Deduzione naturale e illogicità manifesta nelle argomentazioni giudiziarie
Angelo Costanzo
Sommario : 1.Deduzione naturale e argomentazione giudiziaria. - 2. Fatti e fattoidi. La tensione verso l’imparzialità. - 3. La scelta delle premesse e la logica produttiva. - 4. L’illogicità manifesta come criterio di eliminazione di tesi erronee.- 4.1. Illogicità manifesta e logica deduttiva. - 4.2. L’induzione e alcune sue illogicità manifeste. - 4.3. Illogicità manifesta e abduzione. - 4.4. L’erroneità epistemologica manifesta - 5. La composizione dei dati acquisiti: dalla logica all’estetica.- 6. L’illogicità dialettica manifesta
1. Deduzione naturale e argomentazione giudiziaria
Lo studio della deduzione naturale consente di scomporre i passaggi del ragionamento così da analizzarne l’andamento. Fornisce un metodo per mostrare che una conclusione deriva da certe premesse, ma è un sistema deduttivo senza assiomi (qualunque proposizione può essere introdotta a qualsiasi stadio del ragionamento), basato su una serie di regole di inferenza il cui numero dipende dai connettivi logici che si ritengono accettabili. Nella sua formulazione moderna (a albero) è stata proposta, nel 1935, da Gerhard Gentzen, che per primo introdusse un formalismo logico il più vicino possibile al linguaggio naturale e all’effettivo procedere dei ragionamenti, caratterizzato da regole di introduzione e regole di eliminazione di premesse per giungere, infine, a una conclusione costituita dalla composizione degli enunciati non eliminati[2].
2. Fatti e fattoidi. La tensione verso l’imparzialità
Le ricerche della psicologia sperimentale mostrano che:
a) il ragionamento spontaneo non usa tutte le regole della logica e alcune inferenze gli sono difficoltose (per esempio il modus tollendo tollens e il ragionamento controfattuale);
b) le inferenze sono influenzate dai contenuti e dal contesto delle premesse e si ragiona in modo diverso su problemi formalmente simili ma con premesse dal contenuto diverso;
c) ordinariamente le persone non applicano regole formali per connettere le premesse ma ragionano mediante rappresentazioni mentali (modelli) costruite, decostruite e ricostruite sulla base del contenuto delle premesse e delle conoscenze.
La peculiarità del ragionamento giuridico - che si caratterizza per la sua necessità di guardare ai fatti non nella loro complessità ma come a possibili fattispecie concrete di fattispecie normative astratte - accentua il rischio di ancorarsi fallacemente a degli stereotipi. Questa è una delle ragioni per le quali un eccesso di esperienza in un dato settore può persino diminuire la qualità della attività professionale.
Il pensiero non esiste propriamente se non quando è anche riflessione su se stesso (meta-cognizione) e vigilanza psicologica sulla sua tendenza a fallare. La soluzione di problemi richiede consapevolezza della formazione dei concetti usati e dello svolgersi dei connessi processi di categorizzazione, della natura e dei limiti del tipo di inferenze utilizzate, dell’articolarsi dei giudizi di somiglianza e delle analogie, degli esatti termini di un ragionamento probabilistico o di una ipotesi di spiegazione causale, della importanza della flessibilità nel passare dalla struttura superficiale a quella profonda di un problema e della capacità di adottare percorsi di ragionamento che non inibiscano la loro successiva rivisitazione critica. Particolare difficoltà sorge quando la incertezza impone al decisore di tenere compresenti più soluzioni.
La stessa persona muta lo stile dei suoi giudizi secondo l’oggetto della decisione e i propri stati psicologici, anche tendendo a utilizzare informazioni non contenute nelle premesse per decidere se una conclusione segue da quelle premesse (c.d. effetto di congruenza con le credenze).
Le condizioni psicofisiche possono distorcere il percorso della decisione, rendendo difficoltoso reggere il dubbio (cioè mantenere come compossibili ipotesi fra loro discordanti) e resistere alle suggestioni fuorvianti. Lo stato d’animo prevalente di un soggetto può focalizzarne l’attenzione su alcuni aspetti e orientare il recupero dalla memoria di dati consoni a quello stato rendendoli disponibili più di altri. La vigilanza psicologia sui propri ragionamenti e sulle proprie propensioni emozionali ha un costo psichico ma l’impegno a pensare al problema prima di provare attiva la volontà di non costruire tesi parziali.
