ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, ha proposto ricorso per Cassazione, contro l’ordinanza del Gip, 2 luglio 2019, nei confronti della capitana Rakete per la non convalida dell’arresto, chiarisce come l’arresto fosse stato eseguito per condotta tenuta dall’indagata nella fase dell’ingresso al porto e non per condotte .
Richiama i principi della giurisprudenza di legittimità in materia di convalida dell'arresto e ricorda come “il giudice, verificata l'osservanza dei termini previsti dall'art. 386, comma terzo e 390, comma primo. cod. proc. pen., debba controllare la sussistenza dei presupposti legittimanti l'eseguito arresto, ossia valutare la legittimità dell'operato della polizia sulla base di un controllo di ragionevolezza, in relazione allo stato di flagranza ed all'ipotizzabilità di uno dei reati richiamati dagli artt. 380 e 381 cod. proc. pen., in una chiave di lettura che non deve riguardare né la gravità indiziaria e le esigenze cautelari (valutazione questa riservata all'applicabilità delle misure cautelari coercitive), né l'apprezzamento sulla responsabilità (riservato alla fase di cognizione del giudizio di merito) (Cass Sez. Sesta, P.M. in proc. Ahmad, 2015).
Chiede alla Corte di Cassazione di verificare se con la non convalida vi sia stata violazione di legge e segnatamente degli artt. 391, comma 4, codice di rito, 51 cod. pen. e 1100 cod. nav. e, in particolare, se il giudice abbia effettuato apprezzamenti non consentiti in ragione della natura di controllo rimesso al giudice in sede di convalida.
Ma “la polizia giudiziaria, in ragione della complessità della vicenda sotto il profilo tecnico giuridico, avrebbero potuto autonomamente determinarsi in ordine alla non antigiuridicità del fatto ?”, già le dieci pagine dell’ordinanza per motivare le ragioni della sussistenza della scriminante offrono la risposta.
Ma “il fatto è antigiuridico ?” il soccorso in mare era già adeguatamente avvenuto in quanto i migranti non erano più esposti a pericolo di vita e personale medico era a bordo della See Watch 3, “è possibile allora ritenere scriminata l’azione della Capitana Rakete che per adempiere nella maniera ottimale un dovere, esponeva a pericolo gli operatori della guardia di finanza e gli stessi migranti?”.
A voi la lettura dell’erudito ricorso.
Il Comitato di redazione.
Sommario: 1. La vicenda Sea Watch 3. - 2. Il reato di resistenza. - 3. Il confronto delle opinioni resta comunque aperto.
1. La vicenda Sea Watch 3.
Nel contesto della vicenda Sea Watch 3, il gip di Agrigento era chiamato, su richiesta della locale procura, a convalidare l’arresto e a valutare la richiesta della misura cautelare del divieto di dimora in relazione alla violazione dell’art. 1100 cod. nav. e dell’art. 337 cp.
Con l’ordinanza qui considerata il gip riteneva l’insussistenza del reato di cui all’art. 1100 cod. nav. e, in relazione al reato di cui all’art. 337, l’operatività dell’art. 51 cp, conseguentemente negando la convalida dell’arresto e rigettando la richiesta della misura cautelare personale.
Entrambi le conclusioni alle quali perviene il giudice, nella sua essenziale motivazione, lasciano spazio a non secondarie riserve.
In primo luogo, il riferimento a C. Cost. n. 35 del 2000, dove viene indicato un “solo” che non emerge dal testo della motivazione, che concerneva una questione relativa all’ammissibilità del referendum riguardante la natura della Guardia di Finanza.
In secondo luogo, andrebbero considerate le contrastanti decisioni Cass. 21 settembre 2006, Penzo, Ced. 235748 e Cass. 8 agosto 2003, Veronese Ced. 226335 in punto di natura del reato commesso nei confronti della Guardia di Finanza, all’interno delle acque territoriali. Peraltro, superabile questo contrasto alla luce di quanto previsto dall’art. 1087 cod. nav. in relazione all’esclusione dell’applicabilità dell’art. 1100 cod. nav. in caso di operazioni riguardanti la navigazione interna, bisognerebbe considerare se l’azione di ingresso (vietata) nelle acque territoriali possa essere considerata alla stregua di una “navigazione interna”.
Non casualmente l’art. 6 della legge n. 1409 del 1956 considera applicabile l’art. 1100 cod. nav. all’azione di contrasto al contrabbando di tabacchi.
Si potrebbe sostenere che si tratti di norma speciale non estensibile, ma resterebbe il fatto dell’attività di resistenza iniziata nei confronti della Guardia di Finanza fuori dalle acque territoriali con conseguente natura della nave, non solo della qualifica di nave militare ma anche da guerra .
Alla luce di queste previsioni dovrebbe escludersi che per essere considerate navi militari da guerra, le navi della Guardia di Finanza, dentro o fuori le acque territoriali debbano essere coinvolte in operazioni “belliche”.
In questa prospettiva, infatti, non opera il codice della navigazione
2. Il reato di resistenza.
Quanto alla violazione dell’art. 337 cp, va ricordato quanto fissato dalla Cassazione per la quale il reato di resistenza nella volontà di opporsi al compimento di un atto di ufficio ha non certo nello scopo di ricondurre l’esercizio funzionale nei limiti della legalità (09/31544).
Il reato è dunque integrato da atti di violenza o minaccia che si traducono, in un atteggiamento anche implicito purchè percepibile che impedisca, intralci, valga a compromettere, anche solo parzialmente e temporaneamente la regolarità del compimento dell’atto d’ufficio o di servizio indipendentemente dall’esito della condotta e dell’effettivo verificarsi dell’impedimento (13/96743 e 13/39227)
Nel verificare in concreto le modalità del comportamento del comandante, per quanto ridimensionato dalla motivazione, sotto il profilo fattuale e dell’elemento soggettivo, il gip non è in grado di escludere che “l’urto” della nave costituisca reato.
Pertanto, ciò che lascia perplessi è l’estensione anche a questo fatto della scriminante dell’art. 51 cp.
Se, invero, si può considerare scriminato un comportamento atto a tutelare i diritti umani attraverso atti di disobbedienza, dovrebbe ritenersi che non ogni atto teso a questo fine possa essere ricondotto nell’esercizio di un diritto, soprattutto quando quella tutela che con la propria attività si è inteso assicurare ha perseguito il suo fine sostanziale e non può essere più pregiudicato
Come affermato dalla Cassazione, ai fini dell’applicazione della causa di giustificazione di cui all’art. 51 cp è necessario che l’attività posta in essere costituisca una corretta estrinsecazione delle facoltà inerenti il diritto che viene in considerazione nel senso che il fatto penalmente rilevante sotto il profilo formale sia stato effettivamente determinato dal legittimo esercizio di un diritto da parte dell’agente (Cass. VI 11/14540).
Ora, quell’atto nei confronti della motovedetta appare del tutto sproporzionato al fine perseguito, configurandosi come attività che ne travalica la copertura della tutela dei diritti degli immigrati, anche in considerazione del fatto, al di là della violenza seppur ricondotta a un “urto”, che metteva a rischio l’incolumità degli agenti della Guardia di Finanza che stavano svolgendo una legittima attività.
3. Il confronto delle opinioni resta comunque aperto.
Da un lato, verosimilmente, la procura ricorrerà in cassazione sulla mancata convalida, mentre sembrano aver perduto attualità le esigenze cautelari, già ridimensionate dalla procura, sottese al provvedimento coercitivo non disposto dal gip.
In ogni caso restando le iscrizioni per i due reati che dovranno essere definiti o con la richiesta di archiviazione o a seguito dell’esercizio dell’azione penale.
di Franco De Stefano, consigliere della Corte suprema di cassazione
Sommario: 1. Premessa. - 2. Gli interventi sul processo civile. - 3. Gli interventi sulla durata dei processi civile e penale. - 4. Gli interventi sulla riforma ordinamentale della Magistratura. - 5. Gli interventi sugli incarichi elettivi e governativi dei Magistrati. - 6. Gli interventi sulla revisione delle circoscrizioni giudiziarie e sulle piante organiche di magistratura. - 7. Gli interventi sul Consiglio Superiore della Magistratura
1. Premessa.
Circola da giorni il testo del disegno di legge del Guardasigilli, di delega al Governo per l’emanazione di provvedimenti legislativi “per l’efficienza del processo civile e del processo penale, per la riforma ordinamentale della magistratura, per il contenimento della durata del processo, in materia di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati in occasione di elezioni politiche e amministrative nonché di assunzione di incarichi di Governo, per la revisione delle circoscrizioni giudiziarie”.
