ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La «missione» del magistrato nella concezione di Lodovico Mortara*
Carmelo Sgroi
Inizio dalla fine, per usare una frase che echeggia Lewis Carroll; dai ringraziamenti. Ringrazio gli organizzatori di questo incontro per avermi invitato e per avermi dato così modo di approfondire lo studio di un pensiero e di un percorso umano così fecondi, anche attraverso la lettura dei due densissimi testi di Massimiliano Boni e di Paolo Spaziani che oggi vengono presentati; per avermi così consentito di apprendere e di ricevere molto, certamente più di quanto io possa restituirvi con il mio intervento.
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Compendiare in una relazione il pensiero di una figura complessa come è quella di Mortara circa l’idea – la «missione» – di magistrato, quindi circa l’idea di giurisdizione e di collocazione della giurisdizione nello Stato e nella società ch’egli ha elaborato, è cosa ardua. Lo è in particolare per chi come me si è addentrato nella lettura degli scritti principali di Mortara proprio nell’occasione di questo incontro; poiché nella formazione universitaria e negli studi della mia generazione, e credo delle successive, l’opera di Mortara non è stata presente se non per rapide citazioni, spesso in nota, nei manuali sul processo civile.
Ma questa complessità, oltre che dovuta ai limiti di chi vi parla, mi sembra derivi anche da una caratteristica obiettiva della figura del maestro del diritto processuale. Quella di non essere interamente identificabile in nessuna delle attività nelle quali la sua vita professionale e la sua esperienza di studio e di pratica si sono manifestate.
Avvocato e consulente giuridico brillante, all’inizio e poi al tramonto – benché, per sua stessa voce (nelle Pagine autobiografiche scritte nel 1933, tre anni prima della morte, poi pubblicate nel 1969 da Salvatore Satta nei Quaderni del diritto e del processo civile), egli non amasse particolarmente la libera professione, e ciò forse anche per il carattere personale: un carattere che il professor Cavallone, nello scritto su Chiovenda, Mortara e il progetto Orlando pubblicato sulla Rivista di diritto processuale del 1988 tratteggia come misantropia e che un contemporaneo di Mortara come De Notaristefani, P.G. della Cassazione, anch’egli epurato dal fascismo nel 1923, definisce di tratto «altero, imperioso, sprezzante», insomma una figura ricca, attraente ma non empatica; giurista e accademico di punta, autore non solo di scritti fondamentali della dottrina processualistica del suo tempo, come la voce Appello civile, il Commentario, le Istituzioni di ordinamento giudiziario, ma anche di prolusioni e di relazioni inaugurali degli anni giudiziari destinate a tracciare indirizzi di dottrina; magistrato pervenuto molto giovane ai più alti livelli, sino alle funzioni di Procuratore generale e poi di Primo Presidente della Cassazione romana; Ministro della giustizia e ad interim di altri dicasteri; senatore del Regno; al vertice dell’Associazione dei magistrati; autore e relatore parlamentare di progetti di riforma di ordinamento e del processo, civile e penale, Mortara, in ciascuna e in tutte tali cose, ci appare svolgere un percorso unico, non privo di contraddizioni e anche di aspetti definiti «enigmatici» (il passaggio, allora singolare, dall’università alla magistratura è stato oggetto di diverse letture e ricostruzioni), ma difficilmente comparabile con chiunque altro – oggi lo si direbbe impossibile.
Uomo di riflessione e di azione al contempo. E in questa complessità ed eccezionalità di percorso si legge, mi pare, una inquietudine di fondo, che è il riflesso della tensione che lo contraddistingue, quella verso il fine di giustizia effettiva, per il cui raggiungimento occorre dottrina ma anche prassi, occorrono strumenti legislativi ma anche organizzazione, regole del processo ma anche indipendenza, qualità e professionalità di chi amministra la giustizia. Nessun impegno, nessuna delle tante attività da lui esercitate sembra appagante. Le riforme che egli proporrà rimarranno in buona misura progetti.
Per questo trovo esattissima la considerazione che Salvatore Satta, nel riaccendere la luce sulla figura del giurista di Mantova con lo scritto pubblicato nel 1968 su Giurisprudenza italiana – non casualmente intitolato all’Attualità di Lodovico Mortara – ebbe a svolgere circa la difficoltà di classificare e definire il pensiero di una tale, complessa, figura: «da molti mesi io sono curvo sulla grande pagina di Mortara e ogni forma che ne vagheggio subito mi appare superata da un’altra forma, come pittore che levando gli occhi dal cavalletto si veda un altro modello davanti. Ogni cerchio che traccio intorno alla sua figura sembra rinchiuderla e subito ne deborda, richiedendo cerchi sempre più vasti. Leggo ciò che è stato scritto di lui nel momento della morte e ho l’impressione che anch’essi abbiano provato lo stesso disagio, rifugiandosi nella genericità della lode».
Mortara è uomo del suo tempo. Ho provato, addentrandomi man mano nella lettura degli scritti di Mortara, una impressione analoga a quella definita da Satta: gli scritti ai quali in questa mia relazione mi riferirò mi hanno fatto scorgere talune assonanze tra la figura di Mortara e la pittura cubista, che del resto sorge nel primo decennio del secolo scorso, con la semplificazione delle forme – e Mortara è nemico del formalismo giuridico e degli orpelli processuali: si pensi alle sue critiche alle irrazionalità della disciplina sulle questioni di competenza e alla «babilonia giudiziaria», nella Lettera del 1905 a Carlo Fadda a proposito Della necessità urgente di restaurare la Corte di cassazione, o al fastidio per i cavilli e i sofismi, e prima ancora per l’astrattezza che ad esempio ascrive alla scuola germanista del diritto processuale; tutto ciò, in ennesima contrapposizione con Chiovenda e con il suo paradosso polemico sugli «antiformalisti», che, osservava, sono come uccelli che si lamentano dell’aria che li frena, senza rendersi conto che è l’aria che sorregge le ali e consente loro di volare.
Semplificazione cui però si associa, ineludibile, la necessità di rappresentazione di un soggetto da più punti di vista, il cui assieme soltanto lo rende realmente percepibile e intelligibile nella sua unità – e Mortara svolge ed interpreta sempre le questioni giuridiche delle quali tratta con più lenti contestualmente: il profilo costituzionale e quello legislativo, quello ordinamentale, quello delle conseguenze pratiche.
Così come un tratto che spesso è stato associato alla sua persona, cioè il realismo, il pragmatismo, l’esigenza di studiare e ordinare il processo nel suo svolgersi effettivo, per non contraddirne la funzione che è quella di rendere «a ciascuno il suo», potrebbe suggerire una impercettibile connessione con l’elaborazione, nel primo decennio del ‘900, del principio di realtà nella psicoanalisi freudiana, che indirizza l’uomo nella sua fase di maturità a tenere conto delle condizioni reali del suo agire. La celebre rappresentazione dialettica del passaggio dalla condizione dei rapporti di forza materiale tra gli uomini a quella del predominio della ragione e dell’intelligenza, che Mortara, ordinario di procedura civile e di ordinamento giudiziario, espone nella Prolusione pisana del 1888 su La lotta per l’uguaglianza, quale snodo verso il fine di giustizia sostanziale, effettiva, forze che nel tempo di Mortara sono tra loro in tensione, ha qualche punto di contatto con quel principio psicoanalitico, nel conflitto tra disordine e razionalità.
Mortara, è stato talvolta detto, non ha saputo fondare una propria scuola, diversamente da Chiovenda e Scialoja, e il passaggio dall’Università alla giurisdizione è stato da taluni letto come una retrocessione. Forse l’argomento deve essere rovesciato, perché – mi pare – le premesse fondanti del pensiero di Mortara, rivolte all’esperienza, conducono naturalmente alla necessità di vivere la realtà del giudizio.
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Nel tempo di questo intervento cercherò di enucleare, tra le tante suggestioni che nascono dalla lettura degli scritti di Mortara, quei passaggi che concorrono a delineare, secondo il titolo, quale sia la «missione» del magistrato nella visione del giurista; in particolare, quelli che toccano la sensibilità odierna e nei quali possiamo intravvedere temi e contenuti sempre vivi nella dimensione del giudizio.
Senza però potermi soffermare – sia per tempo e sia per limite di oggetto: ne tratta il volume di Massimiliano Boni – sull’incidenza più generale che nella formazione e nella evoluzione del pensiero del giurista di Mantova ha certamente rivestito la sua condizione prima, quella dell’essere il «figlio del rabbino», cresciuto in un contesto culturale, quello ebraico, di straordinaria ricchezza e complessità, particolarmente fertile proprio in relazione alla riflessione giuridica a tutto campo. Basti richiamare il passo delle Scritture in cui è detto che «Una parola Iddio disse: due ne udimmo» per cogliere, già solo in questo, la sensibilità e la propensione alla ineliminabile e perpetua molteplicità di senso del linguaggio, dunque alla centralità dell’operazione interpretativa della legge.
I testi ai quali farò riferimento sono quelli di carattere più generale, meno direttamente legati alla scienza del processo civile e del «diritto giudiziario» come allora si chiamava; tralasciando dunque la mai sopita dialettica – lo scontro – tra esegeti e «germanisti», tra Mattirolo e Mortara da un lato, Chiovenda e Scialoja dall’altro.
Anche per delimitare il campo, preliminarmente, ridurrei a un cenno appena la materia penale, nella quale il contributo di Mortara appare maggiormente datato. Benché fosse stato infatti relatore del Codice di procedura penale del 1913, il Codice Finocchiaro Aprile, nel quale tra l’altro troviamo affermato il nuovo principio della presunzione di non colpevolezza dell’imputato, e benché lo stesso Mortara abbia saputo spaziare anche in quel campo con un Commentario, le idee del giurista intorno alla materia penale non troverebbero eco nei nostri giorni.
Animato da una concezione quasi sacrale della giustizia, riflessa perfino lessicalmente nell’uso qua e là di termini liturgici (egli parla di «sacerdozio» del magistrato), Mortara, forse incapace di prendere le distanze da un peraltro frequente orgoglio del civilista, teorizza una sorta di conditio minor della giurisdizione penale attraverso la personificazione del tipo di magistrato che è chiamato a esercitarla, e lo fa in una logica di primazia del processo civile e del diritto sostanziale civile, per esercitare e applicare i quali egli più volte afferma essere necessari un ingegno e una preparazione di eccellenza; laddove per la giustizia penale reputa essere, in fondo, sufficienti le doti di integrità morale e un «mediocre corredo di dottrina». Idea di disequilibrio, questa, che si estende anche sul piano organizzativo e di ordinamento, ad esempio quando egli, dedicandovi un intero capitolo ne Lo Stato moderno e la giustizia del 1885 – scritto che, annota Alessandro Pizzorusso nella Prefazione alla ripubblicazione del volume nel 1992, è un vero e proprio programma di riforme – ne ricava l’opportunità di una netta separazione delle rispettive funzioni in due corpi separati (non certo come canone di specializzazione, bensì per differenza qualitativa del compito!). O quando, pur essendo convintissimo assertore della necessità di unificare le Cassazioni in una sola – cosa che per la Corte civile vedrà realizzata, come una beffa, solo nel momento in cui egli verrà estromesso dalla magistratura – propone il mantenimento delle Corti di Cassazione esistenti solo per la materia penale (di contro l’unificazione di esse sarà anticipata, nel 1888), secondo una sorta di criterio di maggiore «prossimità» del giudice rispetto al fatto da giudicare, che in qualche modo svaluta la funzione di legittimità nella materia penale, avvicinandola a una terza istanza di merito.
Si tratta di proposizioni non condivisibili né attuali, su cui pertanto non appare necessario soffermarsi.
Così pure nella disamina della funzione propria del diritto penale, Mortara non dà mostra di aperture, tratteggiandone una componente sanzionatoria tout court. L’art. 27 Cost. che verrà è del tutto fuori campo. Nella materia penale, Mortara, che vedremo «progressista» altrove, si dimostra pienamente conservatore e portatore di una politica che oggi diremmo esclusivamente securitaria, di difesa sociale, per ciò che possono significare queste etichette.
«Democratico nel cuore, aristocratico nell’intelletto», così Giovanni Verde definisce Mortara, nell’intervento svolto in occasione della presentazione del citato volume su Lo Stato moderno e la giustizia, pubblicato nei Quaderni Fiorentini del 1993; e mi pare definizione equilibrata.
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Quale è l’idea di Mortara intorno alla giustizia?
Essa, già nella dedica ai genitori de Lo Stato moderno e la giustizia, è la «pietra angolare su cui si edifica la prosperità di una nazione» e il cui dominio dovrebbe essere obiettivo dello Stato nel suo assieme, nella cooperazione tra le sue diverse componenti, tra i poteri. Mortara ascrive cioè a tutta la compagine della cosa pubblica lo stesso fine, nell’intendimento di attribuire a ciascuno il suo, nell’«equilibrio fra i diritti di tutti». Libero dalla «tirannia della maggioranza» indistinta, ogni potere – legislativo, esecutivo, giudiziario – deve, ciascuno nella propria attribuzione, tracciare la disciplina e l’affermazione dei diritti di libertà individuale, equilibrando, rendendo armonizzati e tra loro compatibili gli interessi diversi di ognuno.
«La giustizia è un requisito indispensabile di qualunque non viziosa relazione tra uomo e uomo», scrive nel 1885. Ed è dunque «missione» di tutti e tre i poteri, perché fare le leggi, come svolgerle e applicarle, in tanto ha fondamento in quanto si conformi a quell’obiettivo. C’è già, in queste apparentemente generalissime enunciazioni, la base dell’elaborazione di Mortara intorno ai predicati costituzionali della funzione legislativa, ai limiti del potere governativo-amministrativo nel sistema democratico (che sfocerà anche nella nota giurisprudenza sul controllo di legalità sui decreti-legge, oggetto della relazione odierna del Giudice costituzionale Giovanni Amoroso), al ruolo della giurisdizione come componente paritaria della sovranità.
E v’è la base del verso, della direzione che l’attività delle istituzioni, ed ovviamente della funzione giudiziaria, deve imboccare.
La giurisdizione, scrive ancora ne Lo Stato moderno, è attributo paritario di sovranità; fare le leggi e amministrarne l’esecuzione non può bastare allo scopo di giustizia, occorre un soggetto al quale affidare la «veglia sulla loro osservanza», e questo soggetto è la giurisdizione. Nel successivo percorso teorico di Mortara anche per il potere giurisdizionale si porrà il problema dei limiti e dei controlli sul suo esercizio.
La giustizia e i giudici non sono, però, soggetti classificabili sub specie aeternitatis. La giustizia nello Stato democratico è il discorso pronunciato da Mortara, P.G. della Cassazione romana, nella inaugurazione dell’anno giudiziario 1912-1913; un discorso, per inciso, al pari di quello dell’anno successivo, così radicalmente diverso da quelli cui siamo oggi abituati, privo di minute analisi quantitative – il che non impedisce di sottolineare il peso dei numeri gravanti un secolo fa sulla Cassazione, i problemi in tal senso essendo una costante – e imperniato piuttosto su un’analisi di livello costituzionale e soprattutto su un dichiarato intento programmatico e riformatore nel campo della giurisdizione e del sistema, processuale e di ordinamento.
Nel 1912, dunque, Mortara, che è anche un attento comparativista (nel precedente Lo Stato moderno e la giustizia egli analizza a fondo i diversi sistemi, continentali e di common law, esprimendo anche una certa ammirazione per il funzionamento concreto della giustizia inglese), mette in guardia dall’errore di considerare invarianti la giustizia e coloro che la amministrano. Se è funzione di sovranità, è logico che essa sia coerente con le forme che la sovranità assume nel tempo e nei luoghi. E anche la formula del cuìque suum ciceroniano assume connotati diversi e deve essere storicizzato, mutando contenuto, nei regimi assolutisti e in quelli democratici sorti dopo la rivoluzione francese. Nel tempo di Mortara, e – appunto – nello Stato democratico post-rivoluzionario, non è più solo il binomio famiglia/proprietà l’oggetto di garanzia, come la funzione del giudicare non è più solo esercizio di potestà sanzionatoria ma è qualcosa di più e di precedente, è la garanzia da accordare alla gamma dei diritti alla vita e alla libertà individuale e dei diritti politici individuali, diritti che costituiscono – annota nella citata Inaugurazione romana – «il protoplasma di un sicuro ordinamento della convivenza civile».
Entra in campo quindi la tematica dei diritti fondamentali, sino ad allora in ombra, con una impostazione di singolare modernità, che troverà sbocco nella Costituzione del ’48 ma che proprio nella stessa opera di Mortara quale magistrato sarà criterio di interpretazione nella notissima sentenza sul diritto elettorale delle donne, su cui dirò più oltre.
Si può individuare sin d’ora un primo aspetto di attualità del pensiero del grande giurista nella definizione della funzione di giustizia, quello della ineludibile implicazione tra la funzione, la sua conformazione organizzativa e il livello costituzionale. Tra forma di Stato e ordinamento della giurisdizione.
È nota l’affermazione di Calamandrei (nello scritto su Lodovico Mortara, ora in Opere giuridiche, X, 1985), che vede Mortara pervenire allo studio del processo «non salendovi dal diritto civile ma scendendovi dal diritto costituzionale, cercando in esso non lo strumento per far vincere le cause ai litiganti ma il mezzo per attuare lo scopo più augusto dello Stato che è la giustizia». Questa affermazione sarà poi rimeditata in chiave maggiormente aderente alla impostazione del giurista, nel senso di esprimere piuttosto l’attenzione costante di Mortara per il processo come realizzazione dell’ordinamento e della legge in termini obiettivi, come tali sottratti alla totale disponibilità delle parti.
