ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il L.A.P.E.C. è una realtà importante per la formazione congiunta dei magistrati e degli avvocati. Tanti, ma non tutti, lo conoscono. Qual è la sua storia e la sua situazione attuale?
Il Laboratorio Permantente su esame, controesame e giusto processo “Ettore Randazzo” è nato da una geniale intuizione di un grande pioniere dell’avvocatura cui oggi è dedicato.
Ettore era un riformista pragmatico: capiva che la parità dei ruoli non si poteva imporre per legge ma sarebbe stata raggiunta da un’avvocatura capace di confrontarsi sul piano culturale con magistratura ed Accademia. Sposo’ la teoria dei piccoli passi cominciando dalla condivisione delle regole sulla Cross Examonation. Anni prima nell’Unione (che di lui si è dimenticata) aveva scritto le regole sulle indagini difensive prevedendo per il difensore una rigorosa applicazione delle regole deontologiche.
Senza di lui le difficoltà sono molte ma l’associazione continua a vivere grazie all’abnegazione della moglie Elisabetta, del nuovo presidente Valerio Spigarelli e del coordinatore nazionale Giovanni Sofia. Sperabilmente in autunno si terrà il congresso nazionale da cui ripartire. A mio parere occorre coinvolgere di più le sezioni territoriali come forza propulsiva.
Come avvocato e studioso che da decenni si occupa di logica e di filosofia della scienza e come cittadino attivo e attento ai fenomeni sociologici e politici, quali ritiene che siano le maggiori carenze che la formazione e la pratica dei giuristi italiani presentano al riguardo?
La ringrazio per la considerazione: da modesto fruitore del diritto trovo che ancora l’ambiente dei giuristi sia troppo autoreferenziale e chiuso agli influssi dell’epistemologia e delle scienze sociali.
Secondo me l’avvocato (e più in generale il giurista) oggi deve sapere o almeno essere curioso di economia e di metodo scientifico, essere aggiornato sul progresso scientifico, capire il contesto sociale e politico. Deve avere apertura mentale insomma. Il Diritto è una visione politica e bisogna ragionarci intorno.
Non mi pare che i corsi di studio sulle professioni legali siano sufficientemente aperti, tranne qualche rara eccezione. Il risultato è alla fine un diffuso conformismo, specie nell’avvocatura che pure dovrebbe essere una forza critica contro il potere.
La “manifesta illogicità” della motivazione vizia la sentenza e conduce al suo annullamento (art. 606 lett. e, cod. proc. pen.). Tuttavia, il legislatore non ne definisce la nozione. Se dovesse illustrarne il significato a un suo assistito di cultura media cosa gli direbbe ?
Io sto ancora cercando di spiegarlo a me stesso facendo lo slalom della variegata giurisprudenza sul punto.
Una delle migliori spiegazioni l’ho sentita ad un corso della Sua Scuola Superiore ad opera di Piero Gaeta, magistrato e mente giuridica tra le più brillanti. Il vizio logico e’ la rottura del sillogismo di Aristotele. Proprio quello: Premessa maggiore- minore-sintesi finale
Sbagli uno dei tre ed hai il vizio logico: le faccio un esempio da una esperienza reale.
1- L’affidabilità di una prova scientifica di basa sul metodo, 2- il perito x ha commesso degli errori, 3- il risultato della prova è esatto. E’ evidente che tra le due premesse e la conclusione vi e’ un salto logico. Ciò nonostante l’esempio che le ho fatto è reale: a Sua (e mia) consolazione la Cassazione ha corretto.
Il ricorso alle leggi scientifiche è un dato quotidiano in molti settori della pratica giudiziaria. Quali insidie epistemologiche comporta il loro utilizzo per la ricostruzione di eventi singoli?
Come scrive in un suo bel libro Gaetano Carlizzi (“la valutazione della prova scientifica”) la valutazione di una legge o meglio dire un principio scientifico è un giudizio di affidabilità sul meccanismo di applicazione al caso concreto.
Da Daubert a Franzese a Cozzini abbiamo appreso che non può esserci da parte del giudice una meccanica trasposizione del dato tecnico al giudizio senza una verifica puntuale dei vari passaggi e della correttezza epistemologica. Dunque riproducibilità, percentuale di errore e condivisione della comunità scientifica.
I problemi nascono dalla “maneggiabilita’” di questi concetti ad opera dei giuristi e soprattutto dalla difficoltà di “testare” con regole di valutazioni uniformi le scienze leggere come quelle cognitive.
Un problema, Lei lo sa, che ci appassiona e che ci fa disperare quanto alla sua soluzione perché è legato purtroppo alla soggettività del giudice. Non esiste ancora una legge universale della scienza cognitiva.
Concludiamo con temi para-istituzionali.
Le vicende dei rapporti fra le associazioni dei magistrati e degli avvocati sono state e sono variegate secondo i tempi, i luoghi e i contesti. E’ difficile farne una sintesi… Ma quali realistiche direzioni, possiamo seguire per intensificare la formazione comune e cooperare per un miglior funzionamento delle istituzioni? Inoltre, in questo contesto, quale ruolo attribuire alla magistratura onoraria, oggetto di importanti riforme non ancora completate?
“Vaste programme” ma sintetizzo ritornando all’inizio della nostra chiacchierata , al Lapec di Ettore Randazzo.
Occorre una rivoluzione mentale. Avvocati e magistrati devono sentirsi parte di una unica comunità. Sa quale sarebbe la situazione ideale? Che un giudice come Lei si "sentisse” allo stesso modo con un avvocato come con un pm. Indifferente o accomunato, faccia Lei. Nella realtà non è così . Cerco di far capire ai miei colleghi quanto sia nocivo il senso di inferiorità, e che da parte della migliore magistratura oggi esista un genuino desiderio di conoscere la realtà delle nostre associazioni ed addirittura di crearne di comuni. Questa difficoltà è alla base della realtà incompiuta dei magistrati onorari, impedisce loro di vivere compiutamente la giurisdizione. Ci vuole molto tempo ma io ho fiducia. Penso sarebbe bello per un avvocato poter esercitare la giurisdizione in prima persona per un tratto della sua vita professionale. Solo un periodo limitato, però, perché è importante morire da avvocato.
Novembre 1965. Appena venticinquenne, Piero Cenci, fresco tirocinante in Magistratura, viene redarguito dal Presidente della Corte d’appello perché indossa un abito spezzato (giacca blu e pantaloni grigi), inadatto al decoro di un Magistrato, anziché un più serioso abito intero, preferibilmente di colore scuro.
Inizia così la carriera di un uomo che sognava già da bambino di diventare Giudice: nei suoi ricordi, ricchi d’ironia, emergono episodi di vita e personaggi che raccontano un'umanità variegata attraverso mezzo secolo di storia del nostro paese. Nel libro sono narrati tanti episodi di una Giustizia amministrata in piccole realtà di provincia ed in piccoli Uffici, una Giustizia, per così dire, “minore” ma non per questo meno importante per i destinatari cioè per i cittadini; in un arco di riferimento piuttosto ampio, dal 1965 al 2009, anni di grandi modificazioni nel tessuto sociale, economico e politico dell’Italia, modificazioni di cui – naturalmente – risente anche la magistratura.
