ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il mestiere del giudice, Cedam, 2020.
Collana Dialoghi di Giustizia Insieme diretta da R.G.Conti e P.Filippi
PREFAZIONE
di Paolo Grossi
È, questo nostro, un tempo in cui al giurista (teorico o pratico che sia) conviene qualche sosta di riflessione cercando di cogliere, nella transizione rapidissima che stiamo vivendo, che cosa movimento e mutamento abbiano eroso di vecchie certezze e quali siano i segni del nuovo che si va lentamente costruendo. Può darsi che la sosta debba necessariamente concretizzarsi in uno scoperto e fruttuoso esame di coscienza, nella speranza – però – che si abbia anche un più fruttuoso disegno progettuale.
È lo spessore singolare e apprezzabile del libro, che ho il privilegio di presentare al lettore. Esso, infatti, incarna proprio una sosta riflessiva, con il carattere prevalente di una impostazione serenamente critica, la quale consente al Coordinatore di raggiungere una lucida consapevolezza sull’itinerario in atto per il diritto italiano, sul senso di questo itinerario, sulle forze su cui contare per edificare un futuro coerente con le esigenze affioranti.
Rilevo con soddisfazione che l’iniziativa proviene da un giudice, a conferma che la dimensione giuridica – dove scienza e prassi, in grazia della sua ‘carnalità’, non possono non integrarsi armonicamente – è costantemente nutrita da conquiste teoriche recanti il timbro di una voce giudiziale. La riflessione, stimolata e sapientemente coordinata dal Consigliere della Cassazione Roberto Giovanni Conti, intende collocarsi in un osservatorio che vuole essere aperto, sia verso il passato, sia verso il futuro, con la positiva finalità di deporre dogmatizzazioni e mitizzazioni provenienti da lontano ma ancora munite di una loro carica virulenta, misuràndole alla luce delle odierne esigenze, spesso profondamente nuove per la incidenza che eventi rilevantissimi hanno avuto sulla storia giuridica recente e recentissima della Repubblica.
Azzeccata anche l’impostazione data al momento riflessivo, che si risolve in sette interviste, ossia in colloqui dove sono protagonisti docenti universitarii e magistrati interpellati su “questioni centrali…nell’esercizio quotidiano del mestiere di giudice” (p. XIII ). È chiaro che ci si propone di essere utili a ogni giudice, ma con una dichiarata (e commendevole) attenzione per il novizio, per “i giudici ragazzini”. Commendevole è anche la scelta di personaggi fra loro diversissimi. Ciò emerge nitidamente per quanto riguarda i docenti, nei quali le diverse adesioni teoretiche sono indubbiamente più palesi. I costituzionalisti Roberto Bin e Antonio Ruggeri mostrano con limpidità la loro origine da scuole assai differenziate, e così i filosofi del diritto Baldassarre Pastore, di matrice ermeneutica, e Giorgio Pino, di matrice analitica.
Scaturisce dalla assoluta maggioranza degli interventi l’immagine intensa del tempo giuridico che si vive oggi in Italia, un tempo posmoderno, intendendo con questa aggettivazione intrinsecamente vaga il carattere di un momento storico che sempre più si allontana dalle strutturazioni di un edificio giuridico tardo-settecentesco di impronta – insieme – illuministica e giacobina, frutto allora delle strategie del vittorioso ceto borghese ma consegnato ai posteri sotto il mantello di mitizzazioni indiscutibili e, come tali, tuttora dommaticamente circolanti tra la maggioranza pigra e inerte dei giuristi.
Le pagine, che grazie alla solerzia di Conti il lettore ha ora a sua disposizione, si segnalano – come abbiam detto - per una visione decisamente critica, offrèndoci una osservazione fedele dell’attuale movimento/mutamento. Quello che mi appare come il messaggio più rassicurante verte sulla complessità dell’assetto giuridico di un’Italia certamente ancora ben inserita all’interno del pianeta di Civil Law, ma finalmente affrancata dal piattume di parecchi anni addietro. Si dirà da taluno che mi esprimo con un autentico ossimoro, collegando strettamente la conquista di un atteggiamento di sicurezza psicologica alla percezione della complessità, e, quindi, di un paesaggio storicamente complicato. Sì! Ribadisco: rassicurante, perché continuare a blaterare oggi le decrepite pseudo-verità del credo illuministico incentrato su un accanito statalismo legalistico, senza accorgersi delle novità profondamente incisive degli ultimi settanta anni, ha per me l’insensatezza di continuare a maneggiare dei mulini di preghiera tibetani privi di un loro contenuto storicamente rilevante. Quel che si deve ammettere è che l’odierno paesaggio giuridico italiano è più difficile perché più complesso, e più difficile è il mestiere del giurista teorico o pratico; ma non possiamo, come lo struzzo di un vecchio aforisma, mettere sotto la sabbia la nostra testa e, quindi, i nostri occhi per non vedere quella che è – piaccia o non piaccia – la realtà circostante.
In questo felice libro si ha, invece, il coraggio di guardare, e di guardare dopo aver deposto degli occhiali protettivi ma deformanti. Quello che la maggioranza degli intervistati consegna all’intervistatore, e che costui raccoglie con piena soddisfazione, è la oggettiva percezione della complessità dell’attuale paesaggio. In queste pagine non si continua a raccontare favole consolanti ma irreali, e si prende atto senza edulcorazioni di una civiltà giuridica in cammino, faticoso, forse colmo di inciampi, ma costruttivo.
Il primo grande scenario, entro cui si muovono eventi e soggetti, è, come or ora si diceva, la coscienza della ritrovata complessità, complessità sotto diversi profili: si fa i conti, infatti, con il pluralismo giuridico che ravviva al suo interno la Repubblica; ma si fa i conti anche con le relazioni, spesso non facili, sempre problematiche, tra la nostra dimensione costituzionale e i pianeti della tormentata realtà eurounitaria, dell’Europa dei diritti con la sua sonora voce alsaziana, della globalizzazione giuridica in perenne crescita. Sono gli stessi curatori della Collana a parlare schiettamente nella ‘Introduzione’ dei “meandri di un diritto sempre più complesso” (p. XV). Spesso affiora negli interventi, come in quello di Ernesto Lupo (“questa maggiore complessità del diritto”, p. 285). Spesso è lo stesso coordinatore Conti a concludere sul punto; così, ed esemplarmente, commentando Pastore e Pino: “lo spaccato emergente è, forse, compendiabile con il rinvio al concetto di complessità” (p. 266); così, con riguardo ai contributi dei Presidenti Luccioli e Rordorf: la loro è “una prospettiva che si collega indissolubilmente al tema della complessità” (p. 326 ).
Quel che mi sembra di segnalare e anche segnare albo lapillo è l’acquisizione di un concetto di Costituzione straordinariamente aperto, un concetto che non si esaurisce in una legge autorevole composta di 139 articoli, ma piuttosto – così com’era nel progetto e nella realizzazione dei Padri costituenti – in una dimensione costituzionale, che si articola in più livelli, che è espressa nei 139 articoli della Carta, ma che è anche inespressa (ma parimente reale), consistente – come afferma il Presidente Rordorf – in “quel deposito di valori condivisi, che costituisce la base del vivere civile” (p. 288); un deposito che vive nella vita di un popolo e che, al pari di quella, è contraddistinto da una continua dinamica, lentissima perché di valori si tratta, ma non immobile.
Si può dire che il libro si sviluppa su questo dato nodale, e lo avverte acutamente il coordinatore Conti, quando, mettendo in conclusivo raffronto le posizioni teoriche di Bin e di Ruggeri, due costituzionalisti esprimenti concezioni diverse, le mette a fuoco con lucidità: “diversità di vedute non solo e non tanto sul ruolo del giudice, ma, prima ancora, sulla funzione e portata della Costituzione” (p. 35). Si riporta, così, su questo nodo tutto il ‘segreto’ del tempo giuridico posmoderno, e dallo scioglimento di esso si ottiene una più compiuta comprensione delle sue manifestazioni essenziali, prima fra tutte il mestiere del giudice e il suo ruolo nella odierna società civile. E’, insomma, dalla spiccata tipicità della nostra dimensione costituzionale che deriva il “mutamento di ruolo della giurisdizione” (Lupo, p. 284).