Si è già accennato allo scritto sulla Lotta per [e già la locuzione appare significativa ] l’uguaglianza. È una idea ed una condizione, questa, nuova, dice Mortara. Le rivoluzioni inglese, americana e francese che hanno diversamente portato alla luce o solennemente enunciato il principio dell’uguaglianza non hanno però generato spontaneamente – scrive ancora Mortara – la condizione corrispondente. Secondo una impostazione certamente ottimista, nel passaggio tra il dominio della forza (che è condizione primaria nella lotta per l’esistenza in sé) e l’affermarsi della uguaglianza (che non è una utopia ma è il portato dell’intelligenza dell’uomo), il presente – di Mortara; ma diremmo anche il nostro – dà mostra di una lotta in atto, non ancora conclusa, e ciò vale sia tra gli individui sia nella dimensione sovranazionale, come lotta tra popoli. Compito dell’ordinamento e in esso del giurista, teorico o pratico, è di dare consistenza di fatto a quel principio, contro le teorie della filosofia pessimista di Hobbes e di Schopenhauer e contro i denigratori dell’uguaglianza come mera utopia. Le masse – aggiunge – non propendono, per natura, verso quell’obiettivo, poiché semmai esse «obbediscono alla spada e al bastone» (qui troviamo un riferimento attualizzabile, con l’odierno populismo ...); ma per passare dal dominio della forza a quello dell’intelletto e della ragione, che fondano l’uguaglianza di diritto, intelletto e ragione non bastano: «l’uguaglianza di diritto non contiene l’uguaglianza di fatto. Anzi, il principio di uguaglianza di diritto non ha valore pratico se non in quanto suppone disuguaglianze di fatto», annota Mortara nella Prolusione pisana del 1888, e però proprio per questo lo sforzo della intera compagine pubblica deve indirizzarsi alla realizzazione pratica di quell’obiettivo, poiché il principio dell’uguaglianza di diritto «stabilisce una necessaria tendenza alla diminuzione delle disuguaglianze reali e una necessaria aspirazione al suo totale cancellamento». Per quanto possano apparire o siano state definite «ingenue», queste proposizioni ci mostrano invece in controluce il futuro art. 3, secondo comma, della Costituzione.
Ed ancora sono certamente di tono costituzionale le analisi ch’egli svolge intorno alla necessità di contrappesi di legalità rispetto all’esercizio della funzione governativa e amministrativa. L’apertura non solo teorica ma espressa in due sentenze della Cassazione al sindacato sui decreti-legge, esponenzialmente cresciuti di numero nel secondo decennio e non previsti da una Costituzione flessibile come quella statutaria, si salda idealmente con l’indirizzo della Corte costituzionale della seconda metà degli anni ’90 sull’abuso della decretazione di urgenza, specie in ambito penale.
Sul versante amministrativo, analogamente, l’elaborazione di Mortara si muove nella ricerca degli strumenti di garanzia rispetto all’esercizio del potere: la sentenza del 1922 sul rifiuto della potestà sub-legislativa dell’amministrazione e sulla conseguente possibilità di azionare pretese risarcitorie verso la P.A. consente, mi sembra, un collegamento ideale con la nota decisione delle Sezioni unite civili n. 500/1999 ed è a ogni modo riaffermazione della centralità del principio di legalità, da lui sottolineato nel rilievo della condizione più avanzata dell’Italia rispetto alla Francia quanto alle garanzie rispetto agli abusi e alle violazioni del potere amministrativo, specie dopo la legge del 1865 abolitiva del contenzioso amministrativo.
Ancora, spicca la sentenza che la Cassazione romana a Sezioni Unite da lui presieduta pronuncia, nel 1917, in tema di insindacabilità dinanzi alla giurisdizione amministrativa di atti del Consiglio superiore di giustizia, confermati dal Ministro, relativi alla carriera di un magistrato; una conclusione che oggi vediamo risolta in termini opposti, con ipertrofia del controllo ab externo, ma che merita qui segnalazione soprattutto perché esprime l’idea di fondo dell’autonomia della funzione giurisdizionale e con essa della istituzione che ne espone il governo, appunto, autonomo.
Infine, pur senza poterne approfondire la disamina nell’economia di questo intervento, tra le analisi del presente e i programmi riformatori de futuro che Mortara espone negli scritti, un cenno va fatto sui passaggi in cui l’autore delinea la collocazione delle istituzioni di garanzia nel quadro dell’equilibrio tra i poteri, come già detto convergenti, fisiologicamente, tutti verso il medesimo obiettivo di giustizia. Non riterrei arbitrario ravvisare in queste proposizioni le premesse culturali remote del principio costituzionale di leale cooperazione.
Questo primo passaggio conduce a esaminare un altro punto cruciale della sua elaborazione: l’analisi dell’ordinamento giudiziario e le relative indicazioni di riforma.
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Mortara, si è accennato, non sembra concepire l’elaborazione sul processo disgiunta da quella sull’assetto di organizzazione e di ordinamento della magistratura. Anzi, in qualche misura ne inverte la priorità logica: sul piano dell’organizzazione generale l’organo di auto-governo della magistratura, il Consiglio superiore (allora, di giustizia), deve costituire «il punto di congiunzione tra i tre rami della sovranità», sicché – anche qui con notazione attualizzabile – ne propone, nel testo del 1885, una composizione mista, inclusiva della componente laica oltre a quella togata, per renderlo coerente con quel ruolo. In parallelo, sul piano della analisi dell’organizzazione concreta e della rispondenza dell’assetto ordinamentale all’esigenza di giustizia effettiva, egli avverte con chiarezza, e in anticipo sui suoi tempi, che la magistratura necessita al contempo di «garanzie e freni», come titola proprio un capitolo de Lo Stato moderno e la giustizia, e ciò per preservarne la funzione sovrana dall’esterno, negli equilibri con i poteri pariordinati, ma allo stesso tempo per impedire che il potere si trasformi in un «ordine», nel senso debole che una dottrina del suo tempo ha proposto per definirne una soggezione funzionale al legislatore e al governante.
Mortara è insigne processualista e però non guarda solo ai meccanismi del processo, guarda, direi in prima battuta, all’assetto istituzionale e alle condizioni di coloro, i magistrati, che sono chiamati a svolgere la funzione di giustizia, da lui collocata al vertice nell’agire della compagine sociale. Forte della solida preparazione nel diritto costituzionale e amministrativo, e uomo della più schietta indipendenza interiore, come dimostrano in abbondanza le decisioni da lui prese nei venti anni di esercizio della giurisdizione (1903-1923) e come testimoniano gli eventi che man mano nella sua vita lo hanno condotto a mutare strada, egli è consapevole che non è sufficiente circondare il personale di magistratura con un reticolo di meccanismi di indipendenza; consapevole cioè che la dimensione politica e partitica tende naturalmente ad affrancarsi da troppo stretti controlli, egli annota, già nel 1885, che non può bastare il desiderio di assicurare indipendenza all’esercizio della giurisdizione, perché occorre qualcosa in più, l’autonomia organica, e questa può venire assicurata solo spezzando la dipendenza della magistratura dal vertice ministeriale.
Non ha rilievo qui stabilire se e quante delle idee di Mortara siano state poi messe in opera con l’istituzione del Consiglio superiore nel 1907, su cui egli si esprimerà criticamente; ciò che conta è sottolineare la lucidità di analisi del profilo, cruciale per la realizzazione della giustizia effettiva.
E dunque agli guarda allo stato delle cose del suo tempo, guarda ai magistrati e al loro operare.
Ma lo sguardo è impietoso. La magistratura, quella post-Statutaria derivata dalle forti immissioni di personale formatosi con le lotte risorgimentali, gli si presenta nella sua interezza come un corpo burocratico e asfittico.
L’organizzazione e la composizione della magistratura gli suggeriscono perfino notazioni sarcastiche, già ne Lo Stato moderno e la giustizia, ancorché esse siano da leggere considerando i severi tratti caratteriali dell’uomo Mortara: è diffusa, afferma, l’«ignoranza», presso pretori, giudici e consiglieri di appello, ed è una «marea che sale verso gli stadi superiori»; la scarsità di stipendi, ma soprattutto le condizioni di organizzazione del servizio rendono impossibile studio e formazione, fino a – sono ancora parole di Mortara nello scritto del 1885 – rendere plausibile la prospettiva di «rincretinire» in breve tempo. Egli è uomo pratico, e non nega che per l’amministrazione della «piccola giustizia», quella degli affari che oggi diciamo bagatellari, si può anche «procedere alla spiccia», e tuttavia lo allarma il contesto complessivo, poiché la giustizia esige che la società civile abbia fiducia in essa, una fiducia che Mortara intravvede soltanto – e non senza strappi – nella funzione della Cassazione, che proprio per questo esige di essere unificata e rafforzata, anche sul piano delle quotidiane funzioni (come testimonieranno i colleghi, severo rigore sarà esercitato da Mortara nella conduzione dei processi). Nel testo dell’Intervento inaugurale del 1912, analizzando dal punto di vista del titolare dell’ufficio requirente di vertice l’aspetto della legittimazione del potere giudiziario, Mortara afferma che la «forza intrinseca di ogni pubblico potere [dunque anche della giurisdizione] è l’opinione e la considerazione che il popolo ha di esso», che ne riconosca legittimità. Non è un appello populista, per usare un termine di attualità, ciò che egli propone; bensì, in quanto forma di esercizio della sovranità e massima istanza di giustizia, è l’esigenza che la funzione, che trova base nella legge e da essa ripete la sua legittimità formale, sia in armonia con il fondamento democratico che alimenta le istituzioni parlamentari e le democrazie rappresentative.
Egli teme la separatezza del corpo di magistrati, le cui prerogative – come la relativa inamovibilità – e al contempo le cui forme di soggezione all’esecutivo ne fanno un organismo burocratizzato, magari indipendente nello svolgimento delle proprie attribuzioni ma privo della indispensabile autonomia organica: una «casta chiusa» – sono ancora parole del giurista, che oggi sono perfino di moda – che fa sorgere il dubbio che «quanto più il corpo giudiziario è rinserrato tra i cancelli isolatori, tanto meno si può sperare che la sua composizione migliori in conformità alle esigenze della funzione». Il corpo giudiziario, così conformato, non è democratico, afferma.
Al rischio della chiusura e dell’isolamento del ceto giudiziario, d’altra parte, si associa l’esigenza di un assetto che sappia auto-rigenerarsi e sterilizzare, o perfino eliminare, dal proprio ambito coloro che mostrano di non essere in grado di svolgere la funzione. «Bastano pochi individui per screditare tutto il corpo», scrive; e sono notazioni che potrebbero accompagnare una attuale relazione sull’andamento della giustizia disciplinare.
Non è questa la sede per esaminare a fondo le diverse e anche minuziose proposte che Mortara costruisce come antidoti a tale stato di cose e ai rischi illustrati, perché interessa, in chiave attuale, piuttosto l’analisi di criticità durature che non questa o quella soluzione, ovviamente storicizzabile.
E certamente il quadro forse un po’ troppo fosco che egli dipinge della magistratura, prima di farvi ingresso, ma che non risparmia neppure avvocati e parti processuali, deve essere considerato al netto di una propensione elitaria e di una particolare severità di giudizio culturale e intellettuale dei propri simili, che non abbandonerà mai Mortara (come dimostrano anche le sue Pagine autobiografiche, con l’ammissione del suo spirito solitario). Ma non per questo alcune notazioni possono essere sminuite, e anzi ci appaiono anch’esse di attualità; come quella, anche letterariamente efficace, che egli tratteggia nello scritto su Una piaga nell’ordinamento attuale della magistratura del 1903, pubblicato ne La Riforma Sociale di quell’anno, dove, analizzando con toni assai critici la disfunzionalità del meccanismo di avanzamento in carriera imperniato su valutazioni tecniche da parte di una Commissione consultiva, secondo meccanismi classificatori cervellotici (che partono dal «buono», transitano per il «buono a pieni voti», l’«ottimo», l’«ottimo a pieni voti», fino al «merito eccezionale»; il «non buono», egli osserva ironicamente, è cancellato dalla realtà), auto ed etero-relazioni, provvedimenti estratti a sorte et similia, descrive i «pellegrinaggi» a Roma di magistrati in predicato di avanzamento nelle carriere per implorare l’indulgenza della Commissione, sovente con successo rispetto a coloro che si astengono da tale pratica; i quali ultimi, chiosa, finiscono in tal modo per risultare degli «ingenui». Uno scenario attualizzabile.
Non minore aspra ironia troviamo nella parte dello scritto Un pericolo sociale: la decadenza della magistratura in Italia del 1894, anch’esso apparso su La Riforma Sociale, là dove, lamentando ancora il burocratismo e l’assenza di metodi di selezione davvero funzionali alla giustizia e non all’interesse del singolo, offre al lettore l’immagine un po’ grottesca dell’«unico libro che non manca mai nella biblioteca del magistrato: la graduatoria» (oggi diremmo: il ruolo di anzianità), una «stupenda trovata» che vede il magistrato assorto in calcoli e combinazioni – su trasferimenti, promozioni e quant’altro dei propri colleghi – che ai profani appaiono «come la cabala del lotto».
Come severa è la constatazione che il «dovere» del giudice, l’adempimento della missione di cui parliamo, viene spesso confuso, al tempo di Mortara, con l’erogazione quantitativa di provvedimenti rapportata alla brevità del tempo impiegato per adottarli, indifferente essendo la qualità e la tenuta giuridica del prodotto.
Contro la «gerarchia burocratica», contro i meccanismi selettivi inidonei a collocare i magistrati nelle varie funzioni secondo le loro effettive attitudini e al servizio della generalità dei cittadini (il che, dice, avvicina impropriamente la giurisdizione a un assetto che egli definisce militaresco), e contro l’equivoco dell’identificazione del dovere con la sola quantità, l’antidoto, per Mortara, è duplice: preparazione e studio, rapportati al tipo e all’ambito della giurisdizione, da un lato, con corsi pratici e programmi di accesso e di avanzamento; selezione correlata esclusivamente al valore e alla capacità effettiva, dall’altro.
Germi, in fondo, di opzioni future: la distinzione dei magistrati solo per funzioni del Costituente; l’instaurazione di meccanismi di formazione permanente nel governo autonomo e oggi l’istituzione e l’attività della Scuola della magistratura. Ma anche il rafforzamento delle specializzazioni e la relativa considerazione, in sede di assegnazione dei diversi ruoli.
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Ma il terreno nel quale l’elaborazione di Mortara intorno al processo e all’ordinamento della giurisdizione si incontrano con il ruolo concreto del magistrato è quello dell’idea che egli esprime della funzione del giudicare, nel rapporto del magistrato con la legge e con le norme che di volta in volta è chiamato ad applicare. Sulla giurisprudenza, quindi, e sul suo senso.
È celebre l’affermazione, contenuta nel suo Commentario al codice, secondo cui «se la legge è la statica del diritto, la giurisprudenza ne è la dinamica». Con termini ancora più netti, nel definire l’ufficio del magistrato, sia esso penale o civile, afferma (ne Lo Stato moderno e la giustizia), che «la legge è quasi nulla, l’opera del magistrato è tutto», perché è nell’attività del magistrato e nella giurisprudenza che si «forma ed eseguisce in uno il precetto legislativo che intelletto e coscienza suggeriscono più acconcio al caso controverso».
Il diritto materiale dunque si fa, vive, nel processo e nelle decisioni che incessantemente sono rese dalla giurisdizione. «La lettera uccide, lo spirito vivifica»: così Mortara definisce, ancora, la posizione che l’interprete deve assumere dinanzi alle norme, proprio quelle fondamentali – riferendosi allora allo Statuto – nella ricerca della soluzione del giudizio. «Il contenuto di una carta costituzionale non sta nelle parole testuali che la compongono, ma nella interpretazione e nella osservanza che essa ha avuta in pratica; il diritto pubblico di un popolo è nella vita stessa e nello svolgimento delle sue istituzioni, non nella scrittura del foglio di carta o di pergamena sia pur venerabile e glorioso che segna la data in cui tale vita e tale svolgimento ebbero principio». In questa proposizione, che in parte è stata letta anche come spunto embrionale della teorica della costituzione materiale, si intravvede più chiaramente l’approccio di Mortara al tema del metodo dell’interpretazione giuridica e dell’obiettivo di giustizia cui essa deve sempre avere riguardo. In questa stessa proposizione, si spiega apertamente l’attenzione che secondo Mortara occorre avere prima di tutto per il magistrato, per l’assetto della magistratura, nell’apprestare un soggetto pubblico adeguato a tale compito; come osserverà Satta, la via da percorrere non è quella dal trattato processuale alla giustizia, ma è l’inversa, dalla giustizia al trattato. Forse in questo sta l’impossibilità, direi strutturale, di Mortara di costituire una «scuola» di sistema teorico.
Ravvisiamo, già in questi pochi cenni, un denso compendio di idee che oggi costituiscono dati essenzialmente acquisiti ma che ieri, nel tempo di Mortara, tali non erano.
V’è la scissione concettuale tra disposizione e norma, in primo luogo, nel rapporto tra la lettera (una) e lo spirito che le dà senso, plurimo, nel tempo.
V’è la necessità di svolgere un’interpretazione «verso l’alto» ossia guardando alle norme fondamentali, costituzionali, ma sempre assegnando a dette norme una portata dinamica, funzionale alle finalità che la disposizione testuale contiene in potenza.
Il focus dell’esperienza giuridica si colloca così naturalmente nel giudizio, che ne diviene il centro, rispetto alla legge: oggi diremmo alle molte fonti multilivello che accentuano la validità della intuizione di Mortara, trovando esse composizione solo se collocate nell’opera di un giudice, sia esso di livello costituzionale oppure no.