La moglie, i figli (uno dei quali magistrato) e i nipoti (che hanno curato la copertina e le godibilissime illustrazioni dei capitoli) dell’Autore, già Presidente del Tribunale per i minorenni dell’Umbria, hanno ritenuto di portarne a compimento l’impegno, pubblicando postumo a scopo di beneficenza il libro che raccoglie i ricordi di vita, professionale e personale, che il Collega Piero Cenci (prima in Pretura e in Tribunale ordinario, poi, per più di trenta anni, nel Tribunale per i minori) negli ultimi mesi della sua esistenza, consapevole di essere malato, aveva affidato ad un dattiloscritto, la cui stesura lo ha aiutato ad affrontare, insieme all’impegno lavorativo, mai abbandonato, la sofferenza e il grave disagio della malattia. Benchè scritto in questo difficile contesto, è un libro pieno di speranza: speranza nel futuro, nella vita, nei giovani.
La Giustizia descritta è una Giustizia, come si legge in una delle qualificate prefazioni al testo, “mite” (come mite era l’aspetto dell’anziano Pretore del paesino di cui si parla nella prima pagina) ed “umana”:
quanto alla mitezza, poiché, secondo le convinzioni dell’Autore, una pena mite, ove ne ricorrano le condizioni, non è segno di debolezza dell’apparato repressivo dello Stato, ma, al contrario, di forza, poiché un ordinamento credibile ed autorevole non ha bisogno di pene esemplari, ma di sanzioni giuste, all’esito di processi garantiti e celebrati in tempi accettabili;
l’ humanitas è lo strumento che consente al Giudice di “filtrare” adeguatamente la tristezza delle vicende che vengono portate alla cognizione del giudice, sia civile (si parla soprattutto di contenzioso in materia di famiglia) che penale, provando talora compassione per chi vive direttamente sulla sua pelle il processo, ma mantenendo comunque il necessario distacco, sforzandosi di interpretare in senso conforme alla Costituzione leggi spesso poco chiare ed applicandole lealmente nei confronti di tutti, con imparzialità e serietà, senza timori ma anche, secondo l’insegnamento di Piero Calamandrei, senza aspettative di nessun tipo di “ritorno”.
Il tema dell’abito del Giudice, presente già nel primo capitolo del libro, cui dà il titolo, viene infine ripreso nel capitolo conclusivo, per sottolineare il valore – naturalmente, non certo del colore della stoffa di un vestito, ma – di una simbologia anche esteriore della serietà, dell’impegno, dell’apparire, oltre che dell’essere, del riserbo, persino dell’isolamento sociale che appare opportuno per chi è chiamato al delicatissimo compito di giudicare – uomo – gli uomini.
Un libro la cui piacevole lettura appare assai utile, particolarmente oggi.
Daniele Cenci
Quando sono entrata in magistratura non avevo ben chiaro cosa fosse l’associazionismo giudiziario.
Ai miei occhi l’ANM era il sindacato delle toghe, nulla più
Oggi, a 5 anni dalla presa delle funzioni, ho un po' di consapevolezza in più e le prime parole che mi vengono in mente per descrivere cosa sia, per me, l’associazionismo giudiziario sono PARTECIPAZIONE e IMPEGNO COLLETTIVO
Ho imparato ad apprezzare l’importanza ed il valore di queste parole e, quindi, dell’associazionismo, solo dopo qualche anno dall’inizio del mio percorso in magistratura che, soprattutto nella prima fase, è stato fortemente caratterizzato dalla solitudine
Perché come alcuni di voi sanno, perché lo hanno vissuto o lo stanno vivendo sulla propria pelle, iniziare la professione in un ufficio periferico del sud, lontano da casa, in un contesto sociale complicato, dove i problemi, già gravi sul piano nazionale, si avvertono con ancora maggiore violenza e drammaticità, determina, quanto meno all’inizio, un forte senso di vuoto, di solitudine e di isolamento
Ricordo il mio primo anno passato in Procura a Lamezia Terme: ero ovviamente la più piccola. Il procuratore ed i colleghi più grandi, tutti con famiglia, andavano via dall’ufficio per ora di pranzo. Io restavo sola a lavorare fino a sera tardi, sommersa di carte, con quella paura di sbagliare tipica di chi muove i primi passi e brancola nel buio.
E’ stato proprio nel corso di quei lunghi pomeriggi e lunghe serate trascorse da sola in mezzo alle carte che ho compreso quanto alto fosse il rischio di rimanerne sommersa e di diventarne vittima, perdendo quello che per un magistrato è forse il valore più prezioso: l’umanità.
Perché in contesti come quello che vi ho descritto, di solitudine ed isolamento, in cui non ci si può fidare di nessuno e non si può socializzare con nessuno se non con i colleghi, l’assenza di scambio e confronto con gli altri e con lo stesso mondo esterno a lungo andare rischia di portare alla totale chiusura ed autoreferenzialità, senza nemmeno che ce ne si renda conto: l’unico obiettivo quotidiano diventa quello di svuotare la scrivania a tutti i costi (e sottolineo a tutti i costi), per non rimanerne sommersi, con inevitabili ricadute negative sulla qualità delle decisioni e dei provvedimenti
È stato grazie a questo timore di diventare “indifferente e cinica” che mi sono avvicinata all’associazionismo, che mi ha rappresentato per me una grande boccata d’aria. Direi un antidoto contro il pericolo di omologazione e appiattimento. E mi si è aperto un mondo, che ancora sto continuando a scoprire.
Sono uscita dal guscio del mio piccolo ufficio, che mi stava e mi sta tuttora un po' stretto, affacciandomi su una realtà molto più vasta, che ha allargato enormemente la mia prospettiva, fino a quel momento canalizzata solo sulla scrivania, sui fascicoli e sulla mia piccola ed isolata realtà.
È iniziata, così, la mia fase della “partecipazione” e dell’“impegno collettivo”, come dicevo all’inizio: sono entrata in contatto con i colleghi di altri uffici del mio distretto e non solo, organizzando con loro e per loro incontri, iniziative, assemblee, raccogliendo le loro testimonianze, confrontandomi con quelli più grandi e più esperti di me e cercando di coinvolgere quelli più piccoli e di farli “aprire” a loro volta. Mi sono iscritta alle mailing list, seguendo i dibattiti interni alla magistratura su scala nazionale, partecipando a convegni e congressi, interessandomi della politica giudiziaria, leggendo articoli o interviste pubblicate su riviste come QUESTIONE GIUSTIZIA o GIUSTIZIA INSIEME, che sono per me fonte continua di riflessione e ossigeno per la mia curiosità e per il mio bisogno di restare ancorata al resto del mondo
Così, oltre a conoscere tantissimi colleghi e confrontarmi con tante realtà diverse dalla mia, ho ampliato enormemente le mie fonti di conoscenza e questo mi ha consentito di raggiungere un livello più alto di consapevolezza, nel bene e nel male, rendendomi, spero, un magistrato migliore.
Ho iniziato a cogliere la differenza tra il modo di interpretare la giurisdizione dei vari gruppi che compongono l’ANM e mi sono resa conto delle enormi ricadute che questa differenza determina sul nostro lavoro e, conseguentemente, sul mondo esterno, sulla società e sulla vita delle persone, che poi sono le destinatarie ultime delle nostre decisioni, dei nostri provvedimenti
Può sembrare banale, ma per me non lo è stato affatto: l’associazionismo mi ha mostrato come si possa essere magistrati davvero in mille modi diversi e come sia pericoloso, talvolta drammatico, fare giurisdizione senza essere consapevoli dell’importanza del proprio ruolo, pensando magari solo alla carriera ed anzi, lavorando al solo fine di garantirsene una, oppure interpretando la funzione in chiave burocratica, per non disturbare nessuno e per non essere a propria volta disturbati.