La Costituzione è còlta – ripetiàmolo, perché sta qui una soluzione davvero appagante – come testo e come sostrato valoriale, quasi un continente che affiora solo parzialmente alla superficie, ma la cui consistenza maggiore è sommersa (anche se perfettamente vitale). Realtà, dunque, di radici, di valori che non si irrigidiscono nella secchezza di comandi, ma divengono plastici principii con la immediata concretizzazione in diritti fondamentali del cittadino. Radici sì, ma già ab origine giuridiche, basamento del complesso diritto positivo della Repubblica. Lo puntualizza bene Gaetano Silvestri: “le Costituzioni rigide…cariche di valori etici e sociali, che assumono la veste giuridica di principii” (p. 204); precisando assai opportunamente: “premessa teorica fondamentale è che i principii abbiano contemporaneamente efficacia normativa e valore ermeneutico”, senza la quale “la Costituzione rimarrebbe un cappello posto sulla sommità”. Concetti determinanti ripresi dal coordinatore Conti nelle sue conclusioni sugli interventi dei due filosofi del diritto ed efficaci per sbarazzarsi di reliquie (monistiche perché statalistiche) ancora formalmente intatte nelle ‘Disposizioni preliminari’ al vigente Codice del 1942: i principii costituzionali “non più visti come ricavabili da norme particolari, ma nella loro dimensione elastica e potenziale, direttamente proveniente dal complesso e variegato sistema che va individuato attraverso operazioni ermeneutiche ben lontane dall’angusto piano dell’articolo 12 delle Preleggi al Codice Civile” (p. 271).
Quindi: la Costituzione italiana del 1948 quale breviario giuridico del cittadino. Non una filosofia posta quale cappello sopra l’organismo giuridico della Repubblica ma estraneo ad esso, bensì una nervatura interna ad esso, con una basilare funzione identitaria. Una Repubblica – quella italiana – che non si identifica nello Stato, anche se trova nello Stato il suo centrale motore politico-giuridico; una Repubblica plurale dinamicizzata al suo interno da una pluralità di ordinamenti giuridici raccolti e armonizzati da una base unitaria di valori, ordinamenti viventi e pertanto non immobili.
È da qui che scaturisce un “giudice partecipe delle dinamiche proprie di una società pluralista” (Pastore, p. 241) e, più specificamente, il “mutamento di ruolo della giurisdizione” còlto dal Presidente Lupo nella affermazione sopra riportata e ribadito, come rapporto causa/risultato, dal coordinatore Conti quando evidenzia “il peso che ricade sulla giurisdizione per effetto della Costituzione” (p. 271).
L’ordine giuridico è percepito, ormai, in tutta la sua naturale complessità, e complessità duplice: non si può immobilizzare nell’orizzonte esclusivo dei comandi dello Stato (a meno che non si abbia a che fare con problemi di sicurezza pubblica), e neppure nell’orizzonte a-storico di comandi avulsi dalla loro efficacia nel continuo mescolarsi con l’esperienza, sempre più lontana dal potestativo momento genetico e sempre più modificata. E si può ben comprendere la parabola attuale che quell’ordine vive in un paese di Civil Law, con un sensibile spostamento della sua asse portante dal legislatore (troppo spesso impacciato se non impotente) agli interpreti, sentiti questi come i garanti della coerenza tra forme giuridiche e società in cammino. La Presidente Luccioli è particolarmente eloquente in proposito: l’attuale momento “richiede all’interprete di convertirsi ad un approccio culturale che lo liberi definitivamente dalle incrostazioni dell’esegeta e di dotarsi degli strumenti idonei a coordinare i vari ordinamenti in un sistema armonico e coerente, assumendo tutti i rischi connessi alla sua complessità” (p. 279), “tenendo ben presente il contesto storico e sociale in cui la norma è nata e quello in cui è destinata ad operare nel tempo, intercettando i grandi cambiamenti sul piano culturale e del costume” (p. 280).
Il vecchio giudice, condannato ad essere ‘bocca della legge’ dai riduzionismi strategici degli illuministi (dapprima) e dei giacobini (successivamente), non può che togliersi volentieri di dosso la veste opprimente dell’esegeta, ormai del tutto inadatta, e indossare quella dell’interprete, dell’inventore, intendendo la sua operazione intellettuale irriducibile in deduzioni di semplice natura logica (come in una celebre pagina di Beccaria) e concretizzabile piuttosto in una ricerca, in un reperimento, con le conseguenti decifrazione e registrazione. Quello che mi sentirei, invece, di rifiutare, decisamente perché fonte di più che probabili malintesi, è il sintagma ‘creazione giurisprudenziale’, che usa Pastore (pp. 240 e 241) nel suo – peraltro, meditatissimo e condivisibile – intervento. Infatti, è proprio di ‘creazione ‘ e di ‘creazionismo’ che parlano gli adepti del legalismo statalistico stracciàndosi le vesti di fronte a un ruolo, innaturale perché para-legislativo, conferito (almeno secondo loro) ai giudici dalla riflessione ermeneutica. Insisterei, come ho fatto anche di recente, su un ruolo inventivo, marcando bene che si fa esclusivo riferimento alla inventio dei latini consistente appunto in un ‘cercare per trovare’.
Mi sembra che questo volume di interviste intitolato al ‘mestiere del giudice’ corrisponda pienamente alla finalità che i curatori della Collana “Dialoghi di giustizia insieme”, Roberto Giovanni Conti e Paola Filippi, hanno perseguito varàndola. Consapevoli “delle grandi responsabilità, degli enormi poteri e della vulnerabilità individuale” del giudice nell’attuale contesto italiano (p. XIII), hanno preteso di fornire “un affresco né troppo dogmatico né artificiale ed epidermico” (p. XIII), il solo che, proprio perché volutamente realistico, poteva fungere insieme da rilevazione critica e da orientazione pròvvida. Il ricorso, che il coordinatore Conti ha fatto, sia a docenti, sia a magistrati, è circostanza che reclama il nostro plauso, perché riafferma una grande verità: la scienza giuridica trova i suoi laboratorii indubbiamente nelle Università ma non meno in quelle autentiche officine rappresentate dalle curie giudiziali massime e minime. In questa unità di lavoro, che lega teorici e pratici in una preziosa collaborazione, ho sempre creduto, e tanto più oggi ci credo quando i mutamenti rapidissimi hanno nelle trincee della prassi le prime verifiche e le prime definizioni tecniche.
Introduzione
Le Interviste di Giustizia Insieme
"Giustizia Insieme" ha lanciato nel corso dell’anno 2019, in forma sperimentale, una rubrica periodica dal titolo “Interviste”.
Si è inteso dare così voce ad accademici e giuristi che per la funzione svolta e la specializzazione raggiunta possano offrire al pubblico dei lettori – giudici, giuristi e semplici lettori interessati al tema – un affresco né troppo dogmatico né artificiale ed epidermico su questioni centrali.
La prospettiva prescelta propone il confronto sull’essere operatori del diritto, rivolgendosi in particolare a quegli operatori del diritto silenziosi che offrono il loro contributo negli ambiti di rispettiva competenza alla macchina della giustizia.
Nascendo l’iniziativa all’interno di una rivista creata da magistrati, si è poi inteso rivolgere un’attenzione particolare ai giudici ragazzini, catapultati in una realtà estremamente complessa e ormai purtroppo assai lontana da vicende ed episodi che per la loro crudezza hanno segnato, ormai alcuni lustri fa, il DNA giudiziario di una generazione di “giudici ragazzini” che oggi la rappresenta la “classe di mezzo” dell’ordine giudiziario.
In questa prospettiva, la formula prescelta è stata quella di conversazioni scritte a più voci con la formulazione di domande alle quali è seguita una nota di chiusura dell’intervistatore.
Il format delle interviste è stato pensato proprio per individuare le problematiche e le criticità nell’esercizio quotidiano del mestiere di giudice, riflettendo sul come l’aspirazione e la fatica del giudice silenzioso si articoli pure in quel quotidiano, non facile coordinare umiltà e prestigio nella consapevolezza delle grandi responsabilità, degli enormi poteri e della vulnerabilità individuale nella quale ci si viene quando si decide da soli o si è lasciati soli.
La necessità di fissare l’argomento in brevi domande nasce dunque in una prospettiva di superamento del tradizionale modulo di approfondimento di temi scientifici, troppo spesso calibrato sulla trattazione di temi generali che, a volte, non consente di focalizzare l’attenzione sul cuore delle questioni che meritano, invece, una cura e riflessione particolari.