Il testo, assai complesso e articolato su di una pluralità di oggetti di separati provvedimenti delegati, coinvolge in tal modo tutti gli aspetti della giurisdizione ordinaria, ma soprattutto impatta in modo decisivo sull’assetto della magistratura ordinaria italiana: ed ha senza dubbio il pregio di una visione della Giustizia a suo modo coerente, innovativa ed ambiziosamente sistematica, di rango sostanzialmente costituzionale almeno sull’assetto di quel Potere dello Stato che continua ad essere definita la Magistratura.
Da più parti si è già sottolineato che la complessità del testo normativo – oltre a non agevolare la fluidità dei lavori parlamentari – imporrà un lavoro di gran lena per l’ampiezza delle implicazioni e degli approfondimenti necessari; ma pare possibile ed opportuno fin d’ora, con riserva appunto di quel paziente e diffuso lavoro di studio (ed escluso, per la specifica esperienza professionale di chi scrive, solo il capo relativo al diritto penale e processuale penale) lasciato agli esperti, evidenziare sia alcuni apprezzamenti che alcuni interrogativi seri e, per più aspetti, di autentica preoccupazione sull’evoluzione del sistema e sulla coerenza e tenuta della sua attuale architettura costituzionale.
Le riforme dei processi civili e penali sono state frequenti negli ultimi venti anni e significativi risultati hanno dato anche secondo fonti internazionali indipendenti ed autorevoli, quali la CEPEJ (Commissione per l’efficienza della giustizia) istituita presso il Consiglio d’Europa e che dipingono il sistema italiano come tra i più produttivi in rapporto alle pendenze[1] ed al contempo tra i più soffocati e costosi tra i 45 Paesi esaminati.
Eppure, il complessivo tessuto normativo risultante non è percepito come in grado di incidere apprezzabilmente sull’esponenziale aumento di domanda di giustizia civile (ed amministrativa, ma questo settore è stato accuratamente accantonato) e sulle sempre più raffinate esigenze di quella penale, da tempo afflitta da un’inefficienza strutturale e vittima del difficile rapporto con l’amministrazione e la politica.
Ma è nel campo dell’ordinamento della Magistratura che l’opinione pubblica e quella degli specialisti del settore paiono convergere nel rilevare importanti disfunzioni della riforma ordinamentale varata nei primi anni del millennio e culminata nella batteria di decreti delegati del 2006, appena ritoccati nell’effimera quindicesima Legislatura: disfunzioni in termini non solo di cristallizzazione, ma di vera e propria degenerazione di meccanismi e di gruppi di potere alternativi o estranei al concetto di ordinato funzionamento delle tradizionali istituzioni della democrazia rappresentativa; tanto da esigere a gran voce cambiamenti epocali, che potrebbero divenire singolari cantieri sperimentali per una generalizzata mutazione dell’assetto stesso di quelle istituzioni verso orizzonti mai prima d’ora sperimentati in epoca moderna.
2. Gli interventi sul processo civile.
La prima, importante misura sul processo civile sta nella sua sommarizzazione, a cominciare dall’adozione della forma del ricorso per l’atto introduttivo: ma sono scelte ampiamente criticabili[2], perché implicano l’abbandono, in prevalenza avversato dalla dottrina processualcivilistica, del sistema di prefigurazione certa ed affidabile di poteri di parti e giudice che sta alla base del diritto processuale, accompagnato dalla devoluzione al giudice della pressoché esclusiva responsabilità nell’organizzazione del singolo processo.
L’esperienza ha dimostrato, invece, che il ricorso come mezzo di introduzione del giudizio può andar bene, comunque a condizione che i termini per quello previsti siano poi applicati realmente, per determinate tipologie di controversie e per riti connotati da una particolare celerità e non già in via generalizzata; mentre l’apparente rigidità nella scansione dei tempi della lite ordinaria può bene superarsi rendendo facoltativi – nel senso quanto meno della loro rinunciabilità in caso di accordo tra le parti o di gravi motivi – i termini più stringenti; e, del resto, è noto che il collo di bottiglia non sta nei tempi di istruzione, quanto in quelli di definizione e decisione, che rimangono uguali a carico complessivo immutato e per fronteggiare i quali sarà forte e prevedibile la tentazione dei giudici di rimodulare comunque i tempi di preparazione, anche con la minaccia di sanzioni disciplinari per la violazione dei tempi massimi di fase o grado, di cui si dirà.
La rimodulazione dei sistemi di risoluzione alternativa delle controversie si muove, sia pure escludendone ampi settori ma al contempo complicandone ed ampliandone modalità procedurali a rischio di moltiplicazione di cause di nullità o altri impedimenti, nel solco delle riforme degli ultimi anni, contro le quali si sono, evidentemente invano, levate le prevalenti voci critiche degli operatori, che sottolineano come nulla che sia imposto possa sortire un effetto diverso da quello della semplice occasione dilatoria o, peggio, dissuasiva per la parte che abbia davvero ragione: invece, un sistema alternativo che funzionasse realmente non avrebbe bisogno di un’obbligatorietà imposta dall’alto e tanto meno dell’ampliamento di queste condizioni preliminari a vario titolo incidenti sulla procedibilità, sorrette quindi dal retropensiero di una loro funzione di impedimento ad una pronuncia di merito.
Il discorso coinvolge necessariamente le ragioni dell’atavica insufficienza della risposta di giustizia civile ed è quindi fuori luogo approfondirlo in questa sede: ma c’è da chiedersi se la via dell’incentivazione alla soluzione alternativa non possa essere perseguita con un’attenta opera di medio termine sul recupero culturale della sua validità e, nelle more, con l’utilizzo di strumenti processuali già esistenti, che valorizzino, anche in base ai principi generali desunti dall’art. 2 Cost. (e codificati, in materia di danno extracontrattuale, dalle Sezioni Unite della Cassazione[3]), se la non necessaria piena tutelabilità dei diritti bagatellari (purché non involgano comunque diritti fondamentali tutelati dalla nostra Carta costituzionale), almeno la sanzione effettiva delle condotte abusive, ad esempio ai sensi del comma terzo dell’art. 96 cod. proc. civ.
Opportune devono dirsi, invece e tra l’altro, per il primo grado, le rimodulazioni dei casi in cui il tribunale giudica in composizione monocratica e della fase decisoria in tutti e due i casi, nonché, per il grado di appello, l’abolizione della tormentata novella del 2012 sulla definizione sommaria per insussistenza di ragionevole probabilità di accoglimento; e meritoria va ritenuta la previsione di obbligatorietà della generalizzata modalità telematica dello svolgimento dei processi e del pagamento dei contributi unificati, anche con modalità tecniche innovative.
Importante segnale, anche culturale, è pure la codificazione del principio di chiarezza e sinteticità degli atti di parte e del giudice e con previsione di sanzioni adeguate, ad imitazione del processo amministrativo.
Complessivamente opportune paiono pure le innovazioni previste (art. 8) per il sistema delle notificazioni, disegnate come sempre più incentrate su modalità telematiche e che imporranno nuovi oneri anche ai destinatari, ma pur sempre con modalità adeguatamente flessibili: e nell’auspicio di un’interpretazione che non si risolva in un aggravio ingiustificato per l’utente della Giustizia, semmai con l’auspicio di prevedere adeguate attività di formazione per tutto il personale di questa che vi fosse coinvolto.
Le innovazioni in materia di giudizi di divisione e di processi di espropriazione immobiliare, da lungo tempo titolari della palma di più duraturi e farraginosi procedimenti civili, mirano ad una accentuata degiurisdizionalizzazione.
Per il primo, l’introduzione di una fase di mediazione dinanzi ad un notaio o ad un avvocato normalmente delegabili per la vendita dei beni pignorati (è evidente l’esclusione del dottore commercialista, plausibilmente perché ritenuto, non si sa quanto a ragione, privo delle competenze necessarie) e conclusa da una relazione preliminare in caso di non raggiungimento di accordi tra gli interessati è accompagnata da una rimodulazione, in chiave di semplificazione, del giudizio successivo (e previsione di un reclamo camerale contro i provvedimenti del delegato); in questo caso, peraltro, non sono attivati specifici elementi di incentivazione delle parti ad avvalersi dell’uno e dell’altro strumento.
