ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Cedu e cultura giuridica italiana 13) Conversando con i penalisti su CEDU e dintorni
Intervista di V. Militello e R. Conti a Raffaello Magi, Vittorio Manes e Francesco Viganò
Sommario: 1. La scelta del tema - 2. Le domande - 3. Le risposte - Le repliche.
1. La scelta del tema
Giustizia insieme riannoda i fili degli approfondimenti dedicati, a partire dal novembre 2019, agli effetti prodotti nell’ordinamento interno dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Dopo avere toccato i temi cari all’avvocatura civile e penale, ai comunitaristi ed internazionalisti, ai civilisti e lavoristi, processualcivilisti e processualpenalisti, tributaristi ed amministrativisti passando per il ruolo dei giudici che hanno lavorato alla Corte EDU – di seguito i link ai dodici precedenti approfondimenti: 1. La parola agli Avvocati penalisti sul ruolo della CEDU; 2.La parola agli Avvocati civilisti sul ruolo della CEDU; 3. Carta costituzionale e CEDU. Tutto risolto? 4. La Corte edu vista dai suoi giudici; 5. La Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e i civilisti; 6. La CEDU e l’Accademia europeista-internazionalista; 7. La CEDU e i processualcivilisti; 8. CEDU e diritto tributario; 9. La CEDU e il diritto amministrativo; 10. La CEDU ed i processualpenalisti; 11. CEDU e diritto del lavoro; 12. Carta dei diritti fondamentali UE e CEDU – il percorso verso l’ultimo miglio non poteva che condurre all’area penalistica.
Un approdo che, al di là dei fattori contingenti che hanno giocato, sembra far trasparire una sorta di razionalità immanente ed al contempo rappresentare l’ennesimo frutto di un antico fardello: la prima è insita nella natura di ultima ratio del diritto penale, nella tutela di quei diritti che la CEDU ha saputo prima affermare e poi corredare di un formidabile strumento di tutela, quale il ricorso individuale; il secondo si annida nel risalente collegamento del diritto penale alla dimensione nazionale e al suo tradizionale radicamento nei valori considerati espressione di un particolare ordinamento, che hanno a lungo opposto resistenza ad una apertura verso livelli di tutela ulteriori.
Per fare il punto di quanto anche in questo settore giuridico, peraltro fortemente popolato dalle norme più svariate per fare fronte all’incessante pulsione di nuove esigenze di tutela, l’intreccio fra vari dimensioni ordinamentali e le corrispondenti giurisdizioni abbia ormai prodotto trasformazioni significative e per larghi tratti irreversibili, si è ricorso alla consueta formula dell’intervista con domande incrociate su aspetti chiave del vasto tema, con un filo rosso comune rappresentato dalle influenze reciproche dei diversi livelli di tutela dei diritti umani e delle relative corti che ne declinano l’effettività. Ad esse hanno accettato di rispondere tre giuristi di alto valore umano e professionale, a coronamento di un progetto "fatto in casa" che, pur con tutti i limiti e proprio per le professionalità che hanno alimentato i singoli contributi, ha offerto l'opportunità di mettere a fuoco e sottoporre ad un più ampio dibattito punti di vista plurali, riflessioni, suggestioni e, perché no, anche provocazioni.
Avere dunque avuto, anche in questa occasione, l'opportunità di tenere insieme, pur nelle diversità, un giudice costituzionale di formazione accademica, un giudice di legittimità ed un professore-avvocato penalista ha consentito un incrocio di letture e di visioni di particolare interesse nel delineare non solo l’incedere delle carte dei diritti di matrice sovranazionale, ma anche le conseguenti trasformazioni di un sistema penale, che rispetto ai suoi canoni classici si deve confrontare con nuove declinazioni dei principi di garanzia pur da coniugare con ulteriori compiti di intervento. Una vicenda nella quale assume un significato particolare la possibile, se non frequente, pluralità dei pronunciamenti delle varie corti: certo, ineliminabile risvolto dell’impossibilità di instaurare fra i rispettivi ordinamenti gerarchie piramidali in grado da risolvere ogni eventuale antinomia, ma anche problematica di speciale rilevanza in un settore in cui l’esigenza alla massima formalizzazione dei precetti è imposta non da astratte aspirazioni di coerenza dell’ordinamento, ma dalla stessa realizzazione della funzione di circoscrivere la materia del penalmente rilevante e al contempo consentire la funzione di orientamento delle scelte di condotta individuali.
I tre interlocutori qui intervenuti, con le loro risposte ariose e ricche di ulteriori spunti di approfondimento, hanno così arricchito la catena di approfondimenti precedenti con un ulteriore anello che non intende affatto chiudere il cerchio o rappresentare un punto di arrivo ma, tutto al contrario, aprirsi a nuove sollecitazioni da tutti gli operatori del diritto. Questo rimane, infatti, il senso ultimo di tutti gli interventi che si sono susseguiti sul tema CEDU, animati da quasi quaranta fra giuriste e giuristi di varia estrazione culturale e professionale, essi davvero straordinari interpreti - e costruttori- di quel bisogno di confronto e dialogo del quale il diritto, in tutte le sue componenti, si alimenta.
2. Le domande
1) Diritto penale, CEDU e Costituzione: impossibile coabitazione fra le Carte, progressiva contaminazione o loro mutua alimentazione?
2) Quale peso gioca il giudice nazionale(costituzionale e non) nell'attuazione dei diritti fondamentali in materia penale per effetto del concentrico uso delle Carte dei diritti fondamentali? E quale il ruolo dell'Avvocato?
3) Quale ruolo sono destinati a giocare la Carta UE dei diritti fondamentali in materia penale rispetto alle Costituzione e alla CEDU e, con essa i giudici nazionali e quelli sovranazionali?
3. Le risposte
1) Diritto penale, CEDU e Costituzione: impossibile coabitazione fra le Carte, progressiva contaminazione o loro mutua alimentazione?
R. Magi
A mio parere va in primis sottolineata, sul piano storico, la – innegabile - progressiva contaminazione, nel sistema integrato di tutela dei diritti fondamentali.
Resta auspicabile la mutua alimentazione, in un quadro di costante e rispettoso dialogo operativo tra le giurisdizioni chiamate a concretizzare i principi espressi nel testo delle Carte.
Quando leggiamo il testo delle disposizioni che le due Carte dedicano al diritto ed al processo penale (specie dopo la novellazione dell’art.111 Cost. operata con legge costituzionale n.2 del 2001) non veniamo certo assaliti da dubbi di compatibilità, fermo restando il necessario apprezzamento dell’ opera di concretizzazione del contenuto dei principi attraverso la mediazione interpretativa e il differente approccio alla ‘fonte giurisprudenziale’ come possibile ingrediente performativo della previsione incriminatrice (art.7 Conv.), che tanto preoccupa i cultori interni della legalità formale.
Ciò che tuttavia ha reso possibile – nel corso degli anni – l’avvicinamento dei contenuti concreti delle previsioni astratte di tutela dei diritti fondamentali, in un quadro di costruttiva interazione, è l’esistenza – a mio avviso - del particolare strumento operativo rappresentato, per la Corte di Strasburgo, dal ricorso individuale di cui all’art.34 della Convenzione, così come previsto dal Protocollo n.11 del 11 maggio 1994.
E’ il particolare canale di accesso a segnare la dimensione del giudizio reso a Strasburgo ed il suo particolare valore.
L’analisi del caso concreto – definito dalla giurisdizione nazionale senza apertura di una questione incidentale di legittimità costituzionale delle disposizioni applicate – svela, potenzialmente, lo scarto esistente tra il contenuto del principio (astrattamente applicabile) e le prassi operative dei Tribunali interni, mettendo a nudo il vuoto di tutela e la conseguente violazione della Convenzione e dei sottostanti valori.
Se guardiamo agli interventi di Strasburgo di maggior rilievo succedutisi negli anni (specie sul fronte del giusto processo, ma non solo) ci rendiamo conto facilmente del ruolo propulsivo che la Corte Edu ha avuto grazie allo strumento del ricorso individuale, in casi in cui la decisione interna era «formalmente legale», ossia adottata sulla base di previsioni di legge vigenti ed interpretate – anche dall’organo della nomofilachia – proprio nel modo che ‘dava luogo’ alla violazione del principio convenzionale.
Vi sono stati, pertanto, casi in cui la Corte Edu ha operato – per certi versi – quale vera e propria ‘sentinella’ dello scostamento tra l’applicazione concreta del diritto e il contenuto di quei medesimi valori solennemente declinati dalla Costituzione ma rimasti inattuati o, peggio, calpestati da un legislatore spesso incline ad assecondare bisogni emotivi di rassicurazione o derive giustizialiste (citando Calamandrei va ricordato che nello stampo della legalità può calarsi tanto l’oro che il piombo...).
In altre parole, l’accertamento di una violazione della Convenzione, lì dove il vizio individuato a Strasburgo sia dipeso non già da un errore di ‘applicazione’ del diritto interno (o comunque da un cattivo giudizio) ma da una obiettiva inadeguatezza delle disposizioni applicate (all’esito del giudizio complessivo di compatibilità con i principi convenzionali) ha aperto la strada all’intervento riformatore di tipo legislativo e/o all’intervento (sia pur tardivamente innescato) del giudice delle leggi.
Ciò testimonia quanto la Corte Edu – primo interprete della Convenzione – non possa ritenersi un corpo estraneo alla dinamica di attuazione, nel sistema interno, dei diritti fondamentali dell’individuo.
Vale la pena ricordare alcune di queste occasioni, che tracciano essenzialmente un profilo di contribuzione effettiva della giurisdizione ‘europea’ alla promozione di assetti legislativi e prasseologici maggiormente rispettosi delle garanzie fondamentali dell’individuo e degli stessi principi costituzionali.
In campo processuale, senza le reiterate condanne dell’Italia emesse a Strasburgo in tema di violazione del contraddittorio nel giudizio contumaciale (v. il caso Sejdovic) non vi sarebbe stata la riforma delle modalità di instaurazione del processo adottata con la legge numero 67 del 2014 in tema di assenza, né – in precedenza – l’adeguamento normativo di strumenti riparatori (restituzione in termini per l’impugnazione) tesi alla riapertura del processo, con possibile invalidazione del giudicato.
Si tratta di temi ricadenti nell’ambito applicativo dell’articolo 24 della Costituzione in tema di effettività del diritto di difesa, dato che la conoscenza dei termini fattuali dell’addebito e la convocazione effettiva dell’incolpato al giudizio ne rappresentano una precondizione, ed in questo le violazioni della Convenzione hanno rappresentato adeguato stimolo all’attuazione del principio costituzionale nel sistema interno.
Analogamente, l’intera rielaborazione delle modalità di formazione della prova dichiarativa in giudizio – alfine adottata con legge costituzionale, date le reminiscenze inquisitorie espresse dalla stessa Corte costituzionale negli anni novanta del secolo scorso- è stata di certo stimolata dalle accertate violazioni dell’articolo 6 della Convenzione in casi portati a Strasburgo (emblematico il caso Dorigo), caratterizzati dalla impossibilità del confronto antagonista tra l’incolpato e la fonte di prova .
Più di recente, l’influenza delle decisioni della Corte Edu – anche quelle emesse nei confronti di altri paesi – ha determinato l’approdo ad una diversa fisionomia del giudizio di secondo grado in caso di potenziale ribaltamento dell’esito assolutorio (con anticipazione dell’intervento legislativo operata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione) valorizzando il principio di immediatezza e la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio quale dimensione probatoria del giudizio di responsabilità.
Ed ancora, la tutela dell’affidamento nella dimensione legale della pena - derivante da disposizioni processuali vigenti al momento della adozione di una forma speciale di giudizio – ha determinato la censura di disposizioni interne contrarie al principio (il caso Scoppola del 2009), con conseguente apertura di incidente di legittimità costituzionale teso alla estensione erga omnes degli effetti della decisione emessa a Strasburgo, tramite la declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione interna contrastante.
Così come la complessiva riforma – addottata nel 2014 – del sistema di tutela delle posizioni giuridiche soggettive dei soggetti in espiazione di pena è essenzialmente il portato della decisione emessa nel 2013 dalla Corte Edu nel caso Torreggiani ed altri, con brutale presa d’atto della siderale distanza tra il ‘dover essere’ e la realtà carceraria italiana. Ne è seguito l’inserimento di previsioni di legge tese ad estrarre dai contenuti delle decisioni emesse dalla Corte di Strasburgo le ‘dimensioni concrete’ dei doveri imposti all’amministrazione penitenziaria al fine di evitare lo sconfinamento in trattamenti inumani o degradanti, in perfetta aderenza ai contenuti dell’art.27 co.3 della Costituzione (rimasto sulla carta, nonostante gli allarmi in precedenza lanciati dalla stessa Corte costituzionale).
A fronte di tali complesse interrelazioni - cui va aggiunto il campo delle misure di prevenzione personali e patrimoniali, cantiere aperto da interventi giurisprudenziali antecedenti e successivi alla decisione De Tommaso contro Italia emessa dalla Corte Edu nel 2017 ed approdato ad una importante decisione della Corte costituzionale nel 2019 con attuazione di principi speculari tra Costituzione e Convenzione – non soltanto può dirsi che i contenuti della Convenzione, al di là del formale riconoscimento di validità formale (con le sentenze gemelle del 2007) con rango subcostituzionale, innervano costantemente l’ordinamento interno, ma si pongono – nel quotidiano - come necessario metro di paragone della ‘tenuta’ delle singole scelte applicative delle disposizioni vigenti, in chiave di confronto con il quadro di valori espresso in entrambe le Carte.
In simile contesto, anche l’emersione di punti di vista in parte diversi – in ambito giurisdizionale – su singole questioni (è il caso della ricognizione dei caratteri concreti della prevedibilità operata dalla Corte Edu nel noto caso Contrada del 2015 in tema di concorso esterno in associazione mafiosa e, per certi versi, della confisca urbanistica) non appare frutto di volontà ‘oppositive’ alla importazione di principi convenzionali, ferma restando la necessaria dialettica interpretativa, quanto espressione di una ineliminabile autonomia di ragionamento e ricostruzione di profili fattuali e giuridici rilevanti per il ‘riconoscimento’ della regola iuris da applicare nel caso concreto.
In tal senso, è auspicabile che – in un momento storico caratterizzato da estrema precarietà degli assetti politici generali - prosegua, attraverso la sensibilità delle giurisdizioni, il percorso di reciproca integrazione e di mutua alimentazione tra le Carte.
V.Manes
Credo che la risposta a questa domanda sia già stata data dalla giurisprudenza comune e dalle decisioni della Corte costituzionale, negli ultimi tre lustri, non solo in materia penale: anche se questo campo di materia offre un osservatorio privilegiato, essendo un contesto altamente rights-sensitive, e a buon diritto è stato scelto come ambito elettivo per tracciare un bilancio sul “dialogo tra Corti”.
Il saldo di questo bilancio – mi pare di poter dire – è certamente positivo, e va nella direzione di una costante contaminazione e di una mutua alimentazione, nel segno di un complessivo accrescimento dei livelli di tutela (salvo alcune zone d’ombra, come dirò); contaminazione forse maggiormente percepibile nei tracciati della giurisprudenza costituzionale, ma non priva di testimonianza ed echi anche nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo (ad es., Viola c. Italia), che del resto – credo sia un dato da sottolineare – anche e proprio in decisioni relative al nostro paese (solo per citarne alcune, Scoppola, Grande Stevens, Sud Fondi, Varvara, Contrada, ma anche Dorigo, Sejdovic, o Torreggiani, sino alle sentenze di Grande Camera G.I.E.M. e De Tommaso, etc.), e dunque su ricorsi proposti da avvocati italiani, ha avuto modo di affermare principi di notevole rilievo, se non apertamente innovativi nella propria, costante interpretazione “evolutiva”.
Sarebbe superfluo, credo, elencare le decisioni della Corte costituzionale che hanno costruito le proprie rationes decidendi anche e soprattutto “dialogando” con la giurisprudenza della Corte EDU, ma può senza dubbio dirsi che questo è diventato un registro argomentativo costante, uno “stile” composto di forma e sostanza, e ormai un legal reasoning consolidato che peraltro negli ultimi anni tende a non servirsi più – o a servirsi solo in via residuale – della dottrina del “parametro interposto” (costruita sull’art. 117, primo comma, Cost.) preferendo una ermeneutica convenzionalmente orientata degli stessi principi costituzionali (ne è un esempio emblematico, inter alia, la sentenza n. 32 del 2020, che ha “reinterpretato” in senso evolutivo l’art. 25, secondo comma, Cost., e segnatamente il principio di irretroattività, ricomprendendovi le norme dell’ordinamento penitenziario a carattere “afflittivo”, come del resto già in precedenza con riguardo alle sanzioni amministrative “punitive”, a partire dalla sentenza n. 196 del 2010, poi confermata dalle sentenze n. 104 del 2014, n. 276 del 2016, ma anche n. 43 del 2017, etc.).
Segno, questo, di una “contaminazione” e di una “mutua alimentazione” giunta a piena maturazione, che vede nella “intrinseca capacità generatrice” e nella “perenne eccedenza assiologica” dei principi costituzionali una porosità e potenzialità ermeneutica tale da consentire di far filtrare opportune evoluzioni e costanti avanzamenti, nel segno di quella Costituzione – secondo la lezione di Peter Häberle – come “öffentlicher Prozess”, dominata dal “pensiero delle possibilità” (Möglichleitsdenken), ed architrave di una “società aperta degli interpreti della Costituzione” (offene Gesellschaft der Verfassungsinterpreten).
Non deve stupire il fatto che gli esiti siano stati spesso, come si sa, dirompenti, anche e soprattutto in materia penale.
La carica innovativa si spiega, anzitutto, dal diverso punto di osservazione che la Convenzione EDU – con la propria impostazione rights-based – impone, sollecitando la “rilettura” di istituti, concetti, categorie, ed interi universi di problemi: i punti di osservazione sono infatti degli “ordinatori di realtà”, non solo nel mondo della fisica, cosicché mutando il punto di osservazione si modifica anche la realtà osservata.
Bastino due esempi.
L’adesione del “codice Rocco” e del tecnicismo giuridico al concetto formale di reato (art. 17 c.p.) – e ad una nozione di “antigiuridicità formale” – è stata letteralmente rovesciata dall’approccio sostanzialistico e dalla nozione antiformalistica di “matière pénale” accolta nella giurisprudenza di Strasburgo, una nozione autonoma volta appunto ad assicurare alle garanzie penalistiche (diritto ad un equo processo, principio di legalità, ma anche ne bis in idem, etc.) una tutela “non illusoria e astratta, ma effettiva e concreta”, come recita un costante refrain della Corte EDU. Su queste basi, si è reinterpretata in chiave rights-oriented l’intera costellazione delle garanzie penalistiche, secondo una direzione che – superando le dicotomie care al tecnicismo giuridico pena/misura di sicurezza, diritto sostanziale/diritto processuale, disciplina penale sostanziale/disciplina dell’esecuzione penale – ha consentito di smascherare, sul piano domestico, diverse e variegate ipotesi di “truffa delle etichette” (v. ad es. Corte cost. sentenza n. 196 del 2010, cit.), di bonificare in senso garantistico le più diverse ipotesi speciali di confisca “punitiva” (la confisca per equivalente, la confisca urbanistica, etc.), di assoggettare al nullum crimen come alla garanzie del ne bis in idem le “pene nascoste” (ossia le sanzioni sostanzialmente punitive, amministrative, tributarie, disciplinari, etc.) e che, di recente, ha fatto breccia anche nei sobborghi rimossi dell’esecuzione penale (appunto assoggettando al principio di irretroattività disposizioni penitenziarie a contenuto afflittivo: sentenza n. 32 del 2020, cit.): e promette di poter raggiungere ulteriori risultati in diversi contesti ancora largamente inesplorati (si pensi alle norme processuali afflittive).
Una seconda testimonianza della carica rivoluzionaria del rights-based discourse si è avuta sul terreno delle misure di prevenzione, dove la verifica costituzionale – forse limitata dall’angolatura in certa parte angusta offerta dall’impostazione tradizionale – era ferma, come noto, alla sentenza n. 177 del 1980: con la celebre pronuncia della Grande Camera De Tommaso c. Italia, muovendo appunto dalla considerazione per cui ogni misura di ingerenza statale nei fundamental rights deve essere assoggettata alle garanzie della legalità – ed ai “qualitative requirements” della “accessibilità e prevedibilità” – ed al principio di proporzione, si è emancipata la discussione dal giogo del (problema di) inquadramento delle misure di prevenzione, mettendo da canto il problema della loro discussa natura penale, ed evidenziando comunque la loro invasività nella sfera dei diritti (libertà di circolazione, per le misure di prevenzione personali; diritto di proprietà, quanto alle misure di prevenzione patrimoniali). Si è così smascherato – da questa diversa inquadratura – un evidente vulnus di legalità e di “proporzionalità”, con le conseguenze, ben note, coerentemente tratte dalla Corte costituzionale nelle sentenze nn. 24 e 25 del 2019.