Mi sono resa conto, infatti, che prima o poi arriva un momento per tutti noi in cui siamo chiamati a fare una scelta e a prendere una posizione: i concetti di terzietà, imparzialità, autonomia, sono le colonne portanti intorno a cui ruota il nostro lavoro, ma se ci pensate, possono essere interpretati e declinati in modi diversi
C’è una grande fetta della magistratura italiana, ad esempio, che pensa che imparzialità nell’esercizio della giurisdizione significhi obbligato silenzio e distacco rispetto a tutto ciò che accade al di fuori degli uffici giudiziari e che la credibilità del giudice si misuri sulla sua capacità di essere invisibile agli occhi della società, muto e del tutto impermeabile ad essa
Ecco, la mia pur beve esperienza di associazionismo ed, in particolare, la mia esperienza in AREA, mi hanno fatto capire come ben si possa essere terzi ed imparziali senza tuttavia diventare neutrali e indifferenti; mi ha fatto capire come la nostra autonomia si misuri ogni giorno con la nostra consapevolezza di essere parte viva della società in cui operiamo, non fuori né tantomeno al di sopra di essa.
Ed, ancora, ho capito come sia importantissima la Associazione Nazionale Magistrati, sia come luogo di riflessione, confronto e di elaborazione collettiva sui temi della giustizia, sia come organo di rappresentanza della nostra voce all’esterno, voce che non può e non deve mai restare silente quando si mettono a rischio i principi costituzionali su cui si basa la nostra democrazia.
Credo, infatti, che per noi magistrati sia fondamentale da un lato, mantenere sempre viva la curiosità intellettuale, l’attenzione e la sensibilità verso i temi inerenti l’esercizio della giurisdizione e l’autogoverno e, con essa, la voglia di uscire dal guscio partecipando ed occupandoci attivamente insieme agli altri di ciò che ci riguarda più da vicino.
Dall’altro lato, credo che sia allo stesso tempo doveroso, alla luce del ruolo che la Costituzione ci assegna e della grande responsabilità che ne consegue, non limitarsi ad intervenire, come associazione, per la mera difesa corporativa della categoria o del singolo collega, ma far sentire sempre con forza la voce della magistratura unita ogniqualvolta vengano messi a rischio i principi democratici, i diritti e le libertà fondamentali delle persone.
E l’associazionismo giudiziario non è che lo strumento per dare una dimensione collettiva a questo duplice impegno attribuendogli, quindi, maggiore forza.
Si dice spesso che il giudice è solo: solo con i suoi dubbi, solo con le sue certezze, schiacciato dal peso della sua responsabilità, la responsabilità del decidere. Probabilmente è vero, ma questo non deve generare paura o chiusura.
Io credo, infatti, che l’apertura, la partecipazione, il confronto, il lavorare insieme per un progetto comune, per un’idea condivisa, siano i necessari strumenti per rifuggire dalla autoreferenzialità e dall’individualismo ed ampliare la conoscenza
La conoscenza è consapevolezza e la consapevolezza, a sua volta, rafforza la coscienza, quella stessa coscienza che guiderà la mano del buon giudice che, a quel punto, nel silenzio della sua camera di consiglio, non sarà più solo.
*Intervento tenuto al Convegno “A Sud. Pensieri meridiani sulla giurisdizione” svoltosi a Bari il 17 e 18 maggio 2019
E' trascorsa una settimana da quando è stata data notizia di una indagine della procura di Perugia per corruzione a carico di un pm romano, noto per essere stato a lungo presidente dell'Anm prima, consigliere del Csm poi. La notizia non si è diluita nel pubblico dibattito, si è anzi rimpolpata, giorno dopo giorno, di nuovi fatti e di indagati, di nuove complicità; di piccole e grandi indignazioni collettive, fino a diventare quella che è oggi: una vera e propria "questione morale anche tra i magistrati" (come ha scritto l'ottimo Bianconi sul Corriere). Un caso che si è trasformato presto in sistema, che per sistematicità "mi ricorda la P2", ha detto un togato del Csm. Ebbene, visto che siamo entrati ormai nella fase - piuttosto avanzata - delle analogie storiche, dei corsi e ricorsi - per capire il presente va ripercorso il passato, si dice -, tentiamoci anche noi: perché forse è più immediato l'aggancio con Tangentopoli.
E' noto ai più che quella rivoluzione in salsa giudiziaria partì da Mario Chiesa, un dirigente socialista di piccolo calibro, che il 17 febbraio 1992 fu pescato con le mani nella marmellata tangentizia. Un fatto da nulla, in sé considerato, tanto che Craxi liquidò la cosa in fretta, dichiarando che Chiesa era un "mariuolo" mentre tutti quelli del suo partito erano gente onesta. Amen. Da quel momento in poi l'intero mondo politico, miope, cominciò a smottare, gradualmente.
A me, quindi, i fatti che oggi ci troviamo tristemente a commentare, proprio per la loro cifra generalista e per l'incontro/scontro con le pulsioni dell'opinione pubblica, ricordano sopratutto Tangentopoli, con l'unica differenza che in questo caso alla sbarra stanno i magistrati, l'intero corpo meglio dire. D'altronde, il messaggio mediatico che sta passando è questo: ieri "Mani pulite", oggi "Toghe sporche", com'è stata subito ribattezzata l'inchiesta.
Ma poiché la Storia è scritta nei libri per non permettere che ci si avviti negli stessi errori, dovremmo tenere a mente le lezioni che, da quella storia (da notare l'utilizzo della minuscola), si trassero, anche a distanza di anni. Per fare in modo che questa non sia la nostra Tangentopoli.
Prima lezione: è necessario continuare ad operare (e questo vale per noi magistrati) senza farci condizionare dalle temperie, dagli ululati di chi vorrebbe superare il fatto (prima ancora che un principio costituzionale, è un fatto), scomodo a tanti, che "la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere"; dobbiamo continuare ad operare serenamente, nella consapevolezza che la Storia ha una capacità di discernimento - di separare il grano dal loglio - implacabile, sebbene non si possa misurare nel tempo presente. Dopo Tangentopoli, la Storia ha fatto il suo corso: oggi sappiamo chi prendeva le tangenti a piene mani, quali soggetti politici non prescindevano da questa prassi, e chi invece non è sceso a compromessi, anche a costo di rimanere in una eterna minoranza parlamentare e amministrativa: da qui, non a caso, nasce il mito del monopolio dell'etica da parte di alcuni soggetti politici, un mito su cui dibattiamo ancora oggi. La Storia dirà chi tra noi è stata erba buona, e chi erba cattiva; chi si è venduto al clientelismo, chi ha agito facendosi i conti in tasca, e chi ha vestito sempre e solo la toga.