Si è qui utilizzato il sostantivo giudici volendo con esso intendere tutti i magistrati, sia quelli giudicanti che quelli requirenti, perché anche il procuratore è giudice quando svolge le indagini, quando si determina all’esercizio dell’azione penale o chiede la condanna. Giudice in quanto partecipe del potere giurisdizionale e perciò tenuto “per Costituzione” a decidere sempre senza condizionamenti e pregiudizi di parte, ma anche di questo ne parleremo nelle nostre interviste.
Crediamo che il contatto con l’accademia e con i “giudizi” da essa espressi sul ruolo del “giudiziario” possa contribuire ad avvicinare sempre di più quel mondo ai bisogni dei giudici e dei giuristi pratici, alle loro aspettative ed alle responsabilità crescenti che su di loro continuano ad aumentare per fattori indogeni ed esogeni, in tal modo garantendo una risposta giudiziaria migliore alle istanze della collettività.
Una linea di collegamento continua, inverata da un comune spirito di cooperazione, capace di costituire un terreno fecondo per chi accetta di dialogare in una prospettiva “di servizio”.
Il passaggio dalla pubblicazione sulle pagine della Rivista on line a quella cartacea che qui prende forma per la prima volta intende “raccogliere su carta” le riflessioni sono emerse dalla prime sette interviste dedicate a diversi temi relativi al ruolo del giudice.
In esse si sono avvicendati diversi accademici, confrontandosi volta per volta su aspetti che, in questa prima pubblicazione, hanno toccato con mano le difficoltà del mestiere del giudice in quanto proiettato in una dimensione del diritto che ha perso la tradizione caratterizzazione dei confini nazionali, per assumerne prepotentemente una sovranazionale, in modo continuo e magmaticamente alimentata da “diritti e sistemi che vedono il nostro paese come parte di un complesso ordine sovranazionale.
In questo contesto si inseriscono le interviste intorno Giudice o giudici nell'Italia postmoderna (Antonio Ruggeri, Roberto Bin), La Carta UE dei diritti fondamentali e i “giudici” chiamata ad applicarla (Giuseppe Martinico, Vincenzo Sciarabba e Lara Trucco), Giudici nazionali e giudici sovranazionali. Relazioni pericolose? (Roberto Mastroianni, Paola Mori e Bruno Nascimbene).
L’intervista su Il giudice disobbediente nel terzo millennio (Davide Galliani, Vincenzo Militello e Gaetano Silvestri) e quella su La retorica dei diritti fondamentali? (Baldassarre Pastore e Giorgio Pino) hanno indagato sulla particolare posizione nella quale viene a trovarsi il giudice di fronte ad un sistema multilivello di protezione dei diritti fondamentali, come anche quella su Quale futuro per il fine vita dopo Corte cost.n.207/2018 (Antonio D’Aloia, Giacomo D’Amico e Giorgio Repetto), nella quale è stata messo al centro del dibattito la spinosa questione del c.d. fine vita e del ruolo giocato dal giudice in tale contesto.
L’ultimo degli approfondimenti, nel quale si sono confrontati alcune delle personalità del mondo giudiziario più importanti dell’ultimo ventennio, ha chiuso il giro di interviste sul tema Diritti fondamentali e doveri del giudice di legittimità (Ernesto Lupo, Giovanni Canzio, Renato Rordorf, Maria Gabriella Luccioli).
È stata l’accoglienza riservata all’iniziativa apparsa sulla Rivista dai tanti giuristi che hanno apprezzato l’iniziativa a rendere quasi obbligata la pubblicazione cartacea dimostrando che c’è tanta voglia di dialogare con i giudici, ma al contempo di una magistratura particolarmente attrezzata e capace di muoversi con agilità e professionalità nei meandri di un diritto sempre più complesso.
Un grazie particolare a Lorenzo Miazzi che, silenziosamente, ha condiviso il compito di riportare il testo delle interviste, editato in una prospettiva di diffusione on line, ai canoni della pubblicazione in stampa.
I curatori della collana
Paola Filippi
Roberto Giovanni Conti
Francesco Mauro Iacoviello: il magistrato come “uomo libero”
di Tomaso Epidendio
Quando mi è stato chiesto di tracciare un profilo di Francesco Iacoviello, per salutarlo dopo essere andato in pensione, ho immediatamente pensato che molti possono vantare una frequentazione e una conoscenza, sia dell’uomo sia del magistrato, più durature e risalenti della mia e che meglio di me avrebbero potuto farlo.
Tuttavia credo non gli dispiaccia, in coerenza con la sua personalità, che sia uno degli “ultimi venuti” alla Procura generale della Corte di cassazione a parlare di lui: d’altro canto è questa per me l’occasione per poter esprimere pubblicamente la mia gratitudine, anche a nome dei colleghi dell'Ufficio, per quanto ci ha insegnato e il raro privilegio che è stato per noi lavorare con lui e di poterlo fare in piena libertà.
Dico “lavorare con lui” perché “lavorare insieme” esprime appieno il modo in cui abbiamo percepito egli avesse inteso il nostro servizio alla Procura generale e i rapporti con i sostituti: la porta del suo ufficio di Procuratore generale aggiunto è sempre stata aperta e vi si è sempre parlato di diritto: sempre abbiamo trovato pronto consiglio e interlocuzione, sia per le piccole sia per le grandi questioni che ciascuno di noi deve affrontare nel quotidiano esercizio della magistratura.
In quell’ufficio e parlando con lui abbiamo avuto modo di apprezzare la sua figura come pensatore e magistrato, l’una non disgiunta dall’altra, e questo ci ha consentito di trarre quelle che, nella mia percezione, sono le coordinate che egli ha impresso alla sua attività lungo la sua carriera in magistratura: fiducia nella ragione, attenzione all’uomo e curiosità per il mondo.
Fiducia nella ragione
Credo che il suo impegno scientifico sul ragionamento probatorio e la tecnica dell’argomentazione dimostri una fondamentale fiducia nella ragione argomentativa come strumento per giungere a soluzioni condivise, anche e soprattutto nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto.
Questo, da un lato, spiega la sua disponibilità al confronto con tutti (poiché la ragione non conosce autoritarietà gerarchica, ma solo autorevolezza derivante dal suo reggere alle confutazioni altrui) e, dall’altro, la frequente organizzazione di riunioni per discutere la posizione dell’ufficio sulle questioni giuridiche da affrontare.
D’altro canto, la ragione non conosce padroni, non conosce ideologie e infonde il coraggio per sostenere le soluzioni cui si è giunti, attraverso il suo esercizio e l’esposizione alla confutazione altrui o dei fatti, senza preoccuparsi di dispiacere ad alcuni, di inseguire il pensiero “alla moda” o di uniformarsi alle opinioni del momento. Per questo Francesco Iacoviello è stato un magistrato “coraggioso”, che non ha mancato di esporsi anche in processi delicatissimi e di grande clamore pubblico (si pensi ad esempio al concorso esterno in associazione mafiosa o a processi per gravi disastri colposi), perché come egli stesso ha chiarito in una sua nota requisitoria, di fronte alle sirene di una “giustizia” soggettiva e relativa, il magistrato deve sempre scegliere il “diritto”. Per questo chi ha lavorato con lui ha avuto modo di apprendere l’importanza a non essere sciocco ripetitore di massime, a non fare un mero ed esteriore sfoggio conoscitivo della giurisprudenza, ma a comprendere l’importanza e la portata del precedente, e diventare propulsore della vita del diritto che, di fronte a casi sempre nuovi, deve continuamente e incessantemente confrontarsi con le loro istanze.
Esercizio della ragione argomentativa non vuol dire infatti astrattezza, vuoto gioco della mente, al contrario vuol dire mettersi sempre alla prova con i fatti, misurarsi con le conseguenze della teoria, vuol dire concretezza, vuol dire esemplificare per mettere alla prova i concetti: per questo in lui il pensatore non è mai disgiunto dal magistrato, perché – e forse troppo spesso ci dimentichiamo di questo grande privilegio – il nostro lavoro ci consente di essere sempre in contatto con la sofferta ricchezza e varietà della vita e ci mette in condizioni di pensare meglio e di essere più consapevoli.