Certo sarebbe riduttivo intravedere solo luci, e frutto di una visione irenica, e forse ingenua, di questo processo di costante contaminazione.
Alcune ricadute della “distruttività creativa” della giurisprudenza europea, infatti, hanno determinato ripercussioni strutturali sulla fisionomia del sistema che rischiano di innescare – ed in taluni casi hanno già innescato – autentiche “crisi di rigetto”. Così, in particolare, la nozione autonoma di “legge” aperta a ricomprendere – pur solo in una prospettiva di ampliamento delle garanzie - tanto il diritto legislativo quanto il diritto giurisprudenziale (judge-made law) ha posto le premesse per intaccare anche postulati fondanti della legalità costituzionale: e su questo versante ha determinato reazioni decise da parte della Consulta, specie con la sentenza n. 230 del 2012 (ma anche con la sentenza n. 115 del 2018, pur resa sul versante dei rapporti tra diritto nazionale e diritto UE, in re Taricco), reazioni che hanno dunque evidenziato ambiti e profili dove le contaminazioni – vere o presunte che siano le responsabilità della Corte EDU - si mostrano decisamente problematiche, se non (costituzionalmente) impossibili.
Parallelamente, devono ancora essere esplorati a fondo autentici “buchi neri giuridici” che minacciano altrettanti problemi di innesto: in questa prospettiva, ad esempio, non va dimenticato che nella Convenzione EDU, e soprattutto nella giurisprudenza della Corte, affiorano sempre più spesso “obbligazioni positive” (positive obligations) in capo ai singoli Stati che talvolta si traducono in precipui “obblighi di tutela penale”, con tutto il carico di problematicità che questi generano quando vengono ad innestarsi in un contesto costituzionale, dove la tesi degli obblighi di tutela penale (Pönalisierungsgebote) e della loro “giustiziabilità” ha sempre visto la strada sbarrata - condivisibilmente – da precisi argini costituzionali.
F. Viganò
Direi senz’altro progressiva contaminazione, e assieme mutua alimentazione.
I rapporti profondi tra diritto penale e Costituzione sono stati messi in luce dalla nostra dottrina a partire dagli anni Settanta. E ciò grazie, in particolare, alla fondamentale opera di Franco Bricola, che ha gettato le fondamenta di quel “volto costituzionale del diritto penale” che costituisce – come ci rammenta Donini – il principale contributo della dottrina italiana alla dogmatica penalistica internazionale.
Qualsiasi manuale di diritto penale si apre oggi con l’illustrazione dei fondamentali principi che la Costituzione pone in materia: legalità (nei suoi quattro corollari della riserva di legge, della sufficiente precisione della norma, del divieto di analogia e del divieto di applicazione retroattiva in peius), offensività, personalità-colpevolezza, principio di umanità e funzione rieducativa della pena, divieto della pena di morte (e relativi corollari in materia di estradizione).
Ma i manuali più attenti sottolineano, altresì, come dal complesso dei principi costituzionali si evincano tutta una serie di ulteriori limiti alla potestà legislativa in materia penale, e all’esercizio concreto dello ius puniendi: dal generale vincolo di eguaglianza-ragionevolezza ex art. 3 Cost. (a partire dal quale si è, ad esempio, dotato di fondamento costituzionale il principio della retroattività della lex mitior), al rispetto dei diritti fondamentali della persona nelle scelte di incriminazione, alla stessa conformazione delle sanzioni penali al metro del principio di proporzionalità della pena.
Sul versante giurisprudenziale, poi, tanto la Corte costituzionale quanto i giudici comuni da tempo valorizzano il ruolo dei principi costituzionali sul diritto penale, sul diritto processuale penale e sul diritto penitenziario. Credo che la giurisprudenza della Corte costituzionale in materia non abbia eguali, anche solo dal punto di vista quantitativo, rispetto al panorama del diritto comparato: basta sfogliare qualsiasi codice per rendersi conto immediatamente del numero elevatissimo di pronunce che, nel corso dei sessantacinque anni di vita della Corte, hanno dichiarato illegittime norme penali, processuali e penitenziarie. Negli ultimi anni, anzi, la Corte ha dato mostra di voler superare anche l’accentuato self-restraint che circondava tradizionalmente le scelte legislative in materia di selezione delle condotte penalmente rilevanti e di scelta delle pene, dichiarando parzialmente illegittima una fattispecie di grande rilievo nel sistema come l’istigazione e aiuto al suicidio, nonché varie cornici edittali ritenute sproporzionate alla gravità del reato, tra cui quella – di enorme importanza prasseologica – prevista per il traffico di droghe c.d. “pesanti”.
A partire grosso modo dall’inizio del nuovo secolo, su questa risalente attenzione ai principi costituzionali si è sovrapposto un interesse crescente dei penalisti per la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e per la giurisprudenza di Strasburgo.
Se non vedo male, un importante momento di svolta – dopo l’entrata in vigore della legge Pinto, nel 2001 – si è avuta nel 2005-2006, quando la Cassazione penale cominciò a dichiarare “non (più) eseguibili” sentenze di condanna da tempo passate in giudicato e già in parte eseguite, nell’ipotesi in cui il processo sfociato in tali condanne fosse stato celebrato in violazione del diritto al “giusto processo” di cui all’art. 6 CEDU, secondo quanto stabilito da una sentenza della Corte EDU resa nel caso specifico. La Cassazione non poteva qui adottare il rimedio principe, suggerito dalla stessa Corte EDU, di riaprire il processo revocando la sentenza di condanna, dal momento che tale rimedio non era ancora previsto dal codice di procedura penale; ma si rese conto – in buona sostanza – che continuare ad eseguire sentenze condanna rese in esito a processi “iniqui” dal punto di vista convenzionale si sarebbe tradotto in una ulteriore violazione dei diritti convenzionali del condannato, e in particolare del suo diritto alla libertà personale, compressa da una pena detentiva divenuta illegittima proprio perché scaturita da un processo non conforme alla Convenzione. E dunque, di fatto, paralizzò l’applicazione della pena, in attesa di indicazioni da parte del legislatore.
Nel 2007 si colloca poi la svolta storica rappresentata dalle sentenze gemelle, che conferiscono alla CEDU – e alla sua interpretazione da parte della Corte di Strasburgo – il rango “paracostituzionale” di norme interposte nel giudizio di costituzionalità, fatta salva la verifica della loro compatibilità con la stessa Costituzione.
A partire da questo momento, si susseguono sentenze di accoglimento che accertano la contrarietà di discipline legislative, o di loro letture giurisprudenziali, contrarie alla Convenzione. E ciò tanto in materia processuale penale (come nel caso della sentenza n. 113 del 2011, che introduce proprio l’ipotesi di revisione del processo in seguito a una specifica condanna della Corte EDU per violazione dell’art. 6 CEDU), quanto in materia penale (come nel caso recente della sentenza n. 25 del 2019, che dichiara illegittime talune sottofattispecie riconducibili alla norma che incrimina la violazione delle prescrizioni contenute in una misura di prevenzione personale, in ragione della loro eccessiva indeterminatezza, già ritenuta incompatibile con l’art. 7 CEDU dalla Corte EDU).
Anche la giurisprudenza comune ha, d’altra parte, proseguito con decisione sulla strada della progressiva integrazione delle garanzie convenzionali nell’ordinamento interno, grazie al duttile strumento dell’interpretazione conforme, che conduce – tra più interpretazioni possibili del testo normativo – a preferire quello compatibile con la Convenzione.
Questo recente e tumultuoso processo di progressiva integrazione della CEDU nell’orizzonte del giudice italiano (comune e costituzionale) ha condotto molti studiosi a interrogarsi sugli effetti di tale integrazione sull’ormai consolidato “volto costituzionale” del sistema penale. Molti autori – e forse anche una parte non trascurabile della magistratura – temono che essa provochi un complessivo scadimento delle garanzie costituzionali, così faticosamente conquistate. E ciò anche perché, si sente spesso polemicamente affermare, il diritto di Strasburgo sarebbe frutto di una giustizia di taglio casuistico e aliena dal pensiero sistematico, prodotta da giudici lontani dalle realtà sociali, politiche, istituzionali di ciascuno Stato.
Il che condurrebbe, in tesi, a quello scenario alternativo di impossibile coabitazione, cui alludeva la domanda.
Devo dire che non ho mai condiviso questi timori, sia per ragioni di principio, sia per considerazioni di carattere pratico.
Quanto alle ragioni di principio, la regola aurea del rapporto tra garanzie convenzionali e garanzie costituzionali è quella espressa dall’art. 53 CEDU sul versante “europeo”, e dalla sentenza n. 317 del 2009 della Corte costituzionale sul versante “interno”: quella cioè secondo cui la Convenzione non osta in alcun caso a che le costituzioni degli Stati parte possano riconoscere ai singoli diritti una tutela giuridica maggiore di quella assicurata in sede convenzionale, la quale costituisce soltanto uno standard minimo che tutti gli Stati si obbligano ad osservare. So bene che si tratta di una regola che non risolve tutti i problemi, specie nelle situazioni in cui si confrontano due distinti diritti, il cui bilanciamento potrebbe essere stabilito con criteri differenti dalla giurisprudenza costituzionale e da quella convenzionale; ma questi profili di problematicità non possono condurre a svalutare l’importanza della regola base, che ha una indubbia capacità di rendimento in una grande quantità di casi.
In materia penale, ad esempio, la Costituzione stabilisce – a differenza della Convenzione – una riserva di legge per la definizione dei reati e delle pene, che osta alla creazione di nuovi reati per via giurisprudenziale. Questa garanzia evidentemente resta ferma anche allorché l’ordinamento si apra alla penetrazione del diritto convenzionale. L’art. 7 CEDU pone l’accento su altri aspetti del principio di legalità, con i quali il giudice nazionale sarà chiamato a confrontarsi; ma non obbliga affatto ad abbandonare la garanzia politico-istituzionale della riserva di legge stabilita dall’art. 25, secondo comma, Cost.
Ancora, la consolidata interpretazione dell’art. 25, secondo comma, Cost. afferma la natura sostanziale della disciplina della prescrizione del reato, e dunque la sua riconducibilità a tutti i corollari della legalità penale (riserva di legge, sufficiente precisione, divieto di analogia, divieto di applicazione retroattiva in peius). La circostanza che la giurisprudenza di Strasburgo non obblighi gli Stati ad applicare le garanzie dell’art. 7 CEDU alla disciplina della prescrizione, non esclude certo che lo Stato italiano possa continuare a riconoscere, anche in tale materia, le garanzie della legalità “nazionale”, come chiarito dalla sentenza n. 115 del 2018.
Analogo discorso vale per la pena: la CEDU non afferma la sua necessaria funzione rieducativa; ma dal momento che questo principio è espresso a chiare lettere dalla Costituzione italiana, ad esso il giudice italiano (comune e costituzionale) resterà certamente vincolato.
Inoltre – e vengo alle considerazioni di carattere pratico – è facile constatare come l’integrazione tra orizzonte costituzionale e convenzionale nella prospettiva del sistema penale abbia prodotto, di fatto, effetti virtuosi nel senso del complessivo innalzamento delle garanzie: ciò che spesso, purtroppo, sfugge a quella parte della dottrina, penalistica e processualpenalistica, che continua a temere che dalla contaminazione tra le due ottiche derivi a conti fatti un abbassamento degli standard di tutela dei diritti fondamentali della persona.
Il diritto convenzionale costringe l’interprete a pensare ai principi non solo come “valori” oggettivi, ma anche – e soprattutto – in funzione delle esigenze di tutela dei diritti delle persone sulle cui esistenze le norme vanno a incidere. Non già – attenzione – in una prospettiva individualistica, o atomistica; ma nella prospettiva, tipica delle tradizioni costituzionali europee, di una persona pensata come inserita in una determinata società, e titolare di una fitta serie di diritti e assieme di doveri di solidarietà nei confronti del prossimo. Una prospettiva, ancora, che mette sempre in conto la possibilità che i suoi interessi possano essere ritenuti recessivi nei confronti di quelli dei terzi o della collettività nel suo complesso, al metro del (e nei limiti consentiti dal) super-principio di proporzionalità.
Pensare al diritto dal punto di vista della persona coinvolta è, mi pare, un approccio prezioso, e in larga parte nuovo per la sensibilità del penalista. Il diritto penale, si insegna tradizionalmente, non tutela “diritti”, ma “beni giuridici”: interessi della società nel suo complesso, anche quando si tratti di beni individuali come la vita, il patrimonio, la libertà; la tutela dei diritti soggettivi sarebbe, in quest’ottica, compito esclusivo del diritto civile. E i limiti costituzionali allo ius puniendi, così come quelli applicabili al processo penale, sono sempre stati intesi primariamente come “principi ordinamentali” più che come “diritti fondamentali” delle persone coinvolte dal processo e dalla pena.
Il diritto convenzionale interviene a spostare lo sguardo sulla prospettiva della persona: sul destinatario della norma penale, sulla vittima del reato, sull’imputato, sul condannato. Con effetti rimarchevoli, per l’interprete.
Pensiamo al principio di legalità: il diritto convenzionale orienta alla prospettiva della prevedibilità, da parte del destinatario della norma, dell’applicazione della sanzione penale. Non basta che la norma penale sia espressa da una legge; né che il risultato dell’interpretazione – la conclusione cioè che la norma penale è applicabile anche a casi come quello di specie – sia raggiunto dal giudice in esito a itinerari argomentativi giuridicamente sostenibili; ma occorre, altresì, che questo risultato interpretativo potesse essere ragionevolmente previsto dall’interessato al momento della commissione della condotta. Il che non sarebbe stato affatto scontato, muovendo dalla tradizionale prospettiva costituzionale, fondata sugli artt. 25 e 27 Cost.
Ancora, le garanzie del nullum crimen sono state estese dalla Corte EDU anche a sanzioni formalmente qualificate come amministrative, civili, disciplinari, etc., ma dalla natura sostanzialmente “punitiva”. Tale estensione è stata giustificata sulla base dell’esigenza di tutelare la persona contro misure che incidono sui suoi diritti in maniera egualmente, o a volte ancora più afflittiva rispetto alle sanzioni anche formalmente qualificate come penali; e la giurisprudenza italiana, costituzionale e comune, ha ormai con decisione adottato questa stessa ottica, estendendo correlativamente le stesse garanzie costituzionali a sanzioni di carattere “punitivo”.
Forse la più spettacolare conseguenza del mutamento di prospettiva determinato dall’impatto del diritto convenzionale – e dell’approccio right-oriented ad esso sotteso – è però rappresentato dal progressivo sgretolamento del “mito” del giudicato in materia penale. In esito a quello che è stato felicemente definito (Lamarque) come un “gioco di squadra” tra Corte costituzionale e Corte di cassazione, è stata progressivamente superata l’idea della non modificabilità della statuizione sulla pena consacrata nella sentenza definitiva di condanna, tradizionalmente giustificata in nome del principio ordinamentale “oggettivo” della certezza dei rapporti giuridici: principio che la giurisprudenza ha preso a considerare recessivo, a fronte dell’esigenza di restaurare la legalità convenzionale e costituzionale, che non può tollerare la perdurante esecuzione di pene irrogate sulla base di norme contrarie alla CEDU, o alla stessa Costituzione italiana. E ciò in quanto tale esecuzione si tradurrebbe – esattamente come nei casi del 2005-2006 poc’anzi menzionate – in una illegittima compressione dei diritti dei condannati.
Sconvolgimenti tellurici, tutti quelli evidenziati, che sarebbero stati impensabili senza l’influsso del diritto convenzionale, ma che al tempo stesso si riverberano sulla interpretazione e applicazione delle stesse garanzie costituzionali, divenute ormai sempre più attente alla loro dimensione di tutela degli interessi di persone in carne ed ossa, e non più solo di principi oggettivi.
2) Quale peso gioca il giudice nazionale(costituzionale e non) nell'attuazione dei diritti fondamentali in materia penale per effetto del concentrico uso delle Carte dei diritti fondamentali? E quale il ruolo dell'Avvocato?
R. Magi
La sensibilità degli operatori – in chiave culturale – è il vero tema che abbiamo di fronte in questi anni.
Il rischio concreto è quello di uno strumento molto potente ma sostanzialmente inattuato.
Al di là degli aspetti dogmatici, correlati al dovere di interpretazione convenzionalmente conforme (salva la proposizione di incidente di legittimità costituzionale in caso di contrasto non sanabile in via interpretativa), ciò che rileva è la adozione di paradigmi operativi che, adottando un ambito dubitativo del ‘già detto’, siano in grado di ‘riconoscere’ il potenziale contrasto interpretativo tra le disposizioni tese a regolamentare il caso concreto e il contenuto dei principi estraibili dalle Carte.
Molte volte un simile approccio manca ed i profili ricostruttivi in diritto – ferma restando la ovvia esistenza di casi tali da ridimensionare questa affermazione – vengono scarsamente coltivati in sede di prima applicazione e restano appannaggio del giudice di legittimità e/o della Corte costituzionale, ove evocata.
Ciò perché nelle concrete vicende processuali penali domina, in prima battuta, l’ansia della ricostruzione dei fatti – aspetto peraltro più che comprensibile – e la verifica delle opzioni interpretative in diritto resta affidata, sovente, ad una veloce consultazione di massime giurisprudenziali.
Incidono sul complessivo quadro testè descritto problematiche strutturali della organizzazione giudiziaria, tese a valutare la produttività dei magistrati in termini strettamente quantitativi ed a promuovere approcci di malintesa efficienza .
Salve le ipotesi di diretta incidenza di regole normative elaborate in sede UE (ad esempio nel controllo della immigrazione o in discipline di settore come il trattamento dei rifiuti o nei casi di cooperazione imposta da strumenti come il MAE) il primo approccio della giurisdizione tende a restare sul crinale dell’ossequio al precedente massimato (di pronta reperibilità) e non a caratterizzarsi in termini di elaborazione critica, circa il rapporto tra disposizione interna e variabili di una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata.
Una costante richiesta di ‘certezze sedimentate’ mossa – come in altri ambiti sociali – dal rifiuto della complessità e dall’ansia della risposta .
Ciò carica di responsabilità tanto l’Avvocatura - tenuta alla elevazione della caratura professionale dei singoli ed alla diffusione di strumenti di consultazione adeguati-, che l’intero sistema di reclutamento e formazione dei magistrati, che a mio parere non può evitare di prendere atto della necessità di promuovere un diverso approccio, maggiormente consapevole della pluralità di fonti e del compito – del giudice comune - di armonizzarne i contenuti.
In altre parole, in troppi casi tende a riscontrarsi una carente diffusione e conoscenza concreta degli orientamenti giurisprudenziali elaborati – in chiave di attuazione dei diritti fondamentali – tanto dal giudice interno che dalle giurisdizioni sovranazionali e ciò determina ‘distanza’ dei singoli operatori giuridici da temi che, se ben dominati, consentirebbero un esercizio della giurisdizione più aderente ai principi .
In un simile quadro, di necessaria ‘affermazione’ di uno strumentario operativo e concettuale che dovrebbe essere largamente diffuso (anche allo scopo di prevenire scostamenti tra esiti dei singoli giudizi e successive variazioni dei medesimi) si inserisce – come ulteriore fattore problematico – l’emersione di resistenze idelogiche, anche in sede parlamentare, alla attuazione di strumenti di dialogo ‘preventivo’ tra le alte giurisdizioni come la vicenda della mancata ratifica del Protocollo n.16 alla Convenzione sta a dimostrare.
Come si è cercato di dire in precedenza il rispetto dei diritti fondamentali non è strumento di ingiustificata ‘riduzione’ della portata punitiva – come si è a volte propagandato - quanto esigenza primaria tesa alla stabilizzazione della dimensione cognitiva del processo, alla proporzionalità delle sanzioni, al rispetto della dignità umana.
V. Manes
Come accennato, il giudice nazionale – comune e costituzionale – ha svolto, svolge ed è destinato a esercitare un ruolo senza dubbio decisivo e, direi, non surrogabile.