L’arte di ragionare si sviluppa con la capacità di pensare il contrario dell’ipotesi di partenza. Gli errori più comuni derivano dall’adagiarsi sul già valutato, non accorgendosi di controragionamenti a volte persino ovvi. Invece, l’affinarsi dei ragionamenti deriva dalla dialettica fra gli schemi già utilizzati e i nuovi dati che richiedono un riequilibrio delle conoscenze. Si conosce tramite i confronti fra posizioni contrarie (la misura dell’equilibrio fra i contrari porta alla precisione dei particolari: lucem demonstrat umbra), soprattutto tramite la consapevolezza della differenza fra quello che ci si aspettava e quello che si è trovato. Allora, dietro ogni soluzione prescelta può intuirsi la moltitudine delle soluzioni rifiutate.
Sappiamo che l’attività razionale della mente costituisce una minima porzione delle sue dinamiche. Le componenti emotive e affettive dominano sul ragionamento e possono condurre a cercare conferme a intuizioni fallaci. Negli itinerari mentali si intrecciano percorsi euristici e percorsi analitici e spesso i secondi vengono adoperati per coprire le fallacie dei primi, per razionalizzare intuizioni e precomprensioni. A volte, prevale la propensione verificazionista (corroborazionista) che enfatizza gli elementi confermativi della responsabilità dell’imputato, assecondando la naturale propensione della mente a ricercare la conferma di un’idea acquisendo nuove informazioni coerenti con la stessa e a espungere i dati contrari. I suoi rischi non devono eclissare quelli della opposta inclinazione negazionista: esiste la tendenza a negare o a ridimensionare alcuni generi di fatti illeciti (ad esempio: i reati più disturbanti o le condotte colpose più macroscopicamente negligenti o imprudenti) per meccanismi psicologici che possono instaurarsi nei testimoni e persino nelle vittime (per espungere dalla mente cosciente stati d’animo penosi), estendersi a un intero contesto sociale e penetrare nelle smagliature dell’attenzione degli attori professionali del processo e dei loro consulenti.
3.La scelta delle premesse e la logica produttiva
La natura oggettiva della logica non comporta che essa debba occuparsi solo del giudizio sulle conoscenze già acquisite. Infatti, sue varie articolazioni sono strutturalmente idonee a ampliare la conoscenza: non esiste solo una logica del controllo e della giustificazione delle conoscenze ma anche una logica della scoperta[3]. Basta un minimo di immaginazione logica per prefigurarsi una ipotesi contraddittoria o semplicemente contraria rispetto a quella adottata, per configurare un antimodello delle relazioni fra i dati sul quale si sta lavorando, per ragionare in termini di controfattuali, per costruire un esperimento mentale falsificante la ricostruzione degli eventi che è delineata.
Il metodo analitico di Aristotele nasce dall’esigenza di connettere premesse e conclusioni. a sillogistica ha privilegiato la via che va dalle premesse alle conclusioni (“quale conclusione nasce da premesse date?”), ma per Aristotele era altrettanto interessante trovare le premesse necessarie per dimostrare una data conclusione (“quali premesse per una conclusione data”?), perché lo scopo principale della logica è trovare un metodo che permetta di costruire per ogni problema un discorso che ne prospetti una soluzione [Aristotele: Topica, A1, 100° 18-20; Analytica Priora, A27, 43 a 20-24, B3 90 a 35]. La scoperta non si risolve nel concepire una idea (magari vaga) nuova ma include i metodi di controllo che consentono di precisarne e a volte di modificarne il contenuto: il contesto della giustificazione non è scindibile da quello della scoperta.
Il cosiddetto paradosso dell’inferenza considera che le inferenze non possono essere nello stesso tempo ampliative e corrette. Ma questo vale solo per quelle meramente deduttive, mentre ordinariamente la argomentazione è per sua natura ampliativa perché deve rivelare “per mezzo di alcune proposizioni ritenute vere, una conclusione non evidente [Sesto Empirico, Pyrrohonianum Hypotyposeon].