Contro la linearità a senso unico della idea che mette in sequenza legge, amministrazione e giudizio, e che fa quindi preesistere la legge alle altre funzioni, che dovrebbero limitarsi a darne svolgimento, Mortara è moderno anche là dove offre una visione circolare del diritto, che non risiede nella legge come un dato presupposto ma «si fa» nell’attività della giurisprudenza; e non credo sia necessaria una particolare spiegazione per registrare la modernità di questo concetto.
Coerentemente, l’atteggiamento che è stato definito pragmatico di Mortara intorno alla dottrina del processo civile, riflette questa concezione del diritto e della funzione del giudizio: la forma processuale è «l’armatura con la quale il diritto individuale deve scendere in campo per ottenere salvezza e reintegrazione quando sia offeso o minacciato», afferma nel 1913, nel corso della Inaugurazione dell’anno giudiziario (1913-1914), quale Procuratore generale presso la Cassazione romana. Ma l’armatura processuale deve essere snella, funzionale allo scopo; da qui la repulsa verso i formalismi del rito, verso le aberrazioni (ho ricordato sopra le regole sulla competenza, allora suscettibili di paralizzare ad libitum un processo; ma meriterebbe approfondimento la posizione intorno alle nullità formali, in tema di notificazione e competenza dell’ufficiale giudiziario, cui Mortara, anche qui con previsione anticipata, propose di rimediare anche con l’utilizzazione del servizio postale) che impediscono di raggiungere il fine ultimo del processo: il dare ciò che spetta.
Su queste premesse, che affidano all’interprete-magistrato il compito di fornire nell’esperienza viva la lettura della proposizione legislativa, sta il riconoscimento di una quota ineliminabile di incertezza del diritto e, di contro, sta l’attenzione speciale che Mortara rivolge verso la Cassazione, di cui diverrà Primo Presidente, non solo nel combattere le teorie della terza istanza di giudizio che inquinano il carattere di stretta legittimità, ma nel prefigurare la necessaria unicità della Corte (civile, quella penale essendo giù unificata dal 1888), condizione di garanzia del suo compito quale giudice supremo, che è quello della interpretazione esatta e uniforme della norma.
Un obiettivo ch’egli vedrà realizzato, nella Corte da lui presieduta, proprio nel momento in cui ne sarà estromesso dal fascismo.
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È nell’esercizio diretto della funzione – al suo massimo livello – che queste idee intorno alla funzione giurisdizionale e al metodo che vi si associa trovano per così dire plastica espressione. La vera e propria ansia di giustizia che permea l’opera del giurista – teorico, pratico, riformatore – trova forse il suo momento di realizzazione e di sintesi più nitido all’interno della funzione che prima, dall’esterno e come studioso, egli ha così profondamente analizzato. Quasi traducendo in azione propria, e nella relativa responsabilità, l’idea del divenire del diritto attraverso l’opera della giurisprudenza.
In questa luce non può non farsi richiamo alla notissima sentenza sul voto politico alle donne (che ha dato anche spunto all’elaborazione letteraria di questa vicenda delle «suffragette», le maestre di Senigallia, nel romanzo Il giudice delle donne, del 2016, di Maria Rosa Cutrufelli), resa dalla Corte d’appello di Ancona da lui presieduta per un breve tratto, nel 1906.
La decisione è nota: la Corte di Ancona, respingendo un ricorso del Procuratore del Re, ammette all’elettorato attivo dieci insegnanti, spezzando la regola della esclusione delle donne sino ad allora – e poi in seguito, fino al voto referendario e per l’Assemblea costituente – negato in base a una regola non scritta, consuetudinaria. Il metodo, asciutto, oggi ineccepibile, della decisione esprime a tutto tondo le coordinate del pensiero di Mortara: la fonte costituzionale – lo Statuto – afferma che i cittadini (i «regnicoli») sono uguali davanti alla legge e godono egualmente dei diritti civili e politici (art. 24) e inoltre il successivo art. 25 ribadisce che essi contribuiscono indistintamente ai carichi dello Stato, ovverosia pagano le tasse, in proporzione alla loro ricchezza. Da queste disposizioni, afferma la sentenza, non è possibile in alcun modo trarre la legittimità di una differenziazione di genere, così come nessuna differenza è sostenibile nella titolarità dei diritti fondamentali e dei diritti politici e di partecipazione (libertà, manifestazione del pensiero, riunione e così via). Con notazione di grande modernità, il passaggio cruciale sta nel classificare anche il diritto alla partecipazione politica, attraverso la sua espressione del voto per le istituzioni rappresentative, nel catalogo di quelli fondamentali, valevoli per tutti, per tale via sottraendo quel diritto – attivo – alla precedente gabbia del rapporto con l’aspetto passivo, ossia con l’accesso alle funzioni istituzionali, all’epoca precluso alle donne.
Di contro, se è vero che lo stesso Statuto – flessibile – ammette che al principio di eguaglianza possa farsi eccezione a opera della legge, la sentenza della Corte di Ancona osserva che una legge di eccezione non c’è; c’è, è vero, una disposizione che nega alle donne la capacità elettorale nelle elezioni amministrative (al pari degli analfabeti, dei condannati, dei ricoverati in ospizio, dei falliti e degli interdetti!), nel T.U. del 1898, ma questa disposizione non esprime un principio, bensì rappresenta una eccezione ad esso, dunque non può costituire base giuridica per una sua estensione a un caso che non vi rientra. Sicché non può valere neppure, per escludere le donne dalla vita politica, l’argomento retorico da minore a maggiore, ossia l’affermazione che se le donne non possono partecipare alle elezioni amministrative allora a maggior ragione non possono in quelle politiche generali. Né – aggiunge la decisione – possono costituire base per la soluzione negativa talune disposizioni collaterali che regolano la cd. delegazione di censo, dalle donne agli uomini, ma che sono poste per conferire il diritto elettorale al marito, non per negare il diritto alla donna. Non c’è la legge e non c’è neppure la ragione per affermare una regola di esclusione secondo l’appartenenza di genere.
Il tema è il silenzio della legge, ma è un silenzio apparente: se nulla dice la legge in merito al diritto di voto politico per le donne, semplicemente è sufficiente la fonte costituzionale, che non fa distinzioni; non v’è alcun bisogno quindi di colmare una lacuna attraverso argomenti consuetudinari.
In questa sentenza, vien da dire, c’è, condensato in proposizioni lineari, l’approccio intero del Mortara teorico, che si fa giurisprudenza.
Vi troviamo, esplicita, la categoria dei diritti fondamentali, e vi troviamo soprattutto incluso il diritto di partecipazione politica, in base al testo primario, il che è una novità per il tempo, rispetto alle idee dominanti che collocano questi diritti in un ambito diverso, quello dei cd. diritti pubblici soggettivi. La decisione ricusa cioè l’argomento che i diritti politici debbano essere collocati in un’area diversa, a fare da pendant alle regole di partecipazione alle cariche e agli uffici pubblici, riservati agli uomini.
Vi troviamo al contempo la necessità di assegnare alla disposizione costituzionale il significato maggiormente conforme non solo alla lettera ma allo spirito che la informa, in una accentuazione della libertà dell’individuo quale soggetto centrale del diritto, il che anticipa il principio personalistico (il futuro art. 2 Cost.), oltre ovviamente quello dell’uguaglianza.
Questa stessa base dell’uguaglianza di diritto, poi, non può essere condizionata o limitata da argomenti metagiuridici o dal richiamo alla tradizione o alla stessa intenzione più o meno implicita di chi la pose (come invece affermerà la Cassazione nell’andare in contrario avviso, valorizzando la tradizione e l’interpretazione consolidata nel senso della esclusione delle donne). Ed in questo senso quindi si fa strada anche la de-valutazione del canone dell’intenzione del legislatore e con essa del ricorso ai lavori preparatori e alle relazioni – nella specie, di Zanardelli, quanto allo Statuto in discorso – che accompagnano l’adozione di un testo legislativo.
Ciò è perfettamente aderente all’idea in divenire della funzione interpretativa della giurisprudenza, al già ricordato carattere dinamico che essa svolge: la legge è posta in un dato tempo, ma essa rappresenta un precetto generale, ed è destinata a governare i bisogni e le contingenze della vita sociale per un tempo illimitato, «adattandosi alla variabilità in modo da rispondere sempre al fine di tutela nell’ordinamento civile». Il diritto non può essere ingessato nel tempo e secondo la cultura di chi lo pose, e se i compilatori della norma ebbero in mente un dato contenuto prescrittivo o un determinato limite, non per questo all’interprete è vietato estrarre dalla proposizione del testo uno scostamento da quell’intenzione o da quel limite, se il testo a ciò autorizza e se lo esige l’assetto dei rapporti sociali.
Ma ciò – troviamo espresso da Mortara nel suo Manuale della procedura civile, scritto nel 1887 – non significa affatto autorizzare l’interprete a sostituirsi alla volontà legislativa, ad invaderne il campo; egli, sulla scia della cd. scuola esegetica (Luigi Mattirolo), ha ben chiaro il limite tra le due possibilità, interpretazione e sconfinamento; e, se rivendica libertà piena di critica come studioso, al contempo nega analoga licenza alla giurisprudenza, che è tenuta a muoversi dentro il perimetro del diritto vigente. In ciò contrapponendosi – anche qui, come per il processo – alla scuola di ispirazione tedesca, che rovescia l’impostazione e fa arretrare la legge rispetto al «sistema». Le conseguenze anche politico-istituzionali di una simile, radicale, dissonanza culturale sono evidenti: nell’approccio di Mortara e della scuola esegetica che vi si ricollega, pur nella dinamica dell’interpretazione, il necessario fondamento legislativo della decisione giudiziale resta un caposaldo da difendere, anche assegnando alla legge il significato più aperto e innovativo, e la garanzia della legalità mantiene più in generale la sua forza di coesione e di evoluzione (il che, nel fragile Stato post-unitario, assume il significato di consolidamento del processo riformatore); nella visione «germanista» – secondo la felice etichetta assegnata da Franco Cipriani – che farà capo a Chiovenda e a Scialoja, è la sistematica a prevalere, ed è dunque l’interprete a prevalere per astrazione rispetto al dato normativo che a quel sistema non sia conforme.
Entrambe le concezioni vanno oltre la lettera del testo, ma imboccano strade assai diverse; in quella di Mortara, l’interprete non applica i propri concetti di sistema, ma svela il significato attuale del testo.
Potremmo dire, assegnando a Mortara una classificazione oggi per noi familiare, che emerge nella sua concezione la tematica del diritto «vivente», espressione che declina il principio di effettività – tanto da essere preso a premessa nelle questioni di costituzionalità – e che in fondo traduce in formula nuova il criterio del giurista mantovano: il ricorso all’intenzione del legislatore storico e alla conseguente fissità della formula lessicale sono sostituiti dalla constatazione del metodo storico-evolutivo, e in questa fondamentale innovazione si radica la centralità dell’opera del giudice, che non crea il diritto nel senso della produzione formale ma ne estrae il testo vivo, effettivo, adattando la regola ai mutamenti del contesto sociale.
Le donne dunque possono votare perché un testo normativo costituzionale lo consente e non autorizza le differenziazioni che pure fino ad allora, anche in quello stesso testo, la cultura del tempo vi aveva scorto.
È un criterio, questo, che ad esempio troveremo ampiamente messo in atto nella giurisprudenza, nell’opera di riadattamento – fin dove possibile – delle norme precostituzionali al mutato quadro della Carta fondamentale, a riprova della intuizione di Mortara in merito alla dinamica giurisprudenziale e al rapporto che corre tra le fonti.
Ed è pure chiaro che in questa nuova centralità della funzione interpretativa rispetto a quella della regolazione iniziale del legislatore, l’esercizio dell’interpretazione si carica di un ben più impegnativo peso: di responsabilità e di scelta, innanzitutto, ma anche di necessaria competenza e formazione, e di autonomia e libertà di giudizio nella composizione degli interessi che sono sottesi da norme diverse, tra loro da coordinare.
Funzione «sovrana», responsabilità, capacità, rifiuto del burocratismo, buona organizzazione: l’attenzione di Mortara per tutti questi aspetti si salda con l’accennato modo di svolgere la funzione, gli uni essendo premesse necessarie dell’altra.
Riprendendo, allora, in chiave di conclusione il titolo – che a ben vedere è un interrogativo – di questa relazione, mi sembra che il quadro frammentato in molti piani tra loro interdipendenti – l’ordinamento della giurisdizione; le condizioni di autonomia e di controllo; il metodo dell’interpretazione; il modo di intendere il processo rispetto al diritto sostanziale; il modo del giudice di porsi di fronte alla legge nella sua applicazione – si ricomponga, proponendo, al netto di inevitabili semplificazioni, un ritratto di magistrato che, muovendo dalla concezione di Mortara, potrebbe attagliarsi al tempo presente.
Un magistrato, investito di una funzione essenziale nel consorzio civile, titolare di responsabilità e per questo autonomo e indipendente, nell’interno e dall’esterno, capace, anche per formazione e studio, di dare una risposta appropriata alle istanze di giustizia; soggetto alla sola legge dunque, da lui applicata attraverso una incessante opera di interpretazione, storica ed evolutiva, idonea a darne il significato nel caso concreto e a collocarla nel tempo in cui opera, immettendovi il significato – variabile ma non arbitrario – che il contesto sociale o l’evoluzione propongono come quello appropriato.
Mi sembra che ne emerga, senza troppe forzature, il ritratto di un dover essere del magistrato che corrisponde, mutatis mutandis, all’idea attuale che la Costituzione e l’ordinamento propongono, in cui quelle esigenze e quelle condizioni del mestiere di giudice assumono connotati di complicazione crescente, per le intersezioni tra fonti eterogenee e soprattutto per la curva esponenziale crescente di nuovi diritti e di pretese non sempre componibili di singoli e di gruppi, nella cd. esplosione dei conflitti.
Ed è particolarmente significativo, quale ulteriore elemento di attualità del pensiero di Mortara, il rapporto tra convincimento personale del magistrato e modo di interpretazione ch’egli deve svolgere, un rapporto che deve ineludibilmente essere posto in termini di netta separazione.
Intervistato poco dopo la sentenza anconetana, Mortara, oltre a illustrare le ragioni di metodo della decisione, affermerà con chiarezza che il proprio convincimento interiore, sul piano culturale, era negativo quanto al riconoscimento del diritto di voto politico alle donne, in base a considerazioni soggettive e di ordine sociologico: egli era «personalmente contrario, giuridicamente favorevole».
In questa capacità di distinzione tra le opinioni personali (che un magistrato, che non vive tra le nuvole, non può non avere e che però non debbono condizionare l’esercizio della giurisdizione) e le scelte interpretative, emerge un aspetto che chiude il cerchio intorno alla ricostruzione dell’idea di magistrato che è presente nella visione di Mortara. Si manifesta l’esigenza della spersonalizzazione, per quanto è possibile, della funzione, come garanzia del buon funzionamento della giustizia e di libertà effettiva di giudizio, di cui troveremo, oltre un secolo dopo, espresse enunciazioni ad esempio nelle pronunce costituzionali riguardanti le regole di imparzialità e di incompatibilità decisoria nel processo penale, come pure nelle decisioni intorno al rapporto di (non)compatibilità tra appartenenza partitico-politica e funzione giudiziaria.
Ragione, senso pratico, giustizia sono il fil rouge del pensiero di Mortara; penso che ciò possa essere condiviso, oggi.
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Concludo questo intervento, inevitabilmente schematico a fronte della complessità e ricchezza del pensiero e dell’operato di un grande giurista teorico e pratico come Mortara, personalità eminente, giunta ai vertici dello Stato, non priva di alcune contraddizioni o di ripensamenti: tra cui un cenno può farsi sia alla posizione negativa (ne Lo Stato democratico) sull’ingresso in magistratura di estranei – oggi diremmo per meriti insigni – palesemente contraddetta dalla sua stessa chiamata, da lui caldeggiata; sia sulla parimenti critica posizione riguardo l’assunzione di cariche parlamentari per chi appartiene alla magistratura, anch’essa smentita nei fatti dalla sua vita. E molte altre cose si sarebbero dovute annotare ed esaminare, come la particolare posizione (ancora ne Lo Stato democratico) circa il favore con cui egli ipotizzava di importare il modello anglosassone del verdetto reso da una giuria popolare, quale modo di separazione sul campo, per così dire, tra l’accertamento del fatto, rimesso alla giuria, e la decisione in diritto, propria del giudice.
Né è possibile, come detto all’inizio, accennare alla questione ebraica e all’incidenza che questa sua appartenenza (che, ante-Statuto, gli avrebbe perfino impedito l’accesso all’accademia) ebbe nel percorso di un uomo formatosi nella cultura dell’ebraismo ma che nelle pagine autobiografiche si è definito laico, pur nella coesistenza di una «religione», ma rivolta verso la giustizia.
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Tuttavia, volgendo l’attenzione al domani, l’approccio al pensiero del grande giurista propone una notazione conclusiva.
Ragione, giustizia, senso pratico; interpretazione orientata costituzionalmente; analisi ed elaborazione incessante del diritto vivente; autonomia di giudizio e al contempo inibizione allo sconfinamento nelle potestà altrui; capacità di cogliere la sensibilità del tempo.
Libertà e umanità, capacità di sapere deviare il corso obbligato delle cose. Coraggio.
La complessità di queste coordinate, nel mestiere del magistrato, è compatibile con l’idea, che recluta sempre più sostenitori, della giustizia «predittiva»? e in che misura una delega – per quanto ragionata, selettiva – di elaborazione prognostica sull’esito di un giudizio saprà collocarsi in questo tessuto? L’emergere di esigenze impellenti di «governabilità» del carico giudiziario, indotto dalla già accennata complessità del sistema e dalla crescita di diritti che reclamano tutele, induce a trasferire su istanze digitali la risposta ai conflitti, nel presupposto forse non esplicito di una quota di sfiducia nella idoneità dell’apparato pubblico reale.