Anche qui, per una ragione molto semplice: e la ragione è che l’attuazione dei diritti fondamentali, la soddisfazione delle loro aspettative di tutela, il grado di protezione agli stessi effettivamente riconosciuto, si misurano in vivo, non in vitro, e nelle frizioni e lacerazioni che gli stessi subiscono nell’attrito con i casi concreti.
I diritti fondamentali – come recita il fortunato titolo di un saggio di Alan Dershowitz, Rights from wrongs – nascono dall’esperienza dell’ingiustizia, e questa esperienza è sempre accadimento concreto, particolare, contingente e mai “acronico”, originale e talvolta unico per i contrassegni che lo caratterizzano. In altri termini, è di fronte al caso concreto – ed al cospetto della infinita varietà prismatica dei casi – che si pone il problema della loro tutela, e di prospettive di protezione sempre nuove e diverse (il che spiega anche il successo della Corte europea dei diritti dell’uomo, al cui cospetto giunge una infinita varietà di casi per il tramite di quello strumento prodigioso che è il “ricorso individuale”).
Se è così, il primo custode di queste frizioni è il giudice comune, che è anche il primo garante dell’effettività delle misure di tutela in astratto affermate e promesse con riguardo ai diversi diritti fondamentali: punto cruciale, giacché – come amava ricordare il giudice francese Pettiti – “En matière de droits de l’homme il y a un seul critère de application sérieux, c’est l’effectivité des mesures de protection”.
Solo se questo primo, nevralgico momento di controllo non opera o “fallisce”, del resto, può intervenire la protezione della Corte europea, in quel sistema di tutela dei diritti che attribuisce alla Convenzione solo un livello di protezione minimo e comune a tutti gli Stati membri (sempre da questi derogabile prevedendo più elevati standard di tutela: art. 53 CEDU); e che, soprattutto, ha nel principio di sussidiarietà un canone fondamentale (ora espressamente evocato in un Considerando finale introdotto nel Preambolo, per effetto di una modifica introdotta con il Protocollo 15, in attesa che entri in vigore per effetto della legge di ratifica ancora non pubblicata), in forza del quale si visualizza una precipua divisione di compiti tra la Corte e le Alte Parti contraenti (gli Stati) secondo il modello della shared responsiability. Una “responsabilità condivisa”, dunque, dove Stati, anche e soprattutto in sede giurisdizionale, hanno dunque un primo, fondamentale compito di tutela, rispetto al quale alla Corte EDU spetta un compito di supervisione, piuttosto che di revisione, operando come una sorta di “conscience qui sonne l’alarme” – come ebbe a definirla Pierre-Henri Teitgen – quando, appunto, a livello nazionale è stata perpetrata una violazione degli human rights, alla quale non è stato posto riparo.
Il giudice nazionale, dunque, è il primo giudice dei diritti umani, di cui è custode e garante.
In questo compito di tutela, peraltro, un ruolo altrettanto importante è svolto – è appena il caso di evidenziarlo – dall’avvocato, che non è spettatore o corifèo, ma autentico deuteragonista del giudice: può e deve stimolare in ogni momento – ponendo il problema, suggerendo i percorsi di una interpretazione conforme, sollecitando la prospettazione della questione di costituzionalità – “l’effettività della tutela dei diritti” ampliando l’orizzonte problematico e la platea delle possibili soluzioni con il “punto di vista” originale generato dal ruolo di imparziale parzialità che gli è caratteristico.
Credo che questo compito sia altrettanto decisivo, e mi sentirei di dire che di fronte a questa sfida culturale la magistratura e l’avvocatura italiana hanno dato, sino ad ora, una risposta sollecita, attenta, a tratti straordinaria, se misurata con le esperienze di altri contesti europei, di tradizione pur giuridicamente avanzata come quella italiana.
F. Viganò
Il ruolo dei giudici, comuni e costituzionali, è stato ed è davvero cruciale nel nostro paese; e parallelamente lo è il ruolo degli avvocati, che hanno la prima responsabilità di richiamare l’attenzione dei giudici alla necessità di tenere sempre in considerazione, nell’interpretazione a applicazione del diritto, le esigenze di conformità alla Costituzione e alla Convenzione.
Le strade per assicurare questa conformità sono, come è noto, almeno tre; e tutte passano per il giudice comune, autentico gatekeeper della penetrazione del diritto convenzionale nel nostro ordinamento.
La prima strada, ben nota, è quella dell’interpretazione conforme: tra più letture possibili del dato normativo, il giudice è tenuto a privilegiare quella che meglio armonizzi tanto con la Convenzione, quanto con la Convenzione.
E qui vorrei sottolineare un profilo forse non del tutto banale. La CEDU deve, certo, essere assunte dal giudice nel significato attribuitole dal “suo” giudice, la Corte di Strasburgo nella propria giurisprudenza (intendendosi con tale espressione l’insieme dei principi che si possono evincere dalle sentenze della Corte che interpretano e applicano i diritti convenzionali: tanto da quelle che concernono il nostro paese, quanto quelle che riguardano altri Stati parte). Ma, nella ricerca di una interpretazione conforme, il giudice italiano non può arrestarsi alla constatazione che la specifica questione sottoposta al suo esame non sia ancora stata decisa dalla Corte EDU, ovvero che non sussista ancora una “interpretazione consolidata” da parte di quella Corte ai sensi della sentenza n. 49 del 2015. In effetti, anche in assenza di precedenti in termini, il giudice italiano – comune e costituzionale – dovrà egli stesso interpretare la Convenzione, come giustamente sottolineato dalla sentenza n. 68 del 2017, sviluppando – se necessario in maniera originale – i principi generali enunciati dalla Corte EDU.
Qualsiasi giudice italiano deve insomma essere realmente il “primo giudice” della Convenzione: nel senso pregnante di giudice che “interpreta” e “applica” il diritto convenzionale con riferimento al caso sottoposto alla sua attenzione, contribuendo così a sviluppare lo stesso diritto convenzionale all’interno dell’ordinamento; e magari anche coltivando in cuor suo la prospettiva di innescare un dialogo fruttuoso con la stessa Corte di Strasburgo, in un processo “bottom-up” che serva a rappresentare a quella stessa Corte il punto di vista e i problemi dell’ordinamento dello Stato membro, affinché di essi tengano conto i giudici europei nella successiva elaborazione della loro giurisprudenza, poi destinata a vincolare gli Stati secondo una logica troppo spesso pensata come unicamente “top-down” (e per questo vista a volte con insofferenza da molti giuristi nostrani). Un dialogo, quello cui sto pensando, che certo potrebbe essere perseguito con maggiore effettività qualora fosse in futuro ratificato il Protocollo XVI, che prevede la possibilità di una diretta interlocuzione tra le corti supreme (comuni e costituzionali) nazionali e la Corte di Strasburgo.
La seconda strada, spesso dimenticata dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiana, è quella della diretta applicazione della CEDU e dei suoi protocolli. Una strada che – come ho scritto in numerose occasioni in passato – continua a essere praticabile (e doverosa) anche dopo le sentenze gemelle del 2007, che si sono limitate a escludere la possibilità, per il giudice comune, di disapplicare una norma nazionale contrastante con la Convenzione; ma non hanno certo inteso rimettere in discussione la possibilità, affermata dalla Cassazione sin dalla fine degli anni Ottanta con il caso Polo Castro e poi con il caso Medrano, di applicare direttamente le norme della Convenzione, incorporate nell’ordinamento interno in forza della clausola di piena e intera esecuzione contenuta nella legge n. 848 del 1955, quanto meno allorché esse vadano a inserirsi in uno spazio giuridicamente vuoto, ossia non regolato in modo antinomico dalla legge italiana. Un buon esempio, su cui varie volte ho già richiamato l’attenzione, è rappresentato a mio avviso dalla “regola Drassich”, ossia dalla regola – fissata dalla giurisprudenza della Corte EDU in sede di interpretazione dell’art. 6 CEDU – che impone al giudice penale di sollecitare una interlocuzione della difesa sulla possibile riqualificazione giuridica del fatto contestato dal p.m.: una regola la cui applicazione non richiede di disapplicare alcuna disposizione contrastante del c.p.p., e che può invece direttamente essere applicata dal giudice semplicemente ad integrazione della disciplina codicistica.
Infine, qualora non siano possibili né l’interpretazione conforme (per l’insuperabile resistenza offerta dal testo della disposizione di legge nazionale), né la diretta applicazione del diritto convenzionale (per la presenza, nell’ordinamento interno, di una legge antinomica), al giudice residuerà soltanto la terza strada: quella cioè della sollevazione di una questione di legittimità costituzionale della legge interna incompatibile con la CEDU o i suoi protocolli. Responsabile della risoluzione dell’antinomia diverrà a quel punto – ma soltanto a quel punto – la Corte costituzionale, secondo il meccanismo inaugurato dalle sentenze gemelle.
Anche qui nell’ottica di un “gioco di squadra”, in cui ciascun attore giurisdizionale – nell’ambito delle proprie attribuzioni – è chiamato ad assicurare l’attuazione dei diritti fondamentali riconosciuti assieme dalla Costituzione e dalla CEDU nell’ordinamento nazionale.
E ciò senza dimenticare – non è forse inopportuno rammentarlo – il ruolo che dovrebbe essere svolto “a monte” da un legislatore cosciente dei propri obblighi internazionali, oltre che costituzionali. Un legislatore che è in effetti più volte intervenuto, specie negli ultimi due decenni, per adeguare il sistema penale ad alcuni almeno degli obblighi convenzionali rispetto ai quali la Corte EDU aveva registrato le violazioni più significative (dalla questione dei rimedi risarcitori per l’irragionevole durata dei processi, al superamento del processo in contumacia, al contrasto al sovraffollamento carcerario, all’introduzione del delitto di tortura, etc.).
3) Quale ruolo sono destinati a giocare la Carta UE dei diritti fondamentali in materia penale rispetto alla Costituzione e alla CEDU e, con essa i giudici nazionali e quelli sovranazionali?
R. Magi
Strumento di fondamentale importanza, la Carta UE dei diritti fondamentali, tende a porsi quale primario canone interpretativo del diritto dell’Unione e a ricadere, pur con le note cautele (art.52), nella complessiva ricognizione del diritto vivente.
Di particolare interesse il riferimento espresso – in ambito penale – al principio di necessaria proporzione tra reato e sanzione (art.47 co.3), aspetto non contemplato in modo espresso nelle altre carte fondamentali, tale da rappresentare un connotato peculiare dello strumento in parola, già adoperato in talune decisioni dei giudici comuni e della stessa Corte Costituzionale.
E’ evidente che la applicazione concreta delle disposizioni richiede (art.51) l’esistenza di un atto normativo dell’Unione (ad es. la Direttiva 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio sul rafforzamento della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali ne rende applicabili i contenuti sui temi trattati) e pone il tema della compatibilità della legge interna con i contenuti della Carta, di espressa vocazione costituzionale, con tutto ciò che ne deriva tanto in termini di possibile disapplicazione delle norme interne (contrastanti con il diritto UE immediatamente applicabile, come accaduto in ambito penale in tema di disciplina della immigrazione) che di doppia pregiudizialità (Corte di Giustizia e Corte Costituzionale, secondo le indicazioni fornite nella nota decisione n.269 del 2017 di quest’ultima).
Ciò che rileva, sul piano delle opzioni concrete, è la consapevolezza del necessario orizzonte armonico delle iniziative giurisdizionali di tutela dei diritti fondamentali, nel senso che l’interprete deve porsi alla ricerca di soluzioni che, partendo dall’esame del caso, mirino alla individuazione della ‘massima espansione possibile’ della tutela (riconoscibile nell’ambito dei diversi strumenti) così come previsto dalle stesse Carte. Il controllo delle opzioni legislative e l’esame dei potenziali contrasti tra il contenuto di una legge ordinaria, esteso al modus applicativo della medesima, ed i principi espressi nelle Carte, deve inoltre porsi il problema degli effetti erga omnes della decisione, indubbiamente garantiti soltanto da interventi della Corte Costituzionale, tesi alla conformazione e all’adattamento del diritto interno.
Al contempo, non vi è dubbio che i contenuti di fondo della Carta Ue – tendenzialmente ricognitivi di principi e valori comuni con le altre Carte – fungono da strumento di limitazione e controllo dei contenuti delle norme espresse dalla istituzione europea e tendono – indubbiamente - a ricadere nelle opzioni interpretative delle disposizioni interne anche in ambiti non espressamente regolati dal diritto dell’unione, in virtù di quella sensibilità ai valori di fondo che guida la ricostruzione sistematica del ‘diritto’ applicabile.
Anche in questo caso, pertanto, la questione resta, come si è detto in precedenza, di orientamento culturale, con tutti i limiti già evidenziati.
Le indicazioni in tema di proporzionalità e funzionalità delle limitazioni ai diritti fondamentali della persona – legittime in quanto utili alla tutela dei valori della convivenza democratica – dovrebbero guidare costantemente l’operato dei giudici e non dovrebbero essere estranee alle iniziative degli organi dell’accusa pubblica.
V. Manes
Anche in questo caso mi pare che la risposta sia in gran parte anticipata dalla law in action, e da orientamenti giurisprudenziali che – a tutti i livelli, della giurisprudenza comune, di legittimità, costituzionale – ha riconosciuto e via via riconosce sempre più uno spazio importante alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE (CDFUE), che del resto si è vista attribuire lo stesso valore giuridico dei Trattati ed è stata dunque trasformata in written primary law, con tutto il suo consistente elenco di diritti e di libertà (ed anche di garanzie precipuamente penalistiche: artt. 47-50), che quindi possono operare non solo come strumento interpretativo, ma anche come nuova leva per il meccanismo della disapplicazione.
Due considerazioni, al riguardo.
La prima è che – non diversamente da quanto accaduto con la Convenzione EDU, per molti anni apparsa un semplice deja vu al cospetto della Costituzione democratica del 1948, sostanzialmente coeva –, l’apporto di originalità, già indubbiamente significativo, dipenderà ovviamente dalla interpretazione evolutiva che – anche grazie al “dialogo” con i giudici nazionali ed allo strumento offerto dal “rinvio pregiudiziale” – la Corte di Giustizia vorrà e saprà offrire con riguardo ai singoli diritti, concretizzandone volta a volta la portata precettiva e specificando le implicazioni assiologiche, ed “e-nucleando” i sotto-principi e i corollari che dalla singola disposizione volta a volta considerata potranno essere desunti. Volendo fare un paragone, è appena il caso di ricordare che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, come si sa, è stata estremamente prolifica e “creativa” in questa opera di continua ricognizione, giungendo spesso a promuovere interpretazioni molto distanti dal testo della Convenzione, sino a ricavare – ed è solo un esempio – dall’art. 7 CEDU il canone della lex mitior (Scoppola) o l’esigenza che tra autore e fatto vi sia un “lien de nature intellectuel” (Sud Fondi), in linea del resto con la sua natura di “living instrument”, “strumento vivente” proprio perché aperta ed aggiornata attraverso l’“interpretazione evolutiva” che la Corte stessa offre, facendo peraltro ormai ampio uso della stessa CDFUE.
La seconda considerazione è che il “campo gravitazionale” della Carta tenderà, verosimilmnete, ad ampliarsi sempre più, anche in materia penale: non solo e non tanto in forza di “generose” interpretazioni – specie da parte della Corte di Lussemburgo – del principio secondo il quale le disposizioni della stessa “[…] si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione” (art. 51 CDFUE); quanto in ragione della natura trasversale ed ubiquitaria dei diritti fondamentali che sono naturaliter messi a repentaglio al cospetto della sanzione criminale e/o nel processo penale – contesti come si diceva estremamente rights-sensitive –, ed in ragione, soprattutto, di atti di armonizzazione che ormai hanno ad oggetto garanzie fondamentali che a fatica si lasciano ridurre e circoscrivere all’ambito del diritto UE (l’esempio è proprio la Direttiva 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio sul rafforzamento della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali); senza contare l’effetto di “traino” che la prossima operatività della Procura europea (EPPO) potrebbe implicare, alimentando un sempre maggior ricorso alla Carta ed alle interpretazioni dei giudici del Kirschberg.
In questa cornice, il problema sarà dunque quello della c.d. sovrapposizione di tutele (c.d. overlapping protection) e della concorrenza tra le diverse Carte dei diritti (Costituzione, CEDU, CDFUE) e le diverse interpretazioni, che non sempre sono convergenti o armoniche (come testimoniano le oscillazioni in tema di ne bis in idem) e che dunque possono preludere ad applicazioni diseguali, specie in sede diffusa, dove al giudice comune può offrirsi – come si è visto – una platea di opzioni diverse davvero notevole: e questa è anche la ragione per la quale, credo, la Corte costituzionale ha cercato di avocare a sé un compito preliminare di controllo (a partire dal celebre e molto discusso obiter dictum della sentenza n. 269 del 2017) che però non è certo “escludente” nei confronti del giudice comune e che peraltro la stessa Corte – credo vada riconosciuto – non stenta a condividere con la Corte di giustizia, ove necessario (ne sono prova i rinvii pregiudiziali disposti con l’ordinanza n. 24 del 2017, nel caso Taricco, così come con l’ordinanza n. 117 del 2019, in tema di nemo tenetur se detegere).
Anche di fronte a questa ulteriore sfida aperta dal “sistema integrato di tutele” in materia di diritti fondamentali, alcuni strumenti di gestione e soluzione dei possibili conflitti sembrano offerti da alcune clausole sistematiche, che riconoscono sempre preminenza al maggior standard di tutela eventualmente riconosciuto in sede domestica (in forza del “principio di vantaggiosità” o Günstigkeitsprinzip: art. 53 CEDU e art. 53 CFDUE), e soprattutto – sul piano del metodo – sono rappresentati da una direttrice di marcia già da tempo indicata dalla Corte costituzionale quando ebbe ad affermare – in un caso che, al cospetto con la Convenzione EDU, prospettava delicati bilanciamenti tra diritti e valori fondamentali apparentemente confliggenti – che “[…] il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti” (sentenza n. 317 del 2009).
F. Viganò
Ho sin qui parlato solo della CEDU, ma è vero che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea è ormai divenuta anch’essa un punto di riferimento obbligato per il giudice italiano, nella definizione degli standard di tutela dei diritti fondamentali.
E ciò almeno da un duplice punto di vista.
Anzitutto, i diritti riconosciuti dalla Carta sono vincolanti per tutte le autorità dello Stato membro – e dunque, in primis, per i suoi giudici, comuni e costituzionali (e salva naturalmente la possibilità di opporre ad essi i controlimiti) – all’interno dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 51 della Carta.
Ma anche al di fuori di tale ambito di applicazione, i diritti della Carta – e la loro interpretazione ad opera del “loro” giudice, la Corte di giustizia – sono naturalmente destinati ad assumere la funzione di strumenti che ispirano l’interpretazione delle parallele garanzie costituzionali, arricchendone e illuminandone il significato; e ciò anche a evitare il risultato di una applicazione “a macchia di leopardo” di diversi standard di tutela dei diritti fondamentali tra le (sempre più numerose) materie armonizzate dal diritto dell’UE e tutte le altre – una situazione, questa, che non potrebbe che sollevare gravi interrogativi, al metro del generalissimo principio di eguaglianza ex art. 3 Cost.
Anche rispetto all’integrazione della Carta nell’ordinamento nazionale, d’altra parte, il ruolo cruciale è stato sinora svolto – e sarà verosimilmente svolto in futuro – proprio dai giudici, a ciò sollecitati da una classe forense che mi auguro sarà sempre più attenta anche a questa nuova dimensione di tutela.
Ancora una volta un ruolo da protagonista spetta, in questo ambito, al giudice comune, chiamato ad interpretare e applicare la Carta nei casi sottoposti al suo esame e a interpretare le norme nazionali in maniera conforme alla Carta stessa. E va in proposito rammentato che le stesse disposizioni della Carta debbono essere intese, ai sensi dell’art. 52(3) CDFUE, come incorporanti le corrispondenti garanzie riconosciute dalle norme della Convenzione europea, secondo l’interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo; garanzie, queste ultime, che costituiscono dunque lo standard minimo di tutela dei diritti della Carta, senza pregiudizio per la possibilità di quest’ultima di stabilire un livello di tutela più elevato (art. 53 CDFUE). L’acquis convenzionale entra dunque nella Carta, e di qui “passa” nell’ordinamento degli Stati membri, con il rango caratteristico – e la forza giuridica – del diritto primario dell’Unione.
Ma un ruolo importante può essere ora giocato, in questo processo di integrazione delle garanzie della Carta nell’ordinamento interno, anche dalla Corte costituzionale, che nella sentenza n. 269 del 2017 ha affermato la propria competenza a esaminare – sotto il duplice profilo degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – le questioni di compatibilità tra norme di legge nazionali e i diritti riconosciuti dalla Carta; competenza poi di fatto esercitata in numerose occasioni successive, ben note ai lettori di questa rivista.