A tale scopo servono: l’analisi (scomposizione di un ragionamento nelle sue parti o riduzione di un problema a un altro) l’astrazione (estrazione di dati oppure spostamento dell’attenzione da certi aspetti a altri), l’abduzione (l’indizio che conduce all’ipotesi esplicativa), la esplicitazione dei presupposti e la precisazione delle conseguenze di una tesi, l’analogia (che si fonda sulla logica della somiglianza) e l’induzione (che valorizza il reiterarsi di dati analoghi). Queste operazioni intellettuali sono tutte fonti di nuove possibili premesse da introdurre nel ramificarsi dei ragionamenti.
4. L’illogicità manifesta come criterio di eliminazione di tesi erronee
La depurazione di un ragionamento da premesse viziate da fallacie è condizione necessaria - anche se non sufficiente - affinché risulti accettabile.
Il codice di procedura penale italiano considera due categorie (di invenzione legislativa): le illogicità manifeste (che viziano le decisioni e producono la loro nullità) e le illogicità non manifeste (che non producono nullità). La seconda categoria non è rilevante per il giudizio di legittimità, ma lo è per valutare la logicità della ricostruzione dei fatti compiuta nei cosiddetti giudizi di merito e, quindi, comunque, la loro plausibilità.
La “illogicità” è considerata rilevante solo se “manifesta”, come se gli errori logici meno manifesti (quelli più sottili, quelli che a prima vista non sembrano errori) non determinassero egualmente un vizio del ragionamento, spesso rilevante (magari perché più insidioso) e non necessariamente incidente soltanto su aspetti secondari del percorso della argomentazione: un anello della catena inferenziale che non tiene, la smaglia anche se piccolo[4].
In realtà, come è stato è stato osservato, nei ragionamenti giuridici “le esemplificazioni di manifesta illogicità non sono molte, fatta eccezione per qualche patente contraddizione o qualche generalizzazione induttiva troppo affrettata. Forse è più facile incontrare delle manifeste violazioni del senso comune; le quali, tuttavia, non possono identificarsi con le illogicità manifeste, perché in molti casi la logica rilascia verdetti contrari all’intuizione e in altrettanti il senso comune conduce a ragionamenti manifestamene erronei”[5].
La evidenza della illogicità non può essere intesa in senso meramente psicologico (come se potesse dipendere solo dalla attenzione di chi la valuta), ma deve avere una valenza oggettiva, connessa alle basi elementari della logica, valide per tutti e, in parte, anche intuitive.
Il rispetto dei principi fondamentali della logica formale è il livello minimo al di sotto del quale non è ammissibile scendere (il che non esclude che una più evoluta cultura giudiziaria possa aspirare a livelli di maggiore rigore logico). Una premessa che sia manifestamente illogica non deve essere inserita nella argomentazione e, comunque, se scoperta, è un ramo dell’albero del ragionamento che va eliminato (o, ma solo nelle inferenze abdu-induttive, accantonato (per un possibile reinnesto). .
La riduzione della fiducia nella forza della logica che caratterizza molte manifestazioni del pensiero contemporaneo è stata operazione frettolosa e incauta. Tanto più se si valuta che lo sviluppo dello studio della psicologia del pensiero e della linguistica consentono oggi un uso meno ingenuo e fideistico dello strumentario della logica. Allora, sostituire ai limiti (ormai ben conosciuti) delle forme logiche quelli sterminati, vaghi e variamente interpretabili dell’inafferrabile senso comune non sembra operazione fruttuosa.
La tipologia delle illogicità manifeste è strettamente connessa alla struttura del ragionamento che esse viziano.
4.1. Illogicità manifesta e logica deduttiva
4.1.1. La prima forma di illogicità manifesta nella logica deduttiva (ma non soltanto in questa) è la violazione del principio di determinazione. Nel ragionamento, il significato dei termini (delle nozioni, dei concetti e delle idee) deve mantenersi costante. Questo non impedisce che molti termini siano intrinsecamente indeterminati o che il loro significato abbia un nucleo centrale ben definito e frange periferiche più o meno indeterminate: ma quando (come è spesso inevitabile) nei ragionamenti si introducono premesse veicolanti termini indeterminati è importante esserne consapevoli per non cadere nelle varie fallacie dell’equivocazione e non scivolare nella fallacia quaternio terminorum (o del medio ambiguo) che inficia ogni sillogismo (usando lo stesso elemento del discorso, ma con un significato diverso di volta in volta, si crea un quarto termine, pur utilizzando in apparenza solo tre termini distinti, e questo inficia la deduzione).