Per il secondo, un istituto simile alla vente à l’amiable sur autorisation judiciaire (prevista ora dagli artt. 2202 e 2203 del codice civile francese e dagli artt. 53-58 del decreto 2006-936 del 27 luglio 2006, dagli artt. 322-3 e 322-4 del codice delle esecuzioni civili e dagli artt. 221-3 e 322-1 dell’ordinanza n. 2011/1895 del 19 dicembre 2011)[4], in cui la degiurisdizionalizzazione, finora operata in favore di ausiliari del giudice o talvolta dello stesso creditore (si pensi al c.d. patto marciano), è operata stavolta in favore del debitore stesso ed alla sua domanda in tal senso, con la cautela di rimettere al giudice di negare, in caso di opposizione anche di un solo creditore, la relativa autorizzazione ove ritenga probabile che la vendita con modalità competitive non consentirebbe di ricavare un importo maggiore e prevedendo che solo in tal caso sia impugnabile il relativo provvedimento; ma viene da chiedersi anche in questo caso come possa prevedersi la proficuità del trapianto nel nostro humus culturale e giuridico di un istituto tipico di un ordinamento dove il debitore ha – invece – immanente coscienza della doverosità del proprio adempimento e non anche la pervicace volontà, di recente assecondata da qualche riforma legislativa, di fare prevalere le proprie personali esigenze sulle superiori necessità di funzionamento dell’ordinamento a tutela delle posizioni creditorie solennemente riconosciute nel titolo esecutivo.
Non inopportuna, infine, pare l’introduzione della sanzione delle violazione dei doveri di collaborazione delle parti, che potranno essere sanzionati pure con la condanna al pagamento di una somma alla cassa delle ammende in caso di responsabilità aggravata e con conseguenze processuali specifiche in caso di rifiuto di consentire l’ispezione; e pur sempre nell’auspicio che lo strumento trovi applicazione concreta e conquisti così un’effettiva efficacia deflattiva o dissuasiva dall’abuso del processo.
3. Gli interventi sulla durata dei processi civile e penale.
Sulla durata dei processi l’intervento (art. 31) è, se non assolutamente di facciata per il sistema di pesi e contrappesi alla sanzione inflitta, meramente punitivo nei confronti della Magistratura, sulla quale ancora una volta si scarica ogni peso e responsabilità delle disfunzioni del sistema, prevedendo la responsabilità disciplinare in ipotesi di mancato rispetto di termini finali di celebrazione dei processi, sia pure in caso di negligenza inescusabile, poi esclusa per condizioni obiettive già adeguatamente considerate dalla giurisprudenza disciplinare.
Fissare l’obiettivo senza farsi carico degli strumenti è semplicemente individuare un capro espiatorio: ma su questo tutti i magistrati, anche associati, hanno sempre con chiarezza preteso una adeguamento delle risorse e respinto ogni contraria mistificazione, anche quando un Ministro della Giustizia (tra i più longevi della Repubblica) demagogicamente e sarcasticamente si chiedeva come potesse non essere colpa dei giocatori se un campionato si perdeva, senza chiedersi poi se quelli potessero rispondere di essere mandati in campo senza risorse e strumenti, a partire dalle scarpette e senza nessuno che li allenasse o li sostenesse, contro squadre di categoria indicibilmente superiore.
Del resto, già l’importazione dell’istituto del calendario del processo (art. 81 bis disp. att. cod. proc. civ.)[5] dall’ordinamento francese ed il suo inasprimento con la previsione della sanzionabilità delle sue violazioni ha dimostrato il carattere velleitario – da grida manzoniana – delle imposizioni dall’alto di obiettivi talmente generici da risultare irrealizzabili di per sé: nella realtà d’Oltralpe il calendario è uno strumento di lavoro condiviso, a carico di lavoro immensamente più basso, a regole processuali rigorosamente osservate e soprattutto in un ambiente in cui la domanda di giustizia trova la sua regolazione adeguata prima ed al di fuori della aule di Giustizia, per la cultura innata – e non artificiosamente indotta da improbabili sanzioni o lacciuoli procedurali – della composizione stragiudiziale e dell’impossibile giustiziabilità di ogni pretesa, ma pure della limitatezza ed importanza della funzione giudiziaria; tutte condizioni evidentemente non replicabili, se non altro con immediatezza, nell’habitat giudiziario italiano.
4. Gli interventi sulla riforma ordinamentale della Magistratura.
Qualche luce, ma molte ombre, nel riordino dell’assetto ordinamentale (art. 24 e seguenti): spiace che una così incisiva riforma risulti adottata sull’onda dei recenti e gravi fatti di cronaca ed animata, da un lato, da una marcata diffidenza verso il Consiglio e le sue prerogative nella scelta della dirigenza (sul presupposto che quello avrebbe in questi anni dato cattiva prova nell’esercizio della discrezionalità), dall’altro dalla convinzione che le norme ordinamentali attuali, che consentono una direzione partecipata e collegiale dell’organizzazione degli uffici giudiziari, hanno favorito in realtà solo la “carriera” dei magistrati e non sono funzionali a rendere un servizio qualitativamente e quantitativamente adeguato alla complessità della giurisdizione[6].
Se è vero che occorre farsi carico dell’eccezionalità degli eventi – beninteso, se definitivamente accertati - e della loro portata dirompente, per il sistema dell’autogoverno della Magistratura[7], tuttavia il rimedio, anche in questo caso, equivale, se si concede l’espressione, a buttar via il bambino con l’acqua sporca: incapaci o indifferenti rispetto a governare o prevenire le disfunzioni del meccanismo, lo si sopprime.
Alcuni degli strumenti proposti sono in teoria condivisibili: a cominciare dai procedimenti per le nomine degli uffici direttivi, questi sopravvissuti all’azzeramento, ipotizzato come panacea, degli incarichi semidirettivi.
Se la procedimentalizzazione delle nomine ai posti direttivi è opportuna, del tutto incongrui rispetto ai risultati sono l’obbligatorietà dell’audizione non soltanto dell’interessato, ma pure dei rappresentanti di avvocatura, magistrati e funzionari di cancelleria dell’ufficio di provenienza, quasi un’acquisizione diretta di fonti di conoscenza, che svaluta sistematicamente ed immotivatamente, appesantendo in maniera generalizzata qualunque concorso ed anche i più semplici, i pur già numerosi elementi informativi scritti già a disposizione del Consiglio Superiore, provenienti dal sistema dell’autogoverno, evidentemente penalizzati; e finisce col trasformare in un concorso per titoli ed esami quello che dovrebbe rimanere pur sempre soltanto un concorso per titoli, mentre un simile procedimento rafforzato potrebbe essere prefissato in base a criteri predeterminati nello stesso bando o con provvedimenti più generali.
Ancora, a certe condizioni ed al fine di limitare la discrezionalità, talvolta davvero eccessiva o manifestatasi in scelte assai opinabili, è opportuno il ripristino delle fasce di anzianità, benché possa al riguardo pure auspicarsi che in casi assolutamente eccezionali (e rimessi ad una valutazione a maggioranza ancor più qualificata del plenum) anche a tale prioritario criterio possa derogarsi; è assolutamente opportuna la codificazione di puntuali parametri di valutazione, generali e specifici, con l’adozione di elementi o indici di ponderazione adeguati e tali da escludere forbici troppo ampie di oscillazione; se del caso, andrebbe meditato adeguatamente il peso da attribuire ai periodi esercitati fuori del ruolo organico, ad evitare di penalizzare il magistrato che abbia esercitato per la maggior parte od anche soltanto le funzioni giudiziarie; ancora, se è positiva la rigidità nel conferimento di nuovi incarichi dopo la prima conferma, escluderebbe più garantisticamente margini di aleatorietà incompatibili con il suo obiettivo il suo ancoraggio a parametri temporali certi, quale la maturazione del quadriennio e non la delibera di conferma; infine, positiva è la fissazione del termine minimo di permanenza nell’ufficio direttivo prima del collocamento a riposo (semmai prevenendo con adeguata disciplina transitoria il ripetersi di improprie selezioni ad excludendum in rapporto pure alle legittime aspettative dei magistrati in servizio, già verificatesi in un recentissimo passato).