Proprio l’esperienza recente della Corte costituzionale mostra come questa integrazione possa svolgersi anche attraverso un dialogo diretto con la Corte di giustizia, attraverso il duttile strumento del rinvio pregiudiziale, attivato recentemente con le ordinanze n. 117 del 2019 e n. 182 del 2020, entrambe aventi a oggetto disposizioni della Carta, dalla cui interpretazione la Corte costituzionale ha ritenuto dipendesse la risoluzione della questione di legittimità costituzionale a lei sottoposta.
Il tutto nell’ottica di ricerca di standard minimi comuni, a livello europeo, di tutela dei diritti fondamentali. Standard comuni che, conviene ripeterlo a evitare fraintendimenti, sono non già funzionali a un abbassamento delle tutele già riconosciuti a livello nazionale dalle singole costituzioni, ma anzi a un innalzamento di tali tutele, ogniqualvolta lo standard nazionale non sia adeguato a quello minimo europeo.
4.Le repliche
Francesco Viganò
Le risposte di Vittorio Manes e Raffaele Magi sono in pressoché totale consonanza con lo spirito che anima anche le mie osservazioni: sicché non ho molto da aggiungere o da chiosare rispetto ai loro interventi, come sempre acutissimi.
Mi limito, allora, a segnalare come la sentenza Consob della Corte di giustizia, pubblicata lo scorso martedì 2 febbraio in risposta al rinvio pregiudiziale formulato dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 117 del 2019, si inserisca benissimo nel quadro che tutti e tre abbiamo cercato di delineare.
Il nostro rinvio pregiudiziale – che a sua volta aveva tratto spunti decisivi dalla pregevole ordinanza della Corte di cassazione che aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale, oltre che dai contributi di rimarchevole spessore offerti in giudizio dalle parti – poneva alla Corte di giustizia il tema della possibile applicazione del ‘diritto al silenzio’, o privilege against self-incrimination, all’ambito dei procedimenti amministrativi sanzionatori di natura ‘punitiva’, come quello oggetto del giudizio a quo.
E lo faceva a fronte di norme di diritto derivato, fedelmente trasposte dal legislatore italiano, che sembravano imporre di sanzionare ogni condotta di mancata cooperazione con le indagini della Consob, inclusa quella del rifiuto di rispondere a domande dalle quali sarebbe potuta emergere una responsabilità del soggetto per un illecito sanzionabile dalla stessa Consob. Un tale obbligo era apparso alla Corte di cassazione, e poi alla stessa Corte costituzionale, di problematica compatibilità con il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., così come ai principi del “giusto processo” e della presunzione di innocenza posti dall’art. 6 CEDU e dagli artt. 47 e 48 della Carta; e su questa base la Corte costituzionale aveva tra l’altro chiesto alla Corte di giustizia se quelle norme di diritto derivato fossero interpretabili in maniera conforme ai diritti in questione, sì da escludere l’obbligo di sanzionare chi si sia rifiutato di rispondere a domande dalle quali sarebbe potuta emergere la propria responsabilità.
In tal modo, la Corte italiana non si era limitata a opporre alle norme UE un diritto fondamentale riconosciuto dalla propria tradizione costituzionale nazionale – il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., peraltro sinora mai applicato nella declinazione qui in discussione a procedimenti sanzionatori amministrativi –; ma aveva sollecitato la Corte di giustizia a riconoscere essa stessa tale diritto fondamentale, sulla base di una lettura della Carta conforme, assieme, alla Convenzione europea e alle tradizioni costituzionali comuni. E la Corte, come abbiamo potuto constatare martedì scorso, ha raccolto questa sollecitazione, riconoscendo anzitutto come proprio – con valenza nell’intero spazio giuridico dei 27 Stati membri – questo diritto fondamentale.
Un proficuo esempio, direi, di dialogo tra le Corti: secondo un modello assai distante, mi pare, dalla prospettiva di una passiva ricezione di responsi oracolari di Strasburgo o di Lussemburgo ad opera delle Corti nazionali, e orientato piuttosto a far sentire la voce dei giudici nazionali nell’opera collettiva di graduale costruzione e rafforzamento di un diritto comune dei diritti fondamentali in Europa.
.
V. Manes
Condivido pienamente la valutazione che di questa importante sentenza ha dato Francesco Viganò, perché mi pare che essa testimoni come e quanto la “fertilizzazione incrociata” tra i vari sistemi di tutela possa alimentare i livelli di protezione, avvicinandosi al maximum standard, ma ancor prima di quanto le cross constitutional influences possano attivare la potenzialità assiologica di principi che - pur vantando ascendenze antiche - sono per qualche ragione rimasti in ombra, o sedati in una sorta di “letargo giuridico” nel singolo ordinamento, e che il contatto con nuove prospettive di inquadramento e con l’originalità del caso concreo conduce ad una rinascita, talvolta quasi una sorta di “epifania” o di “sudden revelation”.
E’ stato così, del resto, per il ne bis in idem, canone tralatizio che ha visto erompere le proprie potenzialità assiologiche al contatto con una concatenazione di nuove prospettive ermeneutiche: a partire dalla grande sentenza armonizzatrice della Corte EDU Zolothoukin c. Russia (Corte EDU, Grande Camera, 10 febbraio 2009) la polarizzazione del divieto di duplicazione della sofferenza legale sul concetto di idem factum, sollecitata appunto dall’esigenza di assicurare alla garanzia in rilievo una tutela “non virtuale e astratta ma effettiva e concreta”, ha condotto ad emancipare il principio – per usare le parole della nostra Corte costituzionale (sent. n. 200 del 2016) – dal “giogo dell’inquadramento giuridico”, liberando le sue potenzialità di tutela oltre gli steccati asfittici del rapporto formale tra norme; su queste basi, poi, il contatto con il concetto antiformalistico di “materia penale” ha permesso di smascherare “ingorghi punitivi” soprattutto nei contesti dove si registravano – e si registrano – indebite sovrapposizioni tra diritto penale e diritto amministrativo punitivo (c.d. double track), puntualmente registrate da celebri decisioni concernenti anche l’Italia (Grande Stevens). Questi approdi, non senza qualche oscillazione, hanno condotto il ne bis in idem a rivendicare una pretesa di affermazione non solo nella dimensione processuale di “divieto di doppio procedimento” ma nella dimensione tutta sostanziale di divieto di “doppia punizione” per un medesimo fatto storico, ancorché all’interno di un medesimo procedimento: strada aperta anche da recenti studi ed ancora largamente da percorrere, che promette di raggiungere nuovi traguardi garantistici contro indebite eccedenze sanzionatorie incompatibili con il principio di proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio.
E così pure sembra essere accaduto con il principio del nemo tenetur se detegere, giustamente ravvisato come proiezione essenziale del diritto di difesa e del “processo equo”, su cui convergono ormai – ora espressamente, ora implicitamente - le diverse Carte dei diritti e la giurisprudenza della rispettive “vestali”: alla preziosa sollecitazione della Corte costituzionale con l’ordinanza n. 117 del 2019, che con ricche argomentazioni ne prospettava la sua estensione all’universo dei procedimenti “punitivi” amministrativi, la Grande Sezione della Corte di giustizia sembra aver dato una risposta all’altezza delle aspettative, superandole persino, forse, visto che si giunge anche ad affermare che “Il diritto al silenzio non può ragionevolmente essere limitato alle confessioni di illeciti o alle osservazioni che chiamino direttamente in causa la persona interrogata, bensì comprende anche le informazioni su questioni di fatto che possano essere successivamente utilizzate a sostegno dell’accusa ed avere così un impatto sulla condanna o sulla sanzione inflitta a tale persona” (§ 40).
In definitiva, il raggio di azione della garanzia - all’esito di questa preziosa interlocuzione e di questa autentica cross-fertilization “tra Carte e Corti” - risulta evidentemente ampliarsi, non diversamente di quanto accaduto per il ne bis in idem, e dovrebbe dunque consentire di assoggettare alla tutela del nemo tenetur ogni ipotesi di infrazione che sia generata - tanto nel contesto formalmente penale quanto nel policromo universo “para-penale” - dall’impellente esigenza di non autoincriminarsi e dalla inesigibilità di una self-incrimination, non solo “schermandolo” da eventuali sanzioni per aver esercitato il proprio “diritto al silenzio” e/o per aver rifiutato di fornire informazioni, ma anche in relazione ad eventuali omissioni informative che seguano ad una prima, originaria infrazione che l’autore abbia commesso, a cui appunto seguano – come pendant di quelle successive omissioni informative - ulteriori infrazioni della legge penale in qualche modo “necessitate”, ma non “rimproverabili” se non a pena di non svilire, appunto, il diritto di difesa.
Il processo amministrativo “emergenziale” alla prova della giurisprudenza amministrativa.
di Veronica Sordi
L’emergenza epidemiologica da COVID-19 impone di derogare – ancora – allo svolgimento ordinario del processo amministrativo, oggi regolato dall’art. 25 d.l. n. 137/2020, convertito nella l. 18.12.2020 n. 176 recante “Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19”.
Tale disciplina “eccezionale” ha trovato un’applicazione non sempre uniforme da parte dei giudici amministrativi, i quali, come evidenziato nel precedente scritto sul tema[1], sembrano mostrare sensibilità diverse nell’interpretazione delle norme regolative del giudizio amministrativo emergenziale.
L’esame della giurisprudenza sull’applicazione dell’art. 25 cit. impone di operare un distinguo tra le pronunce che:
- danno un’applicazione rigorosa della disposizione de qua, evidenziando la perentorietà dei termini ivi previsti per la proposizione della richiesta di discussione orale da remoto della controversia, considerando tardiva e dunque non accoglibile l’istanza presentata oltre i suddetti termini;
- respingono l’opposizione alla richiesta di discussione da remoto motivata sulla necessità che la trattazione della causa avvenga in presenza;
- accolgono la richiesta di trattazione da remoto seppure tardiva, in quanto ritengono la discussione “necessaria”;
- rimettono in termini la parte che abbia tardivamente proposto l’istanza di discussione, riconoscendo a essa l’errore scusabile;
- respingono l’istanza di discussione, in quanto non formulata in uno specifico atto;
- rigettano la richiesta di discussione, in quanto ritengono sufficiente il deposito delle note di udienza;
- evidenziano l’alternatività tra la richiesta di discussione orale e il deposito di note d’udienza;
- si pronunciano sul termine di deposito delle note di udienza;
- applicano il principio di sinteticità anche alle note d’udienza;
- rigettano l’opposizione alla richiesta di discussione formulata assieme alla dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse, stante la necessità di garantire il contraddittorio della parte che abbia presentato richiesta di discussione orale su tale dichiarazione di carenza di interesse;
- individuano la trattazione mediante modalità telematica una “risorsa tecnologica scarsa” da impiegare nei soli casi in cui la discussione sia imposta dalla legge o sia indispensabile ai fini della decisione della controversia.
Procedendo con ordine nella trattazione, occorre rilevare che in numerose fattispecie[2] , il g.a. ha rigettato l’istanza di discussione in quanto la medesima era stata depositata tardivamente rispetto al temine “perentorio” di venti (o nei riti abbreviati, dieci[3]) giorni liberi antecedenti l’udienza pubblica di discussione (ergo nel termine di deposito delle memorie di replica) ovvero oltre quello di cinque giorni prima dell’udienza fissata per la trattazione cautelare della controversia (come previsto dall’ art. 4, comma 1, del decreto legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito in legge 25 giugno 2020, n. 70, richiamato dall’art. 25 del decreto legge 28 ottobre 2020, n. 137).
In particolare, il giudice, nel respingere la suddetta richiesta, ha evidenziato:
- “il chiaro tenore testuale della norma (.. alla luce del paragrafo 4 delle linee guida del Presidente del Consiglio di Stato in data 25 maggio 2020, nonché del § 1 del protocollo d’intesa in data 26 maggio 2020)”;
- che “la previsione di tale termine risponde sia ad esigenze organizzative dell’organo giurisdizionale – al fine di poter conoscere preventivamente il numero di cause per le quali è chiesta la discussione da remoto e di conseguentemente programmare le fasce orarie di chiamata da comunicare ai difensori – sia, e principalmente, ad esigenze di tutela del diritto di difesa delle controparti, le quali devono essere poste in grado di conoscere per tempo le modalità di svolgimento della trattazione della causa al fine di calibrare adeguatamente i propri comportamenti processuali e le relative scelte, altrimenti alterandosi la garanzia del pieno e paritario contraddittorio”;
- nonché la circostanza che non fossero state “allegate dalla parte istante pertinenti, eccezionali e comprovate ragioni idonee a consentire la deroga del termine”[4].
Dalla lettura dei provvedimenti esaminati, emerge, quindi, che, in presenza di una richiesta di discussione presentata tardivamente, il giudice valuta se la parte abbia rappresentato “impedimenti eccezionali” (che abbiano reso impossibile la rituale presentazione dell’istanza), o esigenze relative a “vicende sopravvenute alla scadenza del termine per la formulazione” della medesima[5], tali da giustificare il ritardo nella presentazione della suddetta istanza e da consentire comunque la discussione orale della controversia. In assenza di simili circostanze, il giudice non ha accolto la richiesta di discussione orale, motivando nel senso che “le medesime ragioni di tutela dell’integrità del contraddittorio processuale e del diritto di difesa di tutte le parti non consentono di superare la tardività dell’istanza attraverso l’adozione di un decreto che disponga comunque e d’ufficio la discussione da remoto della causa, stante la mancanza di un congruo termine di preavviso per le controparti”[6].
Interessante è poi il provvedimento[7] con il quale il g.a. ha rigettato l’opposizione alla discussione da remoto, motivata sulla necessità che la trattazione della causa avvenisse in presenza. In particolare, il giudice, dopo aver dato atto del fatto che (i) “ratione temporis, l’unica possibilità di discussione contemplata e ammessa dall’ordinamento è quella con collegamento da remoto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 4, comma 1, d.l. n.28 del 2020 e 25, comma 1, d.l. n.137 del 2020” e che (ii) “a fronte di una disciplina positiva che contempla, in via straordinaria e temporanea, il collegamento da remoto come unica modalità di svolgimento della discussione orale, resta preclusa all’interprete ogni opzione interpretativa che, invece, ammetta la discussione in presenza, da intendersi quale possibilità esclusa, implicitamente, ma chiaramente, dalla citata normativa di riferimento (in ragione del suo carattere completo ed esauriente)”, ha ritenuto che neppure l’affermata delicatezza della questione da discutere potesse in alcun modo autorizzare la (sostanziale) disapplicazione della disciplina che prevede la sola discussione da remoto, stante la “dichiarata e sperimentata idoneità ad assicurare l’integrità del contraddittorio”.
In altre ipotesi[8], invece, dinanzi a richieste presentate tardivamente, il giudice ha comunque ritenuto “necessario” disporre la discussione da remoto della controversia, senza null’altro aggiungere, salvo il caso in cui ha espressamente affermato che “la delicatezza della materia consent[e] al Presidente di ammettere le parti alla discussione da remoto, avvalendosi dei poteri riconosciutigli dalla legge”[9].
Diversamente, in altri casi, il giudice ha accolto l’istanza di rimessione in termini della parte ai fini della discussione della controversia, affermando che “le ragioni addotte a sostegno della richiesta”[10] così come “la denunciata difficoltà tecnica di perfezionamento dell’istanza di discussione da remoto, tempestivamente formulata”[11] integrano gli estremi dell’errore scusabile, ai sensi dell’art. 37 c.p.a., e impongono la rimessione in termini dell’appellante ai fini della richiesta di discussione da remoto, alla luce del combinato disposto degli artt. 4, comma 1, d.l. n.28 del 2020 e 25, comma 1, d.l. n. 137 del 2020.
Preme, ora, segnalare quelle pronunce che hanno respinto la richiesta di discussione da remoto in ragione delle modalità in cui la medesima istanza era stata proposta.
In particolare, il TAR Emilia-Romagna, Bologna, ha respinto la richiesta di discussione formulata tramite la mera allegazione nel modulo telematico di deposito del documento, rilevando che essa fosse “genericamente delineata, senza specifica indicazione dei profili di fatto o di diritto” e che nella specie “il ricorso [fosse] ampiamente argomentato e si dipana[sse] nell’arco di 39 pagine, con numerosi documenti allegati”, di talché la causa potesse passare in decisione senza discussione orale[12].
Il Tar Sicilia, Catania,[13] ha respinto la richiesta di trattazione da remoto inserita dalla parte ricorrente nella memoria di replica, in quanto non formulata “con specifico atto separato e perché non … proposta congiuntamente da tutte le parti costituite”. Rispetto a tale ultima affermazione occorre tuttavia precisare che vero è che l’art. 4 d.l. 28/2020 (richiamato dall’art. 25 d.l. 137/2020) dispone che “L'istanza [di discussione] è accolta dal presidente del collegio se presentata congiuntamente da tutte le parti costituite”, ma la medesima disposizione prevede altresì che “negli altri casi, il presidente del collegio valuta l'istanza, anche sulla base delle eventuali opposizioni espresse dalle altre parti alla discussione da remoto. Se il presidente ritiene necessaria, anche in assenza di istanza di parte, la discussione della causa con modalità da remoto, la dispone con decreto”. Pertanto, è chiaro che il giudice ben possa disporre la trattazione orale da remoto della controversia, oltre che in assenza di richiesta in tal senso di tutte le parti costituite, anche nel caso in cui la medesima istanza – come visto[14] – sia presentata oltre i termini di legge[15].
Per quanto concerne la questione della proposizione di siffatta richiesta tramite specifico atto separato, merita segnalare il fatto che il regime delle relative modalità di proposizione è mutato nel corso del periodo emergenziale.
Invero, originariamente, ai sensi dell’art. 5 dell’Allegato 3 al Decreto del Presidente del Consiglio di Stato 22 maggio 2020 n. 134[16], la richiesta di trattazione orale da remoto poteva essere presentata, in ossequio al principio delle libertà delle forme[17], anche nel corpo del testo del ricorso introduttivo (o in altro scritto difensivo).
In un secondo momento, mediante un’apposita Comunicazione del Segretariato Generale della Giustizia amministrativa dell’11novembre 2020[18] (pubblicata in GU n. 289 del 20.11.2020) agli avvocati delle Amministrazioni e del libero Foro, è stato invece precisato che simile istanza doveva essere proposta con “atto separato – e non in seno al ricorso o ad altro scritto difensivo”.
Tale impostazione è stata – finalmente – “cristallizzata” in un “ufficiale” provvedimento del Segretariato Generale della Giustizia amministrativa del 28.12.2020, recante “Regole tecnico-operative per l'attuazione del processo amministrativo telematico, nonché per la sperimentazione e la graduale applicazione dei relativi aggiornamenti” (pubblicato in GU. n. 7 dell’11.1.2021 e sul sito web della Giustizia Amministrativa – soltanto – dal 21.1.2021), il quale ha definitivamente espunto dal testo dell’art. 5, co. 1[19], del citato Allegato 3 del decreto de quo (versione aggiornata) il riferimento all’eventualità in cui la richiesta di discussione orale venga proposta con “atto separato e non in senso al ricorso o ad altro scritto difensivo”, imponendo, quindi, che la richiesta di trattazione da remoto venga fatta (solo) mediante apposito atto separato.
Sotto altro profilo, occorre segnalare il decreto[20] con il quale lo stesso TAR Catania ha respinto l’istanza di discussione da remoto proposta dal ricorrente, ritenendo che le note d’udienza fossero “parimenti, se non più efficaci, rispetto alla trattazione orale”. In particolare, ha evidenziato che “la trattazione scritta della controversia mediante note d’udienza, invero, a dispetto di quanto talora ritenuto, non costituisce affatto una “deminutio” del contraddittorio rispetto alla discussione orale, sia perché essa consente non di rado una più meditata ed incisiva esposizione dei propri argomenti difensivi, sia perché “verba volant, scripta manent”, sia perché l’organo giudicante ha il preciso dovere di esaminare con il massimo scrupolo ogni scritto o documento versato in atti dalle parti”. Infine, il giudice, condividendo le argomentazioni formulate dall’Amministrazione resistente nella relativa opposizione alla richiesta di discussione da remoto, ha concluso affermando che la controversia (già ampiamente dibattuta) potesse essere utilmente e ulteriormente trattata tramite scritti difensivi “apparendo l’udienza da remoto, nel caso di specie, una inutile complicazione del lavoro processuale delle stesse parti e dell’organo giudicante, anche tenuto conto della difficoltà nel rispettare gli orari di discussione prefissati e del conseguente dispendio di tempo, in attesa della chiamata, per i difensori impegnati nel giudizio”.