In secondo luogo, anche se la gran parte dei ragionamenti può svolgersi senza utilizzare il principio di contraddizione, certamente la contraddizione rende insignificante (se non trincerata entro ambiti circoscritti, come suggeriscono le logiche paraconsistenti) ogni discorso riducendolo - per il principio ex contradictione quodilibet sequitur - a un’insalata di parole.
Inoltre, nei ragionamenti ispirati da esigenze pratiche per la regolazione della vita sociale non sono accettabili più di due valori di verità: per il principio del terzo escluso una conclusione o è vero o è falsa: tertium non datur. Si dimostra A, dimostrando che il suo opposto (non-A) è contraddittorio. Sono di questo tipo tutte le dimostrazioni per assurdo e le confutazioni dialettiche, delle quali - però - sono rare le condizioni di possibilità perché le tesi con cui ordinariamente si opera sono fra loro meramente contrarie ma non anche contraddittorie, perciò la eliminazione di una non prova l'altra, rimanendo possibili altre tesi incompatibili con entrambe (tertium datur) e, non autorizza a concludere il discorso.
4.1.2. Senza la posizione di condizioni antecedenti iniziali (postulati, massime di esperienza, endoxa, ipotesi), alle quali collegare le conseguenti, il ragionamento né si avvia né procede. I modi fondamentali del ragionamento condizionale sono: il modus ponendo ponens [(se P allora Q); sussiste P, allora sussiste Q] e il modus tollendo tollens [(se P allora Q); non sussiste Q, allora non sussiste P]. Sono canoni di regole di inferenza dominabili intuitivamente, eppure è facile cadere nelle correlate fallacie: la fallacia della affermazione dell’antecedente [(se P allora Q); sussiste Q allora P] e la fallacia della negazione del conseguente [(se P allora Q); non sussiste P, allora non sussiste Q].
E’ interessante considerare che gli studi sulla psicologia del ragionamento mostrano che le persone, non hanno difficoltà a utilizzare il modus ponendo ponens, ma hanno difficoltà a utilizzare il modus tollendo tollens e, comunque, facilmente incorrono nelle due fallacie del condizionale (affermazione della conseguente e negazione dell’antecedente). Conclusioni affette da queste fallacie vanno eliminar dall’albero del ragionamento deduttivo.
4.2. L’induzione e alcune sue illogicità manifeste
A differenza di quella deduttiva, la logica induttiva mira a ampliare le conoscenze e perciò deve convivere con le cosiddette fallacie del condizionale (in particolare quella della affermazione dell’antecedente), che sono tali nella logica deduttiva, ma che, invece, impregnano necessariamente la logica induttiva, in cui le conclusioni veicolano informazioni (che potrebbe rivelarsi false) maggiori di quelle offerte dalle premesse.
Comunque, anche nella utilizzazione delle variegate espressioni della logica induttiva possono presentarsi della illogicità manifeste prodotte da macroscopiche fallacie: la generalizzazione indebita (o secundum quid, o generalizzazione affrettata) presenta quel è vero in alcuni casi come se fosse vero per ogni caso oppure una conclusione riguardante un'intera classe di oggetti partendo da premesse riguardanti uno solo o su alcuni dei suoi componenti e consiste nel derivare una regola generale a partire da dati insufficienti o inadeguata, o perché relativi a casi speciali o perché il campione considerato non è rappresentativo; la generalizzazione statistica - che si basa su una campionatura ma pretende di avere una conclusione generale; la falsa causa - che fa apparire per causa di un evento qualcosa che non lo è oppure attribuisce arbitrariamente una certa causa a un evento senza aver considerato le concause o le possibili cause alternative.
4.3. Illogicità manifesta e abduzione
Tradotta nel linguaggio giudiziario corrente, l’abduzione si risolve nel ricorso alle massime di (comune) esperienza, ossia a generalizzazioni di senso comune che costituiscono il tramite tra i fatti conosciuti e i fatti da dimostrare ponendosi come premesse maggiori di un ragionamento in cui l'indizio è una premessa minore. Il criterio che regge la massima non può trarsi da un evento singolo quale è quello oggetto di indagine perché, in questo caso, non potrebbe costituire una massima di (precedente) esperienza.