Qui emerge tutta l’importanza della esperienza maturata da Francesco Iacoviello in lunghi anni di carriera, svolta praticando sempre il diritto e le aule di giustizia: dal processo per il disastro del porto di Ravenna, all’inchiesta per i falsi in bilancio nel gruppo Montedison-Ferruzzi, dalle indagini su Mediobanca per arrivare al processo Andreotti e, poi, al processo per l’omicidio Lima, al processo IMI-SIR, a quello per il Lodo Mondadori, per il crollo della scuola di San Giuliano, per l’alluvione di Sarno; infine il processo Telecom, quello Parmalat, quello per il G8 di Genova e il cd. Processo Eternit. Ma la sua presenza si avverte anche in procedimenti di minore clamore pubblico, eppure ricchi di delicate questioni giuridiche, come quelli in materia di parziale equiparazione del mutamento giurisprudenziale a quello normativo in sede di incidente di esecuzione. Una lunga lista, certamente incompleta e che si potrebbe ulteriormente arricchire, ma che dimostra come solo una lunga e variegata esperienza consente quella profondità di pensiero e quella capacità di ammaestrare i più inesperti, che il Presidente Iacoviello ha sempre manifestato.
Mi piace ricordare il suo costante impegno in ufficio perché il più largo numero di sostituti avesse il privilegio di partecipare ai processi davanti alle Sezioni unite della Corte di cassazione e, in generale, perché tutti avessero la più ampia possibilità di maturare quell’esperienza necessaria alla crescita professionale di ciascuno e dell’intera Procura generale nei vari e differenti servizi.
Attenzione all’uomo
Proprio la concretezza con la quale Francesco Iacoviello concepisce l’esercizio della ragione argomentativa, non gli ha mai fatto dimenticare che il diritto è per l’uomo e si applica a uomini. Da qui la sua costante attenzione per le garanzie e il garantismo.
D’altro canto proprio la concretezza del suo approccio ha fatto sì che in lui la professione di garantismo si sia sempre tradotta in una visione delle garanzie colte nell’inestricabile intreccio del loro operare insieme nel diritto sostanziale e in quello processuale.
Solo la consapevolezza che le garanzie sostanziali del diritto penale debbano essere viste in stretta connessione con le possibilità operative delle correlative garanzie processuali consente di salvaguardarne l’effettività e non ridurle a vuota quanto astratta declamazione di alti principi.
Ci è stata quindi indicata una strada per non vedere le garanzie come opposte all’efficienza del sistema, ma come salvaguardia del funzionamento del sistema che vive nella connessione pratica del diritto processuale e di quello sostanziale.
In anticipo sulle mode di questi ultimi tempi – dove sempre più spesso si sente parlare di “istituti misti”, sostanziali e processuali – c’è solo da augurarsi che la sua voce non rimanga inascoltata e che continui a farcela sentire proseguendo la sua produzione scientifica in campo giuridico.
Attenzione all’uomo vuol dire però anche attenzione all’uomo-magistrato: essere sensibile e solidale nelle difficoltà personali, agevolare i rapporti sia nell’ufficio, attraverso il confronto aperto al maggior numero di interessati, sia tra uffici. Mi piace ricordare, ad esempio, l’impegno da lui profuso per l’adozione di Protocolli organizzativi tra Procura generale e Corte di cassazione, poi realizzatisi.
Curiosità per il mondo
L’attenzione concreta all’uomo e la fiducia nella ragione non possono poi che tradursi in una naturale curiosità intellettuale verso le trasformazioni del mondo che ci circonda e di quello che questo significa per il diritto.
Questo spiega l’eccezionale versatilità del suo impegno nelle diverse attività dell’ufficio della Procura generale: Francesco Iacoviello, infatti, è stato anche avvocato generale delegato al settore civile e al settore affari internazionali, dove è stato corrispondente nazionale per il terrorismo e delegato per l’ufficio nazionale del Forum dei procuratori generali dell’Unione europea; noto poi è il suo impegno in relazione alla materia dei contrasti tra uffici del pubblico ministero e nei rapporti con le Procure di merito.
Soprattutto è significativa la sua pionieristica attenzione alle fonti sovranazionali e alle attività della Corte europea dei diritti dell’uomo, da un lato, e di quella della Corte di giustizia dell’Unione europea, dall’altro, quando ancora poco se ne parlava e il “diritto giurisprudenziale” era considerato un concetto esoterico o comunque da trattare con sospetto.
Penso alla sua attenzione per le opportunità offerte dalla tecnologia nel nostro lavoro e all’impegno profuso nell’assicurare, attraverso la rete informatica, la più ampia circolazione di idee ed esperienze tra colleghi, anche attraverso la richiesta di schemi scritti di requisitoria da far circolare con il mezzo informatico tra i vari sostituti.
Da lui abbiamo imparato che un buon magistrato deve essere culturalmente attento a cogliere le trasformazioni che avvengono nel mondo, fuori e dentro il diritto, cosa che non è possibile fare se ci si rinchiude in stretti settori o ci si limita ai propri ristretti interessi giuridici.
Magistrato-pensatore e un uomo libero
Ho già scritto troppo contravvenendo, forse per eccesso di gratitudine e affetto, proprio ai precetti di chi si è sforzato di insegnarmi che, anche nella redazione degli atti, bisogna togliere l’ovvio e lasciare solo il significativo.
Aggiungo allora solo due chiose finali che, nella mia percezione, connotano la figura di Francesco Iacoviello ponendola come modello di magistrato.
La prima concerne il fatto che se, come è stato detto, lo scultore che pensa deve pensare nel marmo, allora credo che il magistrato che pensa deve pensare nella pratica del diritto: in questo senso, credo che Iacoviello incarni una icastica figura di “magistrato-pensatore”, esempio per noi tutti.
La seconda riguarda il nostro modo di essere magistrati in questo momenti storico, in cui l’uomo moderno non soffre più per l’eccesso di proibizioni, ma per l’eccesso di possibilità, che lo spingono a costruirsi da solo le gabbie di cui resta prigioniero: ebbene, credo che, talvolta, anche noi magistrati – che pure per disposizione costituzionale siamo soggetti soltanto alla legge e ci distinguiamo solo per diversità di funzioni, e non per grado, e che dunque godiamo delle più ampie garanzie di libertà – quali uomini moderni ci dimentichiamo del grande privilegio di cui godiamo e ci costruiamo da soli gabbie che ci impediscono di essere uomini completamente liberi.
Francesco Iacoviello ci ha indicato come fare i magistrati da uomini davvero liberi e soprattutto per questo suo esempio lo ringrazio.
Grazie Francesco del privilegio di averci fatto lavorare insieme a te e perdonami se ho travisato quello che tu hai trasmesso: continua ad occuparti di diritto perché il tuo lavoro non è finito.
Alleghiamo alcuni link di interventi di Francesco Mauro Iacoviello
Bilancio di Responsabilità Sociale - Illustrazione dell'attività della Procura generale della Corte di Cassazione
Roma, 5.12.19 Suprema Corte di Cassazione https://www.radioradicale.it/scheda/568420/bilancio-di-responsabilita-sociale-illustrazione-dellattivita-della-procura-generale?i=3963328
Il burocrate creativo. La crescente intraprendenza interpretativa della giurisprudenza penale
Firenze,16.7.16, Camera penale di Firenze https://www.radioradicale.it/scheda/486323/il-burocrate-creativo-la-crescente-intraprendenza-interpretativa-della-giurisprudenza?i=3606960
Il fenomeno della criminalità organizzata tra storia, economia e sociologia - prima giornata
Roma,1.3.17, Scuola superiore della magistratura
Normazione emergenziale e ‹‹buon senso›› interpretativo
di Antonio Scarpa
Che valore ha il “criterio del buonsenso” nella interpretazione della legislazione sulla emergenza epidemiologica da COVID-19?
E’ capitato assai spesso che, nei commenti fatti (a ‹‹prima›› o a ‹‹seconda lettura››) sull’abbondante normazione emergenziale da Covid-19, si leggesse un richiamo ad un meditato criterio interpretativo di “buon senso” (o “buonsenso”, come ormai si scrive in modo più diffuso e corretto): la forza di tale regola operazionale di “buonsenso” tende ad essere, per tali commentatori emergenziali, talmente dirompente da privare di decisività gli indici letterali delle norme e da indurre a conclusioni diverse da quelle derivanti dalla piana lettura dei testi.