Seconda lezione: è necessario non cadere nella - umanissima, per carità - tentazione (e questo vale per noi magistrati, che facciamo parte della classe dirigente di questo Paese; vale per noi che siamo la parte di opinione pubblica più attrezzata a comprendere le problematiche sociali) di generalizzare, di fare di tutta l'erba un fascio, al nostro interno, e tentare di cavarcela così, tutti assieme, con spirito corporativistico. Si prenda ancora Tangetopoli: ci provò Craxi nel famoso discorso in Parlamento del 3 luglio 1992 (neanche sei mesi dopo l'arresto di Mario Chiesa), e quello fu il suo più grande errore politico di sempre: tentò di spalmare la responsabilità su tutti, il famoso "bisogna essere franchi, i partiti ricorrono a risorse aggiuntive", sull'intero sistema politico insomma, credendo che fosse solido abbastanza: si sfarinò invece, e quello che venne dopo - la Seconda, poi la terza Repubblica, gli homines novi, gli uomini soli al comando, l'uomo solo al comando - non fu affatto migliore di ciò che c'era prima. Al bando i partiti, urlò l'opinione pubblica in quel momento, e i partiti tradizionali si squagliarono come neve al primo sole: i risultati non furono appaganti, per usare un eufemismo.
E', quindi, sbagliato picconare - per di più dall'interno - un quadro istituzionale, quello del Csm, della sua elezione, della sua composizione, dei suoi meccanismi di funzionamento, delle sue "correnti" (l'ho detto), un quadro che risale i principi costituzionali dell'indipendenza e, al contempo, del necessario pluralismo interno alla magistratura. Abbiamo forse già dimenticato gli attacchi alle "correnti" (l'ho ridetto) di qualche mese fa, ed il nostro ribadire, forti anche della saggezza del capo dello Stato, che il confronto interno, la dialettica, l'incrocio dei temi e delle mozioni, è ciò che permette al magistrato di alzare la testa dai suoi fascicoli, di emanciparlo dall'abominio della giustizia burocratica; di determinarne la crescita culturale, intellettuale: di renderlo un magistrato migliore, al servizio della collettività?
Perché poi, in tutto questo chiacchiericcio, abbiamo dimenticato la cosa più importante: noi siamo al servizio della collettività e - a differenza della classe politica, che antropologicamente punta a perpetuare se stessa costi quel che costi - soggetti soltanto alla legge, ed è per questo che riusciamo a fare pulizia al nostro interno senza guardarci in faccia; fa parte dei nostri doveri primari. Non è forse partita da noi stessi questa inchiesta?
Ecco perché questa non sarà la nostra Tangentopoli; lo sarà piuttosto del correntismo inteso come patologia suppurante, del correntismo amorale, inteso come spartizione di poltrone e non come condivisione di idee, di contenuti: utili, più che alla magistratura, alla società che essa serve ogni giorno nei palazzi di giustizia.
Però, anche qui, facciamo attenzione: sarebbe sbagliato puntare il dito, pensare che tutto questo riguardi quel gruppo, quella "corrente", sarebbe sbagliato lanciare accuse nel mezzo perché "quella corrente pensa solo a...", "quel gruppo è stato creato soltanto per...". Sarebbe un errore imperdonabile, perché in ciò sta la terza lezione da trarre dal passato, forse la più importante. Craxi all'inizio puntò il dito su un punto preciso, non avviò nessuna riflessione interna, semplicemente credeva che la cosa non lo interessasse; disse che l'unico "mariuolo" era Chiesa, tutti gli altri brava gente. Amen. Sappiamo com'è andata a finire: venne Tangentopoli, e quando se ne accorse fu troppo tardi. Ecco, facciamo in modo che questa non sia la nostra Tangentopoli.
sommario: 1. Domanda insidiosa, risposta articolata. - 2. Un passo indietro: cannabis e THC, l’equivoco di fondo. - 3. La scoperta dell’(in)offensività. – 4. La legge 2 dicembre 2016, n. 242, la scoperta del CBD e della “cannabis light” - 5. Cannabis light: due anni di incertezza. -6. La soluzione delle Sezioni Unite, Castignani. - 7. L’efficacia drogante e il principio di offensività: la difficile determinazione. - 8. Conclusioni
1. Domanda insidiosa, risposta articolata.
L’8 febbraio 2019, la Sezione Quarta della Suprema Corte[1] rimette alle Sezioni Unite la decisone sulla “questione controversa” che così esplicita: “Se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nell'art. 1, comma 2, della legge 2 dicembre 2016, n. 242, e, in particolare, la commercializzazione di cannabis sativa L, rientrino o meno, e se sì, in quali eventuali limiti, nell'ambito di applicabilità della predetta legge e siano, pertanto, penalmente irrilevanti ai sensi di tale normativa.”
E’ un quesito insidioso, perché si riferisce solo a un segmento della vicenda “cannabis / marijuana light”, che è molto più complessa.
Le SSUU, con sentenza del 30.5.2019, imp. Castignani, rendono nota una articolata informazione provvisoria, affermando che “ la commercializzazione di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, infiorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell'ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l'attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel Catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell'art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati; pertanto, integrano il reato di cui all'art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/1990, le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”.
La risposta è stata interpretata quasi unanimemente (soprattutto dai media) come l’introduzione di un divieto di commercializzare non solo la marijuana ma tutti i prodotti derivati da quella che giornalisticamente viene chiamata “cannabis light”. Questa interpretazione non è soddisfacente.
Va fatta una premessa importante: la posizione della cassazione dovrà essere chiarita alla luce della motivazione, perché l’informazione provvisoria fa trasparire (per la necessità di sintesi?) qualche imprecisione e una certa sfasatura rispetto alla questione posta. Quello che si può già dire però è che - se la motivazione non introdurrà elementi a oggi imprevedibili - la decisione presa lascia in larga parte la situazione nell’incertezza che le precedenti risposte, elusive, della Corte costituzionale e della Suprema Corte hanno creato.
La decisione, come la si può interpretare provvisoriamente, non vieta necessariamente la commercializzazione dei prodotti derivanti dalla filiera della canapa ex legge 2 dicembre 2016, n. 242; essa sembra ribadire anche per questa fattispecie una posizione giurisprudenziale consolidata, secondo la quale non è penalmente perseguibile la condotta priva di offensività, e lascia ancora al giudice di merito la decisione caso per caso, con ampio margine concreto.
2. Un passo indietro: cannabis e THC, l’equivoco di fondo
La “visione parziale” della fattispecie cui si accennava sopra ha radici lontane, e occorre avere la pazienza di partire dall’inizio se si vuol capire come ci si trovi ora in questa situazione incerta. Perché le leggi che ci interessano (il T.U. n. 309/1990 sugli stupefacenti; la legge 2 dicembre 2016, n. 242, sulla produzione di canapa agroindustriale; ma anche altre norme come quelle sulla canapa ad uso terapeutico e quelle eurounitarie) usano termini il cui significato è - normativamente o scientificamente - poco comprensibile, e che sovente vengono intesi in modo contraddittorio. Ad esempio, in Italia non esiste purtroppo un nome che diversifichi la canapa utilizzata per usi agroindustriali legali da quella utilizzata come droga[2], per cui molte volte definizioni e nomenclatura sono usate impropriamente. E’ perciò necessario ribadire qualche dato di base.
La cannabis è una pianta, di difficile classificazione botanica (e normativa) per la estrema diversità dei suoi componenti, causa a sua volta della estrema diversità degli effetti e, quindi, degli impieghi. Ma il risultato che può dirsi acquisito scientificamente è che il grande numero di varietà sinora conosciute (centinaia, se non migliaia) sono tutte derivanti e comprese nell’unica specie individuata già da Linneo, e denominata, proprio per essere stata da lui classificata, “Cannabis sativa L”[3].