Il ricorso alle massime di esperienza comporta il rischio della fallace confusione fra generalità e generalizzazione insito nella tendenza a attribuire carattere di generalità a quelle che potrebbero rivelarsi mere indebite generalizzazioni, tanto più se si considera che esse si formano secondo vie non vigilate dal rigore del metodo scientifico.
La valutazione atomistica degli indizi è fallace perché trascura che l’indizio - per sua costituzione - è un dato la cui ambiguità va emendata collegandolo a altri. Rifuggire da questa operazione significa accantonare indebitamente elementi di valutazione rilevanti.
All’opposto, l’indebita proliferazione degli indizi (praesumptio de praesumpto) è fallace perché diluisce la valenza sintomatica di un indizio: il giudice, che ben può partire da un fatto noto (indizio) per risalire a uno ignoto, non può porre il fatto (originariamente) ignoto come fonte di una ulteriore presunzione perché la doppia presunzione contrasta con il requisito della sua precisione, richiesto dall'art. 192, comma 2, cod. proc. pen..
4.4. L’erroneità epistemologica manifesta
L’utilizzo della conoscenza scientifica nei processi non apporta massime di esperienza ma leggi scientifiche (proposizioni di contenuto generale) da applicare a eventi singoli, con le specifiche problematiche epistemologiche derivanti dalle difformità fra la logica delle asserzioni singolari (che guida la ricostruzione degli eventi singoli) e la logica delle asserzioni generali (che tesse le leggi scientifiche): la confusione fra le due forme di logica può condurre a forme di erroneità epistemologica manifesta. Le tesi che applicano agli eventi singoli leggi scientifiche accettate sic et simpliciter vanno eliminate dall’albero del ragionamento e, eventualmente, accantonate in attesa di una loro opportuna concretizzazione.
5. La composizione dei dati acquisiti: dalla logica all’estetica
5.1. Per risultare logicamente accettabile la argomentazione che organizza i dati raccolti deve risultare consistente (priva di interne incompatibilità). Ma solo una argomentazione coesa (retta da una tesi ricostruttiva) può risultare persuasiva. Spesso l’insieme dei dati acquisiti con una apposita ricerca non è più importante di quello già disponibile con una istruttoria ordinaria e, in molti casi, la conclusione non si raggiunge tanto sviluppando inferenze esplicite da premesse esplicite, ma estraendo dalla serie disordinata di informazioni di sfondo le premesse adatte a renderle coese. Chi argomenta o esamina le altrui argomentazioni solitamente concentra la sua attenzione sulla presenza di incompatibilità nel discorso e si cura di sviluppare ulteriori argomentazioni per sanarle - se mira a confermare il discorso - o per rimarcarle - se mira a confutarlo. Questo atteggiamento è incoraggiato dal fatto che, dopo essere state riscontrate, le incompatibilità pongono problemi ineludibili, mentre le questioni relative alla coesione fra i dati e gli argomenti non emergono con la stessa facilità, né sempre sono immediatamente rilevanti perché affinano il discorso compattandolo, ma non pongono problemi ineludibili.
Il giudizio di coesione costituisce connessioni ragionevoli fra i dati[6]: non appartiene esclusivamente al ragionamento analitico e al mero controllo formale delle enunciazioni, perché comporta la decisione di fare emergere le consonanze tra i vari elementi in ragione del loro collegamento a una certa precomprensione.
La coesione è una qualità graduabile e, più che singoli elementi, concerne porzioni significative del discorso, la concatenazione dei dati e la completezza delle risposte alle questioni che il caso pone.
Inoltre, è instabile perché può mutare secondo l'ampiezza del contesto individuato: può perdersi se il contesto viene ampliato con altri dati (si rischia di sconnettere una argomentazione estendendola oltre misura).
Per la sua maggiore compattezza e per la interna concatenazione fra le sue componenti, una ricostruzione più coesa può risultare preferibile, a altra dalla trama più lasca; a volte la coesione si impianta persino nonostante la presenza di qualche divergenza fra i dati.
Ma la ricostruzione degli eventi può anche essere scartata a causa dei nessi che non riesce a fornire o che fornisce ma non spiega[7]. In altri termini, il giudizio su una certa ricostruzione degli eventi può dipendere dalla sua compatibilità/connessione con i dati acquisiti come anche dalla sua interna composizione: le inadeguatezze non sono così facilmente censurabili come gli errori propriamente logici.