Non è possibile addentrarsi ora su questo terreno del futuro prossimo; ma, anche al di là del venir meno della forma simbolica del giudizio, vorrei osservare che le condizioni di indipendenza e di imparzialità non sono operatori booleani, i quali dipendono da coloro che li elaborano, e che libertà e umanità del giudice restano il centro della operazione di elaborazione giuridica, di comprensione globale della vicenda umana, sovente non ripetibile, che si presenta al giudizio. Le correlazioni informatiche basate su affinità casistiche appaiono prive della capacità di deviare la linea tracciata, quando ciò debba avvenire; e il diritto – è stato detto – non aspira a essere una linea retta.
Sorge la questione della prevedibilità come regola o meglio del possibile eccesso di uniformità, giacché l’invarianza della risposta corre il rischio della incapacità di selezionare la variabile decisiva, l’elemento di innovazione e di dinamicità della giurisprudenza. L’algoritmo non è del tutto neutro, esso propone elaborazioni in base ai dati immessi da qualcuno, e questi dati di base possono anche essere pre-condizionati dalle opzioni del programmatore. E, avendo la «robotica» la capacità di apprendere, nel senso di modificare alcune determinazioni in base allo sviluppo delle proprie precedenti decisioni, questa auto-alimentazione della conoscenza sembra non essere a sua volta totalmente pre-dicibile. Nel 2017, in un esperimento di dialogo tra robot addestrati a dialogare in inglese, si è appurato che da un certo punto in poi i robot comunicavano tra loro in un linguaggio diverso, più semplice per loro, ma incomprensibile all’uomo.
Io credo che le maestre di Senigallia non avrebbero gradito di vedere il loro ricorso giudicato da un algoritmo.
*Scritto pubblicato sulla Rivista di diritto processuale n. 4/5 (luglio-ottobre) 2019, pag. 1172-1193, Sezione “Storia e cultura del processo”
Il divieto di bis in idem nella elaborazione della giurisprudenza delle sezioni civili della Corte di Cassazione
di Antonio Scarpa
Sommario: 1.Alla scoperta del bis in idem davanti al giudice civile – 2. Specialità, ‹‹doppi binari›› e bis in idem – 3. Sanzioni tributarie e penali per lo stesso fatto – 4.Bis in idem e abusi di mercato – 5. I ‹‹non bis in idem›› – 6. Come “entra” il bis in idem nel giudizio civile di cassazione?[1]
1. Alla scoperta del bis in idem davanti al giudice civile – E’ affare a prima vista assai complesso l’adattamento al processo civile del principio del divieto di bis in idem, come riconosciuto nell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali UE del 7 dicembre 2000, nell’art. 4 del Protocollo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché, all’interno del diritto nazionale italiano, nell’art. 649 c.p.p. Esso, com’è noto, evoca la garanzia primaria dell’individuo dal pericolo di una reiterazione di iniziative penali per un medesimo fatto già consacrato in un giudicato, ed è dunque intimamente correlato al rapporto fra l’Autorità dello Stato e la Libertà dell’individuo, intendendo mettere quest’ultimo al sicuro dalle duplicazioni di esercizio delle funzioni repressive, cui corrisponderebbe altresì un rinnovato deprecabile esercizio della giurisdizione su un fatto già definitivamente giudicato.
Il “fatto” non più processabile per il divieto del bis in idem, secondo l’ormai consolidata interpretazione della Corte europea dei diritti dell'uomo, della Corte di giustizia dell'Unione europea e della giurisprudenza penale italiana, non è, peraltro, il “fatto giuridico”, cioè l’ipotesi normativa astratta strutturata nei suoi elementi costitutivi, ma il “fatto storico”, cioè la vicenda materiale connotata dalla condotta del soggetto, dall’evento naturalistico e dal relativo nesso causale.
Dunque, il principio del ne bis in idem appartiene, per sua essenza più intima, al diritto penale: riguardato nella sua valenza sostanziale, esso si traduce nel divieto di punire due volte un soggetto per un medesimo fatto.
Invero, anche il codice di procedura penale italiano, se all’art. 648 c.p.p. delinea una nozione di giudicato in senso formale (correlando l’irrevocabilità delle sentenze, e quindi la definitività del giudizio sul fatto, sulla responsabilità e sulla pena, alla loro inimpugnabilità con rimedi diversi dalla revisione), col già richiamato art. 649 non contempla un’ipotesi di giudicato sostanziale sul rapporto sottostante, analoga a quella contenuta nell’art. 2909 c.c., limitandosi a trarre, dall’irrevocabilità formale della decisione, un limite “in negativo” alla formulazione di una nuova imputazione.
Diversamente, l’obiettivo cui tende tipicamente il giudizio civile è duplice: l’immutabilità formale dell’atto-sentenza, conseguente al giudicato formale regolato dall’art. 324 c.p.c., e, però, anche l’immutabilità degli effetti della sentenza, ovvero la sua idoneità ad accertare “a ogni effetto” (art. 2909 c.c.) se ed a chi spetti il diritto al bene della vita in contesa.
Quando, allora, il divieto del bis in idem di fonte eurounitaria e convenzionale può costituire una preclusione alla formazione del giudicato civile, che, normalmente, coprendo «il dedotto e il deducibile», è volto a dettare una stabile, ed anzi definitiva, “regula iuris” nel rapporto tra le parti?
In via di prima approssimazione, possiamo dire che ciò avviene allorché la controversia civile abbia ad oggetto l’accertamento dei presupposti per l’esercizio di una potestà repressiva di un determinato comportamento che duplichi una sanzione penale già irrogata alla stessa persona in relazione allo stesso fatto, visto che, per natura e severità, essa stessa debba essere intesa come “sostanzialmente penale”.
Tale schema di controversia civile “a scopo punitivo”, e perciò “a rischio di bis in idem”, lasciava pensare, fino a tempi ancora recenti, in via pressoché esclusiva ai procedimenti di opposizione avverso l'irrogazione di sanzioni pecuniarie amministrative, i quali presentano sicuramente, rispetto all'ordinario processo civile, alcune peculiarità tipiche del processo penale.
Negli ultimi anni, però, le ipotesi di potenziali violazioni del principio del ne bis in idem per il concorso tra una sanzione penale ed una sanzione, per così dire, “para-penale”, si sono dilatate.
Si pensi all’ampio catalogo, certificato da Cass., Sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601, delle misure sanzionatorie civilistiche con finalità tipicamente punitiva e deterrente, peraltro tutte destinate a vantaggio della parte danneggiata, e non dell’Erario, con l’unica eccezione della misura di cui all’art. 709 ter, comma 2, n. 4, c.p.c. (sanzione che la norma definisce “amministrativa” e devolve alla Cassa delle ammende).
Si pensi, ancor di più, alle sanzioni pecuniarie civili previste dal d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, strutturate su due livelli di crescente afflittività proporzionata alla gravità delle sanzioni penali prima comminate, restando, tuttavia, la competenza punitiva del giudice civile subordinata all’eventualità che la vittima dell’illecito promuova l’azione risarcitoria, con evidente funzione “ultracompensativa”. Il d.lgs. n. 7 del 2016 delinea, invero, sanzioni di carattere punitivo in favore dello Stato, che di “civile” hanno essenzialmente il giudizio in cui vengono inflitte, e che però rivelano scopi general-preventivi e repressivi, tali da assimilarle, piuttosto, alle tipiche sanzioni penali. La portata afflittiva delle sanzioni pecuniarie introdotte dal d.lgs. n. 7/2016, l’iniziale rilevanza penale delle condotte, la competenza giurisdizionale in ordine all’irrogazione e la disciplina prevista in ipotesi di reiterazione, inducono a ritenere operanti per esse la garanzia del ne bis in idem nei termini di cui qui si discute.
L’esame della più recente giurisprudenza delle sezioni civili della Corte di cassazione ci aiuterà, comunque, a comprendere quando il giudice civile, dovendo conoscere di una sanzione sostanzialmente penale, subisce il limite negativo della formulazione di una nuova “imputazione” per un fatto già processato dal giudice penale.
Tale ambito di operatività del ne bis in idem nel giudizio civile è cosa evidentemente diversa dall’ambito in cui, invece, la sentenza, che abbia definito il processo penale, si dimostra idonea a produrre effetti vincolanti in quello civile in ordine all’accertamento dei fatti materiali, a norma degli artt. 651, 651 bis, 652 e 654 c.p.p.
2. Specialità, ‹‹doppi binari›› e bis in idem - Il profilo che viene subito in risalto è, dunque, quello del concorso tra illecito penale ed illecito amministrativo. Tale possibile interazione è esplicitamente supposta dall’art. 9, comma 1, della legge 24 novembre 1981, n. 689, secondo il quale “quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale”. Pur parlando l’art. 9, comma 1, cit., di “stesso fatto”, e non di “stessa materia”, come invece fa l’art. 15 c.p., il criterio dettato dalla legge di depenalizzazione è ormai costantemente inteso come espressivo della “specialità in astratto”. L’art. 9, legge n. 689/1981, opera, cioè, se, e nei limiti in cui, la fattispecie prevista nella disposizione punitiva generale sia compresa in quella speciale, la quale contiene un elemento ulteriore rispetto alla prima, così che, ove non fosse prevista la norma speciale, la fattispecie rientrerebbe nella disposizione generale. Non ha quindi rilievo decisivo, al fine di individuare il rapporto di specialità occorrente per dissolvere un concorso apparente di norme, l’una penale, l’altra amministrativa, il criterio del bene o dell'interesse protetto dai precetti punitivi concorrenti, quanto il dato che le previsioni sanzionatrici coincidano sotto il profilo dell'identità dell'avversato comportamento del trasgressore e si differenzino per il fatto di dar rilievo, l'una e non l'altra, ad ulteriori elementi tipizzanti, appunto, "speciali”.
A parziale correttivo della operatività unidirezionale dell’art. 9, comma 1, cit., il quale, come visto, riscontrata la relazione di specialità fra norme, postula sempre l’applicabilità della disposizione speciale (non contenendo esso, del resto, nemmeno la “clausola di riserva” con cui invece si chiude l’art. 15 c.p.), in dottrina si propone di utilizzare proprio il principio del ne bis in idem sostanziale per regolare il concorso tra illecito amministrativo ed illecito penale, dando rilievo altresì all’offensività del fatto, e così facendo prevalere, secondo un criterio - inespresso ma immanente - di consunzione, il trattamento sanzionatorio più severo, amministrativo o penale che sia.
L’ordinamento italiano conosce, tuttavia, com’è noto, due regimi processuali e sanzionatori riferibili al modello del cosiddetto “doppio binario”: quello del diritto tributario e quello degli abusi di mercato.
In maniera del tutto simile all’art. 9, legge n. 689/1981, viene regolato nell’art. 19, comma 1, del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il concorso infra-sistematico tra illeciti amministrativi tributari e corrispondenti reati, pur prevedendosi poi, all’art. 21, comma 2, del medesimo d.lgs. n. 74/2000, un meccanismo di sospensione della eseguibilità delle sanzioni amministrative relative alle violazioni tributarie fatte oggetto di notizia di reato, che potrebbe sembrare proprio un’applicazione del divieto del ne bis in idem sostanziale quanto meno in fase esecutiva. Le sanzioni amministrative possono, cioè, essere messe in esecuzione sol quando il concomitante procedimento penale abbia escluso che il fatto abbia rilevanza come reato. Rimane un problema di ne bis in idem processuale: l’art. 20 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, esclude che il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario possano essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione.
Costituisce, infine, una disciplina affatto peculiare di deroga al principio di specialità quella del cosiddetto market abuse, visto che sia l’art. 187 bis TUF, in tema di abuso e comunicazione illecita di informazioni privilegiate, sia l’art. 187 ter TUF, in tema di manipolazione del mercato, stabilendo le sanzioni amministrative per tali condotte, continuano - pure dopo l’ultima riforma introdotta dal d.lgs. 10 agosto 2018, n. 107 - a contenere espresse clausole che fanno “salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato”. Tale concorso tra sanzioni penali e sanzioni formalmente amministrative si pone spesso in contrasto col principio del ne bis idem sostanziale ex artt. 50 CDFUE e 4 Prot. 7 CEDU, visto che le fattispecie di reato sembrano esaurire integralmente il disvalore del fatto, con conseguente consunzione degli illeciti amministrativi. Il rischio della sommatoria delle sanzioni è in parte evitabile facendo applicazione dell’art. 187 terdecies TUF, nella formulazione ora risultante dopo la modifica introdotta dal d.lgs. n. 107 del 2018, secondo il quale, quando per lo stesso fatto è stata applicata, a carico dell'autore della violazione o dell'ente, una sanzione amministrativa pecuniaria irrogata dalla CONSOB, ovvero una sanzione penale o una sanzione amministrativa dipendente da reato, il giudice deve tener conto, nel determinare le sanzioni di sua competenza, delle misure punitive già applicate, limitando l’esazione della pena pecuniaria alla parte eccedente quella riscossa. La soluzione individuata dal legislatore del 2018 con la riscrittura dell’art. 187 terdecies TUF, nel senso di imporre la somma algebrica e lo “scomputo” del pregresso nel coordinamento tra (sole) sanzioni pecuniarie penali ed amministrative in tema di abusi di mercato, non aiuta, tuttavia, a dare immediata risposta alle ipotesi di concorso implicanti l’adozione di sanzioni detentive o interdittive.
Come a breve vedremo, per entrambi i casi di “doppio binario” punitivo presenti nell’ordinamento italiano, la giurisprudenza interna sopperisce all’esigenza di evitare il bis in idem in base al criterio della “sufficiente connessione sostanziale e temporale” tra i procedimenti sanzionatori riferiti ai medesimi fatti, criterio che, seppur conforme alle più recenti indicazioni della Corte EDU, presenta, secondo la dottrina, contorni sfuggenti. Il procedimento penale e quello amministrativo devono, in pratica, riguardare la stessa condotta individuata in concreto, perseguire finalità complementari e denotare una proficua collaborazione tra le autorità competenti, e la sanzione inflitta nel procedimento antecedente deve essere presa in considerazione anche nel secondo procedimento, in maniera che la sanzione complessiva risulti comunque proporzionale alla infrazione. La Corte di cassazione riconosce, così, una mutata dimensione del ne bis in idem eurounitario e convenzionale, il quale non è più (soltanto) divieto (meramente processuale) di doppio processo e di doppia sanzione sostanzialmente penale, ma garanzia di tipo sostanziale.
3. Sanzioni tributarie e penali per lo stesso fatto – La Quinta Sezione civile della Corte di cassazione (Cass. Sez. 5, 13 marzo 2019, n. 7131) ha negato la violazione del ne bis in idem in un caso in cui le vicende comprovavano “una stretta connessione, sul piano sostanziale oltre che cronologico, tra l'accertamento in sede tributaria ed il procedimento penale”.
In sostanza, analogamente a quanto aveva deciso in precedenza la Terza Sezione Penale della S.C. (Cass. pen., Sez. 3, ud. 22 settembre 2017, dep. 14 febbraio 2018, n. 6693), la Sezione Tributaria, con l’ordinanza 7131/2019, ha fatto applicazione del criterio della “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta” tra procedimento tributario e penale, sancito dalla sentenza Corte EDU, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, n. 24130/11 e 29758/11, a partire dalla quale la giurisprudenza convenzionale ha fatto venire meno il divieto assoluto di doppio procedimento, in presenza, appunto, della close connection dovuta alla complessiva contemporaneità del loro svolgersi.
Pertanto, le sanzioni amministrative tributarie (o finanziarie) che rivelano finalità non solo risarcitoria, ma anche deterrente e punitiva, e sono perciò riconducibili alla “materia penale” (nonostante le controversie fiscali si intendano generalmente sottratte all’applicazione dell’art. 6 CEDU), sono regolate dal principio del ne bis in idem, allorché i fatti, che hanno esposto l’interessato a sanzioni sia amministrative che penali, costituiscano un insieme di circostanze indissolubilmente legate tra loro nel tempo e nello spazio. La reazione coordinata dell’ordinamento interno, che assicuri una connessione “in substance and in time” tra la sanzione penale e la sanzione (formalmente) amministrativo-tributaria (ma sostanzialmente punitiva), secondo gli indici sintomatici elaborati dalla Corte EDU, fonda, dunque, la inoperatività del ne bis in idem.
Una irrisolta questione di possibile duplicazione di fattispecie sanzionatoria permane in relazione alle condotte di omesso versamento di ritenute dovute o certificate e di omesso versamento di IVA, oggetto dei reati di cui agli artt. 10 bis e 10 ter del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, e poi anche perseguibili in via amministrativa. La giurisprudenza penale ravvisa un rapporto non di specialità (in cui l’elemento specializzante sarebbe la soglia di punibilità dei reati, come sostiene la dottrina) ma di progressione illecita tra le norme penali ed i corrispondenti illeciti amministrativi, con la conseguenza che al trasgressore devono essere applicate entrambe le sanzioni (Cass. pen., Sez. Un., 28 marzo 2013, n. 37424 e 37425, dep. 12 settembre 2013). Resterebbe da verificare, altrimenti, se non sia riscontrabile la consunzione dell’illecito amministrativo nel caso di consumazione del più grave delitto, che appare in grado di esprimere integralmente il disvalore del fatto.
4. Bis in idem e abusi di mercato – Le più recenti decisioni delle Sezioni civili della Corte di cassazione in tema di abusi di mercato evidenziano la nuova sensibilità dei giudici nel ravvisare il nucleo del ne bis in idem nel rispetto proprio della proporzionalità sanzionatoria complessiva.