Il rispetto delle restrizioni personali imposte dalla situazione sanitaria costituirebbe, infatti, lo scopo travalicante rispetto ad ogni altro criterio di interpretazione delle leggi.
In una parola, si suppone implicitamente che, in questi due mesi ed oltre di frenetica nomopoiesi, sia stato riscritto pure l’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, il quale ora, sulla base di questi nuovi principi etici, funzionerebbe più o meno così: nell’applicare la legge si deve tener conto prioritariamente non del senso fatto palese dal significato proprio delle parole, ma del “buonsenso” derivante essenzialmente dall’osservanza delle sovraordinate indicazioni igienicosanitarie fornite dal Ministero della salute, anche d’intesa con le Regioni, dal Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, dal Ministero della giustizia e delle prescrizioni adottate in materia con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri.
L’idea dell’interpretazione della legge “secondo buonsenso”, com’è noto, non è volutamente eversiva. Essa nacque dall’intimo e puro convincimento che l’uomo sia per sua natura buono e giusto, e sappia perciò discernere ciò che è lecito e ciò che non lo è. Il bon sens, good sense, gesunder Mensschenversand, era la “norma ideale” kantiana, la “chose du monde la mieux partagées” per Cartesio dei Discours de la Méthode, giacché espressione del “bien juger” e del “distinguer le vrai d’avec le faux” (Weinrich).
Il buon senso cartesiano equivaleva, dunque, all’uso della ragione. Ma già nel secolo successivo, il buonsenso si allontanò dal suo significato intimamente correlato all’idea della innata razionalità umana, per divenire sinonimo del senso comune, il quale costituisce, piuttosto, soltanto espressione dell’opinione dominante, e, cioè, un ambito “premio di maggioranza”. Così, oggi, professare una “interpretazione della legge secondo buonsenso” rischia di teorizzare l’opportunità di una interpretazione normativa modulata sull’opinione avvertita dalla maggioranza, e in tal modo flettere il diritto secondo il dogma di divinizzazione del popolo espresso dalla massima vox populi, vox dei (G. Zagrebelsky).
Chi, brandendo il “buonsenso”, interpreta le leggi dirette a contrastare l'emergenza epidemiologica da COVID-19, anche quelle in materia di giurisdizione, come le norme processuali, o di ordinamento civile e penale, non soltanto nel rispetto della Costituzione e dei vincoli comunitari o internazionali, ma intendendo il “Divieto di assembramento” quale nuovo e dominante principio generale dell’ordinamento giuridico dello Stato, dichiara apertamente di voler considerare e “concettualizzare” una realtà più ampia di quella di volta in volta regolata dal legislatore nella singola norma (Gorla).
Il rischio della generalizzazione della “interpretazione secondo buonsenso” può, però, presagire anche il ritorno alla figura di Dahm del “ladro nella sua essenza”, che serviva a giustificare l’assoluzione del membro della Hitler-Jugend.
Senonché, l’oggetto della scienza del diritto è la norma, non la realtà che il legislatore disciplina: l’attività legislativa è volizione astratta, e l’interprete abusa della sua funzione se, sulla base della sua intuizione, concettualizza l’ambiente sociale in cui essa deve operare. Né appartiene alla scienza del diritto la ricerca di massime di esperienza sul prevalente contegno dei legislatori di fronte a determinati problemi (Gorla).
Se il legislatore ha valutato determinati comportamenti umani secondo criteri di doverosità, liceità o illiceità, e così attribuito «situazioni» di dovere, facoltà o potere, ed ha dettato norme che disciplinano l’attività dei soggetti del processo per apprestare i mezzi di tutela giurisdizionale, non spetta all’interprete ricercare e spiegare, con concetti empirici, l’esistenza di interessi primari, che nella specie sarebbero poi dettati dalle misure amministrative di contenimento e di gestione dell’emergenza epidemiologica in atto, salvo ripiombare nelle oscurità della Interessenjurisprudenz.
Dunque, le norme che attribuiscono e tutelano diritti non possono interpretarsi, “secondo buonsenso”, in nome del divieto amministrativo di assembramento. A meno di intendere che il giurista debba rinvenire il diritto positivo non in quello dettato dall’autorità legislativa, ma nel fatto della vita per come narrato dalla voce della comunità, della quale si renda intermediatore (Grossi), e, in questa contingenza, per come esplicitato in provvedimenti amministrativi, arrivando fino al punto che ogni interpretazione della legge debba essere funzionale all’esigenza organizzativa di evitare contatti ravvicinati tra persone. E’ da comprendere, come affermò Manzoni, condividendo i dubbi del Muratori, che nessuno sia “abbastanza ardito per esporre al pubblico un sentimento così opposto a quello del pubblico”. Anche a quel tempo, “il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”.
Gli atti concorrenziali nella prospettiva delle Sezioni Unite penali. Nota a Cass., S.U. n.13178/2020.
di Maria Cristina Amoroso
Sommario: 1. Le ragioni del contrasto. 2. Le posizioni della giurisprudenza di legittimità. 3. La risposta delle Sezioni Unite. 4. La libertà di concorrenza. 5. Il significato di atti concorrenziali. 6. Il bene giuridico protetto. I caratteri della fattispecie. 7. Conclusioni.
Le Sezioni Unite con la decisione n. 13178, depositata il 28 aprile 2020, hanno posto fine al contrasto delineatosi in tema di illecita concorrenza con minaccia o violenza di cui all’art. art. 513 -bis cod. pen.
Investito dalla Terza Sezione penale, con ordinanza n. 26870 del 19 aprile 2019, del quesito: «se, ai fini della configurabilità del reato di illecita concorrenza con minaccia o violenza, sia necessario il compimento di condotte illecite tipicamente concorrenziali o, invece, sia sufficiente il compimento di atti di violenza o minaccia in relazione ai quali la limitazione della concorrenza sia solo la mira teleologica dell’agente», il Supremo Consesso ha affermato il principio di diritto secondo cui «ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 513-bis c.p. è necessario il compimento di atti di concorrenza che, posti in essere nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e siano idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente».
1.Le ragioni del contrasto.
Il contrasto prende le mosse dalla palese divergenza tra la ratio della previsione normativa e l’ambito di incidenza della sua tipicità, delineata con tratti identificativi sostanzialmente diversi da quelli preannunciati. Come ricordato dalla Suprema Corte, l’introduzione dell’art. 513 - bis cod. pen. - che sanziona con la reclusione da due a sei anni chiunque nell'esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, compie atti di concorrenza con violenza o minaccia - è avvenuta per opera della legge 13 dicembre 1982, n. 646 (cd. Rognoni-La Torre), recante disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale, sulla spinta dell’urgenza, particolarmente sentita in quello specifico momento storico, di prevedere una fattispecie ad hoc per la repressione dei comportamenti tipici della mafia che, quale nuova e illegale “forza imprenditrice”, scoraggiava la concorrenza con esplosione di ordigni, danneggiamenti e violenza sulle persone; condotte rispetto alle quali le tradizionali fattispecie dell’estorsione e della turbata libertà dell'industria o del commercio mal si prestavano ad accordare un’efficace tutela.
Nonostante la dichiarata volontà legislativa, la disposizione non è stata plasmata in relazione ai contesti mafiosi, il riferimento a “chiunque”, sia pure nell'esercizio di un’attività commerciale, industriale o produttiva, ne ha, per certi versi, ridelineato la portata, così come la collocazione della disposizione tra i delitti contro l'economia pubblica, l’industria e il commercio (nel Capo II del Titolo VIII) ha di fatto allontanato l’area della oggettività giuridica della previsione dal complesso delle fattispecie incriminatrici poste a tutela dell’ordine pubblico.
Queste circostanze, unitamente al riferimento contenuto nella fattispecie tipica alla realizzazione di “atti di concorrenza”, senza alcuna ulteriore specificazione, hanno dato vita a letture giurisprudenziali non univoche.
2.Le posizioni della giurisprudenza di legittimità.
Superato un orientamento più risalente nel tempo che aveva inizialmente limitato l’incidenza della disposizione al solo contrasto di forme d’intimidazione mafiosa tese a scoraggiare la regolare dinamica dell’agire imprenditoriale, la giurisprudenza più recente è concorde nell’escludere la necessaria realizzazione della condotta nell’ambito della criminalità organizzata, ma si presenta divisa circa il significato da attribuire alla generica locuzione “atti di concorrenza”.
