavoratori e imprese in un mondo nuovo, con scenari tuttora imprevedibili, una delle prime scelte è, in un certo senso, “classica”, una proroga. A essere interessato dal rinvio, un anno, al 1° settembre 2021, è tutto il Codice della crisi, comprese, a questo punto, le misure di allerta, elemento che più di altri forse lo qualifica. Comprensibili le ragioni che hanno condotto a questo slittamento (anche se altrettanto condivisibili possono essere le perplessità espresse anche su questa rivista da Renato Rordorf, presidente delle commissioni che la legge delega prima e il decreto legislativo poi hanno redatto), dalla volontà di non mettere gli imprenditori davanti un set di regole assai significative e nuove in un momento di inedita crisi, alla difficoltà di raggiungere in una fase estrema quegli obiettivi di salvaguardia del tessuto produttivo cui il Codice tende. Oltretutto il prevedibile crollo degli investimenti da una parte e, dall’altra, di risorse finanziarie significative da destinare alle imprese non ancora in insolvenza rischia di compromettere anche gli strumenti più innovativi del Codice.
L’impatto del rinvio
A slittare sono così misure che, comunque, anche in tempo di crisi e forse tanto più in tempo di crisi, un senso lo avrebbero avuto, dal sovraindebitamento, all’esdebitazione, (come trasposti e rimodellati nel codice della crisi) alla disciplina dei gruppi e al concordato in continuità (con salvaguardia dei livelli occupazionali).
Discorso a parte poi sulle misure di allerta, il cui debutto, a ora allineato a quello di tutto il resto del Codice, verosimilmente potrebbe confrontarsi con dati di bilancio terremotati dalla crisi di queste settimane, dando luogo a un’esplosione di segnalazioni di difficile gestione dal sistema degli ocri e di assai dubbio sbocco.
I concordati guadagnano tempo
Le misure di diritto fallimentare introdotte dal decreto si completano con un pacchetto di disposizioni dedicate a concordati e accordi di ristrutturazione, per favorirne la messa a punto durante la crisi e tenendo conto degli effetti della crisi stessa, anche se già omologati, non trascurando i concordati in bianco. In sostanza per concordati e accordi di ristrutturazione già omologati è previsto il rinvio di 6 mesi per i pagamenti in scadenza tra il 23 febbraio e il 30 giugno; per quelli con un termine in scadenza per la presentazione di un piano il rinvio di 90 giorni per modificarne condizioni e contenuti; possibile poi la modifica unilaterale, prima dell’omologazione, dei termini di adempimento inizialmente prefigurati per tenere conto di eventi dovuti all’epidemia dove è stata presentata la sola prenotazione il rinvio di 90 giorni del termine per la presentazione del piano.
Inevasa è rimasta (per ora?) la richiesta di un blocco delle azioni esecutive individuali, sorta di automatic stay disciplinato per legge, magari accompagnandolo con il pagamento di interessi di mora. Con la possibilità molto concreta di vedere aumentare in maniera considerevole le domande di preconcordato che l’automatic stay appunto lo prevedono, soprattutto dopo che, per effetto del decreto, è stato rinviato il termine di presentazione.
4 mesi fallimenti free
A volere ricordare poi l’ultima misura introdotta dal decreto, il blocco delle istanze di fallimento o di insolvenza, per un periodo di 4 mesi, dal 9 marzo al 30 giugno, è forse più di una suggestione considerare il diritto della crisi al tempo dell’emergenza sanitaria come (anche) un’esasperazione di quell’oscillazione tipica della legislazione fallimentare tra esigenze di tutela del debitore e protezione dei creditori. Un’oscillazione che ha costellato le riforma sul punto da parecchi anni a questa parte, da quelle più strutturali agli interventi più episodici. Ora, è evidente, la necessità di un’ampia protezione delle imprese in difficoltà va letta insieme e in parallelo alla preoccupazione di non fare diventare in qualche modo strutturale il provvisorio, per non favorire cioè quei “furbetti” delle procedure che, per esempio, in un recente passato sfruttavano il vecchio assetto del concordato preventivo come strumento di alterazione della concorrenza per ripulirsi dall’eccessiva esposizione debitoria e poi ripartire.
La continuità aziendale ora si presume
Soffermandosi infine sugli aspetti del decreto che incidono sul Codice civile, in questo caso l’intenzione è quella di evitare che l’applicazione meccanica di norme classiche del sistema, come quelle sulla valutazione delle perdite e , sulla responsabilità degli amministratori (che comunque dovranno convocare l’assemblea presentando la relazione sulle perdite), sulla valutazione di continuità aziendale (presunta, se esistente prima del 23 febbraio), contribuiscano ad affossare aziende che prima della crisi erano in condizione di buona se non ottima salute e, anzi, con buone possibilità di sviluppo.