Assolutamente problematica è invece la generalizzata soppressione della stessa figura dell’incarico semidirettivo e la sua sostituzione con quello di coordinatore, espressione di un improprio potere gerarchico interno al singolo ufficio giudiziario che non solo stride con la pari dignità nell’esercizio delle funzioni, ma soprattutto ridisegna la peculiare struttura di quelle direttive in maniera verticistica; resta escluso l’apporto di realtà esterne all’ufficio e per di più si introduce una sorta di assemblearizzazione interna ai magistrati dello stesso ufficio, con previsione del carattere di obbligatorietà del loro parere.
Eppure, l’eliminazione degli apporti dei presidenti di sezione o di altre figure consimili significa rinunciare ad un importante assetto gestionale dell’ufficio plurale e partecipato, al contempo momento di circolazione di idee nel delicato settore dell’organizzazione e delle altre peculiari funzioni di sostegno, coordinamento ed orientamento nell’esercizio della giurisdizione (per i giudicanti) o dell’azione penale (per i requirenti).
Non vi è spazio per ulteriori approfondimenti, ma, ammesso e non concesso che sia stato davvero il cattivo uso della discrezionalità nelle nomine dei semidirettivi a rovinare il sistema, potrebbe essere più funzionale limitare quella discrezionalità, anziché sopprimerne l’oggetto; e, a questo riguardo, potrebbe essere utile piuttosto introdurre stringenti criteri di selezione, come si è fatto per i direttivi in modo complessivamente accettabile, ma, al contempo, diradare il numero complessivo di quegli stessi incarichi, mantenendo e disciplinando la tabellarizzazione degli incarichi di coordinamento in proporzione numerica ai primi: insomma, mantenere i semidirettivi, in numero inferiore, ma a loro volta con l’ausilio di coordinatori tabellarmente previsti.
Quanto alla consultazione dei magistrati dell’ufficio, essi fruiscono già della possibilità di somministrare utili indicazioni agli organi dell’autogoverno, senza dovere assumere il ruolo degli amministrati che eleggono i loro amministratori o scelgono le modalità di concreta organizzazione della sezione o del dipartimento, magari tra programmi alternativi, a seconda del maggior gradimento delle soluzioni prefigurate (basti pensare alle concrete modalità di distribuzione degli affari o di rilievo dei fatti di rilevanza disciplinare, ai carichi sostenibili e così via).
Quanto all’accesso in Cassazione ed alla relativa Procura generale, la prova talvolta opaca dello snodo consiliare del sistema di selezione, con svalutazione irrazionale della valutazione demandata all’apposito organismo tecnico, esige effettivamente anche in questo caso una codificazione rigida e rigorosa di criteri e parametri, rendendo decisivo il peso delle attitudini specifiche funzionali all’attività di nomofilachia e quindi di particolare capacità nell’interpretazione di norme, in uno però ad un adeguato apprezzamento del valore di esperienze extraprofessionali.
Assolutamente ed ingiustificatamente punitiva per il magistrato, se non pure lesiva della sua dignità ed idonea a condizionarne indirettamente la soggezione soltanto alla legge per l’incidenza negativa sul quotidiano espletamento della funzione giurisdizionale, è l’estensione (art. 25 del disegno di legge) del sistema di tutela e di gestione delle segnalazioni ex art. 54-bis d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, generalizzata non soltanto all’iniziativa dei Consigli degli Ordini, ma a qualunque diretto interessato e soprattutto anche per fatti non di rilievo disciplinare: il che, vale a dire, nel processo civile ad almeno una delle più parti che lo provocano e, in quello penale, a ciascun imputato, visto il malcostume italiano della generalizzata prospettazione quale illecito o quale violazione in proprio danno ed a causa di imparzialità ed indipendenza o correttezza nell’espletamento di obblighi ed “oneri inerenti alla funzione” (enigmatica espressione, nella quale poter veicolare qualunque, anche la più infondata e temeraria, doglianza, come già oggi l’esperienza della legge 117/88, di recente ampliata, insegna) di tutti i casi in cui non si riesca vittoriosi (nel processo civile) o assolti (in quello penale).
Si parte da un deciso errore di prospettiva, perché si equipara immotivatamente, anche quanto al presupposto delle sue dimensioni, il rischio di corruzione o cattivo funzionamento della macchina amministrativa a possibili distorsioni di quella giudiziaria e presuppone, altrettanto immotivatamente, l’insufficienza di un sistema di garanzie endoprocessuali e di ampia responsabilità disciplinare e civile, già tra i più sofisticati e complessi d’Europa, a garantire da abusi o scorrettezze un’intera e generalizzata categoria di dipendenti dello Stato già di per sé vincolati da una deontologia severa.
Se l’ampliamento della responsabilità disciplinare soprattutto dei direttivi e dei successori dei semidirettivi (cioè i coordinatori) e dei casi di collocamento d’ufficio in aspettativa per infermità può complessivamente condividersi, è invece inquietante l’apertura (art. 27) nel delicato procedimento di valutazione di professionalità del singolo magistrati ad elementi spuri: da un lato, la facoltà di assistere alle relative discussioni e delibere riconosciuta a quei componenti dei consigli giudiziari o direttivo che non potrebbero partecipare alla votazione sul punto, per l’ovvia capacità di condizionamento che tanto implicherebbe; dall’altro lato, la sottoposizione del magistrato ad una valutazione di attitudine professionale psicologica affidata ad un professionista di non meglio specificata “comprovata professionalità”, che riecheggia oltraggiose denigrazioni di qualche anno fa da parte di alte cariche istituzionali nei confronti dei magistrati in generale e che non risulta sia in astratto o in concreto applicato nella selezione di altre figure istituzionali titolari di un pubblico Potere dello Stato, sempre a non volere considerare le ricadute nefaste in tema di credibilità e tenuta complessiva del sistema di reclutamento e dello stesso autogoverno o i rischi di strumentalizzazione od applicazione distorta (non essendo stato un caso che, soprattutto nei regimi totalitari, i dissidenti o le persone comunque scomode fossero allontanate od emarginate sulla dichiarata loro inidoneità mentale).
Va poi contro la linea di tendenza consolidata negli ultimi quarant’anni l’introduzione di una incidenza sulla progressione economica di carriera non solo dei fatti di rilevanza disciplinari, ma anche degli esiti negativi delle valutazioni di professionalità: cosa che, sia pure allentando un automatismo talvolta cieco, scompaginerebbe il sistema che vuole tradizionalmente insensibile, a tutela dell’indipendenza e della terzietà e dei corrispondenti principi di rango costituzionale, il fattore economico dal concreto modo o dalla specifica idoneità a svolgere le funzioni, introducendo per via indiretta una sanzione pecuniaria all’uno o all’altra, in grado di condizionarli entrambi.
Solo nel settore dell’accesso alla Magistratura, indubbiamente più tecnico, il disegno di legge delega (art. 28) ha indubbi punti di forza, in gran parte condivisibili: dall’abolizione del periodo di decantazione tra laurea (almeno di quattro anni) e possibilità di partecipazione al concorso (e quindi con la possibilità di accedere immediatamente dopo la laurea al concorso), all’anticipazione dell’inizio dei tirocini preparatori e delle scuole di specializzazione (con l’accorta puntualizzazione della concentrazione di queste sulle materie dei concorsi), alla rimodulazione delle prove di esame (con l’eliminazione del tema di diritto amministrativo, attesa la maggiore rilevanza della materia per il diverso successivo concorso di accesso alla relativa magistratura speciale, ma pure con la riduzione delle materie per l’orale) ed alle modalità di svolgimento delle prove (impiego di postazioni informatiche con accesso a bene identificate banche dati esclusivamente normative), fino alla riduzione del periodo di legittimazione per i magistrati di prima assegnazione.