Il THC invece è un principio attivo, proprio della Cannabis e contenuto, in percentuali estremamente variabili, in ogni varietà dell’unica specie (lo stesso avviene, lo si anticipa, per un altro degli oltre 50 metaboliti secondari, il CBD). Il THC venne inserito nella tabella delle “sostanze velenose che in piccole dosi hanno efficacia stupefacente” sin dal primo decreto ministeriale esecutivo della legge n. 396/1923. Lo stesso si ripetè con la legge e le tabelle del 1954. Questa è l’origine del problema, perché ogni varietà di Cannabis contiene THC e vietare - come fanno le due leggi - genericamente la coltivazione di piante da cui si possono estrarre i principi attivi “stupefacenti” significa implicitamente vietare anche ogni coltivazione di cannabis, compresa quella che tradizionalmente si coltiva in Italia da oltre due millenni e di cui il nostro paese, nel dopoguerra, è stato addirittura il secondo produttore del mondo.
L’equivoco è aggravato dalle leggi più recenti[4], che confondono ripetutamente il principio attivo e la pianta. Anche la legge vigente n. 79/2014 ingenera confusione, dato che inserisce il “Delta-9-trans-tetraidrocannabinolo (THC)” nella tabella I; ma nella tabella II non cita il principio attivo, prevedendo solo il nome comune Cannabis. [5]
In sintesi: tutte le leggi sugli stupefacenti sono costruite in modo tale da vietare ogni coltivazione di canapa, sviluppando questa progressione: il principio attivo stupefacente della cannabis, il THC, è vietato; ed è vietata la coltivazione di ogni pianta che lo contiene; e poiché ogni pianta di canapa - delle centinaia di varietà derivanti dall’unica specie Cannabis Sativa L - contiene THC, è vietata ogni coltivazione di canapa. Quindi, ogni piantina di canapa è potenzialmente un reato. Anche se il THC contenuto - perché comunque lo contiene - è infinitesimale, innocuo, in termine tecnico: non stupefacente.
3 . La scoperta dell’(in)offensività
Se, come vedremo, il buon senso e alcune circolari del Ministero dell’agricoltura hanno consentito (con difficoltà) la prosecuzione della produzione di canapa agroindustriale sino alla legge 2 dicembre 2016, n. 242, secondo la normativa sopra descritta qualsiasi coltivazione domestica o non autorizzata di canapa rientra nel T.U. n. 309/1990. Dopo il referendum del 1993, che aveva depenalizzato la detenzione per uso personale ma non aveva abrogato la punizione della coltivazione per uso personale, molti giudici di merito erano restii ad applicare le draconiane pene del T.U. n. 309/1990 a ragazzi che provavano a coltivare una pianta per fare uso personale della marijuana poi prodotta. Le decisioni che seguirono sono molto importanti, perché contengono affermazioni le cui non salutari conseguenze si riverberano tuttora.
Con la storica sentenza n. 360/1995 la Corte Costituzionale ritiene legittimo il sistema normativo dichiarando infondata la questione di legittimità costituzionale con riferimento al perdurante illiceità della coltivazione anche in assenza di coltivazione finalizzata allo spaccio.
Come affermato, però, il principio finirebbe con il punire, in modo insostenibile, anche condotte davvero risibili: la Corte esce da questo vicolo cieco evocando il concetto di offensività, senza però delimitarlo e quindi e “scaricando la palla” al giudice del caso singolo. Poiché ciò si ripete anche oggi, dopo SS.UU. 30.5.2019, è bene riflettere su questo passaggio. Il discrimine della punibilità, dice la Corte, non è costituito dalla destinazione a terzi ma dall’inesistenza della offensività. Pertanto quando dalle piante si estraggono “quantità non irrisorie” di sostanze stupefacente, il principio di offensività è soddisfatto e si applica la sanzione penale. Spetterà quindi al giudice sussumere la condotta concreta del coltivatore nell’alveo della “coltivazione” di cui all’art. 73 D.P.R. 309/90 – punibile penalmente - ovvero in una fase preliminare non punibile o nella detenzione per uso personale punibile solo in via amministrativa.
La soluzione però presenta diverse forzature logiche e molti limiti sul piano concreto (basti pensare al concetto di “quantità non irrisorie”). Non esiste una misurazione quantitativa della dose stupefacente di queste sostanze, e molto dipende dalle reazioni individuali, dalla concentrazione, dall’abbinamento con altre sostanze etc.: quindi il rinvio all’offensività non elimina i dubbi.
Tanto è vero che dopo la sentenza della Corte costituzionale s’erano affermate in giurisprudenza ben tre tesi, su come accertare questa offensività. A dirimere il contrasto sono intervenute le Sezioni Unite con le due pronunce "gemelle" di aprile-luglio 2008 (S.U., 24.4.2008, n. 28605 e S.U. 10.7.2008, 28606), in cui affermano - dopo aver richiamato e ribadito gli argomenti svolti dalla Corte costituzionale nella sentenza 360/95 - il principio secondo il quale costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale. Ma, in ossequio al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, le S.U. concludono sostenendo che spetta al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all'agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto risultando in concreto inoffensiva: “la "offensività" non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile”.
Dunque, senza dare indicazioni ulteriori su come si accerta l’“efficacia drogante”, si rimette ancora la decisione al singolo giudice. Ovvio perciò che le sentenze non plachino la giurisprudenza di merito, tanto da ricorrere di nuovo alla Corte costituzionale. Che, con la sentenza 109 del 2016, ribadisce i principi della sentenza 360/1995; e quindi di nuovo delega la decisione al giudice del merito.
Il giudice di merito si trova dunque di fronte a questa interpretazione della legge da parte delle Corti: la coltivazione della cannabis è sempre vietata, purchè non sia inoffensiva; ma come si determini l’offensività, non è detto e non è chiaro.
E di nuovo, nel vuoto legislativo e nella mancanza di indicazioni concrete delle Corti, si affermano orientamenti diversi. Per una giurisprudenza più restrittiva, l'offensività in concreto della condotta può essere esclusa soltanto quando la sostanza ricavabile risulti priva della concreta attitudine ad esercitare, anche in misura minima, l'effetto psicotropo; ad essa si contrappone un orientamento per il quale il raggiungimento della semplice efficacia drogante non è sufficiente: l’offensività in concreto viene da alcune sentenza misurata con riferimento ai valori soglia della legge del 2006 (che ricordo erano 25 mg per la dose media singola e 500 mg per il qmd); ma a volte si ritiene inoffensivo in concreto anche un valore sopra soglia.
Ma nel frattempo è stata approvata una nuova legge, che è quella sottoposta all’esame di SS.UU. 30.5.2019: una legge per la coltivazione di canapa agroindustriale.
4 La legge 2 dicembre 2016, n. 242, la scoperta del CBD e della “cannabis light”
Per salvaguardare la coltivazione di canapa non destinata alla produzione di sostanze stupefacenti, è stata emessa la legge 2 dicembre 2016, n. 242. La legge afferma innanzitutto che le varietà ammesse, che sono quelle iscritte nel Catalogo europeo delle varietà delle specie di piante agricole (quindi 62 varietà di quella che il Catalogo denomina “Cannabis sativa L"), non rientrano nell'ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti. La legge stabilisce che la coltivazione delle varietà di canapa di cui sopra, che devono contenere secondo la legislazione eurounitaria[6] una percentuale di THC inferiore allo 0,2%, è consentita senza necessità di autorizzazione. Gli unici obblighi per il coltivatore sono quelli di conservare i cartellini della semente e le fatture di acquisto[7].