A favorire l’afflusso di finanza secondo linee interne, visto che alle garanzie pubbliche sull’accesso al credito è dedicata tutta la prima parte del decreto, c’è l’ultima norma spiana la strada, cancellando la postergazione, all’apporto di risorse da parte dei soci. Viene così cancellata la norma che subordinava i soci agli altri creditori per i finanziamenti erogati dal 9 aprile al 31 dicembre 2020.
"..Oggi più che mai la Corte europea è chiamata a difendere i nostri diritti e le nostre libertà in termini di principio, tenendo bene in considerazione le basi del sistema europeo di protezione dei diritti umani."
"...La misura dell'internamento forzato dei soli "sospettati" di infezione potrebbe essere prevista solo se lo stato espressamente deroga ai principi della Convenzione ai sensi dell’articolo 15 della stessa."
"...lo strumento concreto più importante per l'attuazione di questa solidarietà sarebbe l'approvazione degli eurobond per quegli Stati che sono stati maggiormente colpiti dalla crisi sanitaria, come l'Italia e la Spagna."
"...L'attuale crisi non deve essere un'occasione per gli Stati di chiudere i propri confini a coloro che necessitano di protezione internazionale."
Intervista a Paulo Pinto de Albuquerque
di Roberto Conti
Giustizia Insieme ha raccolto la testimonianza di Paulo Pinto de Albuquerque, che ha da poco ultimato la sua esperienza di giudice designato dal Portogallo presso la Corte europea dei diritti dell’uomo.
Europa, diritti e solidarietà alla prova dell’emergenza pandemica. Questi i temi trattati da Pinto insieme alle esperienze più forti vissute presso la Corte edu, ove egli ha lasciato testimonianza attraverso numerose opinioni dissenzienti che hanno contribuito a delineare l’immagine e la funzione del giudice europeo dei diritti dell’uomo.
(traduzione a cura del dott. Calogero Ferrara)
*a seguire versione in inglese
Professore Paulo Pinto de Albuquerque, il Covid 19 in che modo può incidere sul ruolo della Corte europea dei diritti dell’uomo e sul patrimonio dei valori protetti dalla CEDU?
Oggi più che mai la Corte europea è chiamata a difendere i nostri diritti e le nostre libertà in termini di principio, tenendo bene in considerazione le basi del sistema europeo di protezione dei diritti umani. Gli stessi principi dovrebbero essere applicati a tutte le parti della Convenzione. Non può esserci una geometria variabile in cui alle democrazie consolidate viene dato sempre maggior rispetto al confronto con le nuove democrazie. Oggi stiamo affrontando la stessa minaccia globale e, pertanto, dovrebbe essere fornita la stessa risposta globale in materia di diritti umani. Se la Corte applicherà un approccio armonioso e integrato nell'interpretazione della Convenzione, riuscirà a vincere la sfida di difendere i diritti previsti dalla Convenzione in questi tempi tormentati di sconvolgimento e contaminati da cotanta incertezza sociale ed economica.
Assistiamo in questo periodo a forti limitazioni dei diritti fondamentali, applicate con forme e misure diverse dai vari decisori nazionali. Vi è secondo lei un rischio autoritario in alcuni dei Paesi europei?
Qualche giorno fa, l'ex giudice della Corte suprema Lord Sumption ha messo in guardia dal pericolo che il Regno Unito diventasse uno "stato di polizia", a seguito delle misure adottate dal governo per combattere il pericolo di pandemia. Un pericolo che non può considerarsi meno importante dell'altro. E io sono d'accordo con lui.
Alcuni stati europei hanno approvato delle restrizioni manifestamente eccessive dei diritti fondamentali. Ciò è accaduto sia nelle democrazie consolidate che nelle nuove democrazie. Ad esempio, l'internamento forzato di persone solamente "sospettate" di essere contagiate da una malattia infettiva non è consentito dall'articolo 5, paragrafo 1, lettera e), della CEDU, alla luce della consolidata giurisprudenza della corte di Strasburgo che limita espressamente l’isolamento forzato ai casi di persone "infette" da una malattia contagiosa. La misura dell'internamento forzato dei soli "sospettati" di infezione potrebbe essere prevista solo se lo stato espressamente deroga ai principi della Convenzione ai sensi dell’articolo 15 della stessa. Tuttavia alcuni Stati hanno imposto questa misura senza prevedere alcuna deroga alla Convenzione. Questo è solo un esempio ma se ne potrebbero fare molti altri.