5. Gli interventi sugli incarichi elettivi e governativi dei Magistrati.
Molte più luci che ombre presenta invece la previsione del capo V del disegno di legge delega, in materia di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati in occasione di elezioni politiche e amministrative nonché di assunzione di incarichi di governo: qui si viene incontro ad esigenze di chiarezza nella distinzione delle due funzioni che sono obiettive e che solo vanno adeguatamente calibrate per evitare che, sull’altare della credibilità della Magistratura, siano compressi oltremodo i diritti fondamentali spettanti al magistrato in quanto cittadino.
Certo, la soluzione di una tendenziale incompatibilità della scelta di avvalersi dei propri diritti politici nell’elettorato passivo in alcune cariche elettive o di governo[8], sanzionata col collocamento fuori del ruolo giudiziario, definitivo al momento del rientro o quinquennale in caso di mancata elezione, è drastica; ma, accompagnata da una adeguata normativa transitoria, potrebbe rappresentare quanto meno la base per una discussione franca e costruttiva.
Allo stesso modo può costituire un accettabile punto di partenza la previsione, per il caso di incarichi elettivi o di governo diversi, la previsione di un rientro condizionato da parametri soprattutto geografici e, per quelli apicali presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri o i Ministeri, precluso ad incarichi direttivi per un sia pur breve periodo.
6. Gli interventi sulla revisione delle circoscrizioni giudiziarie e sulle piante organiche di magistratura.
Solo un cenno ad una riforma delle circoscrizioni giudiziarie che si vorrebbe affidata a criteri e principi direttiva di vaghezza tale da rasentare l’indeterminatezza (art. 35 del disegno di legge), a fronte del ben più ampio respiro della precedente legge 14 settembre 2011, n. 148[9], nonché ad una più razionale sistemazione di un organico distrettuale della magistratura (art. 50 del disegno di legge delega), volta condivisibilmente a far fronte alle esigenze indotte da scoperture od altre situazioni di particolare sofferenza in termini di rendimento, mediante una procedimentalizzazione che prevede però la singolare obbligatorietà del parere favorevole del Ministro, incongruamente in grado di condizionare il potere costituzionale del Consiglio in materia.
7. Gli interventi sul Consiglio Superiore della Magistratura.
Dirompenti e rivoluzionari sono gli interventi progettati sull’elezione e sulla struttura stessa del Consiglio Superiore della Magistratura[10], previsti nel titolo II del disegno di legge.
Non si pensa tanto al ritocco del numero dei componenti, quanto al quale si torna all’antico, di trenta componenti, in controtendenza alle contemporanee riduzioni per altri organi anche costituzionali; e non si pensa neppure alla riforma della sezione disciplinare, che suscita dubbi di conformità alla Costituzione perché i Collegi in essa formati non garantirebbero la presenza delle differenti categorie di magistrati rappresentati in Consiglio, mentre risultati analoghi, ferma la condivisibilità dell’esclusione dei suoi componenti dall’appartenenza alle altre sezioni, potrebbero bene essere conseguiti con una previsione di temporaneità (biennale o anche solo annuale, sul quadriennio totale di durata del Consiglio) mediante effettiva rotazione.
Il vero punto centrale, probabilmente purtroppo innescato dalle vicende di cronaca giudiziaria di questi giorni, i cui sviluppi – è bene ricordarlo – sono tuttora sub iudice – è l’introduzione del sorteggio quale modalità di elezione[11].
È, per intendersi, una specie di sorteggio di seconda (o perfino terza, con un complicato sistema per garantire la rappresentanza delle diverse categorie di magistrati) battuta, visto che interviene indirettamente e solo in un momento successivo alla tradizionale elezione col metodo dell’espressione di preferenza, per selezionare, tra i potenziali eletti, quelli che poi risulteranno gli effettivi componenti dell’organo.
Il sistema è ibrido o combinato[12], ma, sia pure temperando il dirompente effetto del sorteggio indifferenziato, la composizione finale dell’organo di rilevanza costituzionale, quale pur sempre è il Consiglio Superiore della Magistratura, resta affidata, in buona sostanza, al caso e tutta la sua futura attività affidata al capriccio di questa genetica imprevedibilità originaria: ed ancora una volta sul presupposto, umiliante e di dubbia costituzionalità, che i Magistrati non sappiano eleggere propri rappresentanti e che tutti possono svolgere le funzioni di rappresentanza, in quanto tutti caratterizzati da identiche attitudini ed identico grado di attitudine e inettitudine, di impermeabilità o permeabilità a quelle logiche di potere la cui finale degenerazione è deflagrata nelle scorse settimane; se uno vale esattamente uno, è indifferente allora che a rappresentare ci sia uno piuttosto che un altro.
Ora, eleggere significa - tecnicamente - scegliere tra diversi (etimologicamente, e-ligo significa “colgo da”) e, quindi, si può bene scegliere con uno strumento del tutto casuale, come il sorteggio; ma è innegabile che, nella concezione delle democrazie moderne ed in rapporto con le dimensioni sempre più di massa del corpo elettorale, è sempre stata connaturata, fin dal secolo dei lumi, l’idea della delega a soggetti comunque scelti in base all’apprezzamento tra più alternative tra loro concorrenti e quindi l’idea della corrispondenza e della coerenza degli eletti con la volontà collettiva, da formarsi in base ai rapporti di forza tra le alternative offertesi agli elettori.
La diversa impostazione delle repubbliche delle città-stato, fossero quelle le greche dell’era classica (ma comunque fino al quarto secolo avanti Cristo, viste le loro degenerazioni già a partire dal declino, significativamente, proprio della non longeva democrazia ateniese periclea) o di quelle di alcune esperienze comunali medioevali, poteva talvolta prevedere il sorteggio, ma pur sempre in presenza di una base di elettori ristretta, tale da favorire uno stretto rapporto tra elettori ed eletti, nonché soprattutto di una tendenziale rotazione di tutte le cariche, spesso numerosissime e di durata contenuta, sicché il sorteggio – che escludeva in linea di massima immediate rielezioni – veniva ad essere soltanto l’individuazione di una turnazione tra tutti gli aventi diritto, in un sistema che le prevedeva piuttosto come munera et onera che come onori e che esigeva quindi un pari concorso di ciascuno alle esigenze della collettività.
Quando di elezione si parla, non solo nel linguaggio corrente ma pure nel senso corrispondente a quello fatto proprio dalla Costituzione vigente con insostituibile riferimento al primo e recepito dal comune sentire, ci si riferisce a sistemi di scelta consapevole dell’eletto, in quanto configurato come proprio rappresentante per similitudine degli intenti e degli obiettivi e quindi delegato a comportarsi secondo i programmi preannunciati e posti a base della selezione, in quanto tale implicante la consapevole proiezione della volontà del votante elettore delegante: scelta consapevole che è quindi di per sé sola esclusa da un sorteggio, dall’esito affidato al caso e non alla volontà di chi deve scegliere.
Il sorteggio presuppone la piena equiparabilità e fungibilità non solo e non tanto delle funzioni da svolgere, quanto soprattutto dell’idoneità di ciascuno degli eleggibili ad espletarle, in modo neutro rispetto alla volontà dell’elettore: e tanto può valere per compiti meramente esecutivi, nei quali sia totalmente esclusa ogni possibilità di scelta o di indirizzo e soprattutto ogni discrezionalità di impostazione o di tendenza; ma è di tutta evidenza che questa piena intercambiabilità viene meno quando si tratta di funzioni di amministrazione in senso ampio, quando non di vero e proprio governo o, a maggior ragione, di autogoverno di un Potere dello Stato disegnato come tale dalla Costituzione.
La sfiducia negli eletti, non importa in base a quale sistema elettorale visto che anche le più recenti riforme – ed anche del Consiglio Superiore della Magistratura – sono poi state ritenute non all’altezza delle aspettative, deriva piuttosto dalla possibile degenerazione del sistema, nel momento in cui le organizzazioni o gruppi, che necessariamente devono essere messi in campo per rendere possibile l’elezione in una democrazia comunque di massa, possono trasmodare da proficui e preziosi veicoli di confronto e convergenza di idee e tensioni ideali a meri centri di gestione ed occupazione di posti di potere: ciò che da molti si dice avere reso evidente la crisi dei partiti tradizionali (almeno fino all’ultima legislatura, in cui singolarmente sono state premiate le espressioni antitetiche di questa tendenza, un movimento dichiaratamente antipolitico ed il più strutturato dei partiti politici di stampo tradizionale).