Una volta che questa canapa è prodotta, a cosa può essere destinata? La legge elenca gli utilizzi (di tipo agroindustriale) per i quali si salvaguarda la coltura della canapa[8].
Ma il “mercato” riserva la canapa solo a questo?
No, perché alcune delle varietà di cannabis consentite dall’Unione europea, quindi con una percentuale di THC inferiore allo 0.2%, contengono però una percentuale rilevante di CBD.
Il CBD o cannabidiolo è il secondo cannabinoide attivo maggiormente presente nella Cannabis dopo il THC. Non è un principio psicoattivo, anzi si ritiene che riesca a contenere e calibrare gli effetti psicoattivi del THC. In medicina il CBD viene utilizzato per curare i disturbi legati al dolore cronico, emicranie, infiammazioni e artriti, spasmi ed epilessia, schizofrenia. Chi usa la cannabis a scopo terapeutico e i paesi del mondo che ne consentono la vendita lo fanno per la presenza di questo cannabinoide che normalmente era presente con la percentuale dell’1% circa.
La cannabis sativa L con queste caratteristiche è la cosiddetta Cannabis light: contiene poco THC e molto CBD. Anch’essa comprende una moltitudine di varietà di cannabis assai diverse tra loro, arrivando ad un CBD che supera il 5%[9]. Ora, questa cannabis light viene usata non solo per produrre alimenti e cosmetici (espressamente consentiti dalla legge n. 242); ma anche nelle stesse modalità di utilizzo della canapa per stupefacenti; e cioè trinciando le infiorescenze, facendone oli e resine etc.: è quella che viene chiamata marijuana light.
Dunque: la legge 2 dicembre 2016, n. 242, nata per salvaguardare la canapa agroindustriale, consente la coltivazione di una cannabis con un THC inferiore allo 0,2% ma con elevata presenza di CBD, la c.d. cannabis light; da cui vengono tratti prodotti alimentari e cosmetici ma anche altri commercializzati nelle forme della droga pur non contenendo elevato THC: la c.d. marijuana light. Ed è la commercializzazione di questi prodotti a dividere la giurisprudenza.
5. Cannabis light: due anni di incertezza.
Nei due anni successivi vi sono molti negozi che aprono per commercializzare prodotti della cannabis light; produttori che coltivano le qualità che sanno essere destinate ad un uso “non industriale”; consumatori che comprano e altri che cominciano a coltivare in casa le qualità “legali”; vi sono invece poliziotti che arrestano, sequestrano, denunciano[10]; e la magistratura che deve intervenire.
Si arriva in breve al delinearsi di un nuovo contrasto interpretativo all’interno della giurisprudenza di legittimità che non riguarda la coltivazione (pacificamente consentita alle condizioni dette) bensì la commercializzazione delle sostanze derivanti da tale coltivazione.
Per il primo orientamento, la legge n. 242 non consente la commercializzazione dei derivati della coltivazione della canapa (hashish e marijuana); la normativa disciplina esclusivamente la coltivazione della canapa, consentendola, alle condizioni ivi indicate, soltanto per i fini commerciali elencati dall'art. 1, comma 3, tra i quali non rientra la commercializzazione al dettaglio dei prodotti costituiti dalle infiorescenze e dalla resina. Quindi la detenzione e commercializzazione di questi derivati rimangono sottoposte alla disciplina di cui al d.P.R. n. 309 del 1990 (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 27 novembre 2018, n. 56737, imp. Ricci; Cass. pen., Sez. VI, 10 ottobre 2018, n. 52003, imp. Moramarco; Cass. pen., Sez. IV, 13 giugno 2018, n. 34332, imp. Durante).
Per il secondo orientamento, dalla liceità della coltivazione della canapa, alla stregua della legge n. 242 del 2016, discende la liceità della commercializzazione dei prodotti che ne derivano, contenenti un principio attivo inferiore allo 0,6%; è nella natura dell'attività economica che i prodotti della ‘filiera agroindustriale della canapa’, che la legge espressamente mira a promuovere, siano commercializzati. Tali prodotti quindi non possono più essere considerati, in virtù di tale normativa, sostanze stupefacenti soggette alla disciplina del d.P.R. n. 309 del 1990. La l. n. 242 del 2016 si dirige ai produttori e alle aziende di trasformazione e non cita le attività successive semplicemente perché non vi è nulla da disciplinare riguardo ad esse.
Questo orientamento sviluppa un ragionamento che occorre ricordare, perché identifica una efficacia drogante “giuridica”: si afferma che la fissazione del limite dello 0,6% di THC rappresenta, nell'ottica del legislatore, un ragionevole punto di equilibrio fra le esigenze precauzionali relative alla tutela della salute e dell'ordine pubblico e quelle inerenti alla commercializzazione dei prodotti delle coltivazioni. La percentuale dello 0,6% di THC costituisce, infatti, il limite minimo al di sotto del quale i possibili effetti della cannabis non possono essere considerati, sotto il profilo giuridico, psicotropi o stupefacenti (Cass. Pen 4.12.2018 n.14017/2019, ric. P.G.; Cass. pen., Sez. VI, 29 novembre 2018, n. 4920, ric. Castignani).
6. La soluzione delle Sezioni Unite, Castignani.
Consapevoli che le lacune normative e le conseguenti divergenze interpretative nella giurisprudenza non rendono possibile una risposta totalmente appagante, forse sarebbe stato prudente non togliere le castagne dal fuoco al legislatore e lasciare che intervenisse come è suo compito. Invece si è fatto ricorso alle Sezioni Unite, le quali non si sono trovate in posizione agevole[11].
Nei limiti della mancanza di una motivazione che certo aiuterà in modo determinante l’interpretazione, è possibile analizzare i diversi passaggi dell’informazione provvisoria.
Il primo passaggio è che “l'ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016 … qualifica come lecita unicamente l'attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel Catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell'art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002” .
Affermazione pacifica per quanto espone, ma (almeno per ora, vedremo la motivazione) non esaustiva sotto altri possibili profili in fatto: in particolare, non è detto se la coltivazione costituisca illecito penale o solo amministrativo in relazione alla semina di varietà di canapa non certificate, ma con contenuto di THC al massimo dello 0,2% (quindi conforme al regolamento CE), o derivanti da sementi ‘domestiche’ di piante certificate, o a piante riprodotte in via agamica[12].
Secondo passaggio è che la legge 2 dicembre 2016, n. 242 “ elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati”.
Il dubbio che rimane è analogo a quello di prima: la legge dice che “dalla canapa coltivata ai sensi del comma 1 (con sementi certificate cioè) e' possibile ottenere” una serie di prodotti, tra cui alimenti e cosmetici per uso umano. Ma se da quella canapa si commercializzano prodotti diversi, o si fa un uso diverso (si pensi all’uso come foraggio animale, o per alimenti non previsti dal decreto), ciò è reato? E qual è, in tal caso, l’offensività, in mancanza di un principio attivo THC rilevante?
Terzo passaggio: “la commercializzazione di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, infiorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell'ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016”.
L’affermazione suscita qualche perplessità, forse per eccesso di sintesi: la cannabis sativa L è proprio l’oggetto della legge 242![13] Se come si ipotizza il passaggio si riferisce solo alla marijuana prodotta dalla cannabis light, sorge il dubbio di come distinguere, in fase di commercializzazione, i derivati così descritti (foglie, infiorescenze, olio, resina) dai prodotti comunque ottenibili con essi: ad esempio, un alimento ottenuto con la macinazione di quelle parti di piante e che rispetti i limiti di THC previsti dalla legge può essere commercializzato o è vietato? Quale è, in tal caso, la ragionevolezza della punizione?