Spinta dallo sforzo di restituire alla fattispecie una maggiore determinatezza, una parte della giurisprudenza di legittimità, individuata nella tutela della libera concorrenza la ratio della norma, ha ritenuto costituissero “atti di concorrenza” soltanto le condotte concorrenziali tipiche, quali il boicottaggio, lo storno dei dipendenti, il rifiuto di contrattare, etc., desumibili dalle pertinenti disposizioni del codice civile, realizzate con metodi di coartazione volti ad ostacolare la normale dinamica imprenditoriale nei confronti di altri soggetti economici tendenzialmente operanti nello stesso settore.
In questa prospettiva la disposizione è stata ritenuta inapplicabile agli atti di violenza o minaccia non sostanziatisi in comportamenti competitivi nel senso tecnico-giuridico, quand’anche la finalità perseguita dall'agente si fosse identificata con la limitazione della libertà di concorrenza, ferma restando, tuttavia, l’eventuale riconducibilità della fattispecie concreta ad altre ipotesi di reato (quali quelle di estorsione o di concussione); una interpretazione difforme da quella proposta, secondo i fautori di questa tesi, contrasterebbe con la ratio della norma e determinerebbe una inevitabile «violazione del principio di tassatività, a fronte di un enunciato normativo la cui formulazione intende invece isolare, dalla generalità degli atti violenti, gli specifici atti di concorrenza, pur commessi con quella particolare modalità».
Di avviso contrario è, invece, la contrapposta giurisprudenza teleologicamente orientata che contesta l’attribuzione di rilievo alla sola commissione di atti tipici di concorrenza, e ritiene la disposizione applicabile in tutti i casi di realizzazione di attività violente e minacciose che, proprio per le loro caratteristiche di fatto, configurano una concorrenza illecita mirando a controllare le attività commerciali, o comunque a condizionarne il libero esercizio.
Per questa linea ermeneutica alla nozione “atti di concorrenza” va attribuito un significato più ampio di quello desumibile dalle disposizioni del codice civile, in quanto il bene giuridico tutelato consiste non solo nel buon funzionamento dell'intero sistema economico, ma anche nella libertà della persona di autodeterminarsi nell’esercizio della sua attività commerciale, industriale o comunque produttiva.
Alle due letture se ne affianca una terza che, nel tentativo di individuare una definizione di “atti di concorrenza” meno restrittiva, ma al contempo più determinata, prospetta la possibilità di attribuire un significato a tale concetto facendo ricorso alla ratio della norma incriminatrice e tenendo conto della più recente normativa italiana ed europea in tema di tutela della concorrenza.
Per tale impostazione gli atti concorrenziali di cui alla fattispecie sono integrati da tutti i casi tipici di concorrenza sleale parassitaria, ovvero attiva, contenuti ai numeri 1) e 2) dall’art. 2958 cod. civ. ma anche da tutti gli atti inclusi nella disposizione di chiusura di cui al numero 3) dello stesso articolo, secondo cui sono atti di concorrenza sleale tutti i comportamenti contrari ai princìpi della correttezza professionale idonei a danneggiare l'altrui azienda.
In quest’ottica assumerebbero rilievo sia quei comportamenti che, commessi da un imprenditore con violenza o minaccia, risultano “idonei a falsare il mercato” e a consentire l'acquisizione, in danno dell'imprenditore minacciato, di illegittime posizioni di vantaggio senza alcun merito derivante dalla propria capacità operativa (come nel caso tipico dell'intimidazione esercitata da parte di un imprenditore nei confronti di un altro, rispetto a lavori appaltati ma rivendicati come propri), sia le condotte contrarie ai principi della correttezza professionale, intese come “qualunque comportamento violento o minatorio” posto in essere nell'esercizio dell'attività imprenditoriale al fine di acquisire una posizione dominante sul mercato non correlata alla capacità operativa dell'impresa o comunque diretto ad alterare l'ordinario e libero rapportarsi degli operatori in una economia di mercato.
3. La risposta delle Sezioni Unite.
Il terzo degli orientamenti esposti viene considerato dalla Sezioni Unite quello maggiormente utile ai fini della risoluzione del quesito.
Del primo si critica l’eccessiva limitazione della potenzialità applicativa e la ridotta capacità di tutela, poichè restringe l'incidenza dell’art. 513- bis cod. pen. ad isolate forme di comportamento competitivo «senza esplorare appieno la possibilità di un’interpretazione che si faccia carico di collocare la norma incriminatrice e il bene giuridico da essa tutelato all'interno di una visione complessiva dei presupposti della libertà di concorrenza nel sistema interno e nella sua più ampia dimensione euro-unitaria» rendendo la norma sostanzialmente inapplicabile se non in casi assai limitati.
Quanto al secondo, si osserva che da un lato esso rischia di rafforzare del tutto impropriamente l'incidenza dell’elemento psicologico del reato poiché, al di fuori di condotte intimidatorie poste in essere nell'esercizio dell’attività concorrenziale, il fine dei comportamenti illeciti dovrà comunque dirigersi verso il contrasto dell’altrui libertà di concorrenza; dall'altro rischia di imporre una rivisitazione del contenuto dell’oggettività giuridica, dal momento che la norma verrebbe a tutelare situazioni ed attività non riconducibili esclusivamente al libero autodeterminarsi dell'imprenditore nella sua attività d'impresa, oltrepassando l’esigenza di protezione della sfera dell'economia pubblica, dell’industria e del commercio, per indirizzarsi di fatto verso la difesa di esigenze proprie dell’ordine pubblico.
Nella lunga ed articolata parte motiva della decisione le Sezioni Unite giungono alla soluzione del quesito sviluppando un percorso idealmente frazionabile in più parti. L’incipit è costituito dalla lucida rappresentazione del contesto multilivello relativo alla libertà di concorrenza; la parte centrale è costituita dall’attribuzione al sintagma "atti di concorrenza" di un significato svincolato dall’originario contesto normativo in cui la fattispecie di cui all’art. 513 - bis è stata introdotta e più aderente alla sopravvenuta normativa interna ed euro-unitaria; la terza parte analizza le ragioni e le finalità di tutela che hanno determinato la genesi della norma.
Delineati nei suoi contorni la fattispecie di cui all’art. 513 - bis cod. pen., la sentenza si conclude con la distinzione di tale previsione dai delitti contigui di cui agli artt. 513 e 629 cod. pen.
4. La libertà di concorrenza.
A livello Costituzionale la Corte individua nell’art. 41, primo comma, la disposizione a presidio della tutela della libertà di concorrenza.
Sebbene la disposizione non contenga alcuna menzione in proposito e si limiti ad affermare che l’iniziativa economica privata è libera fatti salvi i limiti espressamente indicati nel secondo comma, il costante processo di integrazione europea, l’incidenza delle numerose regole di concorrenza stabilite dall’Unione europea e la scelta di campo espressa in favore di “un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” (ex artt. 119 par. l e 120 TFUE, in relazione all'art. 3, par. 3, TUE) hanno impresso a tale principio connotazioni in parte nuove.
La libertà di concorrenza, si evidenzia, è divenuta progressivamente una delle naturali espressioni della libertà di iniziativa economica privata a causa di una pluralità di disposizioni quali l’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sul riconoscimento della libertà d'impresa; gli artt. 3, par. 3 e 21, par. 2, lett. e), TUE; gli artt. 3, par. l, lett. b), 32, lett. c), 34 ss., 101-109, 119, par. l, 120 TFUE, che dettano le norme sostanziali in materia di tutela della concorrenza; e il Protocollo n. 27 allegato ai Trattati, là dove si afferma che «il mercato interno ai sensi dell'articolo 3 del Trattato sull’Unione europea comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata».
La libertà di concorrenza ha trovato espresso rilievo costituzionale nell’art. 117, secondo comma, lett. e), Cost., introdotto nell'ordinamento a seguito della modifica operata dall'art. 3 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che ne assegna la tutela, nell'ambito della nuova ripartizione delle competenze fra i diversi livelli territoriali di governo, alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, che deve esercitarla «nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».