Da più parti si invoca nelle relazioni fra i Paesi europei il concetto di solidarietà per la gestione dell’emergenza pandemica. La Convenzione edu conosce il tema della solidarietà?
Si, certamente. La Convenzione europea dei diritti dell'uomo è intrinsecamente uno strumento di solidarietà tra i popoli europei. Già il preambolo della stessa Convenzione prevede il raggiungimento dell’obiettivo di una "maggiore unità" tra le parti contraenti. La giurisprudenza della Corte europea ne è una testimonianza, ad esempio in materia di diritto delle migrazioni e di discriminazione.
Il principio di non refoulement si basa sul principio di solidarietà e questo obbligo rimane valido anche durante i periodi di emergenza. Non dimentichiamo che l'articolo 15 della CEDU afferma che le misure adottate dallo Stato in tempo di emergenza devono essere strettamente necessarie e coerenti con gli altri obblighi nascenti dal diritto internazionale. L'attuale crisi non deve essere un'occasione per gli Stati di chiudere i propri confini a coloro che necessitano di protezione internazionale.
Lo stesso principio di solidarietà è implicito nella normativa in materia di discriminazione, ad esempio per quanto riguarda alcune misure di discriminazione positiva. In tal caso, la solidarietà può svolgere un ruolo importante all'interno dello stesso Stato. È giunto il momento di promuovere politiche di discriminazione positiva in favore delle minoranze vulnerabili, come gli anziani, le persone con disabilità e i detenuti.
La Corte europea dovrebbe essere particolarmente sensibile alla fondamentale importanza rivestita dal principio di solidarietà in sede di interpretazione della Convenzione.
Quanto i diritti fondamentali della persona potranno costituire, ad emergenza si spera presto finita, l’elemento sul quale rafforzare l’unione fra i popoli europei?
Dopo la seconda guerra mondiale, il sogno europeo è stato costruito sugli ideali di pace, democrazia e solidarietà, come dimostra il preambolo della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Se i popoli d'Europa seguiranno questi principi, supereranno questa crisi molto prima e con minori danni. Se, all’opposto, combatteranno la crisi in modo isolato, ognuno alla ricerca della propria sicurezza personale, la crisi durerà più a lungo e il danno causato sarà ben più pesante.
Questo è il motivo per cui un approccio articolato a livello europeo alla crisi, basato sui principi di dignità umana, uguaglianza e solidarietà, è essenziale per la sopravvivenza del modus vivendi europeo.
In termini pratici, lo strumento concreto più importante per l'attuazione di questa solidarietà sarebbe l'approvazione degli eurobond per quegli Stati che sono stati maggiormente colpiti dalla crisi sanitaria, come l'Italia e la Spagna.
La ricostruzione che si comincia ad ipotizzare in un contesto economico sicuramente depresso a livello globale determinerà una riconsiderazione del ruolo dei diritti fondamentali? Porterà a valorizzare taluni diritti piuttosto che altri? E il ruolo dei giudici, nazionali e sovranazionali, è per queste ragioni destinato a mutare rispetto all’attuale?
Il ruolo del giudice è e sempre sarà quello di trovare un equilibrio tra i diritti e le libertà individuali e i bisogni della società, considerando che i diritti civili e politici sono strettamente intrecciati con i diritti economici, sociali e culturali. Non esistono diritti umani di prima e seconda classe.
In tempi di difficoltà economica e di incertezza, è fondamentale che il giudice - e soprattutto il giudice costituzionale - tuteli attentamente il nucleo fondamentale dei diritti economici, sociali e culturali. Il giudice dovrebbe sempre assicurarsi che il nucleo di tali diritti non sia in svendita. Di conseguenza, anche in tempi di crisi, deve essere garantita una protezione minima dei diritti economici, sociali e culturali e i principi di dignità umana, uguaglianza e solidarietà devono rimanere inalterati. Come afferma giustamente Robert Alexy: “è proprio in tempi di crisi che una protezione costituzionale, anche minima, dei diritti sociali è indispensabile”.
Qual è il ricordo più bello della Corte edu che lei ha mantenuto ?
Il ricordo più bello del mio mandato come giudice internazionale è l’attribuzione del dottorato onorario dalla Edge Hill University nel Regno Unito.