Il rischio di questa degenerazione può dirsi però proprio di tutte le democrazie rappresentative, dove il potere di lobby o, appunto, gruppi di pressione o potere più o meno legittimi (o, in alcuni altri ordinamenti, perfino istituzionalizzati) può avere il vantaggio di doversi riferire ad una cerchia ristretta di eletti, anziché ad una più ampia, ma pur sempre manipolabile con gli attuali strumenti di comunicazione di massa ed a mano a mano che si diffonde l’insofferenza verso la mediazione di classi intermedie di persone informate correttamente sui fatti da esaminare, di partecipanti diretti alla decisione.
D’altra parte, anche una volta composto l’organo “elettivo” con il sistema del sorteggio, nulla esclude la più o meno spontanea successiva aggregazione, al suo interno ed in forza delle dinamiche di potere proprie di ogni organo collegiale a tutti i livelli, di gruppi di eletti, anche se sorteggiati, con le medesime prerogative e quindi – beninteso, soltanto in teoria – con le stesse tentazioni e con identici rischi di degenerazione di quelli attuali: la differenza è solo che queste degenerazioni potranno essere, oltre che arbitrarie alla pari di quelle odierne, per di più adottate da eletti assolutamente imprevedibili; ed all’ingiustizia si aggiungerà anche l’aleatorietà dell’identità del suo autore.
Insomma, non è la casualità, temperata o meno, dell’individuazione del titolare di un potere che si predica avere come intrinseco questo rischio di degenerazione a garantire da quest’ultima: ma, al contrario, un intervento serio e deciso sull’ampiezza e sulle modalità di gestione di quei poteri, resa dissennatamente indeterminata dalle riforme del 2006.
Piuttosto, allora, si può pensare a sistemi elettorali uninominali su collegi nazionali con ballottaggio e, soprattutto, a quorum deliberativi elevatissimi su criteri e parametri effettivamente rigidi, semmai soprattutto nei casi delicati come le nomine (fasce di anzianità ristrette, tranne eccezioni assolute; punteggi di calcolo delle attitudini che limitino drasticamente la discrezionalità di valutazione e che non premino l’attività extragiudiziaria dell’aspirante; e così via), tali da attenuare i rischi di consociativismo e da prevenire la degenerazione dell’inevitabile tendenza all’associazionismo tra coloro che condividono criteri di valutazione e visioni di politica giudiziaria.
Solo in tal modo non si mortifica la democrazia rappresentativa come sperimentata negli ultimi secoli e non la si riduce ad un gioco casuale.
E, se proprio occorresse pagare un tributo al sorteggio, quale irrinunciabile panacea contro la degenerazione della rappresentanza e in quanto tale bandiera di importanti forze politiche odierne, allora lo si potrebbe tollerare, ma a patto di averlo come extrema ratio nei casi in cui i quorum deliberativi particolarmente qualificati non fossero raggiunti: un sorteggio allora non a monte, per stabilire chi dovrà scegliere, ma a valle, per dirimere insolubili contrasti su chi o cosa deve essere scelto, individuando una rosa di alternative (e con adeguati correttivi, come la necessità di una minima condivisione di ognuna, così da evitare premi eccessivi, sia pure attraverso l’alea del sorteggio, a posizioni assolutamente minoritarie per irragionevolezza o finalità di mero disturbo). Non nel momento genetico dell’attività del Consiglio, ma in quello funzionale.
Ma, già a partire da tutte le altre scelte, come quelle di organizzazione e di normazione secondaria, il sorteggio è invece sic et simpliciter l’antitesi del Consiglio come voluto dalla Costituzione, perché su quelle l’autogoverno non può essere affidato al coagulo di volontà casuali, ma a veri e propri disegni o progetti, a loro volta necessariamente frutto di un confronto tra soggetti che siano espressione di una consapevole indicazione della base elettorale.
Beninteso, anche la Costituzione si cambia: ma è bene essere consapevoli ed onesti allora quanto al prezzo ed alle conseguenze delle scelte in tal senso; e sia l’uno che le altre rischiano di essere davvero eversivi del concetto stesso di democrazia rappresentativa.
[1] Si veda il testo originale all’URL https://rm.coe.int/rapport-avec-couv-18-09-2018-en/16808def9c. Per un primo commento, v. M. Castellaneta, Cepej: pubblicato il rapporto sulla valutazione dei sistemi giudiziari, all’URL
http://www.marinacastellaneta.it/blog/cepej-pubblicato-il-rapporto-sulla-valutazione-dei-sistemi-giudiziari-cepej-released-the-report-on-evaluation-of-judicial-systems.html (ultimo accesso 17/07/2019)
[2] In dottrina, tra le molte voci, v.: A. Proto Pisani, Contro l’inutile sommarizzazione del processo civile, in Foro it., 2008, 44 ss.; S. Paparo e AA., Intervento di «pronto soccorso» per un processo (... un po’ più ...) civile, in «Foro it.», 2017, V, col. 208; B. Capponi, A prima lettura sulla delega legislativa al governo «per l’efficienza della giustizia civile», in «Riv. trim. dir. proc. civ.», 2014, p. 361; idem, Noterelle forse inattuali, ma di certo un po’ polemiche, su Costituzione e processo civile, in Questione Giustizia, 20/10/2016, all'URL
http://questionegiustizia.it/articolo/noterelle-forse-inattuali_ma-di-certo-un-po-polemiche_su-costituzione-e-processo-civile_19-10-2016.php (ultimo accesso 17/07/2019).
Tra gli avvocati associati, si segnala il deliberato dell’Associazione nazionale forense del 10/03/2019, reperibile all’URL https://www.associazionenazionaleforense.it/deliberato-del-10-marzo-2019-in-tema-di-processo-civile/ (ultimo accesso 17/07/2019).
La sommarizzazione pare accettata come una linea di tendenza da Corte cost. 172/19, ma tanto in una sentenza di rigetto e quindi non vincolante e per di più in un contesto, come la costituzionalità del subprocedimento di accertamento dell’obbligo del terzo dopo le riforme del pignoramento presso terzi del 2013, in cui analogo risultato di conformità a Costituzione può raggiungersi senza impingere in un più generalizzato discorso di auspicabile sommarizzazione: a tale scopo basta sottolineare che si tratta di un subprocedimento incidentale e provvisorio a meri fini esecutivi da parte del giudice dell’esecuzione, cui sempre più vengono attribuiti poteri non già di cognizione, ma di delibazione di situazioni controvertibili ai soli fini dell’emanazione dei provvedimenti propri e tipici del processo esecutivo.
[3] Cass. Sez. U. 11/11/2008, nn. 26972 e seguenti, dette “di San Martino”.
[4] Su cui v. https://www.service-public.fr/particuliers/vosdroits/F1751, al sito predisposto dal Governo francese per la definizione degli istituti anche giudiziari di maggior rilievo. In estrema sintesi, si tratta di una sorta di fase preliminare di ogni procedura di espropriazione immobiliare, nella quale il debitore è comunque autorizzato, senza formalità, a procedere per suo conto alla vendita amichevole entro brevi termini e su proposte già ricevute, da sottoporre alla discrezionale valutazione dei creditori ed in mancanza di accettazione dei quali si fa luogo alla vendita giudiziaria.
[5] Su cui ci si permette un rinvio a F. De Stefano, Sistemi di giustizia civile a confronto: l’esperienza francese, Salerno 2010, p. 27, oppure a F. De Stefano, Gli strumenti di prova e la nuova testimonianza scritta, 2009, p. 96.
[6] Tra i primi commenti, v. E. Maccora, M. Patarnello, La dirigenza descritta dalla proposta di Riforma del Ministro Bonafede, in www.questionegiustizia.it, reperibile all'URL http://www.questionegiustizia.it/articolo/la-dirigenza-descritta-dalla-proposta-di-riforma-del-ministro-bonafede_15-07-2019.php (ultimo accesso 18/07/2019).
[7] N. Rossi, Lo scandalo romano: un bubbone maligno scoppiato in un organismo già infiacchito da mali risalenti, in www.questionegiustizia.it, reperibile all'URL
http://www.questionegiustizia.it/articolo/lo-scandalo-romano-un-bubbone-maligno-scoppiato-in-un-organismo-gia-infiacchito-da-mali-risalenti_18-07-2019.php (ultimo accesso 18/07/2019)
[8] Le più importanti, cioè quelle di parlamentare nazionale o europeo, di componente del Governo, di consigliere regionale o provinciale nelle Province autonome di Trento e Bolzano, di Presidente o assessore nelle giunte delle Regioni o delle Province autonome di Trento e Bolzano, di sindaco in Comuni con più di centomila abitanti.