Sempre sul rapporto tra trattazione orale da remoto e note d’udienza[21], si segnala il provvedimento con il quale il giudice amministrativo ha chiarito che nel caso in cui le parti, per il tramite dei relativi difensori partecipino alla discussione telematica, le note d’udienza dalle medesime depositate devono essere oggetto di una declaratoria di “inutilizzabilità”, in quanto trattasi di “strumento che è configurato dall’art. 4 d.l. n. 28/2020 (richiamato dall’art. 25 d.l. n. 137/2020) come facoltà difensiva alternativa a quella della discussione orale”.
Pure l’utilizzo delle note d’udienza, in alternativa alla trattazione orale della causa, ha destato perplessità applicative, soprattutto per quanto concerne l’individuazione del termine entro cui le stesse debbano essere depositate dalle parti. Tale questione è stata oggetto di una recente ordinanza del CGARS[22], che ha precisato che (i) secondo quanto prescritto dall’art. 4, comma 1, penultimo periodo, d.l. 28/2020, le note d’udienza depositate oltre le ore 12 del giorno antecedente l’udienza sono tardive; (ii) “il momento ultimo delle ore 12 del giorno antecedente l’udienza deve essere inteso come mezzogiorno (ossia 21 ore prima dell’udienza) e non come mezzanotte, perché questa seconda interpretazione non consentirebbe al Collegio di prendere visione dei depositi in tempo utile per l’udienza)” e infine che (iii) “il termine delle ore 12 del giorno antecedente l’udienza riguarda sia le note di udienza che le istanze di passaggio in decisione menzionate nell’art 4, d.l. n. 28/2020, al fine della fictio iuris della presenza in udienza”[23].
Merita altresì di essere attenzionata l’ordinanza[24] che ha dichiarato l’inammissibilità e la conseguente inutilizzabilità delle note d’udienza di 42 pagine. Il giudice ha evidenziato che siffatta “facoltà difensiva”, intervenendo a ridosso dell’udienza (entro le ore 12 del giorno anteriore alla stessa) e aggiungendosi all’atto introduttivo e alle memorie, quale ultimo presidio del diritto di difesa prima dell’udienza, deve “rispettare il canone di sinteticità (e ragionevolmente non [può] eccedere le tre-quattro pagine) e non [può] assolvere alla funzione sostanziale della “memoria” con una elusione del termine di deposito di quest’ultima (che nella specie, scadeva il giorno 11.1.2021 alle ore 12 antimeridiane), pena la violazione del contraddittorio e un vulnus quanto all’approfondimento collegiale della causa”. Nella specie, quindi, il g.a. ha ritenuto le note d’udienza così formulate “utili solo come istanza di passaggio in decisione al fine della fictio iuris della presenza del difensore in udienza”.
Si segnala ancora il decreto[25] con cui il giudice ha rigettato l’opposizione della parte ricorrente alla richiesta di discussone da remoto del controinteressato, poiché, trattandosi di un’opposizione presentata insieme alla dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse (e quindi successivamente all’istanza di trattazione da remoto della controparte), era necessario assicurare il contraddittorio del controinteressato sulla suddetta dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse.
Occorre infine richiamare il decreto[26] che, nell’ambito di un giudizio d’appello nel quale era stata richiesta in via cautelare la sospensione degli effetti della sentenza impugnata, ha respinto l’istanza di discussione orale formulata dalla parte intimata, essendo intervenuta nel giorno successivo alla presentazione di essa la rinuncia dell’appellante alla domanda cautelare. In particolare, il g.a. ha evidenziato che, essendo venute meno le ragioni per la discussione della causa, “è preferibile riservare l’impiego di una risorsa tecnologica scarsa (indispensabile per la realizzazione della discussione da remoto) ai soli casi in cui tale adempimento è previsto come obbligatorio ope legis ovvero indispensabile ai fini della decisione (cfr. sul punto il § 4 delle linee guida del Presidente del Consiglio di Stato in data 25 maggio 2020, nonché e il § 5 del protocollo d’intesa in data 26 maggio 2020)”.
I provvedimenti esaminati, che sotto diversi profili mostrano le complessità applicative dell’attuale disciplina del processo amministrativo, impongono una riflessione: se da un lato, come visto già in altre occasioni[27], il principio dell’oralità – originariamente frustrato dalla regolamentazione emergenziale[28] – , sembra oggi trovare la sua espressione nella (sia pure circoscritta) trattazione orale da remoto, dall’altro lato, è evidente che il principio di pubblicità del processo, quale “forma di garanzia non comprimibile nei riguardi degli effettivi titolari degli interessi in giuoco … e dell’intera collettività”[29] sia, invece, totalmente derogato[30].
Senza entrare nel merito delle conseguenze di siffatta scelta legislativa, in questa sede preme solo ricordare che il valore della pubblicità del processo, sebbene abbia un’indubbia e innegabile centralità, anche alla luce delle disposizioni e della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, non è stato tuttavia mai esplicitamente costituzionalizzato (né ab origine, né tramite la riforma costituzionale di cui alla legge costituzionale n. 2 del 1999[31]), proprio in quanto ritenuto, anche dalla migliore dottrina processualcivilistica, privo di precettività assoluta[32].
Non risultano, quindi, contrarie allo spirito e alla lettera costituzionale limitazioni all’operatività di siffatto principio, soprattutto nel caso in cui la relativa compressione sia giustificata dall’esigenza, come quella attuale, di salvaguardare preminenti valori costituzionali[33], primo fra tutti quello alla salute.
***
[1] V. Sordi, “Ancora dubbi applicativi sulla (nuova) disciplina della discussione orale da remoto dettata dall’art. 25 d.l. n. 137/2020”, 2 dicembre 2020, in questa Rivista.
[2] Cons. St., IV, 15.12.2020, n. 7195; Id., 23.11.2020, nn. 1881, 1880, 1879; Cons. St., III, 10.11.2020, n. 1788; Id., 7.12.2020, n. 2153; TAR Sicilia, Catania, II, 14.12.2020, n. 5406; Id., 10.12.2020, n. 5378; Id., 30.11.2020, n. 5264; Id., 16.11.2020, nn. 5020, 5019; Id., 13.11.2020, n. 4993; Id., 22.1.2021, nn. 57, 58; TAR Catania, III, 11.12.2020, n. 5380; TAR Lazio, Roma, I, 11.12.2020, nn. 4366, 4365; Id., 30.11.2020, n. 3920; Id., 27.11.2020 nn. 3846, 3854, 3844, 3843; Id., 15.12.2020, 4512; Id., 11.12.2020, n. 4367; TAR Lazio, Roma, II-bis, 19.11.2020, n. 3498; Id., 17.11.2020, nn. 3440, 3439, 3438; Id., 16.11.2020, n. 3437; Id., 10.11.2020, n. 3414; TAR Lazio, Roma, II, 9.12.2020, n. 4338, TAR Emilia Romagna, Bologna, 25.1.2021, nn. 30, 31; Id., 11.1.2021, n. 12.
[3] A tal proposito si segnala il CGARS, 8.1.2021, n. 6, il quale ha respinto l’opposizione alla richiesta di trattazione da remoto motivato sull’asserita tardività di siffatta istanza, in quanto formulata nei 10 giorni liberi antecedenti all’udienza di merito (invece che nei 20 giorni liberi prima previsti per il deposito delle memorie di replica). Nella specie, il giudice, dopo aver rilevato che alla controversia dovessero essere applicati i termini del rito di cui all’art. 120 c.p.a. e che conseguentemente il termine per il deposito delle memorie di replica fosse di 10 giorni liberi prima dell’udienza di merito, ha accolto la richiesta di discussione in quanto ritenuta tempestivamente formulata.
[4] In questi termini, si rinvia a TAR Lazio, Roma, II, 9.12.2020, n. 4338, Id., II-bis, 19.11.2020, n. 3498; Id., 17.11.2020, nn. 3440, 3439, 3438; Id., 16.11.2020, n. 3437.
[5] Cons. St., III, 10.11.2020, n. 1788.
[6] TAR Lazio, Roma, II-bis, 11.1.2021, n. 16.
[7] Cons. St., II, 15.1.2021, n. 24, il quale precisa peraltro che “non si ravvisano ragioni (di ordine giuridico o tecnico) per smentire l’assunto dell’equivalenza della discussione orale da remoto, rispetto a quella in presenza, quanto alla sua capacità di salvaguardare in maniera adeguata l’esercizio dei diritti di difesa e la pienezza della dialettica processuale”.
[8] Cons. St., III, 7.12.2020, n. 2148; TAR Lazio, Roma, I, 7.1.2021, n. 14; Id., 21.1.2021, nn. 150, 151.
[9] In questi termini Cons. St., 2148/2020 cit.
[10] Cons. St., II, 10.11.2020, n. 1778.
[11] Cons. St. II, 9.11.2020, n. 6444.
[12] TAR Emilia Romagna, Bologna, II, 8.1.2021, n. 2. Si segnala peraltro che lo stesso TAR (Sez. I, decr. 31.12.2020, n. 503) ha invece ritenuto di dover valutare (salvo rigettarla nel merito per mancanza dei presupposti!) un’istanza di tutela cautelare monocratica mai presentata per il solo fatto che la parte ricorrente avesse “flaggato” nel modulo la relativa voce. Sul tema M.A. Sandulli, “TAR EMILIA ROMAGNA, Decreto n. 503/2020, Giurisprudenza creativa e digitalizzazione
Giurisprudenza creativa e digitalizzazione: una pericolosa interazione che accresce i rischi di incertezza sulle regole processuali”, in federalismi, 13 gennaio 2021.
[13] TAR Sicilia, Catania, II, 11.12.2020, n. 5391.
[14] Cfr. nota 8.
[15] Occorre richiamare a tal proposito le 3° Linee Guida del Presidente del Consiglio di Stato, che all’art. 4 relativo alla “Richiesta di discussione”, ha precisato che “La disposizione [art. 4, d.l. 28/2020], nel fissare un termine per la richiesta di discussione, in deroga al processo ordinario che, com’è noto, non prevede termini, cerca un contemperamento fra il diritto al contraddittorio orale e le esigenze organizzative e gestionali dell’udienza connesse al carattere virtuale della stessa e alla limitazioni derivanti dalla “interposizione” del mezzo tecnologico. I termini, more solito, devono intendersi perentori, tuttavia, proprio la ratio che ha indotto il Legislatore a prevederli, e a prevederli come tali (ratio che, come cennato, non risiede nel corretto svolgersi del contraddittorio, quanto nell’esigenze di concreta gestione dell’udienza), è alla base dell’attribuzione di un residuale e generale potere del presidente di disporre, ove necessario, con proprio decreto la discussione della causa con modalità da remoto anche in assenza di istanza di parte. Siffatto potere presidenziale ufficioso tempera l’effetto delle preclusioni legate al decorso del termine, consentendo al presidente del collegio, avuto riguardo alla peculiarità e complessità del caso concreto, di disporre con propria insindacabile valutazione, la discussione, non solo - come previsto dalla norma – ove manchi l’istanza di parte, ma anche, e a fortiori, ove quest’ultima sia stata formulata oltre i termini di legge”.
[16] L’art. 5 “Deposito degli atti ai sensi dell’art. 4 del decreto-legge n. 28/2020” dell’Allegato 3 (al DPCS n. 134/2020 recante “Regole tecnico-operative per l’attuazione del processo amministrativo telematico, nonché per la sperimentazione e la graduale applicazione dei relativi aggiornamenti”) recita “1. Il deposito dell’istanza di discussione, dell’atto di opposizione, delle note di udienza e della richiesta di passaggio in decisione di cui all’articolo 4, comma 1, del decreto-legge n. 28 del 2020, è effettuato con le modalità telematiche di cui all’Allegato 2 utilizzando il “Modulo Deposito Atto” disponibile sul sito web della Giustizia amministrativa, selezionando, tra la tipologia di atti da trasmettere le apposite voci. Se l’istanza di discussione è formulata nel corpo del testo del ricorso introduttivo, in questo caso il suo deposito è effettuato con le modalità telematiche di cui all’Allegato 2, utilizzando il “Modulo Deposito Ricorso” disponibile sul sito web della Giustizia amministrativa”.
[17] Per una puntuale analisi delle fonti che regolano l’attuale svolgimento del processo amministrativo si veda C. Volpe, “Pronti, partenza, via! Il nuovo processo amministrativo da remoto ai nastri di partenza”, 1 giugno 2020, in www.giustia-amministrativa.it.
[18] Comunicazione del Segretario della Giustizia amministrativa 11.11.2020 prot. n. 0022186, laddove si afferma che “a) la discussione orale da remoto va chiesta con specifico atto separato – e non in seno al ricorso o ad altro scritto difensivo – nel quale sia chiaramente e inequivocabilmente espressa la volontà di discutere la causa”.
[19] L’art. 5 dell’Allegato 3, nel testo recentemente aggiornato, prevede al suo primo comma che “1. Il deposito dell'istanza di discussione, dell'atto di opposizione, delle note di udienza e della richiesta di passaggio in decisione di cui all'art. 4, comma 1, del decreto-legge n. 28 del 2020 convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, è effettuato con le modalità telematiche di cui all'allegato 2 utilizzando il «Modulo deposito atto» disponibile sul sito web della Giustizia amministrativa, selezionando, tra la tipologia di atti da trasmettere le apposite voci”.
[20] TAR Sicilia, Catania, III, 29.12.2020, n. 5496.
[21] CGARS, 21.12.2020, n. 1151. In termini si veda CGARS, 20.1.2021, n. 37.
[22] CGARS, 18.11.2020, n. 816.
[23] Rispetto al termine di deposito delle note d’udienza, sia consentito il richiamo alle riflessioni contenute in V. Sordi, “Ancora dubbi applicativi”, cit., laddove viene evidenziato che la disciplina contenuta nell’art. 4, d.l n. 28/2020 (cui l’art. 25 d.l. n. 137/2020 rinvia) mantiene vivo il problema dell’eventuale esigenza di replicare alle note di udienza e, quindi, di garantire adeguatamente il principio del contraddittorio. Sul punto, per un maggiore approfondimento, si vedano M.A. Sandulli, “Un brutto risveglio? L’oralità “condizionata” del processo amministrativo”, lamministrativista.it, 1° maggio 2020; Id., “Covid-19, fase 2. Pregi e difetti del diritto dell’emergenza per il processo amministrativo”, in questa Rivista, 4 maggio 2020; Id., “L’emergenza non sacrifichi il diritto di difesa, neppure nel processo amministrativo”, in Il Dubbio, 6 maggio 2020; Id., “Cognita causa”, in questa Rivista, 6 luglio 2020; C.E. Gallo, “La discussione scritta della causa nel processo amministrativo”, 16 luglio 2020, ivi.
[24] CGARS, 15.1.2021, n. 36. Sul tema, si veda P. Provenzano, “Note di udienza e sinteticità”, news in lamministrativista.it, 19 gennaio 2021.
[25] TAR Campania, Napoli, IV, 4.1.2021, n. 3.
[26] Cons. St., IV, 18.1.2021, n. 29.
[27] M.A. Sandulli, “Un brutto risveglio?”, cit; Id., “Pregi e difetti del diritto dell’emergenza”, cit; F. Francario, “Il non - processo amministrativo nel diritto dell’emergenza Covid 19”, ivi, 14 aprile 2020; F. Saitta, “Da Palazzo Spada un ragionevole no al «contraddittorio cartolare coatto» in sede cautelare. Ma il successivo intervento legislativo sembra configurare un’oralità…a discrezione del presidente del collegio”, in federalismi; S. Tarullo, “Contraddittorio orale e bilanciamento presidenziale. Prime osservazioni sull’art. 4 del D.L. 28 del 2020”, ivi, 13 maggio 2020; G. Veltri, “Il processo amministrativo. L’oralità e le sue modalità in fase emergenziale: “tutto andrà bene””, in www.giustizia-amministrativa.it, 2 maggio 2020; N. Durante, “Il lockdown del processo amministrativo”, in www.giustizia-amministrativa.it, 28 aprile 2020; A. D’Urbano – R. Santi, “L’abolizione (temporanea?) della fase orale nel processo amministrativo per l’emergenza sanitaria. Il Consiglio di Stato (ordinanze nn. 2538 e2539 del 2020) riapre alla possibilità di discussione”, in federalismi, 29 aprile 2020; C. Volpe, “Pandemia, processo amministrativo e affinità elettive”, in www.giustizia-amministrativa.it, 27 aprile 2020; V. Sordi, “Il principio dell’oralità secondo la giurisprudenza amministrativa nel periodo dell’emergenza Covid19”, in questa Rivista, 27 maggio 2020.
[28] Il riferimento è all’originaria previsione contenuta nell’art. 84 d.l. 18/2020, recante “Disposizioni in Materia di Giustizia amministrativa”, che al co. 5 prevedeva che “Successivamente al 15 aprile 2020 e fino al 30 giugno 2020, in deroga alle previsioni del codice del processo amministrativo, tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell’articolo 60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso. Le parti hanno facoltà di presentare brevi note sino a due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione. Il giudice, su istanza proposta entro lo stesso termine dalla parte che non si sia avvalsa della facoltà di presentare le note, dispone la rimessione in termini in relazione a quelli che, per effetto del secondo periodo del comma 1, non sia stato possibile osservare e adotta ogni conseguente provvedimento per l’ulteriore e più sollecito svolgimento del processo. In tal caso, i termini di cui all’articolo 73, comma 1, del codice del processo amministrativo sono abbreviati della metà, limitatamente al rito ordinario”.
[29] V. Denti, “Valori costituzionali e cultura processuale”, in L'influenza dei valori costituzionali sui sistemi giuridici contemporanei, (a cura di) A. Pizzorusso e V. Varano, II, Milano, 1985, 813.
[30] Per un approfondimento P. Di Cesare, “ll processo amministrativo nell’emergenza. Oralità, pubblicità e processo telematico”, in www.giustizia-amministrativa.it, 7 ottobre 2020.
[31] Così S. Tarullo, “Giusto processo (dir. proc. amm.)”, in Annali II-1, 2008, in particolare il pt. 8 dedicato a “La pubblica udienza”.
[32] In questi termini, SL.P. Comoglio, “Il "giusto processo" civile nella dimensione comparatistica”, in Riv. dir. proc., 2002, 702 ss.; V. Vignera, “Le garanzie costituzionali del processo civile alla luce del “nuovo” art. 111 Cost.”, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 1187.
[33] In tal senso Corte cost., 14 dicembre 1989 n. 543, in Foro it., 1990, I, 366; Corte cost. 29 dicembre 1989, n. 587, in Giur. cost., 1989, I, 2705; Corte cost., 10 febbraio 1981, n. 17, ivi, 1981, I, 601; Corte cost., 23 aprile 1998, n. 141, in Foro it., 1999, I, 767.
Strumentalità dell’accesso difensivo e sindacato giurisdizionale: osservazioni alla luce della normativa sulla trasparenza (nota a Consiglio di Stato, sez. III, 31 dicembre 2020, n. 8543) di Ippolito Piazza
Sommario: 1. La vicenda e le ragioni di interesse della pronuncia. – 2. La strumentalità dell’accesso difensivo e il relativo sindacato giurisdizionale. – 3. I limiti all’accesso nell’attuale contesto normativo. – 4. Osservazioni conclusive.
1. La vicenda e le ragioni di interesse della pronuncia
La sentenza in commento consente di tornare a riflettere sui limiti del diritto di accesso, in particolare di quello c.d. difensivo[1], alla luce dell’attuale quadro normativo sulla trasparenza amministrativa. Il Consiglio di Stato riafferma, infatti, la natura strumentale del diritto d’accesso ex artt. 22 e ss., l. n. 241/1990, che spetta soltanto a coloro che se ne possano «avvalere per tutelare una posizione giuridicamente rilevante». Tuttavia, nella pronuncia, il giudice amministrativo si spinge a sindacare le esigenze difensive che hanno mosso il privato a richiedere l’accesso ai documenti detenuti dall’amministrazione. Si tratta di un orientamento che sembra consolidarsi nella giurisprudenza del Consiglio di Stato[2] e che desta, però, alcune perplessità. Occorre infatti domandarsi se tale sindacato sia ammesso dalla legge, ed eventualmente entro quali limiti.