La stretta connessione fra libertà dell’iniziativa economica privata e la tutela delle regole della concorrenza, anche nella più ampia dimensione del mercato comunitario, è tema oggetto di numerose pronunce della Corte Costituzionale nelle quali da un lato si afferma che la nozione di concorrenza di cui all’art. 117 Cost. riflette quella operante in ambito comunitario, dall’altro che attraverso la tutela della concorrenza si perseguono altresì finalità di ampliamento dell’area di libera scelta dei cittadini e delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta di beni e di servizi.
In ambito europeo il favor per la tutela di questa libertà si manifesta, in particolare, oltre che nell’insieme di divieti posti dai già citati artt. 101 e 102 TFUE (e in precedenza stabiliti negli artt. 81 e 82 TCE) nella affermazione, contenuta nell’art. 16 CDFUE, secondo la quale la libertà d'impresa deve essere esercitata “conformemente al diritto dell'Unione”, così includendovi le regole di diritto derivato che governano in maniera specifica e dettagliata i meccanismi di funzionamento della concorrenza.
Quanto alle pertinenti disposizioni interne, la tutela del mercato concorrenziale è affidata agli artt. 2 e 3 della legge 12 ottobre 1990, n. 287, dal contenuto analogo alle disposizioni europee in tema di intese restrittive della libertà di concorrenza, abuso di posizione dominante e concentrazioni fra imprese; le situazioni vietate sono individuate assumendo quale modello di riferimento il contenuto delle corrispondenti disposizioni dell’ordinamento euro- unitario e l’art. l, comma 4) enuncia espressamente il criterio secondo cui le regole interne vanno interpretate «...in base ai principi dell'ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della concorrenza».
Nella stessa ottica le previsioni della legge 11 novembre 2011, n. 180, hanno inteso definire lo statuto delle imprese e dell’imprenditore al fine di assicurare lo sviluppo della persona attraverso il valore del lavoro, sia esso svolto in forma autonoma che d’impresa e al contempo garantire la libertà di iniziativa economica privata in conformità agli articoli 35 e 41 della Costituzione.
La Corte fa riferimento anche alle disposizioni civilistiche volte ad assicurare l’ordinato e corretto svolgimento della libertà di concorrenza impedendo, sul piano giuridico, il determinarsi di situazioni di monopolio e quasi - monopolio ( 2596 cod. pen.) ovvero comportamenti illeciti che di fatto alterino o, addirittura, stravolgano il regolare funzionamento del mercato attraverso la repressione degli atti di concorrenza sleale (artt. 2598- 2601 cod. civ.).
Tra le previsioni del codice civile le Sezioni Unite si soffermano, in particolare su quella contenuta al n. 3 dell’art. 2598, secondo la quale si considera concorrenza sleale «ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale ed idoneo a danneggiare l’altrui azienda».
Rifacendosi ai principi enunciati dalle Sezioni Civili, le Sezioni Unite affermano che il carattere residuale della norma rispetto alle condotte tipizzate nei numeri 1) e 2) impone la necessità di esaminare caso per caso se il comportamento allegato costituisce illecito, dia esso luogo, o meno, anche a violazione di norme pubblicistiche. La disposizione, pertanto, appare riferibile a qualsiasi atto che, alla luce dei principi fondamentali e delle previsioni nazionali ed europee in tema di mercato concorrenziale, risulti contrario ai canoni di etica professionale generalmente accettati e seguiti nel mondo degli affari, ovvero nello specifico settore cui appartengono le attività imprenditoriali in rapporto concorrenziale e che al contempo sia idoneo a recare danno all’altrui azienda.
5. Il significato di “atti concorrenziali”.
Alla luce di quanto rappresentato, le Sezioni Unite affermano che la nozione di “atti concorrenziali” va inquadrata sia con riferimento al superiore divieto di ordine costituzionale posto dall'art. 41, secondo comma, Cost. - secondo cui qualsiasi forma di competizione concorrenziale riconducibile alla libera estrinsecazione dell'iniziativa economica privata non può svolgersi “in modo da recare danno” ad una serie di situazioni giuridiche soggettive costituzionalmente tutelate (come i diritti di libertà, sicurezza e dignità umana) - sia tenendo conto dell'esigenza di rispetto dei limiti stabiliti dalla legge ordinaria (ex art. 2595 cod. civ.) per lo svolgimento della libera concorrenza risultanti dal raccordo fra diversi livelli della normativa euro-unitaria, e delle disposizioni contenute nel codice civile nella legislazione speciale (in primo luogo, nella legge n. 287 del 1990).
Nel definire l’ambito di operatività della fattispecie di cui all’art. 513 - bis cod. pen., la Suprema Corte specifica che il soggetto attivo e quello passivo del reato devono trovarsi in una dinamica concorrenziale e pertanto, almeno tendenzialmente, offrire nello stesso ambito di mercato beni o servizi che siano destinati a soddisfare, anche in via succedanea, lo stesso bisogno dei consumatori o, comunque, bisogni complementari o affini, tenendo conto del fatto che il rapporto di concorrenza si instaura anche fra operatori che agiscono a livelli economici diversi (ad es.: produttore-rivenditore o grossista dettagliante), coinvolgendo «tutte le imprese i cui prodotti e servizi concernano la stessa categoria di consumatori e che operino quindi in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinate a sfociare nella collocazione sul mercato di tali beni».
La delimitazione dei soggetti attivi o passivi del reato non va intesa in senso meramente formale, in quanto non occorre la qualità di commerciante, industriale o produttore, ma semplicemente l'espletamento in concreto di attività che si inseriscono nella dinamica commerciale, industriale o produttiva a prescindere dai requisiti di professionalità ed organizzazione tipici della figura civilistica dell'imprenditore e fatte salve, le ipotesi di compartecipazione criminosa dell'extraneus a conoscenza della qualità di intraneus del soggetto agente.
Infine, non si ritiene necessario che gli atti di concorrenza illecita siano necessariamente diretti nei confronti dell'imprenditore concorrente, potendo essere rivolti anche nei confronti di terzi.
6. Il bene giuridico protetto. I caratteri della fattispecie.
Relativamente al bene giuridico protetto dalla norma, le Sezioni Unite considerano tale non solo la tutela di un più ampio interesse al corretto funzionamento del sistema economico, inteso come bene finale, ma anche la protezione di un diverso interesse, da intendersi quale bene strumentale, più direttamente inerente ad una esigenza di garanzia della sfera soggettiva della libertà di ciascuno di autodeterminarsi nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva.
In sintesi, tenuto conto della normativa euro-unitaria e nazionale, le Sezioni unite concludono che la fattispecie ex art. 513 - bis cod. pen. è riferibile a tutti i comportamenti competitivi, sia attivi che impeditivi della libertà altrui, connotati dal ricorso ai mezzi della violenza o della minaccia, idonei a favorire, o a consentire, l’illecita acquisizione, in pregiudizio del concorrente minacciato o coartato, di posizioni di vantaggio ovvero di predominio sul libero mercato, senza alcun merito derivante dalle capacità effettivamente mostrate nell'organizzazione e nello svolgimento della propria attività produttiva, pur non essendo necessaria la reale intimidazione del soggetto passivo ovvero un’effettiva alterazione degli equilibri di mercato.
La delineata tipicità della fattispecie in esame, conclude la Corte, consente di distinguerla agevolmente dal contiguo reato di cui all’art. 513 cod. pen., che contempla l’uso della violenza sulle cose per impedire o turbare l’esercizio di un’industria o un commercio e prevede quale alternativa il ricorso a mezzi fraudolenti per le medesime finalità; e di ritenerla non assorbita nella più grave fattispecie di estorsione trattandosi di norme con diversa collocazione sistematica e preordinate alla tutela di beni giuridici diversi, sicché, ricorrendo gli elementi costitutivi di entrambi i delitti è configurabile il concorso formale.
Nel caso di specie le Sezioni Unite hanno ritenuto che la condotta violenta nei confronti dell’operatore economico concorrente, attivo nella medesima zona territoriale, esercitata con calci, pugni e sputi per farlo desistere dallo svolgimento delle operazioni di spurgo e sversamento di rifiuti prodotti da una clinica sanitaria e nello screditarne l’immagine commerciale, rivendicando una sorta di competenza esclusiva nella zona, integra la fattispecie di cui all’art. 513 - bis cod. pen.