[9] Sulla quale, per tutti, basti un cenno a F. Auletta, Riforma delle circoscrizioni giudiziarie, in Libro dell’anno del diritto 2014, Treccani, consultabile all’URL http://www.treccani.it/enciclopedia/riforma-delle-circoscrizioni-giudiziarie_(Il-Libro-dell%27anno-del-Diritto)/ (ultima consultazione 17/07/2019).
[10] Per una seria riflessione sul ruolo del C.S.M. nell’assetto costituzionale e sul nesso strettissimo tra tale ruolo e la legge elettorale del Consiglio, v. già G. Silvestri, Consiglio Superiore della magistratura e sistema costituzionale, in Questione Giustizia trimestrale, Fascicolo 4/2017, http://questionegiustizia.it/rivista/2017/4/consiglio-superiore-della-magistratura-e-sistema-costituzionale_489.php (consultabile all’URL http://questionegiustizia.it/rivista/2017/4/consiglio-superiore-della-magistratura-e-sistema-costituzionale_489.php, ultimo accesso 17/07/2019).
[11] Tra i primi commenti, si veda V. Savio, Come eleggere il Csm, analisi e proposte: il sorteggio è un rimedio peggiore del male, in Questione Giustizia, 26/06/2019, consultabile all’URL http://questionegiustizia.it/articolo/come-eleggere-il-csm-analisi-e-proposte-il-sorteggio-e-un-rimedio-peggiore-del-male_26-06-2019.php (ultimo accesso 17/07/2019).
[12] Di vero e proprio ircocervo parla N. Rossi, loc. cit., § 4.
La morte, si sa, segna la fine dell'esperienza umana e al contempo l'inizio di un processo di elaborazione del ricordo; nel caso di un intellettuale, di cristallizzazione dell'idea, di riflessione critica del pensiero; di proclamazione del genio.
E proprio il giorno della morte di Andrea Camilleri, e cioè il 17 luglio, da un lato viene aperta la discussione nelle aule parlamentari sui test psicologici per i magistrati, dall'altro sempre il Parlamento approva il c.d. "Codice Rosso" (provvedimento che, a me pare, ha come idea di fondo quella per cui la violenza di genere è causata anche dall'inerzia dei giudici - nulla di più falso). Due circostanze che, in forme diverse, segnalano la profonda sfiducia - per non dire avversione - del ceto politico dirigente nei confronti della magistratura. Mai, nell'intera storia repubblicana, storia oramai immemore dall'impegno, dai sacrifici, dagli olocausti e dai risultati raggiunti, sociali prima ancora che giuridici, questo corpo - che, per carità, ha da fare e sta facendo autocritica al suo interno - ha subito tanti attacchi, tutti concentrici, tutti rispondenti alla stessa opinione: il magistrato è uomo di potere, tanto da sentirsi al di sopra della legge, tanto da essere antropologicamente diverso dagli altri.
Cosa c'entra Camilleri? C'entra eccome, perché l'intellettuale siciliano fin dall'inizio di questa operazione delegittimante (che parte da lontano) ha alzato la mano e col coraggio che l'ha sempre contraddistinto ha detto la sua: "Quando si dice che i giudici sono antropologicamente matti, diversi, Berlusconi dice una cosa vera. Perché bisogna essere matti come Falcone, Borsellino, Livatino, Chinnici e tanti altri eroi civili, per sacrificare la propria vita in nome della legalità. In questo i giudici sono diversi, per combattere la mafia hanno il coraggio di rischiare la vita. Spero che mi facciano giudice ad honorem, per condividere ed onorare questa diversità dei giudici". Qualcuno forse ricorderà questa sua frase, che all'epoca fece scalpore.
Diciamoci subito, però, che Camilleri non è (stato) dalla parte dei magistrati, cioè di chi istituzionalmente opera nell'interesse generale per garantire l'uguaglianza sostanziale tra i cittadini (la legge, il diritto, sono cose che vengono persino dopo), soltanto perché è (stato) un uomo coltissimo, ché solo gli ignoranti, che non ne arrivano a comprendere la funzione sociale, possono attacare a prescindere la magistratura. Noi, che abbiamo adesso sott'occhio l'intera produzione di Camilleri, definitiva o quasi, per esempio non possiamo dimenticare come lui sia stato anzitutto uno storico, perché le sue prime produzioni letterarie riprendevano cronache siciliane importanti ma dimenticate sotto una coltre di polvere (che in Sicilia è più spessa che altrove); ed il suo primo esperimento letterario, datato 1984, è appunto "La strage dimenticata"; e ad eccezione dei Montalbano - per inciso: ridurre il suo genio alla creazione di questo personaggio, ancorché geniale, sarebbe gravemente offensivo - quasi tutti i suoi gialli sono ambientati in un tempo che non è più, con ricostruzioni meticolose, con rievocazione di fatti che andavano, più che ricordati, riscattati.
Andrea Camilleri, storico prima ancora che scrittore, è (stato) dalla parte dei magistrati anche perché non c'è alcuna differenza di metodo tra l'attività del giudice e quella dello storico; "Il giudice e lo storico" è il titolo di un notissimo saggio di Piero Calamandrei, il quale sottolinea anche la comunanza di una certa onestà intellettuale - che nell'attività del giudice diventa dovere di imparzialità e terzietà. Il giudice - è detto ancora - è in fondo lo storico dell'attualità; e, d'altro verso, Andrea Camilleri negli ultimi mesi ha trattato l'attualità politica come un fatto storico. Il governo "giallo-verde" è in effetti un caso inedito e mai ancora visto nella lunga marcia della nostra democrazia e lui, mantenendone l'onestà intellettuale, per questo trattava da fatto storico alcune decisioni governative, ed in questa luce le commentava. L'avrebbe fatto fino a ieri l'altro, se ne avesse avuto la possibilità.
Visti i tempi che corrono, visto il discredito che può essere contrastato solo con la serietà e l'impegno, e la superiorità intellettuale, è arrivato il momento di dare corso alla sua richiesta, al suo auspicio: cosicché, Andrea Camilleri sia fatto magistrato ad honorem, subito.
Sommario: 1.I rinnovati poteri del Giudice dell’esecuzione. - 2. La sentenza della III sezione della Corte di Cassazione n. 15597 del 2019
1.I rinnovati poteri del Giudice dell’esecuzione.
Negli ultimi anni si è assistito, e si assiste, ad un ripensamento complessivo delle funzioni dell’organo esecutivo; tanto nel processo civile quanto nel processo penale si aprono sempre di più spazi “di cognizione” in fase esecutiva.
L’impianto originario del’42 prevedeva sicuramente un procedimento esecutivo del tutto epurato da questioni cognitive che trovavano spazio solo nelle opposizioni, vere e proprie parentesi cognitorie, deputate a censurare l’an e il quomodo dell’esecuzione.
In tal senso, al fine di assicurare una celere soddisfazione del procedente, si sollevava l’organo giudicante dall’esigenza di effettuare verifiche accertative.
Ci si avvide ben presto, però, che l’esecuzione, sin dalla fase espropriativa, è idonea a originare parentesi interne di cognizione. Basti pensare all’emersione di una prova di integrale pagamento che, secondo la logica originaria, non avrebbe potuto determinare una sopravvenuta estinzione, ma solo essere attivata in sede di opposizione.
In tal senso, le riforme del 2005 hanno attribuito al giudice, in sede esecutiva, questioni sulle liti distributive quali il potere di conoscere dell’esistenza dell’ammontare dei crediti e della sussistenza di cause legittime di prelazione ai fini della formazione del piano di riparto.
Mutano i rapporti tra cognizione ed esecuzione: da una rigida contrapposizione sembra arrivarsi all’idea di una comunicazione necessaria. Da questa affermazione discende, come corollario, la naturale appartenenza di talune questioni cognitive all’esecuzione e l’attribuzione al G.E. del potere di conoscerne e deliberarne, sia pure sommariamente e con valore solo endoesecutivo.