Per farlo, sarà utile tener conto non solo della disciplina dell’accesso documentale, ma anche di quella sull’accesso civico (artt. 5 e 5-bis, d.lgs. n. 33/2013): attraverso il diritto di accesso civico generalizzato si realizza, infatti, il principio della «accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni», con il solo limite della tutela di interessi pubblici o privati indicati dal legislatore[3], circostanza che può influire, come si dirà, sull’intera materia dell’accesso.
Prima di tutto è, però, necessario ripercorrere brevemente la vicenda oggetto della controversia, per metterne a fuoco gli elementi rilevanti.
La controversia nasce da una richiesta di accesso presentata, in base agli artt. 22 e ss. l. n. 241/1990, da una società che chiedeva all’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) di ottenere gli atti di un procedimento che si era concluso con la stipula di accordi negoziali tra la stessa AIFA e altre imprese farmaceutiche. Tra la società istante e l’AIFA era già in corso un giudizio, pendente innanzi al Tar Lazio, avente per oggetto la legittimità del diniego di AIFA di attribuire ad alcuni medicinali importati la classe di rimborsabilità “A” (che comporta il rimborso a carico del SSN) e lo stesso prezzo al pubblico determinato per il farmaco originator corrispondente (cioè il farmaco originale equivalente e già in commercio nel nostro paese). In particolare, AIFA aveva ritenuto che l’ingresso dei medicinali nella classe “A” dovesse essere necessariamente subordinato alla conclusione di un accordo negoziale con l’impresa interessata, come avvenuto per le altre imprese importatrici.
A seguito del diniego opposto da AIFA alla istanza di accesso, la società interessata ha proposto ricorso ex art. 116 c.p.a. per veder accertato il proprio diritto ad accedere sia agli atti procedimentali prodromici che agli accordi negoziali stipulati tra AIFA e le altre imprese importatrici. In primo grado, il Tar Lazio ha accolto in parte il ricorso, limitando il diritto di accesso agli atti procedimentali ed escludendo, di conseguenza, gli accordi negoziali.
AIFA ha quindi proposto ricorso in appello, ritenendo che tutta la documentazione richiesta debba essere esclusa dall’accesso, sia perché la richiedente difetterebbe di un interesse diretto, concreto e attuale rispetto a documenti che non sarebbero di alcuna utilità rispetto al giudizio pendente; sia perché tali documenti conterrebbero informazioni commerciali riservate di imprese concorrenti, informazioni peraltro coperte dalle clausole di riservatezza inserite negli accordi negoziali stipulati con la stessa AIFA.
Due sono i punti principali sui quali concentrare l’analisi della pronuncia: in primo luogo, la strumentalità dell’accesso documentale rispetto alla difesa di interessi giuridici e il rispettivo sindacato giurisdizionale; in secondo luogo, i limiti al diritto d’accesso e la valenza delle clausole di riservatezza.
2. La strumentalità dell’accesso difensivo e il relativo sindacato giurisdizionale
L’evoluzione normativa ha visto accentuare nel tempo le caratteristiche di strumentalità dell’accesso documentale, introdotto con la l. n. 241/1990[4]. La versione originaria della legge stabiliva infatti che il diritto d’accesso fosse riconosciuto a «chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti». In seguito alle modifiche apportate dalla l. 11 febbraio 2005, n. 15, l’art. 22 della l. n. 241/1990 oggi stabilisce che il diritto d’accesso spetti a coloro che abbiano un interesse «diretto concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso». In aggiunta, sempre con la novella del 2005, il legislatore ha escluso che l’accesso documentale possa servire a un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni (art. 24,c. 3).
Così facendo, il legislatore ha chiarito che il diritto d’accesso della l. n. 241/1990 è uno strumento di difesa per i titolari di situazioni giuridiche soggettive collegate al documento richiesto, non invece un mezzo utilizzabile da ogni cittadino per soddisfare un generico bisogno di conoscenza legato all’attività della pubblica amministrazione.
Il ‘vuoto’ così determinato è stato colmato, come noto, dall’introduzione delle forme di accesso civico, prima quello c.d. semplice[5], relativo ai documenti per i quali la legge prevede un obbligo di pubblicazione, e poi quello c.d. generalizzato, che consente a chiunque (senza particolari requisiti di legittimazione) di richiedere all’amministrazione – in via di principio – ogni dato o documento da essa detenuto[6].
La coesistenza di tre forme generali di diritto d’accesso[7] ha comportato, in sede interpretativa, la necessità di coglierne le rispettive differenze. Ciò è valso soprattutto per il diritto d’accesso documentale e quello civico generalizzato, poiché essi condividono, in larga misura[8], lo stesso oggetto. La giurisprudenza amministrativa si è, quindi, orientata nel senso di ritenere che l’accesso documentale sia meno esteso ma più profondo di quello civico generalizzato[9]. Pur nella difficoltà di individuare l’esatto contenuto di questa differenza[10], l’idea di base è che l’accesso della l. n. 241/1990 garantisca maggiormente la pretesa conoscitiva del ricorrente, poiché non è sufficiente, al fine di escludere l’accesso, che l’ostensione del documento generi un pregiudizio a uno degli interessi tutelati dalla legge.
L’art. 24 prevede, infatti, una serie di casi nei quali l’accesso debba essere negato (sia a tutela di interessi pubblici come la sicurezza e l’ordine pubblico, sia a tutela di interessi privati come la vita o la riservatezza delle persone): tuttavia, il comma 7 dello stesso articolo stabilisce che l’accesso debba «comunque essere garantito ai richiedenti», quando la conoscenza del documento sia «necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici». Al contrario, la normativa sull’accesso civico non prevede un simile criterio di prevalenza del diritto a conoscere, ma rimette all’amministrazione la valutazione dell’esistenza di un pregiudizio concreto agli interessi pubblici e privati individuati dall’art. 5-bis, di per sé sufficiente a escludere l’accesso[11].
Ebbene, di fronte a questo quadro normativo e sulle orme di un indirizzo costante, la sentenza in esame ribadisce che l’accesso ex art. 22, l. n. 241/1990 ha carattere strumentale ed è, pertanto, consentito solo a chi possa «dimostrare che gli atti oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, anche indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica». Si tratta di una strumentalità da intendere in senso ampio: la legittimazione all’accesso non va riconosciuta solo a coloro che vogliano servirsi dei documenti per la difesa in giudizio della situazione giuridica sottostante, ma è «sufficiente la dimostrazione del grado di protezione al bene della vita dal quale deriva l’interesse ostensivo»; non sono, invece, ammesse istanze vòlte alla cura di un interesse meramente emulativo o potenziale[12].
Nell’esaminare l’interesse della ricorrente rispetto ai documenti richiesti, il Consiglio di Stato compie però, nel caso di specie, una valutazione che appare eccessivamente sommaria. Il massimo giudice amministrativo si limita, infatti, a sostenere che la ricorrente difetta di un interesse concreto e attuale, dal momento che la stessa, «secondo la prospettazione sostenuta in giudizio, ha ritenuto non necessaria la negoziazione dei prezzi dei farmaci di importazione parallela e, dunque, non si comprende come possa rilevare, a fini di difesa, la conoscenza degli accordi conclusi da AIFA con le altre società farmaceutiche e la conoscenza degli atti del relativo procedimento».
Non v’è dubbio che la ricorrente stia difendendo i propri interessi giuridici, avendo già instaurato – al momento della istanza di accesso – un giudizio di fronte al Tar Lazio, riguardante la legittimità di alcuni provvedimenti emanati da AIFA. La fattispecie ricade, quindi, certamente nell’ambito applicativo dell’art. 24, c. 7, l. n. 241/1990, che anzi parla genericamente di ‘cura’, oltre che di difesa, dei propri interessi[13]. Per negare il nesso di strumentalità dell’accesso, il Consiglio di Stato si spinge allora a sindacare l’utilità dei documenti richiesti rispetto alla strategia difensiva della ricorrente, ravvedendo una contraddizione tra il contenuto dei documenti e la condotta processuale. È facile intuire che si tratti di un terreno scivoloso, nel quale potrebbe finanche rilevare l’art. 24 Cost.: l’affermazione del Consiglio di Stato non sembra infatti capace di esaurire tutto lo spettro dei possibili utilizzi difensivi dei documenti richiesti[14]. Senza considerare che è «irragionevole pretendere di anteporre il momento della costruzione della strategia difensiva a quello della conoscenza degli elementi necessari per la sua elaborazione»[15].
Soltanto in subordine, il Consiglio di Stato valuta invece se il contenuto dei documenti richiesti (atti procedimentali propedeutici e accordi negoziali stipulati da AIFA con altre imprese) sia lesivo degli interessi delle imprese concorrenti. Di questo profilo si tratterà nel prossimo paragrafo.
Qui è importante sottolineare come, a fronte del chiaro disposto del comma 7 dell’art. 24 («Deve comunque essere garantito…»)[16], che fa prevalere l’esigenza conoscitiva di chi debba tutelare propri interessi giuridici rispetto agli eventuali pregiudizi ad altri interessi tutelati, la giurisprudenza, per negare l’accesso, faccia leva sulla assenza di legittimazione del richiedente[17] e arrivi, per questa strada, a sindacarne le esigenze difensive. La ragione che muove i giudici amministrativi sembra chiara: intendendo la legittimazione dell’accesso documentale in senso ampio e tenendo conto della clausola di prevalenza dell’art. 24, c. 7, vi è il rischio che l’accesso debba sempre essere permesso a chi sia titolare di un interesse giuridicamente rilevante, con un conseguente arretramento nella tutela degli interessi contrapposti (dalla riservatezza agli interessi commerciali, fino all’ordine pubblico). Di conseguenza, i giudici sono spinti a sindacare la strumentalità dell’accesso rispetto alle esigenze difensive dei richiedenti[18].
Il ragionamento è indubbiamente fondato sull’interpretazione della l. n. 241/1990 ma, nel quadro attuale, non si può ignorare l’esistenza di una forma di accesso che prescinde da qualsivoglia requisito legittimante in capo al richiedente. Viene cioè naturale domandarsi che cosa sarebbe successo se l’istanza d’accesso fosse stata presentata ai sensi dell’art. 5, c. 2, d.lgs. n. 33/2013. In tal caso, l’amministrazione e il giudice avrebbero potuto unicamente valutare se i documenti richiesti (o anche solo parti di essi) potessero causare un pregiudizio concreto agli interessi commerciali delle imprese coinvolte.
È vero che la giurisprudenza formatasi dopo l’introduzione dell’accesso generalizzato ha sostenuto che i diversi diritti d’accesso non siano sovrapponibili e non corrispondano a un «unico diritto soggettivo globale di accesso»[19], bensì costituiscano un insieme di garanzie differenziate per finalità, metodi di approccio alla conoscenza e livelli soggettivi di pretesa alla trasparenza[20]. Si deve però tener conto della recente pronuncia dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato[21], che ha sostenuto una tesi almeno in parte diversa: quella cioè per cui «il rapporto tra le due discipline generali dell’accesso documentale e dell’accesso civico generalizzato (…) non può essere letto unicamente e astrattamente, secondo un criterio di specialità e, dunque, di esclusione reciproca, ma secondo un canone ermeneutico di completamento/inclusione».
Insomma, nell’attuale regime di trasparenza, che consente a chiunque di conoscere ogni dato o documento detenuto dalla pubblica amministrazione, con le uniche eccezioni dovute alla tutela di interessi rilevanti individuati dal legislatore, è su queste ultime che occorrerebbe concentrare l’attenzione.
3. I limiti all’accesso nell’attuale contesto normativo
Solo dopo aver escluso che la ricorrente sia titolare di un interesse concreto alla conoscenza dei documenti richiesti, il Consiglio di Stato si occupa dei possibili limiti alla loro conoscibilità. Gli accordi negoziali dei quali era richiesta la visione[22] includevano infatti una clausola di riservatezza. Ad avviso dei giudici, la clausola è «valida e vincolante in relazione agli interessi commerciali dell’impresa controinteressata» e può essere opposta alla richiedente, che potrebbe altrimenti avvalersi dei dati contenuti nell’accordo a fini concorrenziali. Inoltre, secondo la sentenza, tale pattuizione consente legittimamente all’amministrazione di sottrarre all’accesso anche gli atti procedimentali propedeutici all’accordo, perché la conoscenza dei primi rivelerebbe il contenuto del secondo, vanificando l’impegno alla riservatezza.
La clausola di riservatezza non viene, però, espressamente ricondotta a una delle ipotesi di esclusione dell’accesso previste dall’art. 24, l. n. 241/1990, così da indurre a pensare che, in sede negoziale, l’amministrazione pubblica possa sottrarre alcuni atti all’accesso (sia documentale, come nel caso di specie, che civico). Una conclusione così netta non sembra ammissibile: da un lato, non esiste una norma che vieti l’apposizione di una simile clausola; dall’altro, però, i limiti all’accesso sono stabiliti da norme di legge. Secondo un condivisibile orientamento del Consiglio di Stato, la clausola di riservatezza non può porsi in contrasto con norme imperative[23]: ciò significa che la clausola è valida se compatibile con le esclusioni previste dall’art. 24, l. n. 241/1990, che contempla, tra i casi di sottrazione all’accesso, anche quelli relativi alla salvaguardia degli interessi finanziari, industriali e commerciali delle imprese (art. 24, c. 6, lett. d); inoltre, la validità della clausola di riservatezza «non esime (…) il collegio da un controllo di meritevolezza della stessa, avuto riguardo all’interesse al buon andamento ed imparzialità dell’amministrazione»[24].
Si può pertanto affermare che l’esistenza di una clausola di riservatezza non escluda, di per sé, l’accesso ai documenti ma occorra invece valutare quali parti dell’accordo (e, ancor più, degli atti procedimentali prodromici) siano lesivi degli interessi dei contraenti e quali, invece, possano essere rese pubbliche. Non bisogna infatti dimenticare che la legge consente una ostensione parziale dei documenti: ai sensi dell’art. 24, c. 5, i documenti possono essere sottratti all’accesso «solo nell’ambito e nei limiti» della connessione con gli interessi protetti dalle esclusioni del comma 1 (parallelamente, l’art. 5-bis, c. 4, d.lgs. n. 33/2013 prevede che se i limiti all’accesso civico riguardano solo alcuni dati o alcune parti del documento richiesto, deve essere consentito l’accesso agli altri dati o alle altre parti). Nella sentenza, invece, nessuna menzione viene fatta dell’accesso parziale, né, conseguentemente, di quali informazioni concretamente siano lesive degli interessi commerciali.
4. Osservazioni conclusive
A più di trent’anni dalla sua introduzione, il diritto d’accesso continua a porre problemi all’interprete, a conferma della vitalità dello strumento e del costante bisogno di trasparenza manifestato dai privati, sia come portatori di uno specifico interesse giuridico, che come cittadini. La problematicità dell’istituto è certamente accentuata dalla stratificazione normativa, che ha via via affiancato all’accesso documentale della l. n. 241/1990 altre forme di accesso, sia speciali che generali. In particolare, la sentenza in commento mostra come la attuale configurazione dell’accesso documentale, come diritto ‘più resistente’ di fronte a possibili contro-interessi, porti il giudice amministrativo a sindacare i requisiti di legittimazione del richiedente[25], più che l’eventuale pregiudizio prodotto dall’ostensione dei documenti. Questo perché la legge configura l’accesso documentale come «comunque» prevalente, quando la conoscenza dei documenti sia necessaria alla tutela di un interesse giuridico. Si tratta di una strada non priva di inconvenienti: in primo luogo, il giudice può spingersi, come nel caso che ci interessa, a sindacare la necessità di un documento per la strategia difensiva del richiedente, giudizio di per sé complesso e ragionevolmente riservato a quest’ultimo; in secondo luogo, in un’ottica sistematica, l’ordinamento offre oggi uno strumento che prescinde dalla legittimazione del richiedente e che guarda solo all’esistenza di contro-limiti all’accesso; uno strumento, peraltro, non necessariamente meno forte dell’accesso documentale[26]. Utile potrebbe essere allora la valorizzazione di quella giurisprudenza che, anziché negare in radice l’accesso difensivo per assenza di legittimazione del richiedente, ricerca un contemperamento con la tutela di contro-interessi attraverso l’oscuramento parziale dei documenti[27]. Può infatti accadere che non tutti i dati, il cui rilascio è potenzialmente lesivo di contro-interessi, siano altresì necessari alla difesa degli interessi del richiedente.
***
[1] Sul quale si veda anche la recente Cons. Stato, ad.plen., 25 settembre 2020, n. 19, in merito ai rapporti tra diritto d’accesso e strumenti di acquisizione probatoria nel processo civile; per un commento alla sentenza, M. Ricciardo Calderaro, Diritto d’accesso e acquisizione probatoria processuale, in questa Rivista.
[2] Si veda, per esempio, Cons. Stato, sez. III, 17 marzo 2017, n. 1213.
[3] Si vedano, in particolare, gli artt. 1, 5 e 5-bis del d.lgs. n. 33/2013, come modificati dal d.lgs. n. 97/2016. In particolare, sulle novità introdotte nel 2016, v. M. Savino, Il FOIA italiano. La fine della trasparenza di Bertoldo, in Giorn. dir. amm., 2016, 593 ss; M.A. Sandulli, L. Droghini, La trasparenza amministrativa nel FOIA italiano. Il principio della conoscibilità generalizzata e la sua difficile attuazione, in Federalismi.it, 19/2020, 401 ss. Più in generale, nell’ampia bibliografia sull’accesso civico, ci si limita a segnalare G. Gardini, M. Magri (a cura di), Il FOIA italiano: vincitori e vinti. Bilancio a tre anni dall’introduzione, Sant’Arcangelo di Romagna, 2019, A. Corrado, Conoscere per partecipare: la strada tracciata dalla trasparenza amministrativa, Napoli, 2018, spec. cap. VII e i contributi di M. Savino, N. Vettori, A. Moliterni, I. Piazza, F. Manganaro, M. De Rosa – B. Neri, M. Filice apparsi in Dir. Amm., 3 e 4/2019.
[4] Su questa evoluzione, v. F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, in Federalismi.it, n. 10/2019, 9 ss.
[5] Art. 5, c. 1, d.lgs. n. 33/2013.
[6] Art. 5, c. 2, d.lgs. n. 33/2013.
[7] Alle quali si aggiungono i diritti di accesso previsti dalle discipline di settore, come l’accesso ambientale (d.lgs. 19 agosto, n. 195) e quello in materia di contratti pubblici (art. 53, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50).
[8] La coincidenza dell’ambito applicativo non è completa, dal momento che l’accesso documentale ha per oggetto i «documenti amministrativi» (art. 22, c. 1, lett. d; nozione da intendersi comunque in senso ampio), mentre l’accesso civico generalizzato può essere rivolto «ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni» (art. 5, c. 2, d.lgs. n. 33/2013).
[9] Tra altre, Cons. St., sez. VI, 31 gennaio 2018, n. 651, Tar Lazio, sez. I, 8 marzo 2018, n. 2628. Nello stesso senso si esprimono del resto le Linee guida Anac (delib. n. 1309 del 28 dicembre 2016), previste dall’art. 5-bis, c. 6, d.lgs. n. 33/2013, secondo cui il bilanciamento tra gli interessi in gioco è diverso nei due tipi di accesso, perché nel caso della l. n. 241/1990 «la tutela può consentire un accesso più in profondità a dati pertinenti», mentre per l’accesso generalizzato «le esigenze di controllo diffuso del cittadino devono consentire un accesso meno in profondità (se del caso, in relazione all’operatività dei limiti) ma più esteso, avendo presente che l’accesso in questo caso comporta, di fatto, una larga conoscibilità (e diffusione) di dati, documenti e informazioni».
[10] Sul punto, F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, cit., spec. 8.
[11] Sui limiti all’accesso civico generalizzato, M. Filice, I limiti all’accesso civico generalizzato: tecniche e problemi applicativi, in Dir. Amm., 4/2019, 861 ss.
[12] Cons. Stato, sez. VI, 27 giugno 2018, n. 3938. Si veda anche Cons. Stato, sez. IV, 11 gennaio 2019, n. 249. Sull’interesse legittimante l’accesso, A. Simonati, I principi in materia di accesso, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 1219 ss.
[13] Ben diverso è dunque, sotto questo profilo, il caso di specie da quello affrontato da Cons. Stato, 17 marzo 2017, n. 1213, sempre riguardante l’accesso ad accordi negoziali stipulati da AIFA con imprese terze, ma nel quale la richiedente non aveva instaurato «giudizi o procedimenti utili per la difesa della posizione giuridica di base al di là di assai generici richiami “a criticità di natura concorrenziale” formulati ai fini della domanda di accesso».