Così, Cass. Sez. 5, 30 ottobre 2018, n. 27564, nel procedimento che aveva avuto il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE culminato in Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 20 marzo 2018, C-537/16, Garlsson Real Estate, affermava:
“a) non può essere sindacata la scelta del legislatore di sanzionare la condotta illecita - pur avente ad oggetto lo "stesso fatto" inteso secondo la giurisprudenza della Corte e.d.u. - con la previsione di un doppio binario processuale (penale/amministrativo);
b) l'avvio di separati procedimenti, con la possibilità di vedere applicate sanzioni diverse, costituisce una circostanza prevedibile e l'incolpato sa o – comunque - è in grado di sapere - nei sistemi, come quello italiano, in cui è possibile il "doppio binario" - che nei suoi confronti potrebbe essere esercitata (o che, quantomeno, che ve ne è la possibilità), sia l'azione penale che inflitta una sanzione tributaria - amministrativa;
c) il rispetto del principio del ne bis in idem non dipende dall'ordine nel quale sono stati condotti i rispettivi procedimenti; l'unico fattore materiale è il rapporto tra i due illeciti.
Possibile, quindi, una doppia risposta sanzionatoria: una sanzione amministrativa ed una sanzione penale, le quali perseguono scopi diversi (…).
Occorrono quindi, ai fini della cumulabilità dei procedimenti, alla luce dei principi unionali, la sussistenza delle seguenti condizioni:
a) svolgimento di processi paralleli e tra loro connessi;
b) proporzionalità della sanzione inflitta nel senso che la pena inflitta in un procedimento deve tener conto della sanzione inflitta nell'altro.
È altresì possibile che le diverse sanzioni siano irrogate da due diverse autorità nell'ambito di procedure diverse, purché con un collegamento sufficientemente stretto tra di loro, sia nella sostanza che cronologicamente, così potendo le stesse essere considerate come facenti parte di un complesso schema sanzionatorio.
Occorre, quindi, che sia garantita: 1) la proporzionalità delle risposte punitive rispetto agli scopi perseguiti; 2) la prevedibilità di tale doppia risposta sanzionatoria in forza di regole normative chiare e precise; 3) il coordinamento tra i procedimenti sanzionatori in modo che l'onere per l'interessato da tale cumulo sia limitato allo stretto necessario; 4) il rispetto del principio di proporzionalità delle pene sancito all'art. 49, par. 3, della Carta secondo cui le sanzioni complessivamente inflitte devono corrispondere alla gravità del reato commesso. Al riguardo si ritiene sussistente il requisito sostanziale richiesto ai fini della "sufficiente connessione" tra procedimento penale e amministrativo con un'unica risposta integrata dell'ordinamento contro il medesimo fatto illecito che può essere assicurata dalla valutazione complessiva delle sanzioni - essendo ancora sub iudice quella amministrativa - da parte del giudice chiamato a tale ultima valutazione. Deve anche ritenersi esistente il nesso di carattere cronologico tra i due procedimenti penale e amministrativo che, per i giudici di Strasburgo, non implica necessariamente che i procedimenti debbano essere condotti in maniera parallela, potendo sussistere anche nell'ipotesi in cui il secondo procedimento inizi successivamente alla definizione del primo purché vi sia una valutazione di proporzionalità tra le sanzioni (…)”.
Veniva così affidato al giudice di rinvio, trattandosi di accertamento di merito, di valutare la “congruità della doppia sanzione inflitta” rispetto all’illecito di manipolazione del mercato commesso, riconoscendo allo stesso giudice di rinvio “la possibilità, essendo passata ormai in giudicato la condanna penale, che la sanzione amministrativa, oltre a potere essere annullata o confermata, possa essere ridotta al fine di ricondurre la condanna complessivamente valutata (sanzione detentiva e amministrativa) nei limiti della efficacia, proporzionalità e dissuasività (…), nell'ottica del bilanciamento operato dalla Corte di Giustizia tra il principio del ne bis in idem e l'esigenza di tutela della effettività proporzionalità e dissuasività della sanzione”.
Sempre in nome dell’accezione spiccatamente sostanzialistica del ne bis in idem, Cass. Sez. 2, 6 dicembre 2018, n. 31634, ha poi smentito che, in ipotesi di contemporanea pendenza di un procedimento amministrativo per l'applicazione di una sanzione di natura sostanzialmente penale in materia di intermediazione finanziaria e di un procedimento penale sui medesimi fatti, possa trovare applicazione la preclusione da ne bis in idem, ostando alla sospensione dell’opposizione davanti al giudice civile l'art. 187 duodecies del d.lgs. n. 58 del 1998. E’, piuttosto, “la sanzione del procedimento rimasto pendente a dover essere rimodulata ove essa, cumulata con la pena divenuta definitiva, ecceda i criteri di efficacia, proporzionalità e dissuasività, e tanto a prescindere dalla circostanza che la sanzione irrogata per prima sia quella (anche formalmente) penale o quella (sostanzialmente penale ma formalmente) amministrativa, o viceversa (nel qual caso l'eventuale sentenza di condanna penale potrà valorizzare i parametri di cui all'art. 133 c.p. per commisurare la pena alla gravità del fatto in base ai predetti criteri, tenendo conto anche della definitività della sanzione inflitta in sede amministrativa)”.
Una agevole ed automatica applicazione del ne bis in idem dinanzi al giudice civile dell’opposizione a sanzione amministrativa sostanzialmente penale relativa ad abusi di mercato è invece data dall’eventualità in cui vi sia già stata una sentenza penale di assoluzione. Il caso, che era stato già affrontato da CGUE, Grande Sezione, 20 marzo 2018, C-596/16 e C-597/16, Di Puma e Zecca, viene risolto in Cass. Sez. 2, 6 dicembre 2018, n. 31632, nel senso che non è compatibile con il principio del ne bis in idem di diritto convenzionale ed euro unitario e, in particolare, con l'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (il quale non entra in conflitto con alcuna disposizione interna del TUF, e perciò non pone né questione di disapplicazione di norme statali in ragione del primato del diritto dell'Unione europea, né dubbi di costituzionalità astrattamente prospettabili in relazione all'articolo 117 Cost.) l'instaurazione di un procedimento amministrativo sanzionatorio o la sua prosecuzione - eventualmente anche in sede di opposizione giurisdizionale - in relazione alla commissione dell'illecito amministrativo di cui all'art. 187 bis TUF, qualora, con riferimento ai medesimi fatti storici, l'incolpato sia stato definitivamente assolto in sede penale con formula piena dal delitto previsto dall'art. 184 TUF.
La stessa Cass. Sez. 2, 6 dicembre 2018, n. 31632, avvertiva come ben diverse debbano essere le considerazioni da svolgere ove il giudice civile si trovi ad irrogare una sanzione amministrativa sostanzialmente penale in relazione agli stessi fatti storici coperti da un giudicato penale di condanna, e sul punto registrava il “non perfetto allineamento tra la declinazione del principio del ne bis in idem offerta dalla Corte di giustizia e quella offerta dalla Corte Edu”, valorizzando la prima “principalmente la presenza di norme di coordinamento che garantiscano la proporzionalità dell'esito sanzionatorio complessivo”, e la seconda, viceversa, “principalmente la vicinanza cronologica dei diversi procedimenti e la loro complementarietà nel soddisfacimento di finalità sociali differenti”.
Da ultimo, Cass. Sez. 2, 17 dicembre 2019, n. 33426, preso atto che al ricorrente era stata irrogata una sanzione penale, divenuta definitiva, per una condotta illecita di manipolazione del mercato (e ciò sulla base di sentenza ex art. 444 c.p.p. ritenuta dalla S.C. “ritualmente depositata ai sensi dell'art. 372 c.p.c.”), ha evidenziato come:
I: “ai fini della valutazione del ne bis in idem, nel caso di sanzione penale irrevocabile irrogata dal giudice penale, la correlata sanzione ammnistrativa applicata per gli stessi fatti ed ancora sub iudice può ulteriormente esplicare i suoi effetti soltanto nell'ipotesi in cui la sanzione penale (rectius: la sua complessiva afflittività) assorba (ove non sia, perciò, necessario il rispetto di un principio di gradualismo del globale apparato sanzionatorio) completamente il disvalore della condotta antigiuridica rilevante sul piano penale ed amministrativo, offrendo, perciò, piena tutela all'interesse protetto dell'integrità dei mercati finanziari e della fiducia del pubblico negli strumenti finanziari”;
II: “qualora la sanzione penale irrogata e divenuta definitiva (…), si dovesse ritenere già proporzionata ai reati commessi in ordine agli stessi fatti su cui è stato intrapreso anche il procedimento sanzionatorio amministrativo, andrebbe applicato il principio del "divieto del ne bis in idem", in virtù della circostanza che qualsiasi aggravamento in sede sanzionatoria "amministrativa" (ma la cui "pena" è sostanzialmente equiparabile a quella propriamente penale) rappresenterebbe una violazione di tale divieto, proprio per effetto del mancato rispetto del criterio della proporzione afflittiva tra cumulo sanzionatorio e fatti commessi”.
III: “Diversamente, ovvero nell'eventualità in cui non si dovessero ritenere sussistenti le condizioni per una valutazione di adeguatezza e proporzionalità (assorbenti) della già irrogata sanzione conseguente alla sopravvenuta condanna definitiva in sede penale, deve rilevarsi che è demandato allo stesso giudice di merito riconsiderare tutti gli aspetti della complessiva vicenda (con particolare riferimento a quelli soggettivi ed oggettivi, al superamento del grado di lesione degli interessi giuridici protetti e all'entità del danno causato) per un intervento "proporzionalmente" riduttivo della misura delle sanzioni pecuniarie e personali applicate con la delibera Consob”.
Ciò premesso, Cass. Sez. 2, 17 dicembre 2019, n. 33426, ha accolto il ricorso “limitatamente alla rivalutazione dell'impianto sanzionatorio, demandando al giudice di rinvio di procedere alla indicata verifica in ordine alla proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio applicato al ricorrente con riferimento alle sanzioni pecuniarie e a quella personale (…), valutando, tra l'altro, l'incidenza dei fatti sull'integrità e trasparenza del mercato finanziario e sulla fiducia del pubblico negli strumenti finanziari, ma anche la complessiva condotta osservata dal ricorrente, alla stregua dei principi precedentemente evidenziati di derivazione dalle Corti europee”.
Sembra di poter concludere, dunque, quanto al “doppio binario” punitivo tipico degli abusi di mercato, che il divieto del bis in idem, divenuto ormai garanzia sostanziale, è posto dalla giurisprudenza delle sezioni civili della Corte di cassazione a presidio della proporzionalità del trattamento sanzionatorio cumulato, in modo che esso non divenga irragionevole.
Non di meno, la dottrina, che pur plaude al legame tra giudizio di valore sulla proporzionalità della sanzione complessiva e principio del ne bis in idem a valenza sostanziale, avverte come esaurire il contenuto del secondo nella portata del primo, oltre a contaminare il principio con la carenza di predeterminazione e di certezza del canone di proporzione ed a ridurlo in un meccanismo compensativo, impoverisce il divieto stesso del bis in idem, il quale intende scongiurare, prima ancora che la duplice sanzione, il concorso apparente di norme e la duplice qualificazione giuridica del medesimo fatto.
5. I ‹‹non bis in idem›› – Al di fuori dei settori, per così dire, “classici” delle sanzioni tributarie e degli abusi di mercato, la giurisprudenza civile della Corte di cassazione non ha mai ravvisato altre ipotesi in cui potesse operare il divieto del bis in idem di derivazione eurounitaria e convenzionale.
Così, Cass. Sez. 2, 15 aprile 2019, n. 10459, ha escluso che integrasse una violazione del principio del ne bis in idem la “doppia punibilità” stabilita dall’art. 3 della legge 23 dicembre 1986, n. 898, in materia di aiuti comunitari nel settore agricolo, cumulandosi alla sanzione penale la sanzione amministrativa pecuniaria pari all’importo della erogazione indebitamente percepito. Tale sanzione pecuniaria non sarebbe, infatti, equiparabile a quella penale “per qualificazione giuridica, natura e grado di severità”.
Generalmente negativa è la risposta delle sentenze in punto di ravvisabilità della violazione del bis in idem con riguardo alle sanzioni disciplinari, in dichiarata adesione alla giurisprudenza della Corte E.D.U., che convintamente estromette le stesse dalla “matière pénal”, giacché riservate “ad un gruppo ristretto e determinato di individui”, ovvero alla sola tutela della “profession’s reputation”.
Cass. Sez. 2, 3 febbraio 2017, n. 2927, in ordine ad un giudizio disciplinare nei confronti di un notaio, sanzionato penalmente per i medesimi fatti a titolo di peculato e truffa, negò la violazione del principio del ne bis in idem in ordine alla irrogazione dalla misura della sospensione dalla professione, evidenziando come la sanzione disciplinare inflitta non rivelasse natura sostanzialmente penale, atteso che il precetto deontologico ha come destinatari gli appartenenti a un ordine professionale ed è preordinato all’effettivo adempimento dei doveri inerenti al corretto esercizio dei compiti assegnati al professionista dall'ordinamento.
Nello stesso senso, Cass. Sez. Un. 20 novembre 2018, n. 29878, la quale, a proposito della sanzione disciplinare della radiazione inflitta ad un avvocato, già perseguito in sede penale per la stessa condotta, ha ribadito la diversità di finalità, intensità ed ambiti di applicazione della sanzione disciplinare e di quella penale, ed ha smentito la violazione del principio del ne bis in idem, sempre confutando la natura sostanzialmente penale della infrazione deontologica.
Anche Cass. Sez. lav., 26 ottobre 2017, n. 25485, giudicando sulla legittimità della sanzione disciplinare disposta a carico di un pubblico dipendente, condannato in sede penale per i reati di truffa aggravata e di peculato, ha negato che le sanzioni disciplinari inflitte dal datore di lavoro abbiano natura penale ai fini dell'applicazione dell'art. 4 del protocollo 7 della CEDU, “perché il potere disciplinare non è espressione della pretesa punitiva dell'autorità pubblica e nei rapporti disciplinati dal d.lgs. n. 165 del 2001, ha natura privatistica-contrattuale. La sanzione disciplinare, infatti, è strettamente correlata al potere direttivo del datore di lavoro, inteso come potere di conformazione della prestazione alle esigenze organizzative dell'impresa o dell'ente, potere che comprende in sé quello di reagire alle condotte del lavoratore che integrano inadempimento contrattuale. La previsione della sanzione disciplinare non è posta a presidio di interessi primari della collettività, tutelabili erga omnes, né assolve alla funzione preventiva propria della pena, sicché l'interesse che attraverso la sanzione disciplinare si persegue, anche qualora i fatti commessi integrino illecito penale, è sempre quello del datore di lavoro al corretto adempimento delle obbligazioni che scaturiscono dal rapporto”. Cass. Sez. lav., 26 ottobre 2017, n. 25485, avvertiva, peraltro, come diversa sia la questione ove venga attivato un nuovo procedimento disciplinare in relazione ad addebiti già sanzionati dal datore di lavoro, in tal caso operando il divieto del ne bis in idem fra procedimenti disciplinari avviati per le medesime condotte, non già fra processo penale e procedimento disciplinare.
Il criterio operativo, che ravvisa a priori nelle sanzioni disciplinari una natura inevitabilmente preventiva ed esclusivamente settoriale, lascia perplessa parte della dottrina, la quale contesta l’esclusione dall’ambito del “sostanzialmente penale” quanto meno quelle misure che comportano una esclusione pressoché totale dal contesto sociale di riferimento.
6. Come “entra” il bis in idem nel giudizio civile di cassazione? – Nessuna delle decisioni citate affronta in modo esplicito il problema di come possa fare ritualmente ingresso nel giudizio civile di legittimità la deduzione della violazione del bis in idem.
Una decisione (Cass. Sez. 2, 17 dicembre 2019, n. 33426) afferma, tra le righe, che la sentenza penale che abbia irrogato una condanna penale per lo stesso fatto alla parte del giudizio civile di cassazione possa poi essere ivi “depositata ai sensi dell'art. 372 c.p.c.”.
Altra sentenza (Cass. Sez. 2, 3 febbraio 2017, n. 2927) assimilava la pregressa condanna penale ad un “giudicato esterno” e perciò stigmatizzava il difetto di specificità del motivo di ricorso che lamentava il ne bis in idem: “il ricorso avrebbe dovuto trascrivere o riassumere quanto meno stralci significativi della decisione passata in giudicato in modo da dimostrare la identità tra i fatti accertati nel giudizio penale e quelli oggetto del presente procedimento disciplinare, così da consentirne alla Corte di Cassazione la verifica. Il che non è avvenuto nella specie (…) e sarebbe stato tanto più necessario se si considera (…) che, secondo la Corte Europea dei diritti dell'uomo, il divieto del bis in idem ovvero di emettere plurime condanne per lo stesso fatto a seguito di due procedimenti penali postula la perfetta coincidenza del fatti storici, che integrano la condotta oggetto dell'illecito (…).
Nelle sezioni civili della Corte di cassazione non sembra, dunque, ancora aperto un dibattito chiaro sulla rilevabilità della preclusione da ne bis in idem nel giudizio civile di legittimità, dibattito che è invece assai risalente nella giurisprudenza penale, per lo più assestata nel senso che non può essere effettuato per la prima volta dinanzi alla Suprema Corte un accertamento sull’identità del fatto sanzionato con la prima condanna e di quello oggetto della seconda incolpazione.
Ora, la sentenza penale intervenuta nel corso del giudizio di merito concernente la sanzione “sostanzialmente penale”, deve essere fatta valere, ai fini preclusivi del bis in idem, in quella sede, e la decisione resa in proposito è impugnabile sul punto con il ricorso per cassazione.