Si ripensa, in tal modo, l’atteggiamento dell’organo giudicante dinanzi all’emersione di una specifica questione di merito che l’esecuzione è idonea ad occasionare e che faccia venir meno il presupposto dell’azione esecutiva.
In tal senso si legge un’ordinanza della Corte di Cassazione 15605/2017 che ha valorizzato il potere/dovere del giudice dell’esecuzione di rilevare d’ufficio le cause sopravvenute di estinzione del processo, anche chiarendo i criteri di coordinamento con la cognizione instaurata a mezzo dell’opposizione. In particolare, la Corte chiarisce come possa dirsi pacifico che, sia pure in difetto di censura della parte esecutata in ordine ai presupposti dell’esecuzione, sia in potere del g.e. accertare l’inefficacia originaria o sopravvenuta del titolo, correlativamente adottando un provvedimento di chiusura in rito.
Si consolida l’idea che il g.e. possa prendere atto dell’esistenza di un difetto di presupposto processuale o condizione dell’azione esecutiva, tale da determinare in rito il rigetto della domanda di tutela esecutiva. In tal senso, si dice, sono conferiti al giudice poteri direttivi e di controllo dall’art. 484 c.p.c.: il giudice dell’esecuzione diventa garante del buon andamento della procedura nel suo complesso.
La conseguenza è l’emersione dell’istituto dell’estinzione atipica del processo esecutivo che, oltre ad inserirsi nella fase di ripensamento dei rapporti tra cognizione ed esecuzione, sorge in via giurisprudenziale quale correttivo alla tipizzazione delle ipotesi per rinuncia agli atti (art. 629 c.p.c.) e inattività delle parti (artt. 630 e 631 cpc).
2. La sentenza della III sezione della Corte di Cassazione n. 15597 del 2019
Nel filone richiamato si inserisce, da ultimo, il recente orientamento della Corte di Cassazione che ha chiarito che al giudice dell’esecuzione compete un compiuto accertamento della titolarità del bene da porre in vendita forzata e non una mera verifica formale inerente alla documentazione del ventennio antecedente al pignoramento, non rilevando tale termine come indice presuntivo di appartenenza del bene per usucapione sufficiente a proseguire il processo esecutivo.
L’affermazione richiede delle specificazioni.
È noto che l’art. 567 co.2 c.p.c., in materia di espropriazione forzata, prevede che il creditore che richiede la vendita deve provvedere, tra l’altro, ad allegare i certificati delle trascrizioni relative all’immobile pignorato effettuate nei venti anni anteriori al pignoramento. È, poi, lo stesso legislatore a prevedere la possibilità di sostituire la documentazione necessaria, con un certificato notarile attestante gli esiti delle visure catastali e dei registri immobiliari. Il mancato adempimento dell’onere di cui sopra nel termine di 60 giorni dal deposito del ricorso, eventualmente prorogato ex art. 567 co.3 c.p.c., determina la dichiarazione di inefficacia del pignoramento dell’immobile in oggetto, la successiva cancellazione del pignoramento e l’estinzione del processo esecutivo in assenza di ulteriori beni pignorati.
Se è chiaro, allora, che al Giudice dell’esecuzione compete, per legge, la verifica della documentazione relativa al ventennio la cui assenza determina ipotesi di estinzione tipizzata del processo esecutivo, maggiormente discusso è se al g.e. competa un accertamento della titolarità dell’immobile da mettere in vendita che sia non solo formale, ma anche sostanziale e vada oltre i termini previsti dal 567 c.p.c.
La questione porta con sé il rilievo del termine ventennale di cui all’art. 567 co.2 c.p.c. e la sua natura di indice presuntivo di appartenenza del bene per usucapione.
Più chiaramente, discusso è se il mero decorso del termine dei vent’anni sia idoneo a permettere la prosecuzione dell’azione per presunzione o se l’acquisto a titolo originario vada accertato e, in tal caso, se la verifica esorbiti dai poteri del giudice dell’esecuzione.
La soluzione non è solo nelle norme che regolano il processo esecutivo, ma è individuata in un congrevio di disposizioni codicistiche tutte individuate dal Supremo Consesso.
In soccorso dell’interprete possono richiamarsi una serie di articoli che delineano chiaramente l’intento legislativo: in primis l’art. 2910 c.c. dispone che il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, può far espropriare beni del debitore o del terzo nei confronti del quale, eccezionalmente, può essere intrapresa la procedura.
Si desume, così, la necessaria titolarità del bene in capo al debitore (salvo l’eccezionale espropriazione nei confronti del terzo).
Il principio può rilevarsi anche dalla disciplina del conflitto tra il terzo proprietario e l’aggiudicatario di un bene non appartenente all’esecutato. Il conflitto va risolto a favore del terzo proprietario, come dimostra il regime dell’evizione nella vendita forzata ex art. 2921 c.c.: il terzo proprietario può rivendicare il bene nei confronti dell’aggiudicatario anche dopo la chiusura del processo esecutivo, senza che possa operare la “sanatoria” dell’art.2929 c.c.
In questo senso, la scelta del legislatore è di qualificare l’acquisto a seguito di vendita forzata come acquisto a titolo derivativo (art. 2919 c.c.)
La stessa Cassazione chiarisce che il legislatore non ha richiesto espressamente che nel processo esecutivo si desse luogo ad un compiuto accertamento della proprietà dell’immobile, ma “l'interpretazione atomistica e al contempo meramente letterale della norma in parola finirebbe per dare a quel significante un significato sostanzialmente irragionevole, riducendolo a un indizio irrazionalmente equivoco. In questa cornice, risulterebbe inoltre irriducibilmente distonico che, nell'evoluzione della normativa inerente alle espropriazioni coattive, mirata a rendere il più affidabile e così appetibile possibile la vendita forzata e quindi il recupero e la stabilità del credito, il legislatore, con la modifica dell'art. 567 c.p.c., abbia invece indebolito lo "standard" di affidabilità e quindi di attrattività del bene trasferito in ottica di mercato, per di più trasferendo ogni rischio sull'acquirente con la sola garanzia per evizione..”
Da tutto quanto detto, la Corte di Cassazione desume, anche in termini logici, che è necessario acquisire documentazione che consenta di risalire all’atto di acquisto anteriore al ventennio in linea con i poteri ordinatori del G.E. in merito alle verifiche preliminari all’accoglimento dell’istanza di vendita, ma non quelli tipizzati dall’art. 567 c.p.c., fermo restando il rilievo meramente endoprocessuale della risultanza, sicché il giudice non accerta la proprietà del bene, con possibilità di proporre evizioni.
Più chiaramente, il giudice dell’esecuzione può addivenire alla sua statuizione anche sulla base di indici formali o presuntivi per limitare, per quanto possibile, il rischio di evizione.
Va così distinta l’ipotesi in cui il creditore non fornisca neppure la certificazione del ventennio, richiamata dal 567 c.p.c., da cui deriva un’ipotesi di estinzione tipica, dall’ipotesi di mancata produzione del primo titolo di acquisto ultraventennale che darà luogo ad una chiusura anticipata del processo esecutivo per fatto del creditore (non troverà applicazione l’art. 2945 co. 3 c.p.c.).
In definitiva, in tema di espropriazione forzata immobiliare, è doverosa la richiesta, da parte del g.e., della certificazione attestante che il bene pignorato appaia di proprietà del debitore esecutato sulla base di una serie continua di trascrizioni di idonei atti di acquisto riferibili al periodo che va dalla data di trascrizione del pignoramento fino al primo atto di acquisto precedente al ventenni.
“Alla mancata produzione del suddetto titolo, imputabile al soggetto richiesto, consegue la dichiarazione di chiusura anticipata del processo esecutivo”.
Il principio espresso, sebbene attualmente discusso dalla giurisprudenza di merito, non è solo nelle norme richiamate, ma trova fondamento in ragioni di giustizia sostanziale: la prosecuzione dell’esecuzione, pur a fronte di una causa oggettiva di incapacità della procedura di raggiungere il naturale esito, risultante ex actis, non solo stride con il principio di ragionevole durata del processo, ma finirebbe per aggravare indebitamente la posizione dell’esecutato, la cui tutela è al centro dell’odierno dibattito normativo e giurisprudenziale.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.