7. Conclusioni.
Le Sezioni Unite Guadagni hanno compiutamente elaborato una nozione penalistica di “atti concorrenza”, andando forse oltre l’interpretazione data a tale concetto dall’orientamento pur espressamente condiviso.
Il passo ulteriore compiuto dalla decisione in commento sembra, infatti, essere l’abbandono della prospettiva caratterizzante il terzo orientamento “intermedio” che, pur facendo riferimento alla necessità di attribuire alla previsione contenuta nel numero 3 dell’art. 2598 cod. civ. una lettura più moderna alla luce del contesto normativo e nazionale ed europeo, ha comunque sempre attribuito a tale disposizione un “ruolo chiave” nell’interpretazione dell’art. 513-bis., anche quando ha comunque chiarito che «nel momento in cui una disposizione prevista dall'ordinamento giuridico per disciplinare un fenomeno in campo civile sia utilizzata a fini ermeneutici per dare significato ad un concetto utilizzato in ambito penale, salvo una diversa indicazione normativa, detta disposizione non possa essere riduttivamente letta secondo l'ermeneusi seguita nell'applicazione giurisprudenziale in quello specifico settore del diritto (nella specie, civile), che - per definizione - è destinato a regolare il rapporto o l'accadimento sotto un'ottica completamente diversa da quella penalistica».
Le Sezioni Unite sembrano aver considerato la citata disposizione civilistica solo uno dei molteplici tasselli dell’articolato sistema normativo di diritto comunitario e nazionale cui far ricorso ai fini di una corretta lettura dell’art. 513 - bis cod. pen.
Interrotta la necessaria consequenzialità fra gli atti di concorrenza sleale ex art. 2598 cod. civ. e le condotte punite ex art. 513-bis cod. pen., sarà particolarmente interessante monitorare la futura applicazione della disposizione al fine di verificare se il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite arricchirà la casistica degli “atti di concorrenza” di nuove tipologie.
Il processo a distanza e l’esame dei testimoni. La tecnologia come soluzione finale dei problemi della giustizia?
di Santo Di Nuovo
La ‘conversione’ al digitale e al telematico di tante delle attività che in genere si svolgono in presenza - dalla didattica ai processi - è stata accelerata e spesso obbligata dalla contingenza della epidemia, ma in realtà si basa su pratiche già in parte sperimentate e validate.
La giustizia, come altri àmbiti, può avvalersi con profitto delle tecnologie informatiche e di modalità telematiche, che offrono un supporto ‘intelligente’ e programmabile con intelligenza, specie nei casi e nelle situazioni difficili. Però non possono essere considerate una soluzione globale e definitiva per le procedure giudiziarie, come si comincia a ipotizzare (anche per altre condizioni quali la didattica, la formazione e il lavoro, addirittura per la consulenza psicoterapeutica). E questa soluzione attrae le critiche di quanti non condividono di considerare ‘normali’ di condizioni che sono dei surrogati per le emergenze, e tali devono restare.
Un supporto utile come la telematica può fare da ‘supplente’ al bisogno, come durante la fase di distanziamento sociale per l’epidemia, ma anche in condizioni particolari per cui l’esame processuale a distanza è già stato utilizzato in precedenza: testimoni sotto protezione, o residenti in paesi lontani, o impossibilitati per ragioni di salute, difficoltà di traduzione di detenuti, altre ragioni di opportunità. Ma il sistema giudiziario in condizioni ‘normali’ ha bisogno di altre dimensioni e condizioni che sono particolarmente pregnanti in certi ambiti e in certi procedimenti, specie quelli che prevedono l’esame di testimoni.
È certamente più facile usare forme di interrogatorio telematico nei processi civili o nelle cause di lavoro; meno lo è nelle procedure di diritto familiare dove è necessario sentire coppie e minorenni in interazione fra loro per valutare le dinamiche intercorrenti e utili per il giudizio. Ancor meno indicato è l’interrogatorio a distanza nel processo penale il cui ‘dibattimento’ mal si concilia con una discussione a distanza attraverso il piccolo riquadro di uno schermo, magari con un audio disturbato e poco comprensibile.
Vi è difficoltà a organizzare un contraddittorio, se richiesto dalle esigenze processuali, e quindi di assicurare l’interattività essenziale in un dibattimento. Vi è l’impossibilità di avvalersi pienamente di quella essenziale componente della valutazione del testimone come persona - e non solo delle sue parole - che è la comunicazione non-verbale nei suoi molteplici aspetti: posture, mimica, gestualità, sfumature della voce, ecc. Aspetti che consentono di andare oltre il ‘detto’ e cogliere significati reconditi che per via telematica è quasi impossibile interpretare e quindi integrare nella valutazione.
Come detto, la peculiarità della fattispecie è determinante per decidere quanto queste componenti non individuabili per via telematica depauperano la conoscenza processuale. Il testimone di uno stupro o di un omicidio risponde in condizioni emotive diverse da quello di un processo per un incidente stradale o sul lavoro. Se il testimone è un tutore dell’ordine o un perito si può presumere che sia sufficientemente attendibile interrogarlo a distanza. Se invece l’interrogato in via telematica è l’imputato o un sospettato, l’incidenza dei fattori emotivi e comportamentali è particolarmente rilevante, ed è più riduttivo accontentarsi delle sole risposte verbali. Tanto più se nel dibattimento possono essere presenti controparti o parti offese: altro è rispondere in loro presenza, altro a distanza e dietro uno schermo senza contatto oculare diretto.
In tutte le procedure in cui si richiede una valutazione di persone (interrogazioni scolastiche, esami universitari, prove di selezione, processi) l’intervento a distanza può essere un surrogato utile, se come tale viene percepito e usato dagli operatori interessati.
Nel campo della giustizia, affinché le tecnologie siano utili, bisogna evitare due tendenze opposte, entrambe pregiudiziali. L’atteggiamento di giudici e avvocati deve superare le remore che tecnologia e telematica ‘spersonalizzino’ sempre e comunque il processo. Ma bisogna anche evitare, al contrario, una accettazione acritica che delega a queste modalità la soluzione di problemi della giustizia non altrimenti affrontabili.
Esistono problemi tecnici e problemi operativi che vanno analizzati e ponderati con cautela.
I primi riguardano la implementazione e modernizzazione dei sistemi informatici di cui la giustizia è dotata. Le tecnologie devono essere avere caratteristiche di facile ‘usabilità’ e di ‘accettabilità’ dagli attori del diritto (magistrati, avvocati, cancellieri, utenti della giustizia), che inoltre devono essere formati a sfruttarle in modo corretto. Ma devono anche essere flessibili per poter essere utilizzate non in modo standard e uguale in tutte le situazioni, bensì in modo diverso per rispondere a specifici bisogni. E anche su questo aspetto di flessibilità è necessaria una adeguata formazione e supervisione di chi deve usarle.
Sul piano operativo, bisogna accuratamente studiare le condizioni in cui il processo può essere attendibilmente condotto in modalità telematica: assenza di interferenze logistiche (altro è ascoltare un testimone di presenza, seppur dietro ad un paravento per celarlo al pubblico, altro in un carcere, o nel proprio domicilio) evitando interventi occulti di terzi, o pressioni non individuabili, o lettura di appunti preconfezionati, che l’ambente da cui il testimone si collega potrebbe consentire o addirittura favorire.
Sempre sul piano pratico, occorre individuare le condizioni in cui gli aspetti peculiari della escussione in presenza risultano invece utile e preferibile.
Questo studio delle condizioni di fattibilità è essenziale per definire se e in che misura il ‘surrogato’ è ritenuto approssimarsi alle condizioni standard previste dai codici e dai diritti della accusa e della difesa. In questa analisi le componenti del sistema giudiziario, in particolare i magistrati e gli avvocati, dovrebbero essere attivamente coinvolti: sono loro infatti a conoscere – di diritto e di fatto - le esigenze giuridiche che vanno rispettate e le specificità che per ciascuna situazione vanno considerate, proprio per rendere flessibile e proficuo nelle diverse condizioni l’apporto delle tecnologie telematiche. La conclusione è che la tecnologia può offrire – specie in situazioni peculiari ben circoscritte - un supporto valido e utile se ben studiato e adattato ai bisogni. Non è la soluzione finale dei problemi della giustizia, ma può essere un aiuto per affrontarli.
[1] Professore di psicologia nell’Università di Catania. Presidente della Associazione Nazionale di Psicologia.
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