[14] Del resto, la giurisprudenza afferma solitamente che l’accesso difensivo «va valutato ex ante ed in astratto, e non già con riferimento alla pertinenza nel merito dei documenti individuati dall'interessato, dato che la concreta valutazione della rilevanza e pertinenza della documentazione ai fini del giudizio cui accede la richiesta va apprezzata nell'ambito di quest’ultimo»: Tar Trento, sez. I, 15 luglio 2020, n. 115.
[15] F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, cit., 23.
[16] Si veda nuovamente F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, cit., 19, secondo cui «Una volta espunta la figura dell’accesso civico dall’impianto della legge 241, l’importanza sistematica della norma recata dal citato settimo e ultimo comma dell’art. 24 deve essere necessariamente riconsiderata»; essa diventa cioè una ipotesi «tipica», nella quale la legge prevede che l’accesso prevalga e, quindi, «perché venga impedito è necessario che si contrapponga un interesse di “pari rango”, che vi sia cioè una eccezione espressamente contemplata sul piano normativo; e non già una semplice esigenza discrezionalmente apprezzabile da parte della pubblica amministrazione».
[17] Come già evidenziato da F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, cit., 22 s., che parla, riguardo alla giurisprudenza sulla riservatezza commerciale e industriale, di «una tendenza a riappropriarsi dei margini di valutazione discrezionale con riferimento al giudizio di necessità della conoscenza per la difesa della situazione soggettiva, con il rischio di assoggettare nuovamente ad un bilanciamento con i contrapposti interessi, sotto un diverso profilo, l’esigenza defensionale».
[18] Un esito di questo tipo era stato prefigurato da A. Simonati, I principi in materia di accesso, cit., 1220.
[19] Tra tante, Tar Puglia, sez. III, 19 febbraio 2018, n. 231.
[20] Cons. Stato, sez. IV, 12 agosto 2016, n. 3631.
[21] Cons. Stato, ad. plen., 2 aprile 2020, n. 10, sulla quale v. A. Moliterni, Pluralità di accessi, finalità della trasparenza e disciplina dei contratti pubblici, in Giorn. dir. amm., 4/2020, 505 ss.
[22] Gli accordi, di per sé, non sono sottratti all’accesso, stante la nozione ampia di documento contenuta nella legge: l’art. 22, c. 1, lett. d), l. n. 241/1990 stabilisce infatti che per «documento amministrativo» debba intendersi «ogni rappresentazione (…) del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale».
[23] Per la natura imperativa delle norme sull’accesso v. anche Tar Lazio, sez. II, 30 agosto 2016, n. 9437.
[24] Cons. Stato, 17 marzo 2017, n. 1213: nel caso specifico, la clausola di riservatezza era ritenuta utile non solo a tutelare gli interessi commerciali del privato, ma anche l’interesse pubblico al buon andamento, poiché la segretezza degli accordi avrebbe potuto consentire un risparmio per l’amministrazione nelle future contrattazioni con altre imprese.
[25] In alcune pronunce in materia di segreti industriali, il Consiglio di Stato utilizza, per esempio, il più stringente canone della «stretta indispensabilità» dei documenti richiesti al fine di tutelare i propri interessi giuridici (Cons. Stato, sez. V, 28 febbraio 2020, n. 1451 e 17 aprile 2020, n. 2449), canone che l’art. 24, c. 7 riferisce però solo al caso di richiesta di documenti contenenti dati sensibili o giudiziari.
[26] Secondo Cons. Stato, ad. plen., 2 aprile 2020, n. 10, non si può escludere che «un’istanza di accesso documentale, non accoglibile per l’assenza di un interesse attuale e concreto, possa essere invece accolta sub specie di accesso civico generalizzato».
[27] V. Tar Veneto, sez. III, 26 luglio 2019, n. 894 e, soprattutto, Tar Lazio, sez. I, 4 febbraio 2020, n. 1470 («Al fine di garantire l’esigenza di cura e difesa degli interessi giuridici della parte ricorrente, contemplata dall’art. 24, comma 7, della L. n. 241/1990, le legittime esigenza di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica manifestate dall’amministrazione resistente possono essere adeguatamente preservate ricorrendo ad accorgimenti divulgativi - che l’Ufficio competente porrà in essere - tali da escludere o "mascherare" ogni indicazione contenuta nell'informativa diversa dalla identificazione dei soggetti controindicati frequentati dal ricorrente - che involga valutazioni, giudizi, riferimenti e considerazioni funzionali alla tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica».
Il vaccino anti Covid nel rapporto di lavoro. Riflessioni a partire dall’ordinanza cautelare del Giudice del lavoro di Messina.
di Lisa Taschini
Sommario: 1. Introduzione al tema controverso. – 2. L’ordinanza cautelare del Tribunale di Messina: la vicenda contenziosa. – 3. Il quadro normativo entro cui si inscrive la materia. – 4. Il vaccino come diritto e come onere: le indicazioni dalla giurisprudenza costituzionale. – 5. Il vaccino come obbligo: le indicazioni di principio desumibili dal nostro ordinamento. – 6. Il vaccino come obbligo nel rapporto di lavoro: le tesi che sono state assunte in dottrina. – 6.1. Le tesi favorevoli. – 6.2. Le tesi contrarie. – 6.3. La posizione del Giudice del lavoro di Messina nell’ordinanza cautelare. – 7. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione al tema controverso.
Conclusa la fase iniziale dell’emergenza in cui imprese e lavoratori hanno dovuto fronteggiare il diffondersi del Covid-19 alla ricerca di una nuova razionalità organizzativa degli ambienti di lavoro per resistere ad un nuovo rischio per la salute e la sicurezza[1], si pone ora un problema inedito, reso urgente dalla diffusione del primo vaccino anti SARS-CoV-2, relativo al binomio, già di per sé oscuro e fragile, salute e lavoro.
Il prendere consistenza di un atteggiamento obiettore rispetto al vaccino da parte della popolazione ha condotto all’emersione, nell’arena politica, costituzionale, sindacale e giuslavoristica, di un acceso dibattito sulla possibile obbligatorietà del vaccino, almeno in alcuni contesti professionali, e sulle conseguenze, nelle relazioni con il datore di lavoro pubblico e privato, del rifiuto ingiustificato del lavoratore. Le soluzioni prospettate sono state le più varie, desunte tutte dai principi fondamentali dell’ordinamento ed imposte dall’assenza di una puntuale norma positiva.
Per una volta, non si sono delineati due schieramenti nettamente contrapposti, ma si sono affiancate soluzioni diverse e sfumate[2], per la delicatezza e la complessità della materia, che si pone al crocevia di diritti fondamentali e di rango costituzionale, si intreccia di diritti e doveri, di situazioni giuridiche a dimensione privatistica e pubblicistica, individuali e collettive, insieme[3].
La sfida di questo tempo che il giurista è chiamato ad affrontare è fornire risposta e regolamentazione ai drammi economici, sociali e sanitari che si susseguono con una velocità disarmante, senza avere il tempo di porsi le domande giuste, di individuare quale sia l’enigma profondo che si cela dietro alle singole questioni. Nell’attesa dell’auspicabile ed opportuno intervento del legislatore, si cercherà, nelle pagine seguenti, di dipanare questa intricata materia partendo proprio dalle disposizioni esistenti e dagli interrogativi fondamentali per, poi, cercare le risposte che allo stato ha fornito il legislatore e la giurisprudenza costituzionale, interprete privilegiato dell’interpretazione conforme, ed analizzare le varie posizioni che sono già state assunte in dottrina sui riflessi della renitenza alla vaccinazione nell’ambito del rapporto di lavoro.
In relazione al problema dell’obbligo vaccinale, innanzitutto, occorre chiedersi: si può imporre alla popolazione un obbligo generale di vaccinarsi? L’eccezionale stato pandemico in cui ci si trova, giustifica e legittima l’imposizione di un tale obbligo? Se sì, chi è competente a farlo, con quali strumenti e modalità? In alternativa ad una misura imperativa generale, sarebbe prevedibile un obbligo selettivo, relativo ad alcuni settori produttivi e a determinate attività e servizi o limitato a specifici rapporti giuridici connotati da particolari esigenze di tutela e prevenzione? Ovvero ancora, è ammissibile prevedere una sorta di passaporto sanitario ponendo, per l’accesso a determinate attività o servizi, come requisito condizionante l’avvenuta vaccinazione? Se sì, con quali criteri selettivi?[4]
Nell’ambito del rapporto di lavoro, può il datore di lavoro pretendere dai propri dipendenti di vaccinarsi? Quid juris nel caso di rifiuto del trattamento?
2. L’ordinanza cautelare del Tribunale di Messina: la vicenda contenziosa.
Con l’ordinanza cautelare pronunciata lo scorso 12 dicembre 2020 dal Giudice del Lavoro di Messina[5], il dibattito ha fatto ingresso, per la prima volta, nelle aule di giustizia e la decisione resa ha riconosciuto piena tutela al diritto di autodeterminazione del lavoratore ai trattamenti sanitari, senza, però, al contempo disconoscere la rilevanza della situazione quanto meno sul piano precauzionale e preventivo nei confronti della posizione giuridica di garanzia del datore di lavoro.
Questa la vicenda processuale. Alcuni lavoratori dipendenti dell’Azienda ospedaliera universitaria di Messina ricorrevano al Giudice del lavoro per vedersi riconoscere il loro diritto di non sottoporsi a vaccinazione antinfluenzale e anti pneumococcica, il cui obbligo era stato sancito con due note aziendali adottate in ottemperanza di un decreto assessoriale che aveva rese obbligatorie dette vaccinazioni per quanti prestano attività lavorativa in ambito sanitario. Contestualmente, i ricorrenti proponevano istanza cautelare d’urgenza per la sospensione dell’efficacia degli atti amministrativi presupposti posto che la mancata adesione alla campagna vaccinale predisposta a livello regionale avrebbe comportato conseguenze immediate nel rapporto di lavoro dei ricorrenti. In particolare, il decreto regionale poneva la avvenuta vaccinazione quale requisito per l’idoneità all’espletamento delle mansioni, ai sensi dell’art. 41, comma 6, del d.lgs. n. 81/2008, e la nota aziendale attuativa prevedeva la trasmissione dell’elenco dei sanitari non aderenti alla campagna di prevenzione al medico competente per l’accertamento dell’inidoneità al lavoro a far data dalla trasmissione stessa e fino alla conclusione del periodo di presumibile intensità del fenomeno influenzale – ovvero, fino a tutto il mese di febbraio 2021 –.
Le contrapposte tesi propugnate in giudizio dai lavoratori e dall’Assessorato regionale siciliano – l’Azienda ospedaliera datrice di lavoro è rimasta contumace – si sono concentrate sulla legittimità formale della previsione di un tale obbligo vaccinale. Mentre i lavoratori denunciavano il difetto di attribuzione dell’Assessorato regionale, ritenendo che l’individuazione dei trattamenti sanitari obbligatori sia materia coperta da riserva di legge statale ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 32 e 117 Cost., l’ente pubblico regionale rispondeva ritenendo la misura precauzionale adottata giustificata e proporzionata in relazione ad impellenti ragioni di salute pubblica (si richiama, in primo luogo, la necessità di disporre, in alcuni casi la raccomandazione ed in altri, come quello del caso de quo, l’obbligo di vaccinazione, in ragione delle alte probabilità di una concomitante circolazione di virus influenzali e di SARS-CoV-2 e, in secondo luogo, gli effetti positivi della vaccinazione, individuati nella possibilità di rendere più agevole la diagnosi differenziale tra le due patologie infettive e diminuire così la pressione sul servizio sanitario) e legittima, perché consentita dalle previsioni dell'art. 32, comma 3, della legge n. 833/1978 che riconoscono al Presidente della Giunta regionale o al Sindaco il potere di emanare, in materia di sanità pubblica e di polizia veterinaria, ordinanze di carattere contingibile ed urgente nell’ambito territoriale di riferimento ed in linea con le direttive emergenziali di cui al d.l. n. 19/2020, convertito in legge n. 35/2020, che autorizza le Regioni ad introdurre misure più restrittive di quelle statali ai fini del contenimento del contagio da coronavirus.
Il Giudice del lavoro di Messina ha risolto le questioni controverse ritenendo il provvedimento amministrativo impugnato illegittimo per un duplice motivo: sia perché, e in primo luogo, «travalicando i limiti imposti dagli artt. 32 Cost. e 117 Cost., ha reso obbligatorio per gli operatori sanitari, il vaccino anti influenzale che invece, a livello nazionale è raccomandato e non ritenuto obbligatorio», sia perché l’atto assessoriale è stato adottato «in contrasto con i princìpi del riparto dei poteri tra l’apparato amministrativo regionale e l’organo legislativo regionale», come espressi dall’art. 32 della legge n. 833/1978.
3. Il quadro normativo entro cui si inscrive la materia.
Il legislatore dell’emergenza ha dettato prescrizioni obbligatorie per il contenimento della pandemia e la prevenzione della sua diffusione ponendo adempimenti e divieti generalizzati, basati sul principio di solidarietà collettiva, e prevedendo diritti, obblighi e responsabilità in capo a soggetti specifici quali, ai nostri fini, i datori di lavoro, i lavoratori, gli Istituti assicuratori pubblici[6]. Soprattutto nell’ambito del rapporto lavorativo, sorge il delicato problema di individuare l’origine professionale del contagio, la responsabilità per la prevenzione, l’indennizzo o il risarcimento dell’infortunio e, quindi, della difficoltà di individuare l’origine interna o esterna, rispetto alla causa lavorativa, della infezione stessa, visto il suo carattere pandemico.
Date queste caratteristiche peculiari del rischio, le misure di prevenzione previste dal Testo unico della sicurezza sono state integrate da ulteriori misure, poste a carico sia dei datori di lavoro che dei lavoratori, suggerite dalla esperienza e dalla scienza, ai sensi dell’art. 2087 c.c., codificate nei protocolli di sicurezza concordati tra le parti sociali per la prosecuzione e messa in sicurezza dell’attività produttiva, resi obbligatori dal legislatore con i DPCM del 10 e 26 aprile 2020. Il legislatore ha poi disposto, per definire e ragionevolmente limitare la responsabilità del datore, che l’osservanza dei protocolli anzidetti integra l’adempimento delle prescrizioni dell’art. 2087 ai fini della responsabilità civile e penale del datore di lavoro (ex art. 29-bis, d.l. n. 23/2020, come convertito, con modifiche, dalla legge n. 40 del 2020).
Tra le misure obbligatorie prescritte nei protocolli non è compreso il vaccino anti Covid, all’epoca non ancora disponibile. Ora che il trattamento vaccinale è somministrabile alla popolazione, sia pure progressivamente, si pone il problema di individuare il suo ruolo nel rapporto di lavoro – oltre che nei rapporti contrattuali in genere –.
In questa situazione il Governo italiano, diversamente da quanto aveva già deciso in passato, per situazioni meno drammatiche rispetto alla pandemia in corso[7], non ha (ancora) prescritto l’obbligatorietà del vaccino, ma, in conformità al comune sentire tipicamente europeo, riscontrabile nella Risoluzione dell’assemblea del Parlamento n. 2361 del 27 gennaio 2021, ha optato per la via della raccomandazione[8], confidando che la persuasione costituisca il percorso migliore per raggiungere “una diffusione sufficiente alla sua efficacia”, ed attuare per tale via il precetto dell’art. 32 Cost. sulla tutela della salute collettiva[9].
La premessa da cui muovere per svolgere in modo equilibrato e logicamente costruito un ragionamento sulla obbligatorietà del vaccino anti-Covid e sulle conseguenze di un rifiuto a sottoporvisi nel rapporto di lavoro deve necessariamente consistere nella consapevolezza dell’assenza di una normativa generale di rango ordinario sul punto e dell’assoluta opportunità che il Legislatore si preoccupi di questi aspetti e si esprima in modo chiaro, colmando la lacuna. Le ragioni di una tale esigenza sono fin troppo evidenti: la materia chiama in causa l’equilibrio tra le istanze generali di tutela della salute collettiva e la garanzia della libera autodeterminazione ai trattamenti sanitari, tra la posizione giuridica del datore di lavoro, garante della salute e della sicurezza psicofisica dei propri dipendenti oltre che di tutti i terzi che si trovino ad instaurare rapporti e contatti con i suoi preposti e con i locali aziendali, e la libertà del singolo di non sottoporsi a vaccinazioni contro la sua volontà. Il principio di solidarietà generale costituzionale e il principio di prevenzione, su cui è imperniato l’intero sistema di sicurezza sul lavoro, si scontrano con il divieto di sottoposizione obbligatoria ai trattamenti sanitari, con il principio di libertà in materia di salute e con il divieto di discriminazione per motivi personali e di salute nell’ambito lavorativo, sia in sede di assunzione sia nel corso dell’intero rapporto e all’atto della sua cessazione.
Volgendo quindi lo sguardo alle disposizioni esistenti, primaria importanza rivestono, in termini generali, i principi e diritti fondamentali costituzionali di cui agli articoli 2, 3 e 32 della Carta, nonché, e di conseguenza, sul piano del diritto del lavoro, le normative di cui agli articoli 2087 del codice civile, 40 e seguenti e 279 del d.lgs. n. 81/2008, e la disciplina emergenziale dettata per il contrasto alla pandemia da Covid-19, contenuta nell’articolo 42, comma 2, del d.l. n. 18/2020 convertito nella legge n. 27/2020, e 83 del d.l. n. 34/2020, convertito con modificazioni dalla l. n. 77/2020 oltre che nel Piano strategico-operativo nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale (PanFlu 2021-2023), di cui all’Accordo del 25 gennaio 2021 della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano pubblicato nella G.U. Serie Generale, n. 23 del 29 gennaio 2021, nel Piano Nazionale della Prevenzione 2020-2025 e nel Piano Nazionale della Prevenzione Vaccinale, del gennaio 2017.
4. Il vaccino come diritto e come onere: le indicazioni dalla giurisprudenza costituzionale.
In tempi anche recenti, sono pervenute all’attenzione della Corte costituzionale numerose questioni di legittimità, per contrasto alle disposizioni di cui agli articoli 2, 3, comma 2, e 32 della Carta, relative alla normativa vaccinale. Dall’analisi di questa giurisprudenza è possibile individuare quali sono i punti fermi che orientano gli operatori del diritto e il decisore politico nell’interpretazione che, di quelle norme, dev’essere seguita.
In particolare, con la sentenza n. 268 del 2017, la Corte ha fornito una serie di indicazioni e raccomandazioni utili anche, oggi, a correttamente inquadrare il tema della vaccinazione anti-Covid e della sua possibile ricostruzione in chiave di obbligatorietà o meno.
La Consulta ha, innanzitutto, precisato come sia la stessa costruzione dell’articolo 32 a rappresentare l’ambivalenza della tutela costituzionale della salute, insieme diritto all’autodeterminazione del singolo e interesse della collettività, diritto a preservare lo stato di salute del singolo e di tutti gli altri, ed è proprio questo ulteriore e generale scopo a giustificare la compressione dell’autodeterminazione individuale quando si rendano obbligatori per legge specifici trattamenti sanitari[10].
Conseguentemente, quali trattamenti sanitari aventi essi stessi quella duplice finalità, le vaccinazioni possono essere imposte come obbligatorie o raccomandate e la tecnica dell’obbligatorietà[11] ovvero della raccomandazione[12] «possono essere sia il frutto di concezioni parzialmente diverse del rapporto tra individuo e autorità sanitarie pubbliche, sia il risultato di diverse condizioni sanitarie della popolazione di riferimento, opportunamente accertate dalle autorità preposte». Nel primo caso, spiega la Corte, la libera determinazione individuale viene diminuita attraverso la previsione di un obbligo assistito da una sanzione. Questa soluzione è rimessa alla decisione delle autorità sanitarie pubbliche e, quando sia fondata su obiettive e riconosciute esigenze di profilassi, «non è incompatibile con l’art. 32 Cost. se il trattamento obbligatorio sia diretto non solo a migliorare o preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche quello degli altri», per la ratio stessa dell’articolo 32. Nel secondo caso, le autorità sanitarie optano per un appello all’adesione spontanea degli individui a un programma di politica sanitaria vaccinale e preventivo. La tecnica della raccomandazione «esprime maggiore attenzione all’autodeterminazione individuale (o, nel caso di minori, alla responsabilità dei genitori) e, quindi, al profilo soggettivo del diritto fondamentale alla salute, tutelato dal primo comma dell’art. 32 Cost., ma è pur sempre indirizzata allo scopo di ottenere la migliore salvaguardia della salute come interesse (anche) collettivo». Qualunque sia la tecnica prescelta dalle autorità sanitarie per promuovere e diffondere un vaccino, ferma la differente impostazione delle due, quel che rileva, nel ragionamento della Corte, per la decisione delle questioni di legittimità costituzionale, è l’obiettivo essenziale che entrambe perseguono nella profilassi delle malattie infettive: ossia il «comune scopo di garantire e tutelare la salute (anche) collettiva attraverso il raggiungimento della massima copertura vaccinale».