La completezza di una ricostruzione dei fatti è una qualità riassuntiva e unificante della validità delle argomentazioni utilizzate a suo sostegno. Soltanto la incompletezza grave della motivazione può qualificarsi come una modalità attraverso la quale si rende manifesta la sua illogicità, risolvendosi, in definitiva, nel vizio di mancanza di argomentazione. Al di là di questo confine, le disarmonie nella composizione delle argomentazioni, il disordine della esposizione, le ridondanze che ingenerano confusione, non costituiscono illogicità ma inadeguatezze retoriche, che, semmai, possono allertare il lettore perché indici di possibili illogicità (più o meno rilevanti, certamente non manifeste).
In ogni caso, in presenza di premesse fra loro incompatibili, l’interprete deve approdare a una composizione dei dati esente da incompatibilità e questo comporta un impegno mentale che si conclude quando emerge uno spunto per risolvere il problema ricomponendo i dati, rivedendone l’insieme in modo nuovo (la ristrutturazione che, secondo i gestaltisti, prelude allo insight). L’emergere di nuove premesse per un discorso si ha “combinando le idee” e selezionando alcune fra tutte le combinazioni possibili. La produzione di tutte le combinazioni possibili non può essere realizzata soltanto dall’io-conscio (che può produrre un insieme limitato di combinazioni) ma avviene tramite l’io-inconscio che, con la sua libertà e potenza produttiva, può in poco tempo formare una amplissima gamma di combinazioni delle quali soltanto alcune emergono. L’interesse di una combinazione può derivare da un giudizio estetico (in termini di armonia, semplicità, chiarezza economia espositiva) o da una valutazione degli scopi perseguiti. Il risultato può apparire come una posizione apodittica o una intuizione improvvisa (insight), ma ritenerlo veramente tale sarebbe fallace come scambiare il proscenio per la realtà.
5.2. Comprendere equivale a rendersi conto che si ha che fare con qualcosa che può essere espresso dal discorso che si è sviluppato e esposto con “queste parole, in queste posizioni”. La comprensione si raggiunge all’interno del sistema di premesse che si è adottato e “non è tanto il punto di partenza, quanto piuttosto l’elemento vitale della argomentazione”. Essa si traduce in certezza quando è collegata a tutte le domande e a tutte le risposte emerse nel ragionamento che la precede. A questo approdo concorre una convalida estetica della forma discorsiva che espone le giustificazioni delle conclusioni raggiunte[8].
All’inizio si comprende solo ciò che ci si aspetta, ma una riflessione successiva può permettere di rendersi conto di un errore e condurre a una rivisitazione delle premesse del ragionamento.
6. L’illogicità dialettica manifesta
Tuttavia, la chiarificazione del contenuto di una tesi che conduce alla sua accettazione non autorizza ancora la conclusione del ragionamento.
La conclusione (provvisoria) raggiunta va esposta al vaglio dialettico della confutazione: se non le resiste deve essere modificata o sostituita. In sintesi: una base induttiva di dati empirici viene resa coesa da una o più ipotesi ricostruttive e il risultato va sottoposto alle critiche. Vale la formula (induzione & coesione) & assenza di refutazione = prova.
Anche una argomentazione esente da illogicità al suo interno può risultare viziata se omette di confrontarsi con le argomentazioni di segno contrario. La logica della dialettica confutativa si pone su un piano ulteriore rispetto a quella delle affermazioni meramente assertive e il termine “contraddizione” ha avuto origine, appunto, nella prassi dialogica volta a contrastare il pensiero dell’avversario nell’agone giudiziario.
Collaudare un ragionamento esponendolo al confronto con altre tesi richiede operazioni intellettuali che fuoriescono dal discorso sviluppato e vanno oltre il mero controllo della sua logicità. Comportano una attività di metacognizione che non permane senza una vigilanza psicologica che richiede disponibilità di energie mentali e capacità di riflettere sui propri pensieri, individuandone le limitazioni e aprendosi al fluido confronto con altri ragionamenti.
A questa attività la psicologia può fornire utili schemi di comportamento intellettuale per ridurre il rischio di giudicare senza possedere informazioni sufficienti[9] .
Una prima mossa sta nell’individuare i pregiudizi impliciti dubitando della oggettività dei propri credenze e esaminando come queste si sono formate.