Il 7 dicembre 2019 mi è stato conferito un dottorato onorario da questa prestigiosa università britannica per il mio contributo alla protezione e alla promozione dei diritti umani in Europa. Mi ha profondamente commosso il discorso del Preside dell'Università, che ha evidenziato che sono stato l’autore di più di 150 opinioni (vedi l'elenco allegato) e che queste opinioni avevano contribuito in modo significativo allo sviluppo del diritto internazionale dei diritti umani, in particolare per quanto riguarda la tutela del diritto di difesa in materia penale e la protezione delle persone vulnerabili, quali donne, minoranze e detenuti.
Analogo riconoscimento mi è arrivato anche dal mio paese. Un mese dopo, infatti, il presidente dell'Ordine degli avvocati portoghesi mi ha conferito la medaglia d'onore dell'Associazione degli avvocati portoghesi, per la mia trentennale carriera nella difesa dei diritti umani e per il lavoro svolto a Strasburgo in favore delle parti più deboli.
E un ricordo di un caso nel quale secondo lei la Corte edu non è riuscita a svolgere la sua funzione di garante dei diritti umani?
Il 14 gennaio 2016 il Financial Times ha pubblicato in prima pagina una decisione di una camera della Corte europea dei diritti umani, che ha limitato significativamente il diritto alla privacy dei lavoratori sul posto di lavoro. Il Financial Times ha detto che il giudice portoghese aveva scritto una opinione dissenziente, difendendo il diritto dei lavoratori alla privacy. Nella mia opinione ho sostenuto che un approccio incentrato sui diritti umani in relazione all'uso di Internet sul posto di lavoro richiede e un quadro normativo interno trasparente, una politica di attuazione coerente e una strategia di applicazione proporzionata da parte sia dei datori di lavoro pubblici che privati.
Alcuni mesi dopo, la Grande Camera ha ribaltato il giudizio quella sentenza e si è schierata in favore della mia opinione. Questo caso è un vivido esempio dell'enorme impatto sociale della giurisprudenza di Strasburgo sulle questioni economiche e del lavoro. In un momento di crescente mercificazione dei lavoratori e crescente pressione sui sindacati, la Corte europea ha reagito stabilendo standard progressivi sulla governance delle imprese ed in relazione ai diritti dei lavoratori e dei sindacati.
Questo acquis europeo è ora minacciato, a causa dell'effetto drastico dei pacchetti di austerità sui diritti sociali dei lavoratori, del drammatico indebolimento della protezione dei migranti e dell'attacco frontale alla negoziazione collettiva e al diritto di sciopero. Quando lavoravo alla Corte Europea ho scritto diverse opinioni in cui ho sostenuto che il declino dello Stato sociale non è irreversibile e che la giustizia sociale può ancora essere raggiunta attraverso la Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
Versione in lingua inglese dell’intervista.
Professor Paulo Pinto de Albuquerque, how can Covid 19 affect the role of the European Court of Human Rights and the heritage of the values protected by the ECHR?
Today more than ever the European Court is called to defend our rights and freedoms in a principled manner, keeping in mind the foundations of the European system of protection of human rights. The same principles should be applied to all parties to the Convention. There can be no variable geometry in which consolidated democracies are increasingly given more deference compared to new democracies. We are today confronted with the same global threat, therefore the same global human rights response should be given. If the Court applies a harmonious, integrated approach to the interpretation of the Convention, it will rise to the challenges of upholding Convention rights in these troubled times of upheaval tainted with so much social and economic uncertainty. Nowadays, we are facing serious restrictions of fundamental rights, implemented through different forms and measures by the various national decision-makers. Do you think there is an authoritarian risk in some of the European countries?
Former Supreme Court judge Lord Sumption warned some days ago that the UK was in danger of becoming a “police state”, in view of the measures taken by the government to fight the pandemic danger. One danger is no less important than the other. I agree with him. Some European states have approved manifestly excessive restrictions of fundamental rights. This has happened in consolidated democracies as well as in new democracies. For example, involuntary internment of people “suspected” of being infected with an infectious disease is not permitted by article 5 (1) (e) of the ECHR, in view of the previous case law of the Strasbourg court in the which explicitly limits involuntary internment to people “infected” with an infectious disease. The measure of involuntary internment of people “suspected” of being infected with an infectious disease can only be imposed if the state derrogates from the Convention under its article 15. Yet some states have imposed this measure without derogating from the Convention. This is just one example. Many more could be given.
The concept of solidarity for the management of the pandemic emergency is widely invoked in relations between European countries. Is the ECHR aware of the theme of solidarity?
Yes, of course. The European Convention on Human Rights is intrinsically an instrument of solidarity among European peoples. The preamble of the European Convention itself envisages the achievement of “greater unity” between its contracting parties. The case law of the European Court testifies to this, for example in matters of migration law and discrimination law.