Se, invece, la condanna penale sia intervenuta dopo la conclusione del giudizio di merito, la relativa sentenza potrebbe dirsi sottratta al divieto di produzione posto dall'art. 372 c.p.c., ma se intesa a far valere la successiva formazione del giudicato, e perciò riconducibile alla categoria dei documenti riguardanti l'ammissibilità del ricorso.
Nel caso, tuttavia, di sentenza penale di condanna sopravvenuta a quella civile impugnata, che si intenda allegare nel processo di cassazione per ottenere, piuttosto, una rivalutazione dell’adeguatezza e della proporzionalità della sanzione amministrativa sub iudice alla luce di quella già inflitta, ovvero per contestare il mancato coordinamento tra i due procedimenti sanzionatori, essa deve intendersi volta all’affermazione o alla negazione di fatti materiali, ovvero a valutazioni di stretto merito di regola non deducibili nel giudizio di legittimità, sicché la produzione della sentenza penale sembra altresì estranea all'ambito previsionale dell'art. 372 c.p.c.
Riguardo, tuttavia, a questi profili prettamente processuali del ne bis idem, conviene forse qui concludere che semmai vi sarà poi un momento più opportuno per parlarne, mentre ora vi è soltanto tempo per tacere.
[1] Relazione svolta nel corso dell’incontro di studio organizzato dalla Struttura della formazione decentrata della Scuola della Magistratura presso la Corte di Cassazione in data 19 febbraio 2020 sul tema IL DIVIETO DI BIS IN IDEM: PUNTI FERMI E PROFILI PROBLEMATICI CORTI NAZIONALI E CORTI SOVRANAZIONALI A CONFRONTO.
Verso il processo telematico in Cassazione
di Pierpaolo Gori
Sommario: 1. Processo telematico e giurisdizioni superiori, il caso della Cassazione.- 2. Alcuni dati sul processo civile telematico - 3. Il PTT e il processo di legittimità. - 4. Il deposito telematico dei ricorsi civili presso la Corte di Cassazione, sperimentazioni in corso. - 5. Prospettive nell’immediato futuro: il Desk del consigliere di Cassazione.
Il presente contributo tratteggia le fonti normative e le condizioni concrete in cui la Corte di Cassazione, soprattutto nel settore civile, sta procedendo verso il processo telematico e le prospettive di sviluppo nell’immediato futuro. L’adozione del Desk del consigliere e del deposito telematico dei ricorsi e degli atti successivi è un obiettivo non differibile, dopo che il processo telematico è ormai obbligatorio da un decennio negli Uffici di merito, ed è stato negli anni adottato dalla giustizia amministrativa, contabile, tributaria e l’informatizzazione risponde a buone prassi consolidate anche presso Corti sovranazionali come la CEDU. Questo ritardo può anche essere un’opportunità, ove sia utilizzato per fare tesoro delle importanti esperienze raccolte presso gli altri Uffici e il Desk tenga conto delle peculiarità del processo di legittimità e della giurisdizione nazionale. La riprogettazione del Desk e la sua sperimentazione, sia sul versante del deposito telematico degli atti da parte degli avvocati, sia della visualizzazione degli atti e decisione dei ricorsi da parte dei consiglieri della Corte, è attualmente in corso.
1. Processo telematico e giurisdizioni superiori, il caso della Cassazione.
Un primo fondamentale passaggio per l’avvio del Processo Civile Telematico presso la Corte di Cassazione è intervenuto il 15 febbraio 2016, quando è stato dato inizio alle comunicazioni telematiche obbligatorie in Cassazione per i procedimenti civili[1].
Sul piano pratico, l’obbligo delle comunicazioni telematiche ha così determinato l’ingresso della Corte di legittimità nella progressiva digitalizzazione del processo civile, ormai molto avanzata in primo e secondo grado, dove il PCT è obbligatorio dal 2009[2] per quasi tutte le funzioni giudicanti. Questa prima iniziale svolta ha allineato la Corte di Cassazione con le altre giurisdizioni superiori italiane, ma solo in parte e per breve tempo.
Eccezion fatta per un iniziale periodo transitorio destinato alle necessarie verifiche tecniche, già a partire dal 2016 anche per i giudizi innanzi alla magistratura contabile è divenuto obbligatorio, sia nei confronti dell’Amministrazione, sia delle parti, l’utilizzo della posta elettronica certificata per il deposito, l'invio e la ricezione di comunicazioni e notifiche degli atti processuali[3].
Successivamente, a partire dal 2017 le giurisdizioni superiori iniziano a correre verso la telematizzazione. Il 7 ottobre 2016 entra in vigore il Codice della giustizia contabile[4], il quale ridisciplina le regole processuali dei giudizi di responsabilità erariale, di conto e di quelli sanzionatori e pensionistici innanzi alla Corte dei Conti. Nel Codice[5] è previsto che, nella giustizia contabile, ove non sia disposto diversamente, si applichino le regole e le specifiche tecniche del processo civile telematico. Nondimeno, va pure considerato che l’attuazione completa del PCT non è immediatamente completa e, ancora a novembre 2019[6], è risultata necessaria una nuova versione della piattaforma telematica per visualizzare ed estrarre copia dei documenti informatici contenuti nei fascicoli di causa.
Dal 1 gennaio 2017 il processo amministrativo è divenuto telematico per tutti i nuovi ricorsi incardinati non solo davanti ai TAR, ma anche davanti al Consiglio di Stato e al Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana[7].
Sul deposito telematico degli atti introduttivi, la Corte di Cassazione è invece attestata all’”Avvertenza” del Primo Presidente del 15.6.2016 di divieto del deposito telematico di atti processuali, restando efficace solo il deposito telematico di atti non aventi immediata incidenza sul processo[8]. In coerente applicazione di tali principi è stato ad esempio statuito che “Il tardivo deposito dell'originale del ricorso per cassazione ne comporta l'improcedibilità, indipendentemente dall'avvenuta sua trasmissione in via telematica nei termini di cui all'art. 369 c.p.c., né sussistono i presupposti per una rimessione in termini fondata sull'errore scusabile, atteso che la normativa vigente non ammette ancora i depositi in via telematica nei giudizi innanzi alla Corte di Cassazione.”[9].
Questo mancato adeguamento comporta la necessità di distinguere la stessa rilevanza dei principi dell’errore scusabile e del raggiungimento degli effetti tra gradi di merito e giudizio di legittimità, al fine di stabilire l’efficacia o meno dell’introduzione del processo per effetto del deposito telematico dell’atto processuale[10].
Anche il confronto con le Corti sovranazionali sull’uso del telematico è significativo, se si pensa che, ad esempio, il supporto informatico al lavoro della Corte EDU è costante ed è articolato su più livelli, e non è limitato ad un database di tutte le sentenze e decisioni accessibile dall’esterno attraverso un moderno motore di ricerca (HUDOC) per diversi aspetti assimilabile al CED. E’ infatti molto rilevante per l’omogeneità delle decisioni la rete informativa intranet della Corte e, quanto alla tenuta informatica dei fascicoli, l’applicativo interno alla Corte (CMIS), che reca informazioni sui dati esterni del singolo processo. Infine, il DM è il database utilizzato per effettuare e conservare tutto il lavoro di scrittura dei singoli provvedimenti, da quelli iniziali alla decisione finale. In DM sono contenuti tutti gli atti dei fascicoli e tutti i provvedimenti, sia in corso di redazione sia già firmati e pubblicati, in relazione al singolo fascicolo[11].
Lo stato di cose va poi letto alla luce del fatto che nei tribunali di primo grado l’istituzione dell’Ufficio per il processo è divenuta obbligatoria dal 30 giugno 2019, anche se per gli altri Uffici, inclusa la Corte di Cassazione è facoltativa[12]. Si tratta di uno strumento di efficienza chiave che può contribuire con forza all’introduzione e al successo del processo telematico in Cassazione in quanto struttura organizzativa finalizzata a “garantire la ragionevole durata del processo, attraverso l’innovazione dei modelli organizzativi ed assicurando un più efficiente impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione”[13].
2. Alcuni dati sul processo civile telematico.
Una delle peculiarità della Corte di Cassazione è essere giurisdizione nazionale e, dunque, si potrebbe pensare sia notevolmente più complesso organizzare buone prassi e protocolli che investano un gran numero di Avvocati iscritti all’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori[14] e provenienti da varie realtà territoriali. Nondimeno, la percezione positiva del Foro e della stessa Magistratura[15] verso il processo telematico, dopo un’iniziale diffidenza, è progressivamente cresciuta insieme alla consapevolezza dei vantaggi che questa innovazione tecnologica assicura, come attesta un questionario raccolto su base nazionale dalla Cassa Forense.
La Commissione Informatica Giudiziaria ha diffuso il modulo attraverso tutti gli Ordini degli Avvocati d’Italia al fine di fare il punto sulle condizioni reali di attuazione del processo telematico sul territorio nazionale, e ha rilevato che, contrariamente a quanto si possa pensare, l’avversione del Foro è andata progressivamente scemando, dopo un primo momento restio e nostalgico rispetto al processo cartaceo.
Il questionario ha rivelato come, in tutta Italia, l’utilizzo del processo telematico è ormai entrato nell’uso quotidiano, senza che sia stato d’ostacolo il fatto che diversi magistrati continuino nei singoli uffici a richiedere le c.d. copie di cortesia, secondo prassi concordate dagli Uffici tramite protocolli, non incentivati dalla normativa né dal Foro, ma nemmeno preclusi e idonei a contemperare le esigenze della transizione.
In merito ai tempi di inserimento degli atti giudiziari depositati, l’87% degli Ordini intervistati ha riscontrato positivamente la risposta del processo telematico entro uno o due giorni dall'invio. Le differenze, quantitativamente esigue, riguardano soprattutto la tempestività relativa tra l’invio e la risposta che, generalmente, interviene per lo più entro il termine massimo di tre giorni[16].
Sui tempi di emissione della terza e quarta ricevuta, nell’83% dei casi si è riscontrato il decorso di un giorno per l’una e di due o tre o, più raramente, più giorni, per l’altra e ultima ricevuta prevista.
Nell'utilizzazione del PCT nei singoli Uffici, si riscontrano nondimeno significative differenze, con una limitazione soprattutto per determinate funzioni come l'ufficio del Giudice Tutelare. L’uso del PCT nell’ambito della Volontaria Giurisdizione è utilizzato soprattutto in alcuni grandi Uffici, ma questo sconta anche il fatto che spesso non è presente difesa tecnica, e anche presso il Tribunale dei Minorenni l’uso dell’applicativo è atteso solo per l’estate 2020[17].
Il processo telematico bene si è inserito nel processo esecutivo, senza particolari problemi quanto al deposito degli atti da parte degli avvocati. Alcune difficoltà permangono tuttavia nella consultazione dei fascicoli.
Il Ministero della Giustizia ha diffuso il 30 settembre 2019[18] i dati relativi all’utilizzo concreto del PCT, su base nazionale, nei dodici mesi precedenti. Così risulta che i depositi telematici siano stati 9.270.688, dei quali 2.045.913 atti introduttivi del giudizio, inclusi quelli di costituzione, 6.815.982 atti endoprocedimentali e 408.793 ricorsi per decreto ingiuntivo. Rispetto all’anno precedente sono stati ben 97.195 i depositi telematici in più, segno di un ulteriore riscontro del trend positivo di progressivo consolidamento della confidenza e affidabilità dell’applicativo.
Nei dodici mesi in considerazione, i soggetti attivi iscritti al ReGIndE[19] sono stati 1.171.530, di cui solo circa un quarto Avvocati (263.654), mentre la restante parte sono risultati essere appartenenti ad enti pubblici, altri professionisti iscritti ad albi ed elenchi istituiti con legge, e infine ausiliari del giudice. Molto significativo anche il dato dei pagamenti telematici relativi a spese di giustizia, diritti e contributo unificato effettuati nell’anno, con un incasso totale di Euro 72.260.403 per l’Erario, così come previsto dal Codice dell'Amministrazione Digitale[20].
3. Il PTT e il processo di legittimità.
Dal 1 dicembre 2015, ha preso il via il processo tributario telematico (PTT) presso le Commissioni tributarie provinciali e regionali di Umbria e Toscana [21] e, dopo oltre tre anni e mezzo, a partire dal 1 luglio 2019[22] l’obbligo di introduzione telematica del processo tributario è andato a regime per tutta Italia.
Si tratta anche sotto il punto di vista tecnico di un possibile riferimento complessivamente positivo pur con grandi differenze territoriali, per l’introduzione relativa al giudizio di legittimità, anche perché individua molti degli adeguamenti normativi necessari sul piano tecnico e processuale. E’ stata così espressamente disciplinata la facoltà di attestazione della conformità, al fine del deposito e della notifica con modalità telematiche, della copia informatica di un atto processuale, incluso il provvedimento dell’autorità giudiziaria[23].
Il tema è ben noto alla giurisprudenza di legittimità, che si è pronunciata più volte al fine di chiarire il rapporto tra attestazione di conformità e giudizio di Cassazione ai fini della notifica PEC fintantoché innanzi alla stessa non sia attivato il processo civile telematico[24].
Non va poi trascurato che la presenza di un fascicolo telematico del processo è funzionale alla possibilità di scaricare e stampare gli atti ivi contenuti da remoto e, conseguentemente, comporta la necessità di regolamentare il potere di attestare la conformità degli stessi, anche sotto forma di copia analogica di atti e provvedimenti tratti nel fascicolo informatico[25].
Il fine è garantire con metodi univoci di certificazione che, tanto la copia informatica, quanto il stampato cartaceo munito dell'attestazione di conformità equivalgano all'originale o alla copia conforme dell'atto o del provvedimento presente nel fascicolo informatico. Ciò, tra l’altro, implica necessariamente che, nel compimento di siffatta attività certificativa, il soggetto che ne ha facoltà - essenzialmente il difensore - assuma ad ogni effetto la veste di pubblico ufficiale, conformemente a quanto tradizionalmente stabilito ad esempio a proposito dell'autentica della procura da parte del difensore[26].
Si pone quindi il tema della prova della notificazione o della comunicazione eseguite a mezzo PEC, allorquando non sia possibile fornirla con modalità telematiche, questione tutt’altro che di piana applicazione giurisprudenziale per la stessa Corte di Cassazione[27]. Opportunamente dunque la disciplina introduttiva del processo tributario telematico prevede che, in tutti i casi in cui debba essere fornita la prova della notificazione o della comunicazione eseguite a mezzo di posta elettronica certificata e non sia possibile fornirla con modalita’ telematiche, il difensore o il dipendente di cui si avvalgono l’ente impositore, l'agente della riscossione ed i soggetti iscritti nell'albo dei gestori dell'accertamento e della riscossione dei tributi locali[28], provvedano ai sensi dell'articolo 9, commi 1-bis e 1-ter, della legge n.53 del 1994[29] , assumendo ad ogni effetto nel compimento di tali attività la veste di pubblico ufficiale[30].
E’ anche previsto che la partecipazione delle parti alla pubblica udienza possa avvenire a distanza, su apposita richiesta formulata da almeno una di esse nel ricorso o nel primo atto difensivo, attraverso un collegamento audiovisivo tra l'aula di udienza e il luogo del domicilio indicato dal contribuente, dal difensore, dall’ufficio impositore o dai soggetti della riscossione, con modalità tali da assicurare la contestuale, effettiva e reciproca visibilità[31]. Ciò implica, tra l’altro, la necessità di individuare le modalità tenico-operative per consentire la partecipazione all’udienza a distanza e la conservazione della visione delle immagini[32].
L’entrata in vigore dell’innovazione apportata dal d.l. n.119/2018 a partire dal 1 luglio 2019 è tanto più significativa per la Corte di Cassazione, in quanto la sezione Quinta Civile della S.C. è competente quale giudice di ultima istanza in materia tributaria. Il persistente mancato adeguamento del processo tributario di legittimità alle innovazioni del merito, che porteranno alla definizione dei primi processi di appello interamente telematici nei prossimi mesi, potrebbe diventare in futuro un dato non neutro nel dibattito in corso sulla conservazione della materia tributaria in capo alla Corte o sua devoluzione alla Corte dei Conti[33]. Infatti, nell’ambito di quest’ultima, le funzioni giurisdizionali, ad esempio in materia pensionistica, vedono un rito già ampiamente telematizzato, soprattutto per gli Avvocati, anche se dal lato giudicante permangono in molti casi prassi favorevoli al mantenimento del cartaceo attraverso copie di cortesia, con un circoscritto utilizzo dell’applicativo “GiuDiCo”.
4. Il deposito telematico dei ricorsi civili presso la Corte di Cassazione, sperimentazioni in corso.
Con una nota del 25 settembre 2019 il PST Giustizia (Portale dei Servizi Telematici del Ministero) ha messo a disposizione sul proprio sito gli schemi XSD degli atti introduttivi e successivi presso la Corte di Cassazione, rendendo così possibili i test di deposito telematico di atti processuali. E’ ancora una fase sperimentale, che consente di depositare telematicamente i ricorsi presso il sistema di Model Office della Corte di piazza Cavour, speculare e parallelo alla imminente sperimentazione del Desk del consigliere dal lato giudicante[34].
Lo schema XSD è un plesso di regole che in termini di “vincoli” definisce il tipo documento in formato XML[35], e può essere usato anche attraverso un programma di validazione al fine di accertare il tipo e la struttura del documento XML, realizzato secondo le linee guida del W3C. Gli schemi XSD rendono così univocamente leggibili i dati scambiati tramite documenti XML, producono una serie di informazioni aderenti a specifici tipi di dati e forniscono considerevoli strumenti di controllo[36]. Così, ad esempio, interi insiemi di documenti con caratteristiche omogenee possono essere raggruppati attraverso DTD[37], i quali definiscono gli elementi con cui costruire i singoli documenti XML, e identificano la struttura del documento sulla base della lista di regole prescelte[38].