Quarto passaggio: “integrano il reato di cui all'art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/1990, le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”. E’ il passaggio chiave. Che merita molta attenzione.
7. L’efficacia drogante e il principio di offensività: la difficile determinazione.
Letteralmente, secondo la sentenza Castignani è reato la commercializzazione dei prodotti derivati dalla cannabis sativa L. Non pare possibile. Dato che sono proprio i prodotti derivati dalla coltivazione della Cannabis sativa L a essere consentiti dalla legge 2 dicembre 2016, n. 242, si deve ritenere che la sentenza si riferisca solo ai prodotti che sono diversi da quelli autorizzati: ebbene, dice la sentenza, la loro commercializzazione è vietata, ma il divieto viene meno se tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante.
Se questa è l’interpretazione giusta (in attesa delle motivazioni), il punto è ancora cosa è e come si misura l’efficacia drogante, e come essa si rapporti con il principio di offensività. Leggendo le sentenze che se ne sono occupate, i due concetti sono stati usati a volte come sovrapponibili, altre volte in contrapposizione[14]. Ci si trova quindi ancora nell’impasse creata dalla Corte costituzionale e dalla SS.UU. Di Salvia, perché se i prodotti non hanno efficacia drogante la commercializzazione è possibile.
Facile rilevare che: a) nessun commerciante indagato ha affermato di vendere prodotti con efficacia drogante: anzi si pubblicizza proprio il fatto che non si tratta di droga; b) il concetto di efficacia drogante è come si è detto nebuloso e genera ulteriore incertezza: nella sua individuazione infatti ci si appella a volte alla quantità in assoluto di principio attivo, altre volte alla sua concentrazione percentuale.
Un primo filone interpretativo applica per individuare la soglia drogante un criterio quantitativo ponderale. Le SU nella sentenza n. 47472/2007 hanno enunciato nella motivazione che “la dose media singola (va) intesa come la quantità di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente e psicotropo”, rifacendosi ai criteri del Decreto del Ministero della Salute 11.4.2006. Per il THC la dose media singola, così valutata, è stata individuata in 25 mg., in quanto tale quantità - secondo la sentenza - è senza dubbio idonea a produrre un effetto stupefacente e psicotropo in soggetto aduso costantemente al consumo di quel tipo di droga. Anche altre sentenze hanno fatto riferimento all’efficacia drogante, alla soglia drogante etc come misura ponderale, ravvisandola o meno nella fattispecie esaminata.
Successivamente la stessa Cassazione, nella sentenza 8393/13 ha però rilevato che manca ogni riferimento parametrico per legge o per decreto, e “che sulla questione della rilevanza del concreto effetto drogante permane un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, anche successivamente alla decisione delle Sezioni unite n. 9973 del 1998”.
Un secondo filone interpretativo fa riferimento invece a un’efficacia drogante misurata in percentuale di principio attivo rispetto alla massa della sostanza.
Alcuni dei provvedimenti di merito oggetto delle sentenza di cassazione che hanno portato alle SSUU hanno indicato lo 0,2% come soglia drogante, altre lo 0,6%. In particolare si afferma che la percentuale dello 0,6% di THC indicata dalla legge 2 dicembre 2016, n. 242 costituisce il limite minimo al di sotto del quale i possibili effetti della cannabis non possono essere considerati, sotto il profilo giuridico, psicotropi o stupefacenti (Cass. Pen 4.12.2018 n.14017/2019, ric. P.G.,; Cass. pen., Sez. VI, 29 novembre 2018, n. 4920, ric. Castignani).
Tuttavia trasporre nel concetto di offensività o di efficacia drogante i parametri della legge 2 dicembre 2016, n. 242 è un’operazione ardita, perché quelle soglie sono state individuate, una per la fruibilità di aiuti comunitari, e la seconda per escludere il sequestro penale; si tratta di valori il cui accertamento avviene con modalità (analisi a pieno campo, con campionatura etc[15]) molto diverse da quelle che portano all’accertamento della fattispecie di cui all’art. 73, che sono quelle delle tradizionali analisi dei laboratori sulla droga così come sequestrata.
Va ricordata anche in questo secondo filone la circolare emessa dal Ministero dell’Interno, firmata il 31.7.2018, interpretativa della legge 242/2016. Nel dispositivo emanato dal Viminale, si afferma che le infiorescenze della canapa con concentrazione superiore allo 0,5% rientrano tra le sostanze stupefacenti. L’attendibilità della valutazione però è incerta: in mancanza di parametri normativi per determinare la soglia drogante, il Ministero dell’interno (non quello della salute…) la determina infatti sulla base di un parere tossicologico e due articoli di dottrina[16].
Non sembra possibile neppure fare ricorso a un criterio scientifico, poichè neppure in medicina si è elaborato tale parametro, vuoi per la assoluta imprevedibilità della reazione soggettiva, vuoi perché il solo THC “è responsabile degli effetti psicoattivi della cannabis”, ma la sua azione è legata alla combinazione di fitocannabinoidi presenti nella pianta[17]; in particolare il CBD esercita azione di contrasto all’azione del THC.
In definitiva, la percentuale di THC è indizio, ma non prova dell’effetto stupefacente in concreto, soprattutto se la cannabis esaminata ha (come avviene nella quasi totalità dei sequestri esaminati) alti tenori di CBD.
8. Conclusioni.
In conclusione: la sentenza 30.5.2019 sembra essere stata interpretata come più restrittiva di quanto in effetti risulti essere ad un esame dell’informazione provvisoria.
Letta in negativo, la sentenza afferma che NON integrano il reato di cui all'art. 73, commi 1 e 4, D.P.R. n. 309/1990, le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., che siano in concreto privi di efficacia drogante.
Dunque, si possono commercializzare tutti i prodotti derivanti dalla canapa (la specie Cannabis Sativa L comprende tutte le varietà della pianta) che non abbiano efficacia drogante: un concetto quest’ultimo di non facile accertamento in concreto e sul quale la giurisprudenza - in mancanza di parametri normativi o regolamentari - non ha individuato criteri di valutazione appropriati.
Dei vari limiti percentuali di principio attivo ipotizzati, il limite dello 0,2% riguarda la fruibilità degli aiuti comunitari; il limite dello 0,6% fa riferimento a un margine di errore nella semina di piante autorizzate che fa perdere il finanziamento comunitario ma esclude dalla sanzione penale; entrambi questi limiti si misurano sulla produzione in pieno campo e hanno tutt’altri metodi di accertamento rispetto al reato dell’art. 73. Il limite dello 0,5%, invece, è un limite indicato dall’autorità amministrativa con disposizione subregolamentare, non vincolante e senza attendibilità scientifica.
Non esiste neppure una soglia quantitativa di efficacia del principio attivo. La soglia di 25 mg di THC era suggerita da un decreto ministeriale oggi abrogato mentre un limite scientifico andrebbe comunque determinato caso per caso a seconda della varietà di cannabis e di altre variabili.
La situazione è quindi la stessa in cui ci si trova da molti anni, dal 1995 dopo la sentenza della Corte costituzionale: spetta al giudice del singolo caso accertare la offensività in concreto della sostanza sequestrata dalla polizia giudiziaria.