The principle of non refoulement is founded on the principle of solidarity. This obligation remains valid during times of emergency. Let us not forget that article 15 of the ECHR states that the measures taken by the state in time of emergency must be strictly necessary and consistent with its other obligations under international law. The present crisis should not be an occasion for states to close down their borders to those in need of international protection. The same principle of solidarity is implicit in discrimination law, for example regarding certain measures of positive discrimination. Here solidarity can play an important role within the same state. Now is the time to promote policies of positive discrimination in favor of vulnerable minorities, such as the elderly, persons with disabilities and prisoners. The European Court should be very sensitive to the fundamental importance of the principle of solidarity in the interpretation of the Convention.
At the end of the emergency period, to what extent can the fundamental rights of the person be the element on which to strengthen the union among the peoples of Europe?
After the second world war, the European dream was built upon the ideals of peace, democracy and solidarity, as the preamble of the European Convention on Human Rights shows. If the peoples of Europe stick to this credo, they will overcome this crisis much sooner and with less damage. If they fight this crisis in an isolated fashion, each people searching for its own salvation, the crisis will last longer and the damage caused will be heavier. This is why an European-wide articulated approach to the crisis, based on the principles of human dignity, equality and solidarity, is now vital for the survival of the European modus vivendi. In practical terms, the most important practical tool for the implementation of this solidarity would be the approval of eurobonds for those states that were most hit by the sanitary crisis, like Italy and Spain.
In a such depressed economic context at a global level, could the reconstruction that is going to be envisaged lead to a reconsideration of the role of fundamental rights? Will it lead to the enhancement of certain rights rather than others? And for the same reasons, is the role of judges - national and supranational - destined to change compared to their present one?
The role of the judge is and will always be to strike a balance between the individual rights and freedoms and the needs of society, taking into consideration that civil and political rights are intertwined with economic, social and cultural rights. There are no first and second class human rights. In times of economic hardship and uncertainty it is crucial that the judge and especially the constitutional judge carefully safeguards the core of economic, social and cultural rights. The judge should make sure that the core of these rights is not for sale. Consequently, even in times of crisis, a minimum protection of economic, social and cultural rights must be afforded and the principles of human dignity, equality and solidarity must remain intact. As Robert Alexy quite rightly states: “it is precisely in times of crisis that even a minimal constitutional protection of social rights seems indispensable”.
What is the best memory of your experience at the European Court of Human Rights?
The most beautiful memory of my mandate as an international judge is my Honorary Doctorate at Edge Hill University in the United Kingdom. On 7 December 2019, I was awarded an honorary doctorate from this prestigious british university for my contribution to the protection and promotion of human rights in Europe. I was profoundly touched by the speech of the Dean of the University, who acknowledged the fact that I had authored more than 150 opinions (see the list attached) and these opinions had significantly contributed to the development of international human rights law, especially in regard to defence rights in criminal law and procedure and the protection of vulnerable persons, like women, minorities and prisoners.
This acknowledgment came also from my own country. A month later, the President of the Portuguese Lawyers' Bar Association awarded me the medal of honor of the Portuguese Lawyers' Bar Association, for my 30 year long career in the defence of human rights and the work done in Strasbourg in favour of the most vulnerable.
And what’s a reminder of a case in which, in your opinion, the ECHR failed to fulfil its role as guarantor of human rights?
On 14 January 2016 the Financial Times made the front page with a judgment of a chamber of the European Court of Human Rights, which limited significantly the right to privacy of workers in the workplace. The Financial Times mentioned that the Portuguese judge had written a dissenting opinion, defending the workers' right to privacy. In my dissent, I argued that an human-rights centred approach to Internet usage in the workplace warrants a transparent internal regulatory framework, a consistent implementation policy and a proportionate enforcement strategy by public as well as private employers.
Some months later, the Grand Chamber reversed the chamber judgment and sided with my opinion. This case is a vivid example of the huge social impact of the Strasbourg case law on business and labour issues. In a time of increasing commodification of workers and mounting pressure on trade unions, the European Court has reacted by setting progressive standards on corporate governance and the rights of workers and trade unions. This European acquis is now under threat, due to the drastic effect of austerity packages on social rights of workers, the dramatic weakening of migrant workers’ protection and the frontal attack against collective negotiation and the right to strike. I have written several opinions at the European Court, where I defended that the decline of the Social State is not irreversible and Social Justice can still be achieved through the European Convention on Human Rights.
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