E’ stata inoltre resa disponibile dal DGSIA la documentazione tecnica dell’URL del Model Office di Cassazione, dell’indirizzo di PEC e del codice dell’Ufficio giudiziario da utilizzare, oltre che il modulo per la richiesta di accesso remoto al Model Office della Corte di Cassazione.
La Corte di Cassazione, attraverso il PST Giustizia, ha quindi diffuso il 3 ottobre 2019 una ulteriore nota annunciando che è possibile dall’esterno effettuare i test per il deposito telematico dei ricorsi presso il sistema di Model Office Cassazione.
Il test è finalizzato allo svolgimento delle prove dei servizi PCT di consultazione dall’esterno dei registri civili e penali della Corte Suprema di Cassazione, oltre che il deposito sul sistema SIC-Cassazione degli atti processuali tipici: ricorso, controricorso, controricorso con ricorso incidentale e atti successivi[39].
Per essere abilitati è necessario trasmettere una domanda alla DGSIA e alla Corte di Cassazione compilando l’apposito modello disponibile sul Portale Servizi Telematici. Sulla base delle indicazioni ricevute, il personale tecnico della DGSIA e della Corte di Cassazione esegue le necessarie operazioni di configurazione dei sistemi, all’esito delle quali i referenti tecnici indicati nel modello ricevono un messaggio di posta elettronica che conferma l’avvenuta attivazione della connessione con registrazione dell’utente sul RegIndE. E’ quindi possibile procedere a depositare telematicamente le proprie buste di test, secondo le specifiche tecniche previste, utilizzando l’indirizzo PEC mittente registrato per il test[40].
5. Prospettive nell’immediato futuro: il Desk del consigliere di Cassazione.
Il test di accesso telematico dall’esterno sono solo una delle due facce della medesima medaglia. A partire dal mese di febbraio 2020, all’interno della Corte di Cassazione è in corso di organizzazione la sperimentazione dei depositi telematici e del Desk del consigliere. Questo è l’applicativo appositamente concepito per il consigliere di Cassazione, con caratteristiche diverse rispetto alla Consolle del magistrato in uso nei due gradi di merito.
Il Desk è concepito per consentire fin da subito le funzioni di consultazione del ruolo e del fascicolo da remoto, scrittura, confronto con il presidente del collegio e deposito della decisione. L’applicativo, in corso di riprogettazione da parte del DGSIA e di Netservice Spa, società fornitrice del servizio in appalto per la giustizia civile, è ideato per funzionare da remoto, senza dover essere installato sul singolo computer in dotazione al singolo Consigliere, con notevole facilità di gestione, anche in termini di aggiornamento software da remoto, ed è previsto un sistema di autenticazione e accesso sicuro ma agile, oltre di firma digitale del provvedimento, per sua natura quasi sempre collegiale.
Il fatto che l’applicativo sia ingegnerizzato in modo semplice per funzionare da remoto senza essere installato sul singolo computer è particolarmente importante per le peculiarità della giurisdizione nazionale della Corte, la quale è esercitata da consiglieri provenienti dall’intero territorio nazionale. La necessità di assistenza tecnica a distanza, la possibilità di poter scaricare facilmente l’aggiornamento software e il perfezionamento facile di depositi e firme digitali da remoto sono requisiti, quindi, molto più importanti per il Desk di quanto non sia per la Consolle del magistrato in un Ufficio distrettuale.
Inoltre, vi sono delle peculiarità nel rito di legittimità di cui tener conto nella riprogettazione, a norme processual-civilistiche invariate. Ad esempio, dopo l’introduzione del rito camerale in Cassazione per effetto del d.l. 31 agosto 2016, n. 168 sull’efficientamento della giustizia, convertito con modifiche nella legge. n. 197 del 2016, la decisione del ricorso attraverso ordinanza a seguito di trattazione camerale è ormai molto più frequente rispetto alla tradizionale definizione con sentenza dopo l’udienza pubblica[41]. E’ così previsto che, a differenza della sentenza, l’ordinanza sia firmata dal solo presidente del collegio e non anche dall’estensore. Tuttavia, per esigenze di coordinamento del codice di procedura civile con la disciplina del processo telematico in termini parzialmente diversi sul punto, e in una certa misura per lo stesso contenuto di schemi XSD esistenti di validazione dei documenti XML, potrebbe non essere così facile eliminare la firma digitale dell’estensore - il quale a sua volta potrebbe essere diverso dal relatore -, sul provvedimento decisorio, salva la possibilità di non renderla “visibile” all’esterno.
Sul piano, centrale, della fruibilità e del successo applicativo del Desk nell’uso quotidiano da parte dei consiglieri, in una prima fase, al fine di evitare ulteriori dilazioni al lancio dell’applicativo, è forse opportuno perseguire un obiettivo minimo, di coesistenza dell’applicativo, circoscritto alle funzioni di scrittura e deposito dei provvedimenti e alla attività prodromica di studio del fascicolo, con l’esistenza del SIC, utile per la ricerca dei fascicoli, pendenze, connessioni, ed altri aspetti organizzativi, database esterno al Desk, ma già sperimentato da molti anni presso la Corte di Cassazione ed efficace.
Il Desk avrà in ogni caso bisogno di una sperimentazione di diversi mesi prima di essere esteso all’uso generale e quotidiano, comunque non prima dell’estate 2020 come confermato dallo stesso direttore generale DGSIA. A tal fine sono state individuate delle attività preliminari all’avvio della sperimentazione, finalizzata all’accertamento della funzionalità dei sistemi di trasmissione dell’applicativo[42], sia attraverso riunioni operative con il gruppo di lavoro per l’informatica giudiziaria in Cassazione, che attraverso sperimentazioni costanti del nuovo applicativo.
[1] Articolo 16, comma 10, del decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221.
[2] In particolare, il D.M. 27 aprile 2009 reca le “Nuove regole procedurali relative alla tenuta dei registri informatizzati dell'amministrazione della giustizia”.
[3] Decreto Presidente Corte dei Conti n.162 del 16 febbraio 2016.
[4] D.lgs. 26 agosto 2016, n. 174.
[5] Cfr. l’rt.6 del decreto n.174 del 2016, rubricato “Digitalizzazione degli atti e informatizzazione delle attività”.
[6] Si veda il sistema informativo della giustizia contabile “GiuDiCo”, accessibile da parte degli Avvocati previa autenticazione SPID, https://www.spid.gov.it.
[7] Il decreto legge 31 agosto 2016, n. 168 sull’efficientamento della giustizia, lo stesso decreto che ha introdotto il giudizio camerale in Cassazione, ha disposto all’articolo 7 comma 4 che il deposito telematico è obbligatorio per i procedimenti introdotti con ricorsi depositati dal 1 gennaio 2017 mentre, per quelli già pendenti a tale data, si è stato previsto, fino all’esaurimento del grado di giudizio e comunque non oltre il 1 gennaio 2018, il mantenimento dei depositi cartacei.
[8] Avvertenza del Primo Presidente del 15.6.2016: “Presso la Corte di Cassazione non è ammesso il deposito telematico degli atti del processo (ricorso, controricorso, ricorso incidentale, memorie ex art. 378 c.p.c., memorie di costituzione di difensore, atti di “costituzione” a fini defensionali, atti depositati ex art. 372 c.p.c.), in assenza del decreto prescritto dall’art. 16 bis comma 6 D.L. 179 del 2012 convertito in legge 221 del 2012 ed in considerazione dell’espressa limitazione ai procedimenti innanzi ai tribunali ed alle corti di appello prevista dall’art. 16 bis comma 1 bis del medesimo D.L.. E’ invece ammesso il deposito telematico delle istanze dei difensori non aventi immediata incidenza sul processo (esemplificativamente: di prelievo o sollecita fissazione di ricorsi, di riunione, di differimento della trattazione, di assegnazione alle Sezioni Unite). La copia cartacea di tali istanze, formata dalla cancelleria, viene sottoposta al Presidente Titolare ed è inserita nel fascicolo.”.
[9] Nella specie l’errore scusabile era ingenerato dalla ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna dell'invio telematico, Cass. Sez. 1 - , Ordinanza n. 104 del 07/01/2020, Rv. 656500 - 01.
[10] Ad esempio, con riferimento ai procedimenti contenziosi civili incardinati dinanzi ai tribunali dal 30 giugno 2014 ed anteriori alla modifica dell'art. 16-bis del d.l. n. 179 del 2012 ad opera del d.l. n. 83 del 2015 è stato statuito che “il deposito per via telematica, anziché con modalità cartacee, dell'atto introduttivo del giudizio, ivi compreso l'atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, non dà luogo ad una nullità della costituzione dell'attore, ma ad una mera irregolarità, sicché ove l'atto sia stato inserito nei registri informatizzati dell'ufficio giudiziario, previa generazione della ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia, è integrato il raggiungimento della scopo della presa di contatto tra la parte e l'ufficio giudiziario e della messa a disposizione delle altre parti.”, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9772 del 12/05/2016, Rv. 639888 - 01.
[11] P. Gori, Organizzazione del lavoro nella Corte Edu, riforme e buone prassi per l’Italia, in Questione Giustizia, 2019.
[12] Cfr. articoli 10 e 10 bis della Circolare del Consiglio Superiore della Magistratura sulle tabelle, vigente.
[13] Cfr. Art. 16 octies del decreto legge n. 179 del 2012, come modificato dal decreto legge n. 90/2014.
[14] Si veda sul punto la legge n. 247 del 2012, che reca la Nuova disciplina dell'Ordinamento della professione forense ed ha modificato le modalità di accesso all'Albo speciale.
[15] Le “Commissioni permanenti Pct” sono composte da magistrati, avvocati, cancellieri e tecnici, in CSM, Dalle buone prassi ai “Modelli”: una prima manualistica ricognitiva delle pratiche di Organizzazione più diffuse negli Uffici Giudiziari italiani, in attuazione della delibera del 17.6.2015 (aggiornamento luglio 2016.
[16] I dati del presente paragrafo e dei successivi sono tratti da R. Di Francesco, Processo telematico: Cassa Forense consulta gli ordini sullo stato dell’arte, https://www.cfnews.it.
[17] Processi informatizzati, Intervista di M. Paolucci a A. Cataldi, direttore generale DGSIA, rilasciata ad Italia Oggi7 il 13 gennaio 2020.
[18] Ministero della Giustizia, DGSIA - Direzione Generale dei Sistemi Informativi Automatizzati -, Processo Civile Telematico, Stato dell’arte Dati al 30/09/2019.
[19] Registro Generale degli Indirizzi Elettronici, ai sensi del D.M. 21 febbraio 2011 n. 44 - pubblicato nella G.U. n. 89 del 18-04-2011.
[20] Cfr. in particolare il d.Lgs 235/2010, art. 5 oltre che il già citato D.M. 44 del 12 febbraio 2011.
[21] Al via il processo tributario telematico, adempimenti più semplici e veloci, https://www.giustiziatributaria.gov.it.
[22] Cfr. l’art.16, comma 5, del d.l. n.119/2018.
[23] L’art. 16, comma 5, punto 1 del d.l. da ultimo citato prevede: “Al fine del deposito e della notifica con modalita' telematiche della copia informatica, anche per immagine, di un atto processuale di parte, di un provvedimento del giudice o di un documento formato su supporto analogico e detenuto in originale o in copia conforme, il difensore e il dipendente di cui si avvalgono l'ente impositore, l'agente della riscossione ed i soggetti iscritti nell'albo di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, attestano la conformita' della copia al predetto atto secondo le modalita' di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82.”.
[24] “In tema di ricorso per cassazione, ai fini dell'osservanza di quanto imposto, a pena di improcedibilità, dall'art. 369, comma 2, c.p.c., nel caso in cui la sentenza impugnata sia stata redatta in formato digitale, l'attestazione di conformità della copia analogica predisposta per la S.C. può essere redatta, ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter della l. n. 53 del 1994, dal difensore che ha assistito la parte nel precedente grado di giudizio, i cui poteri processuali e di rappresentanza permangono, anche nel caso in cui allo stesso fosse stata conferita una procura speciale per quel singolo grado, sino a quando il cliente non conferisca il mandato alle liti per il giudizio di legittimità ad un altro difensore.” Cass., Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 10941 del 08/05/2018, Rv. 648805 - 01.
[25] Infatti, la riforma introdotta nel processo tributario disciplina anche questo aspetto al punto 2) dell’art.16, comma 5, d.l. n.119/2018: “2. Analogo potere di attestazione di conformità e' esteso, anche per l'estrazione di copia analogica, agli atti e ai provvedimenti presenti nel fascicolo informatico, formato dalla segreteria della Commissione tributaria ai sensi dell'articolo 14 del decreto del Ministro dell'economia e delle finanze 23 dicembre 2013, n. 163, o trasmessi in allegato alle comunicazioni telematiche dell'ufficio di segreteria. Detti atti e provvedimenti, presenti nel fascicolo informatico o trasmessi in allegato alle comunicazioni telematiche dell'ufficio di segreteria, equivalgono all'originale anche se privi dell'attestazione di conformità all'originale da parte dell’ufficio di segreteria.”.
[26] Cfr. Cass. Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 19785 del 25/07/2018, Rv. 650194 - 01.
[27] Ad esempio, due sentenze coeve della medesima sezione della Corte, Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 9812 del 2018 e Cass. Sez. 3, Sentenza n. 4932 del 2018, fanno applicazione della medesima norma in materia, assumendo due decisioni contrastanti tra loro. “Per la Cassazione, infatti, in caso di prova della notifica PEC effettuata, l’art. 23 comma 2 del CAD potrebbe trovare applicazione in assenza di attestazione di conformità ai documenti informatici da cui sono tratti, delle ricevute di accettazione, di consegna e degli allegati, come richiesto dall’art. 9 commi 1 bis e ter L. 53/94; tale articolo però, in caso di notifica PEC subita (ricevuta) dal difensore, non troverebbe applicazione e, conseguentemente, la mancata attestazione di conformità della relata di notifica e del provvedimento (poi impugnato) comporterebbero l’improcedibilità del ricorso.” M. Reale, Ricorso per Cassazione: contrasti giurisprudenziali sulla prova della notifica via PEC, su Altalex on line..
[28] Cfr. Art. 53 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446.
[29] L’art. 9 comma 1 ter della legge n. 53 del 1994 dispone che “in tutti i casi in cui l'avvocato debba fornire prova della notificazione e non sia possibile fornirla con modalità telematiche, procede ai sensi del comma 1-bis" e quest’ultimo a sua volta prevede che "qualora non si possa procedere al deposito con modalità telematiche dell'atto notificato a norma dell'art. 3-bis, l'avvocato estrae copia su supporto analogico del messaggio di posta elettronica certificata, dei suoi allegati e della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna e ne attesta la conformità ai documenti informatici da cui sono tratte ai sensi del D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 23, comma 1”.
[30] Sul tema si segnala l’interessante decisione Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 29749 del 2019 - pres. est. Frasca - che riconosce INIPEC pubblico elenco valido per le notifiche PEC ex lege n. 53 del 1994.
[31] Art.16, comma 5, punto 4) primo lemma del d.l. n.119/2018.
[32] A tal fine, il decreto rimette tale rilevante disciplina tecnica al “direttore generale delle finanze, sentito il Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria e [al]l'Agenzia per l'Italia Digitale”, Art.16, comma 5, punto 4) secondo lemma del d.l. ult. cit., mentre con riferimento alla Corte di Cassazione è probabilmente preferibile pensare ad un diverso percorso, che valorizzi le competenze specifiche acquisite dal Gruppo di lavoro per l’informatica giudiziaria in Cassazione (CED, UIC, personale amministrativo della Corte, DGSIA.
[33] E. Manzon, Sulla giustizia tributaria e sulla necessita’ di parlarne, in Giustizia Insieme on line.
[34] Cfr. https://pst.giustizia.it/ Processo telematico - Aggiornamento Specifiche tecniche deposito atti – ERRATA CORRIGE del 10/12/2019, con cui sono stati nuovamente pubblicati gli schemi XSD del Processo Civile Telematico, precisando che gli schemi XSD validi per la sperimentazione del deposito telematico dei ricorsi presso la Corte Suprema di Cassazione sono quelli pubblicati su PST il 25/09/2019.
[35] L’XML a sua volta è un linguaggio di descrizione di contenuto particolarmente affidabile, in quanto ha raggiunto la validazione ufficiale 1.1 del World Wide Web Consortium (W3C).
[36] Tra questi, principalmente: a) definizione di tipi complessi e il controllo su numero di volte che appaiono sul documento e sulla loro posizione, b) introduzione di elementi “nulli”, c) definizione di “chiavi” e “relazioni”, d) definizione di elementi “unici”, e) commenti e note sul singolo documento.
[37] DTD (Document Type Definition o definizione del tipo di documento) TUTORIAL sono disponibili in http://www.w3schools.com/dtd/.
[38] Gli schemi XSD prescelti in questo caso “forniscono in particolare: un modello per i dati (descrivono cioè l’organizzazione e i tipi dell’informazione); un contratto (cioè un protocollo molto specifico per lo scambio di informazioni); un insieme di metadati (informazioni valide per l’interpretazione di dati strutturati sulla sua base). Tali schemi presentano un grande vantaggio, poiché in genere le applicazioni che devono basarsi su documenti o dati provenienti dall’esterno utilizzano una grossa quantità di codice per controllarne la validità; ovviamente più complessi sono i dati, più il codice sarà laborioso da scrivere. Se, invece, i dati sono strutturati secondo un preciso schema XML, l’applicazione potrà avvalersi delle funzionalità di un qualsiasi validatore di schemi”. M. Iaselli, Ricorso in Cassazione: avviati i test sul deposito telematico, in Altalex on line, 2019.