Una seconda mossa sta nel generare (o ascoltare) tesi alternative a quella sostenuta, fino a considerare imparzialmente ogni altra ipotesi e non solo l’opposta[10].
Una terza mossa sta nel mantenersi consapevoli che la verità fattuale non è oggetto di dimostrazioni, ma solo di induzioni e di loro conferme e che, quindi, la conclusione raggiunta potrebbe essere erronea perché le cose potrebbero essersi svolte diversamente da quanto ritenuto [11].
*Relazione al Convegno svoltosi a Roma il 6/11/2019 presso il Consiglio Nazionale Forense sul tema “Gli errori giudiziari e la loro riduzione: le linee-guida psicoforensi”
[1]Secondo la figura del cosiddetto ‘sorite cinese’: Ch.Perelman -L.OlbrechtsTyteca Traité de l'argumentation. La nouvelle rhétorique, Presses Universitaires de France, 1958 (trad.it.di C.Schick, M.Mayer, E.Barassi, Trattato dell'argomentazione.La nuova retorica, Torino, 1966, 242ss (ed.it.1976).
[2] Gli schemi della ‘deduzione naturale’ sono stati evidenziati da Gerahard Gentzen in: Untersunchungen über das logische Schliessen in “Mathematische Zeitschrift”, 39 (1934), 176-210, 430-431 (trad.it. parziale in: D.Cagnoni (ed.), Teoria della dimostrazione, Milano Feltrinelli, 1981, 77-116). O anche: Investigation into logical deduction, in G.Gentzen, Collected Papers, a cura di M.E.Szabo, North-Holland Amsterdam, 1969, p.80.
[3] Sulla questione: C.Cellucci, Le ragioni della logica, Bari, Laterza, 1998, 7ss.; P.Engel, Philosophie et psychologie, Paris, Gallimard, 1996. Trad.it. di. E.Paganini, Filosofia e psicologia, Torino, Einaudi, 2000, 19-21. 23, 46-51, 88-94.
[4] L’indeterminatezza del contenuto di una nozione indubbiamente fondamentale quale è quella di “manifesta illogicità” produce una mancanza di regole al centro del sistema delle regole e rende incerta la separazione fra vizio di legittimità e vizio merito dei provvedimenti giudiziari (A. Costanzo, Anomia della illogicità manifesta, in Cassazione penale, 3, 2019, pp. 1308-1326. All’ampiezza di tale indeterminazione sono connesse alcune delle ambiguità che conducono non infrequentemente il giudizio di cassazione a risolversi in una terza istanza, condizione che è concausa del lievitare del numero dei ricorsi e anche di alcuni limiti della nomofilachia.
[5] M. Benzi, Le fallacie logiche, in “Per uno statuto della Logica nel processo penale. Secondo incontro di studio: “Illogicità manifesta, Fallacia Occulta”, Roma, Sabato 28 Aprile 2012. Scuola Nazionale di Alta Formazione dell’Avvocato Penalista.
[6] A.Cerri (ed.), La ragionevolezza nella ricerca scientifica e il suo ruolo specifico nella sfera giuridica, Atti del Convegno di studi, 2-4/10/2006, Aracne, Roma,2007; F.Modugno, Ragione e ragionevolezza, ESI, Napoli, 2009.
[7] Su questi temi: G.Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, Giuffrè, Milano, 2015.
[8] Le due citazioni corrispondono alla Proposizione I.531 e alle Proposizioni, 102-102 di L.Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen (I:1945; II: 1947-1949), a cura G.E.M. Ascombe e R.Rhees, Blackwell, Oxford, 1953, [trad. it. Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1968]. Una sintetica esposizione del rapporto fra giudizio logico e giudizio estetico è sviluppata da Giuseppe Di Giacomo (Dalla logica all’estetica, Parma, Pratiche, 1989).
[9] Sulle questioni che seguono, estesamente e con puntuale bibliografia: G.Gulotta, Innocenza e colpevolezza sul banco degli imputati. Commento alle Linee guida psicoforensi per un processo sempre più giusto, Milano, Giuffrè, 2018, pp. 356-376.
[10] A.Costanzo, L’errore giudiziario come difetto di imparzialità, in: A.Incampo e A.Scalfati (a cura di) , Giudizio penale e ragionevole dubbio, Bari, Cacucci, 2017, pagg. 35-48.
[11] L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale. Roma, Laterza, 1990.