E poiché coloro che subiscono i sequestri si difendono proprio dicendo che i loro prodotti non sono ‘droga’, diventerà un problema di prova, come è stato sinora. E si rinnoverà il contrasto fra coloro che ritengono che spetti all’imputato dimostrare che la sostanza non ha efficacia drogante e coloro che, più condivisibilmente, riterranno che spetti al pubblico ministero fornire la prova del reato (con sequestro e consulenza), peraltro senza neppure sapere bene cosa si deve provare…
La cassazione ha deciso, ma non molto sembra cambiato.
[1] L’ordinanza est. Di Salvo) rimette alle Sezioni Unite il ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ancona avverso l'ordinanza del Tribunale della Libertà che ha revocato il sequestro disposto dal G.i.p. di marijuana rinvenuta in un negozio, limitatamente ai reperti che, all'esito delle analisi espletate, sono risultati contenere una percentuale di principio attivo non superiore allo 0,6%.
[2] Ad esempio nei paesi anglosassoni si utilizzano i nomi hemp e marijuana: “Hemp is Cannabis sativa with a THC content that does not exceed 0.3% by dry weight, while marijuana is Cannabis sativa with a THC content greater than 0.3%”(dal sito dell’Università della Florida, https://programs.ifas.ufl.edu/hemp/faqs/#hemp-marijuana)
[3] Dallo stesso sito e link precedenti: “Hemp and marijuana are the same plant species, Cannabis sativa…”
[4] La legge n. 685 del 1975 proibisce la “cannabis indica”, cioè inserisce una pianta (tale è come si è detto la cannabis) tra i principi attivi! La legge n. 162/1990 peggiora le cose inserendo nella tabella II una descrizione merceologica della sostanza vietata (“cannabis indica, foglie e infiorescenze… hashish…altre preparazioni contenenti THC…”.). La legge n. 49/2006, che unifica le droghe “leggere” e “pesanti”, inserisce la “cannabis indica e i prodotti da essa ottenuti” direttamente fra le sostanze stupefacenti; ma nella tabella unica è inclusa la sostanza “Delta9 THC”, con la sua denominazione chimica, e non la cannabis…
[5] La situazione attuale si basa sul decreto legge 20 marzo 2014 n. 36, che segue la dichiarazione di incostituzionalità della legge n. 49/2006 dichiarata con la sentenza n. 32/2014; nella legge di conversione n. 79/2014 si modifica l’art. 26 del T.U. n. 309/1990 inserendo dopo il tralaticio divieto di coltivazione delle piante l’eccezione “della canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli di cui all'articolo 27, consentiti dalla normativa dell'Unione europea”. La legge inserisce il “Delta-9-trans- tetraidrocannabinolo (THC)” nella tabella I; ma nella tabella II non cita il principio attivo, sopprime la parola “indica” dopo cannabis, toglie ogni denominazione chimica, lasciando solo il nome comune.
[6] E’ quanto disposto dall’articolo 5 bis del regolamento (CE) n. 1251/99 del 17 maggio 1999: il pagamento per superficie è subordinato all’utilizzazione di varietà di canapa aventi tenore in THC non superiore allo 0,2%.
[7] Art. 3. Obblighi del coltivatore 1. Il coltivatore ha l'obbligo della conservazione dei cartellini della semente acquistata per un periodo non inferiore a dodici mesi. Ha altresi' l'obbligo di conservare le fatture di acquisto della semente per il periodo previsto dalla normativa vigente.
[8] Secondo la legge 242 la coltura della canapa deve essere finalizzata:
a) alla coltivazione e alla trasformazione; b) all'incentivazione dell'impiego e del consumo finale di semilavorati di canapa provenienti da filiere prioritariamente locali; c) allo sviluppo di filiere territoriali integrate che valorizzino i risultati della ricerca e perseguano l'integrazione locale e la reale sostenibilita' economica e ambientale; d) alla produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori; e) alla realizzazione di opere di bioingegneria, bonifica dei terreni, attivita' didattiche e di ricerca.
[9] La c.d. cannabis light è dunque botanicamente diversa dalla canapa per marijuana; è diversa dalla canapa per filiera agroindustriale; è diversa anche dalla canapa per uso medico terapeutico.
[10] Diversi i reati ipotizzati. Molte volte si contesta il “classico” art. 73, con riferimento al comma 4. Altre volte si ravvisa il reato p.p. dall’art 348 c.p., ritenendo applicabile la normativa in materia di farmaci (art.147 DL 219/06). In altri casi viene contestata la fattispecie di frode in commercio (art. 515 c.p.) per aver commercializzato “per uso tecnico” prodotti effettivamente destinati a finalità combustive e di consumo alimentare. In altri casi ancora si contesta il reato di immissione in commercio di prodotti pericolosi (art. 112 D.Lgs 206/2005), per aver posto in commercio i derivati della cannabis light in violazione delle prescrizioni dettate dal parere emesso dal Consiglio Superiore di Sanità in data 10 aprile 2018.
[11] Il quesito era il seguente: “Se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nell'art. 1, comma 2, della legge 2 dicembre 2016, n. 242, e, in particolare, la commercializzazione di cannabis sativa L, rientrino o meno, e se sì, in quali eventuali limiti, nell'ambito di applicabilità della predetta legge e siano, pertanto, penalmente irrilevanti ai sensi di tale normativa.”
Alla luce di quanto descritto, il quesito appare impreciso sia rispetto alla realtà botanica che a quella commerciale: le varietà di canapa di cui al catalogo europeo sono una parte della specie Cannabis sativa L, che comprende tutte le specie: quelle con alto THC, quelle con alto CBD, quelle con basso THC e basso CBD. Quindi se da un lato è pacifico che la coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nell'art. 1, comma 2, della legge 2 dicembre 2016, n. 242, è legittima, la nozione di “commercializzazione di cannabis sativa L” è troppo generica.
[12] Tale tipo di riproduzione è vietata solo da una circolare (Ministero politiche agricole, circolare 23.05.2018: regole del florovivaismo).
[13] Art. 1 comma 1 legge 2 dicembre 2016, n. 242: “1. La presente legge reca norme per il sostegno e la promozione della coltivazione e della filiera della canapa (Cannabis sativa L.)…” Nel catalogo europeo comune delle varieta' delle specie di piante agricole, la specie n. 63 è denominata precisamente: “63. Cannabis sativa L. - Hemp”.
[14] Le SU nella sentenza , n. 47472 del 29/11/2007 hanno fatto riferimento alla efficacia drogante come quantità di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre un effetto stupefacente Molte sentenze successive però hanno ritenuto che l’efficacia drogante non sia il parametro principe, che è invece quello della offensività in concreto (cfr. Sez. 6, n. 5254 del 10/11/2015 e la giurisprudenza in essa richiamata). Nelle SS.UU. n. 28605 del 2008 invece l’efficacia drogante è la misura dell’offensività.
[15] Vedi art. 4 legge 2 dicembre 2016, n. 242,, per il quale “Gli esami per il controllo del contenuto di THC delle coltivazioni devono sempre riferirsi a medie tra campioni di piante, prelevati, conservati, preparati e analizzati secondo il metodo prescritto dalla vigente normativa dell'Unione europea e nazionale di recepimento.
[16] Circolare 31.7.2018, Ministero dell’interno, pp. 7-8.
[17] Si rimanda all’ “allegato tecnico per la produzione nazionale di sostanze e preparazioni di origine vegetale a base di cannabis del decreto 9 novembre 2015”.
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