[39] L’accesso è consentito agli utenti già abilitati ai test sul Model Office DGSIA e non è un’esperienza nuova. A questi utenti sono stati associati anche alcuni fascicoli di prova e i testi con i primi Model Office sono iniziati nella seconda metà del 2015: https://pst.giustizia.it Processo telematico – Rilascio Model Office Cassazione per test dei servizi Consultazione Registri Civile e Penale della Corte Suprema di Cassazione 07/07/15.
[40] Cfr. Processo civile telematico, Modalità per l’esecuzione dei test di interoperabilità da parte di enti o società esterne - Tribunali Civili e Corte Suprema di Cassazione - Versione 8.0, disponibile su http://www.cortedicassazione.it.
[41] V. Di Cerbo, Brevi considerazioni sul nuovo rito civile in Cassazione, su Giustizia Insieme, 2019.
[42] Tali attività sono previste ai sensi dell’art.16-bis del d.l. n. 179 del 2012.
I guardiani della legge: le ragioni dell'intervento della Consulta sulla "spazzacorrotti"
di Andrea Apollonio
Da tempo la dottrina parla espressamente di legalità giurisprudenziale, facendo riferimento ad un'epoca, quella attuale, in cui l'interpretazione della legge riesce ad imporsi sul tenore - e talvolta anche sulle finalità - della legge stessa. Una legalità sempre più giurisprudenziale che è anche una forma di garanzia di coerenza interna del sistema penale, considerata la "mancanza di una organica visione d'insieme" del legislatore (così Giovanni Fiandaca, nella sua "Prima lezione di diritto penale"). E la vicenda che ci troviamo a commentare, in primissima battuta, ne è la più fulgida riprova.
Come noto, la legge 9 gennaio 2019, n. 3 (c.d. "Spazzacorrotti") estende ai reati contro la Pubblica Amministrazione, senza alcuna specificazione intertemporale, le preclusioni previste dall'articolo 4-bis dell'Ordinamento penitenziario rispetto ai benefici e alle misure alternative alla detenzione. Un'estensione "pura e semplice", che per quei condannati ha immediatamente determinato la revoca di una congerie di principi di garanzia, primo tra tutti quello di necessaria prevedibilità della sanzione; un principio che non trova applicazione solo sul piano del diritto sostanziale. Lo Stato di diritto, qualunque sia la gravità del fatto o la pericolosità del suo autore, non può prescindere dal rispetto di una regola primaria: chi viene condannato deve sapere esattamente a cosa viene condannato - e quindi, anche a quali benefici può accedere in sede di esecuzione; anche perché è nella prospettiva della concreta sanzione da irrogare che - come tutti i frequentatori delle aule di giustizia sanno - si modulano le strategie processuali e si scelgono i riti da percorrere. Ogni modifica peggiorativa del trattamento sanzionatorio è lecita (con i limiti della ragionevolezza e proporzionalità costituzionali), purché non sia retroattiva, in tal modo andando ingiustamente ad incidere - a posteriori - sulla libera determinazione del fatto di reato prima, sulla libera condotta processuale dopo.
Questo, per sommi capi ed in estrema sintesi, il quadro assiologico in cui si colloca la legge n. 3/2019, emanata senza il supporto di un regime transitorio che potesse rendere meno problematico l'innesto di una norma tanto dirompente nell'ordinamento.
Davanti ad un dato letterale così secco e scarno, la giurisprudenza avrebbe potuto azionare quelle "valvole di sicurezza" utili a rendere costituzionalmente e convenzionalmente accettabile l'applicazione di questa norma che, oltre alla sua previsione intrinseca estremamente rilevante, si disinteressa(va) dei profili intertemporali? E' a questa domanda che ieri ha risposto la Corte Costituzionale, che sembra aver mosso un rimprovero non tanto al legislatore, quanto al giudice comune.
L'incidente di costituzionalità della legge n. 3/2019 - e questo lo si può dire anche in primissima battuta - presenta infatti un aspetto peculiare. "La Corte costituzionale ha preso atto che, secondo la costante interpretazione giurisprudenziale, le modifiche peggiorative della disciplina sulle misure alternative alla detenzione vengono applicate retroattivamente, e che questo principio è stato sinora seguito dalla giurisprudenza anche con riferimento alla legge n.3 del 2019". Singolare: il comunicato stampa della Consulta richiamando la decisione presa nel caso de quo non censura direttamente la legge, forse perché una disciplina da censurare ratione temporis non c'é, né è rivolto al legislatore, ma al giudice comune: è dato infatti per scontato - perché, ormai, lo si dà per scontato - che la legge debba essere intesa come un semilavorato, una formula normativa che la giurisprudenza deve prendere in carico e collocare correttamente sul piano dei principi. Da questo punto di vista, interpolando i più tradizionali concetti di controllo e tenuta del sistema giuridico elaborati da Hans Kelsen e Carl Schmitt un secolo fa, i giudici sono "guardiani della legge", legittimati a sperimentare quei percorsi interpretativi che rendano la norma compatibile con le opzioni liberali e garantiste della giustizia penale.
In questo caso la giurisprudenza, che ancora dibatte sull'applicazione retroattiva o meno di novelle processuali sfavorevoli, ma che si era attestata (sbagliando) sulla piana retroattività delle norme d'esecuzione, non ha tenuto conto che il legislatore avrebbe potuto (sarebbe potuto arrivare ad) introdurre una disciplina talmente sfavorevole per il reo (condannato) anche nel campo dell'esecuzione penale, precludendosi in tal modo - non volendo mettere in discussione i propri orientamenti consolidati - la possibilità di attenuarne, per via interpretativa, il sostanziale contenuto punitivo. Perché questo il punto: da più di un decennio, almeno dalla notissima sentenza della Corte Edu Sud Fondi c. Italia (del 2007), seguita a stretto giro dall'ancor più nota sentenza Coppola c. Italia (del 2009), ci si interroga, alla luce dell'art. 7 della Convenzione, sul concetto di pena "sostanziale", a prescindere da quale ramo dell'ordinamento ospiti la norma sanzionatoria e, ovviamente, dal suo nomen iuris. La Corte Costituzionale ha condiviso fin da subito quest'assunto, dando piena cittadinanza ai principi di garanzia convenzionale collegati all'art. 7 avviando, al contempo, un'opera di graduale bonifica del sistema dalle antiche e recenti incrostazioni illiberali.
Dopo un decennio di molte sperimentazioni ed un risultato acquisito - il nulla poena sine lege ha da dire molto di più di quanto sembri - viene dunque emanata la legge n. 3/2019, che "comporta una radicale trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale, rispetto a quella prevista al momento del reato", in quanto tale incompatibile con il principio di legalità di cui, appunto, all'art. 25 Cost.: ma questo - si tratta del muto rimprovero che dalla Consulta, dai guardiani della Costituzione, si muove ai giudici domestici - lo si doveva comprendere fin da subito, intanto rivedendo i propri orientamenti sul tempus regit actum che regge(va) qualsivoglia modifica normativa dell'esecuzione penale (e il principio di pena "sostanziale" dove lo mettiamo?), poi chiedendo alla Consulta di intervenire; ma si sarebbe trattato di una mera ratifica del meccanismo ermeneutico, che avrebbe permesso di mettere in sicurezza, fin da subito, l'ordinamento ed i suoi principi di legalità.
Così non è andata, ma la Corte è comunque intervenuta mettendo ordine; senza risparmiare un muto rimprovero verso chi, della legge e delle sue finalità, deve sentirsi esecutore ma anche guardiano.
Fiandaca o Giostra
di Andrea Apollonio
Qualche giorno fa è morto il grande George Steiner,il cui primo libro è al tempo stesso un caposaldo della critica letteraria: "Tolstoj o Dostoevskij". Steiner metteva a confronto quelle che per lui (e non solo per lui) erano due concezioni fondanti e antitetiche della letteratura russa e dunque occidentale, mettendo in risalto nel primo la connotazione epica del racconto, nel secondo il dato verista e talvolta tragico.
Ricordare il più grande critico letterario del Novecento è anche uno stimolo per mettere a confronto due grandi maestri del pensiero penalistico, che a distanza di un paio d'anni o poco più l'uno dall'altro hanno pubblicato, nell'oramai nota collana "Prime lezioni" di Laterza, due libretti apparentemente - apparentemente - speculari: "Prima lezione di diritto penale", di Giovanni Fiandaca (giugno 2017), e "Prima lezione sulla giustizia penale", di Glauco Giostra (gennaio 2020).
L'intento dei due giuristi prestati alla saggistica divulgativa è lo stesso, esplicitato in particolare da Fiandaca nella sua Premessa: puntare ad una cerchia di non specialisti vuol dire "adottare uno stile espositivo non appesantito da termini tecnici" e "prescindere da quei profili della materia che, se appassionano (e persino oltre misura!) gli studiosi accademici, rischiano di apparire ad occhi esterni astrattamente concettualistici o addirittura irritanti". Per un giurista scollarsi dal profilo tecnico, formale e volutamente - o necessariamente - affettato è spesso un'operazione (ahimé) impossibile, ma l'accademico palermitano è conosciuto anche per essere un ottimo divulgatore - tra i suoi pregevoli e multidisciplinari scritti sulle mafie, ricordiamo giusto "La mafia non ha vinto" (con Salvatore Lupo).
Il volume di Fiandaca nel suo primo quarto affronta il dibattito - annoso - sulla pena, ripercorre le concezioni di prevenzione generale e speciale, con molti riferimenti a filosofi e giuristi ottocenteschi senza omettere i grandi classici del pensiero tedesco contemporaneo, Roxin e Jacobs. Una dissertazione dall'alto tasso di astrazione ma pur sempre magistrale, impregnata di autorevole tradizione accademica, in cui si produce un grande maestro della scienza penalistica.
L'ampio respiro del Fiandaca divulgatore comincia ad emergere nel secondo capitolo ove si affronta il tema del diritto penale ipertrofico, che riguarda ogni aspetto della vita sociale. Un tema molto sentito e ben comprensibile dal comune cittadino, che ha per le mani questo testo perché "offre un quadro dei temi e dei problemi di fondo del diritto penale contemporaneo" (dalla quarta di copertina). Proseguendo nel filo tessuto da Fiandaca, ci si imbatte poi in una dissertazione sul bene giuridico avviata dal pensiero di Franco Bricola: questione imprescindibile per ogni studioso di diritto penale, un po' meno per quel lettore che vorrebbe trovare risposte alle domande che sorgono spontanee seguendo l'attualità, la cronaca, il dibattito pubblico.
Rimangono quindi per lui - superando anche il terzo capitolo, che verte su elemento oggettivo e soggettivo del reato - gli ultimi due capitoli, in cui Fiandaca affronta due temi corali e, potremmo dire, universali: il rapporto tra la legge e il giudice e quello tra il diritto penale e le scienze. "Un modello di giudice servo passivo (se non proprio sciocco!) del legislatore sarebbe improponibile nella realtà contemporanea": partendo da questa considerazione l'accademico siciliano prende per mano il lettore mostrandogli la vera natura della legalità contemporanea, che passa attraverso l'applicazione della legge al caso concreto previo vaglio critico del giudice; una legalità sempre più giurisprudenziale che è anche una forma di garanzia di coerenza interna del sistema penale, considerata la "mancanza di una organica visione d'insieme" del legislatore. E' una risposta concreta ed esaustiva quella che Fiandaca fornisce al lettore che, almeno dai tempi di Tangentopoli, si chiede quale sia il vero punto di frizione tra potere politico e potere giudiziario sul piano dell'applicazione della legge, se è vero che persino in Costituzione è detto che il secondo si deve limitare a dare mera esecuzione a quanto deciso dal primo nelle sedi parlamentari che occupa. Nè è scevro di spunti di riflessione l'ultimo capitolo (che mostra per intero l'indole multidisciplinare dell'autore), che espone in maniera scorrevole i temi certamente più accattivanti del diritto penale, tra i quali la capacità di intendere e di volere ed il collegato aspetto psicologico e criminologico del crimine.
Con questo volume, insomma, Fiandaca non sconfessa nessuna delle proprie qualità, ponendosi allo stesso tempo da professore e da divulgatore; essendo costui, peraltro, uno dei pochissimi maestri della scienza penalistica a saperle esercitare entrambe, ottimamente.
Un altro autore dalla duplice natura è Glauco Giostra, processualista di qualche anno in meno ma ugualmente, come Fiandaca nel suo campo, vertice del diritto processuale penale (e sarà un caso che entrambi sono stati membri del Consiglio Superiore della Magistratura?): la sua è una prima lezione sulla "giustizia penale", da intendersi come una prima lezione sul processo penale, quello "stretto ponte tibetano che consente di passare dalla res iudicanda alla res iudicata". Come detto, anche Giostra vuole prestarsi ad una saggistica divulgativa, immaginando di "avviare un'ideale conversazione tra chi da molto tempo sta cercando di orientarsi nel complesso universo della giustizia penale e chi per curiosità, interesse o studio intende avvicinarsi ad esso per la prima volta. Ho cercato di intuire cosa valesse la pena trasmettere in un'unica, pur lunga lezione" - così, nell'Introduzione. Giostra si propone quindi di effettuare una selezione rigorosa e, al tempo stesso, semplificatoria, con risultati sorprendenti.
Ai risultati arriviamo, non prima di avere evidenziato come Giostra voglia mettere a suo agio il lettore, confortandone l'impreparazione con un Glossario dei termini tecnici o comunque di non facile comprensione, "da usare a mo' di pronto soccorso terminologico, per evitare che la mancata conoscenza di un vocabolo o di una locuzione pregiudichi la comprensione del discorso". L'accademico marchigiano si appresta così ad affrontare la sfida della procedura penale somministrata al grande pubblico.
Le forme e i riti, le direzioni e i metodi ("le regole processuali sono un guardrail metodologico") del diritto punitivo per eccellenza sono mostrati nella loro imperfezione, non di rado privi di esatta coincidenza con i principi di garanzia a cui dovrebbero conformarsi; ma spesso si rivelano una scusa appena plausibile per affrontare le questioni di cui, da anni, è intriso il dibattito pubblico: il rapporto della giurisdizione con i media, i condizionamenti mediatici sulla - e della - giustizia; la prescrizione, che copre quattro paginette fitte di spunti utili a formare - o a raffinare - una propria opinione su di una questione politica attuale di primaria importanza.
Certo non mancano, sopratutto nel terzo capitolo riguardanti "Le strutture portanti del processo penale", le dissertazioni teoriche (a tratti appesantite dall'immancabile filiera dei principi del rito penale: è il caso della formazione della prova in contraddittorio), ma anche gli istituti processuali più complessi vengono trattati sulla superficie di un linguaggio semplificato e gradevole, che utilizza formule efficaci ed esempi concreti: sono a questo fine richiamati i principali cold case degli ultimi anni: dal delitto di Meredith Kercher a quello di Chiara Poggi, con qualche implicito riferimento - anche qui - ai fatti di Tangentopoli.
Giostra sembra intendersi con il suo pubblico sopratutto quando sconfina in ambiti meta-giuridici:
ad esempio, fin dalle prime pagine è posto il problema del giudicare, che è un problema umano, esistenziale: "ogni persona investita del titanico compito di giudicare ha un vissuto, un patrimonio culturale e un assetto emotivo che fatalmente ne influenzano la capacità di percepire, di valutare e di decidere". Il lettore comprende che si parla anche di lui, o comunque si parla per lui. Una sensazione che trova conferma nell'ultimo capitolo del volume, sulla "narrazione della giustizia penale": necessaria, in ultima analisi, per il necessario "controllo della collettività sulla giustizia amministrata in suo nome". Il lettore è ormai certo che quando si parla di giustizia penale, si parla per lui.
Nel suo libro di critica letteraria, Steiner cerca di non stabilire supremazie, ma fa intendere che preferisce Dostoevskij, il suo realismo tragico, quasi shakesperiano, più aderente alla realtà; pur riconoscendo nelle opere di entrambi la massima espressione del romanzo ottocentesco. Sempre giocando su questo impossibile parallelismo tra i due grandi romanzieri russi da un lato, i due grandi giuristi dall'altro, allo stesso modo potrebbe dirsi che entrambi rappresentano due massimi vertici del pensiero giuridico - alzi la mano chi non ha studiato sui loro manuali o commentari - e queste "prime lezioni" confermano (se pure ce ne fosse bisogno) la loro profonda capacità di elaborazione, che riesce ad affiorare in spiegazioni semplici di questioni vertiginose. Eppure, un giudizio di maggiore aderenza ai propositi divulgativi che sorreggono i due volumetti (che non sono né compendi, ne saggi né, tantomeno, monografie: il cui senso principale, per questo, è proprio la divulgazione) premierebbe il bell'affresco di Giostra sulla giustizia penale nel suo insieme: il cui autore, facendosi davvero prossimo al lettore, di fatto non si occupa di distinguere tra diritto sostanziale e processuale, quanto piuttosto di veicolare verso il cittadino domande - e risposte - sull'aspetto più rilevante della contemporaneità (di ogni contemporaneità): quello del diritto e della sua narrazione pubblica. Narrazione tanto necessaria da far pensare che nessuno studioso possa tirarsi indietro, proclamandosi innocente.
P.S. E' da quando sono ragazzo che preferisco Dostoevskij a Tolstoj, ma fin da subito ho compreso che il vero padre della letteratura occidentale è lui. E' il gioco dei contrari, a cui nessuna percezione soggettiva può sottrarsi: e allora, che questa mia preferenza sia intesa a contrario, come un omaggio alla statura scientifica e umana di Fiandaca.
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