Entrando, pertanto, in questa prospettiva, delineata come l’unica legittima attraverso la quale inquadrare correttamente i trattamenti sanitari vaccinali ex art. 32 Cost., ed incentrata sulla salute quale interesse (anche) obiettivo della collettività, perde di significato la differenza tra obbligo e raccomandazione: «l’obbligatorietà del trattamento vaccinale è semplicemente uno degli strumenti a disposizione delle autorità sanitarie pubbliche per il perseguimento della tutela della salute collettiva, al pari della raccomandazione. I diversi attori (autorità pubbliche e individui) finiscono per realizzare l’obiettivo della più ampia immunizzazione dal rischio di contrarre la malattia indipendentemente dall’esistenza di una loro specifica volontà di collaborare: “e resta del tutto irrilevante, o indifferente, che l’effetto cooperativo sia riconducibile, dal lato attivo, a un obbligo o, piuttosto, a una persuasione o anche, dal lato passivo, all’intento di evitare una sanzione o, piuttosto, di aderire a un invito” (sentenza n. 107 del 2012)»[13].
Relativamente, poi, alle vaccinazioni raccomandate, la Corte chiarisce che in presenza di diffuse e reiterate campagne di comunicazione a favore dei trattamenti vaccinali, si sviluppa nei destinatari un affidamento nei confronti di quanto consigliato dalle autorità sanitarie e ciò rende la scelta individuale di aderire alla raccomandazione di per sé obiettivamente votata alla salvaguardia anche dell’interesse collettivo, al di là delle particolari motivazioni che muovono i singoli. Pertanto, e conseguentemente, la Corte ha sempre riconosciuto anche in tali casi il diritto all’indennizzo per gli effetti dannosi eventualmente prodottisi al singolo per aver aderito alla campagna vaccinale, anche se solo raccomandata[14]: la ragione determinante del diritto all’indennizzo deriva non dall’essersi sottoposti a un trattamento obbligatorio, in quanto tale, quanto piuttosto risiede nelle esigenze di solidarietà sociale che si impongono alla collettività, laddove il singolo subisca conseguenze negative per la propria integrità psico-fisica derivanti da un trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato) effettuato anche nell’interesse della collettività.
L’obiettivo cui si mira, nell’ottica del contemperamento dei contrapposti interessi, è la più ampia copertura vaccinale della popolazione, in applicazione dei principi costituzionali di solidarietà – ex art. 2 Cost. –, di tutela della salute anche collettiva – ex art. 32 Cost. – e di ragionevolezza – ex art. 3 Cost. – e in attuazione del “patto di solidarietà” tra individuo e collettività che l’articolo 32 istituisce.
5. Il vaccino come obbligo nel rapporto di lavoro: le indicazioni di principio desumibili dal nostro ordinamento.
Chiarito, quindi, che nell’esecuzione del patto di solidarietà costituzionalmente previsto tra individuo e collettività, un obbligo, generalizzato o selettivo, a vaccinarsi può essere autoritativamente imposto, si rivela opportuno valutare quali sono le indicazioni di principio che allo stato sono già state rese quando si voglia porre un tale obbligo.
La prima questione affrontata riguarda la legittimità di un obbligo di sottoposizione a trattamento sanitario e le condizioni in presenza delle quali lo si può ritenere legittimo, ragionevole e proporzionale. Nella già ricordata sentenza n. 268 del 2017, la Corte costituzionale evidenzia come, nella scelta di politica sanitaria, l’opzione per l’obbligo o la calda raccomandazione di un vaccino dipenda, anche, dal contesto e dal grado di pericolo per la salute pubblica cui la renitenza a sottoporvisi esporrebbe.
Ed è questa l’essenza del ragionamento che la stessa Consulta sviluppa nella sentenza n. 5 del 2018 in relazione all’introduzione dell’obbligo di sottoporre a dieci vaccinazioni i figli minori (d.l. n. 73/2017), convertito con modifiche dalla legge n. 119/2017): proprio partendo dall’analisi del dato contestuale della preoccupante flessione delle coperture vaccinali, alimentata anche dal diffondersi della convinzione (falsa perché «mai suffragata da evidenze scientifiche») che le vaccinazioni siano inutili, se non addirittura nocive, la Corte giustifica il disposto rafforzamento della cogenza degli strumenti della profilassi vaccinale, qualificandolo un intervento «non irragionevole allo stato attuale delle condizioni epidemiologiche e delle conoscenze scientifiche».
In questo contesto, si mette in luce anche come, ciononostante, il legislatore abbia ritenuto di dover preservare un adeguato spazio per l’autodeterminazione e la costruzione di un rapporto con i cittadini basato sull’informazione, sul confronto e sulla persuasione, laddove ha previsto che, in caso di mancata osservanza dell’obbligo vaccinale, la legge delinea un procedimento volto in primo luogo a fornire ai genitori (o agli esercenti la potestà genitoriale) ulteriori informazioni sulle vaccinazioni e a sollecitarne l’effettuazione[15]. Solo al termine di tale procedimento, e previa concessione di un adeguato termine, potranno essere inflitte le sanzioni amministrative previste in capo agli esercenti la potestà genitoriale sul minore, peraltro assai mitigate in seguito agli emendamenti introdotti in sede di conversione. Vi è anche un altro istituto che mitiga la previsione dell’obbligo e lo coordina con le esigenze di tutela della salute individuale e collettiva e di garanzia dell’autodeterminazione individuale: il sistema di monitoraggio periodico ex art. 1, comma 1-ter, del decreto legge n. 73, nella versione definitiva, il quale consente di rivalutare e riconsiderare la scelta attraverso il monitoraggio della dinamica evolutiva dei livelli di copertura e della incidenza delle patologie virali, arrivando fino alla cessazione della obbligatorietà di alcuni vaccini e al ritorno alla raccomandazione.
Gli elementi di flessibilizzazione previsti dalla normativa denotano, a dire della Corte, «che la scelta legislativa a favore dello strumento dell’obbligo è fortemente ancorata al contesto ed è suscettibile di diversa valutazione al mutare di esso», come se l’imposizione dell’obbligo di un trattamento sanitario vada considerata quale extrema ratio, misura necessaria ad aumentare i livelli di tutela della salute individuale e collettiva, senza comprimere in misura assoluta e senza scadenza la libertà di autodeterminazione individuale.
In altri termini, la Corte applica al tema della legittimità dell’obbligo vaccinale il principio di proporzionalità e ne esegue il relativo test di congruità dei mezzi rispetto al fine: nel caso concreto, limitare l’autodeterminazione individuale risponde ad uno scopo legittimo? Sussiste un nesso causale tra la limitazione della libertà e lo scopo (legittimo) che si persegue? La prevista misura rappresenta il mezzo meno invasivo della libertà personale?
L’altro aspetto su cui le indicazioni della Corte appaiono piuttosto chiare e consolidate riguarda l’individuazione del soggetto legittimato dalla Costituzione ad imporre un tale obbligo sanitario.
Con le sentenze n. 5 del 2018 e 137 del 2019[16] è stato infatti spiegato come lo stesso debba necessariamente essere disposto sulla base di una legge o di un atto avente forza di legge statale e come non sia sufficiente una fonte di rango regionale. La materia vaccinale e dei trattamenti sanitari obbligatori, infatti, si rivela essere particolarmente delicata anche perché si pone al crocevia di varie materie sensibili, tutte di competenza statale.
Quanto invece alla possibilità di desumere un obbligo vaccinale nuovo dal sistema legislativo primario già vigente la Corte costituzionale non ha fornito risposta, evitando di trattare specificamente questo punto. Nella stessa sentenza n. 137 del 2019, ampiamente richiamata dal Giudice messinese nell’ordinanza cautelare in commento, nonostante in quella sede si cerchi di farle dire più di quanto abbia in realtà detto, la Corte ha lambito tale questione, limitandosi ad un esame selettivo della normativa regionale impugnata per evidenziare come la disciplina regionale non abbia introdotto nuove regole in materia sanitaria e di tutela della salute, quanto piuttosto abbia dettato istruzioni sull'organizzazione dei servizi sanitari della Regione, proprio evitando così di esaminare la questione centrale, ovverosia se un obbligo sanitario possa essere desunto dalle leggi vigenti e da una lettura sistematica e integrata dell’ordinamento[17].
La conclusione cui pare potersi giungere dall’analisi della consolidata giurisprudenza costituzionale è che la Corte chiede al legislatore di basarsi sulla scienza e sulla sua continua evoluzione per stabilire quale mezzo impiegare per promuovere la somministrazione di massa di un trattamento sanitario a tutela della salute individuale e collettiva, insieme, perché sono solo la ricerca scientifica e le sue conquiste ad assicurare il giusto ed quo contemperamento tra libertà e solidarietà, nel rapporto tra libertà ed autorità in attuazione del patto di solidarietà costituzionale. Al contempo, la Corte è altrettanto chiara nel ritenere che sussiste, ed è bene che sussista, un margine di discrezionalità politica nella scelta delle politiche sanitarie e nella valutazione del contesto, sociale ed economico, e del rischio, sulla base della consapevolezza che può esservi discrasia tra la normatività medica e quella giuridica.
6. Il vaccino come obbligo nel rapporto di lavoro: le tesi che sono state assunte in dottrina.
Tutto ciò chiarito su di un piano generale e spostandoci all’interno del rapporto di lavoro, il quesito cui, a questo punto, occorre cercare risposta riguarda la possibilità, per il datore di lavoro, di pretendere che i propri dipendenti si vaccinino contro il Sars-Cov-2.
Sul punto il dibattito è particolarmente caldo e sono intervenuti i maggiori esponenti della dottrina giuslavorista ciascuno su posizioni diverse.
6.1. Le tesi favorevoli.
Per semplificare, la risposta affermativa alla possibile obbligatorietà del vaccino per disposizione del datore di lavoro è sostenuta da molti Autori[18] sulla base del seguente e comune schema normativo: innanzitutto l’art. 2087 c.c., diretta estrinsecazione dell’art. 32 Cost., costituisce una norma aperta che impone al datore di lavoro di aggiornare i propri presidi di sicurezza interni e di adottare tutte quelle misure, anche e soprattutto preventive, che la migliore scienza, tecnica ed esperienza dovessero scoprire e suggerire, in qualunque momento. Così, i protocolli sottoscritti dalle parti sociali nello scorso mese di aprile e resi obbligatori dal legislatore per ridurre il rischio di contagio da Covid nei luoghi di lavoro non possono essere considerati in senso statico, ma sempre soggetti all’obbligo di aggiornamento dinamico previsto proprio dall’art. 2087 c.c., di cui sono attuazione: sperimentato e reso disponibile il vaccino, questo deve rientrare in quella previsione dinamica dell’art. 2087.
Nella stessa direzione depone anche l’art. 279 del Testo unico sulla sicurezza, d.lgs. n. 81 del 2008, il quale fa obbligo al datore di lavoro di mettere «a disposizione vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente». La norma non richiede che i vaccini siano obbligatori, ma solamente efficaci dal punto di vista medico-sanitario, e quindi può trattarsi anche di vaccini semplicemente raccomandati[19].
Ancora, la direttiva della Commissione europea dello scorso 3 giugno 2020 n. 2020/739, recepita in Italia con l’art. 4, d.l. n. 125 del 2020, convertito dalla legge n. 159 del 2020, ha espressamente incluso il SARS-CoV-2 tra gli agenti biologici da cui è obbligatoria la protezione anche nell’ambiente lavorativo, con ciò superando ogni dubbio ermeneutico sollevato sulla qualificabilità di questo virus come agente biologico presente nelle lavorazioni di qualunque tipo.
Sotto altro aspetto, l’art. 20 del medesimo testo unico istituisce una correlazione tra gli obblighi del datore e quelli del lavoratore disponendo che «ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo del lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro», così confermando il principio di collaborazione e prevenzione su cui è costruito l’intero sistema normativo di sicurezza sul lavoro, in attuazione del principio solidaristico di matrice costituzionale già visto.
La stessa normativa d’emergenza, quando ha ribadito per via legislativa la qualificazione della infezione da coronavirus per causa lavorativa come infortunio sul lavoro, secondo la nostra tradizione sistemica, ha esposto il datore di lavoro a tutti gli obblighi di prevenzione ed alle responsabilità previste dalla legislazione sulla sicurezza sul lavoro in relazione al nuovo rischio infettivo pandemico (art. 42, comma 2, d.l. n. 18/2020 convertito nella legge n. 27/2020).
Il vero punto controverso, su cui si registra una ampia varietà di soluzioni adottate, attiene alle conseguenze giuridiche nell’ambito del rapporto di lavoro del rifiuto a vaccinarsi del dipendente.
Secondo una prima tesi, ed è quella sostenuta da Pietro Ichino, tutta la vicenda deve essere letta in chiave di idoneità o inidoneità ad adempiere correttamente l’obbligazione lavorativa (Ichino parla anche di «prontezza», al proposito). Secondo l’Autore la domanda da porsi è se, durante la pandemia da Covid-19, un luogo di lavoro nel quale tutti siano vaccinati contro il virus realizzi condizioni di sicurezza contro il rischio dell’infezione apprezzabilmente maggiore, rispetto ad altro luogo di lavoro nel quale una parte dei dipendenti non sia vaccinata. Se le indicazioni della scienza medica sono univocamente nel senso della risposta positiva, quando il singolo datore di lavoro, in relazione alle caratteristiche dell’organizzazione del lavoro nella propria azienda, con l’assistenza del medico competente, ravvisi nella vaccinazione contro il Covid-19 una misura utile per ridurre apprezzabilmente il rischio specifico di trasmissione dell’infezione a causa del contatto tra le persone in seno all’azienda, «egli ha il potere/dovere contrattuale – e non solo – di adottare questa misura, consigliata dalla scienza e dall’esperienza, ed esigerne il rispetto da parte dei dipendenti come parte dell’obbligazione contrattuale gravante su di loro, salvo il caso di un motivo giustificato che sconsigli a una determinata persona di sottoporvisi»[20]. Perdurante la pandemia, nel caso di rifiuto oggettivamente ingiustificato della vaccinazione da parte del dipendente, l’Autore definisce «sconsigliabile» applicare la sanzione del licenziamento disciplinare, considerata la possibilità che venga contestata la sussistenza dell’elemento psicologico necessario ai fini della configurabilità della mancanza grave[21], mentre è più ragionevole qualificare il comportamento come impedimento di carattere oggettivo alla prosecuzione della prestazione lavorativa. Anche rispetto al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, quando sarà cessato il relativo divieto congiunturale in vigore, l’Autore indica come soluzione migliore, dove possibile, la sospensione della prestazione fino alla fine della pandemia, salvo ovviamente che siano possibili soluzioni organizzative diverse (lavoro da remoto o disponibilità di posizione di lavoro, anche di contento professionale inferiore, che consenta l’isolamento rispetto agli altri dipendenti, fornitori e utenti), «anche in considerazione dell’effetto controproducente che potrebbe avere l’adozione di una politica aziendale più minacciosa»[22].
In termini congruenti si esprime anche Arturo Maresca secondo il quale il datore di lavoro può trarre dalla scelta del dipendente di non vaccinarsi tutte le conseguenze che ne derivano sul piano giuridico, «verificando se l’esecuzione della prestazione sia oggettivamente e temporaneamente impossibile con la liberazione dall’obbligo retributivo (art. 1256, co. 2, c.c.). Una verifica da effettuare non in astratto, ma in concreto avendo riguardo alla prevenzione del rischio di contagio e tenendo conto della compresenza con altri lavoratori (vaccinati e non) o di eventuali contatti che il lavoratore deve intrattenere con utenti/clienti. Un giustificato motivo oggettivo di licenziamento sarebbe ipotizzabile soltanto se la perdurante impossibilità di utilizzo del dipendente dovesse impedire il funzionamento dell’attività produttiva»[23].
La posizione illustrata assume una soluzione concreta, pratica e cauta, oltre a rivelarsi pienamente compatibile anche con la recente giurisprudenza di legittimità, protesa a riconoscere al datore di lavoro un grado di responsabilità per non aver garantito la serenità del dipendente rispetto a terzi[24]. E la sospensione – finanche la risoluzione – del contratto di lavoro potrebbe essere una delle soluzioni per non incorrere in questa responsabilità.
Sulla stessa scia si pone anche la tesi sostenuta da Raffaele Guariniello[25], che basa il suo ragionamento su di un dato normativo che ritiene ignorato sia in dottrina che in giurisprudenza, nell’ordinanza cautelare del Tribunale di Messina, qui in commento: la già citata Direttiva (UE) 2020/739 del 3 giugno 2020, già recepita nell’ordinamento italiano[26], che, nel dichiarato intento di garantire il rigoroso rispetto e l’applicazione delle disposizioni nazionali che recepiscono le norme dell’Unione in materia di salute e sicurezza sul lavoro a tutela di tutti i lavoratori ovunque nell’Unione contro la pandemia di Covid‐19, classifica la SARS-CoV-2 come patogeno per l’uomo del gruppo di rischio 3 ed estende al Covid-19 le misure di prevenzione previste nella Direttiva 2000/54/CE dedicata alla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da un'esposizione ad agenti biologici durante il lavoro e adottate, in Italia, con le diposizioni contenute nel Titolo X del d.lgs. n. 81/2008, prime fra tutte la «individuazione e valutazione dei rischi» (artt. 3 e seguenti), la sorveglianza sanitaria e, nel suo ambito, le vaccinazioni (art. 14). Secondo Guariniello il legislatore europeo e quello italiano hanno collocato l’infezione da Covid-19 tra i rischi che i datori di lavoro sono tenuti a valutare e a prevenire, così smentendo quanti sostengono che il Covid-19 rappresenti una situazione esterna riverberabile sui lavoratori all’interno dell’ambiente di lavoro a seguito di dinamiche esterne, non controllabili dal datore di lavoro. «Basta, a questo punto, lasciarsi condurre per mano dal Titolo X del D.Lgs. n. 81/2008, e, in particolare, dopo aver letto gli artt. 271, comma 4, e 266, comma 1, soffermarsi sull’art. 279, comma 2, dello stesso decreto legislativo, ove si prescrivono la messa a disposizione di vaccini efficaci e l'allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure di quell’art. 42 che - piaccia o no - impone al datore di lavoro di attuare le misure indicate dal medico competente, e, qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica, di adibire il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza». L’Autore evidenzia come: il medico competente non possa esimersi dall’esprimere un giudizio di inidoneità del lavoratore quando il datore di lavoro, proprio su conforme parere dello stesso medico competente, abbia doverosamente messo il vaccino a disposizione di quello specifico lavoratore, ma sia stato da costui rifiutato; sotto altro profilo, il datore di lavoro non possa trascurare i doveri stabiliti nell’art. 18, comma 1, lettere g) e bb), d.lgs. n. 81/2008, di vigilare sul rispetto degli obblighi del medico competente e di adibire i lavoratori alla mansione soltanto se muniti del giudizio di idoneità, e più in generale il dovere imposto dalla lettera c) di quello stesso articolo 18, di tenere conto, nell'affidare i compiti ai lavoratori, «delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e sicurezza». La conclusione che Guariniello espone, però, si spinge oltre e prevede che, «ove sia provato che l’inosservanza di tali obblighi sia causa di un’infezione da covid-19, può sorgere a carico del datore di lavoro come del medico competente l’addebito di omicidio colposo o lesione personale colposa. Perché la colpa può consistere, non solo nell’omessa adozione delle misure prescritte nei protocolli, nelle linee guida, negli accordi, emergenziali di cui parla l’ormai celebre art. 29-bis del decreto Liquidità (d.l. n. 23/2020), ma anche e soprattutto nella negligenza, imprudenza, imperizia, ovvero nella violazione delle specifiche leggi in materia di sicurezza sul lavoro, a cominciare dal d.lgs. n. 81/2008»[27].
Altra tesi autorevolmente sostenuta, invece, immagina come conseguenza del rifiuto ingiustificato a vaccinarsi la irrogabilità di un licenziamento di tipo disciplinare[28] poiché la mancata vaccinazione configurerebbe propriamente e tipicamente un inadempimento contrattuale[29].
Di questo avviso è Roberto Riverso che, ponendo l’accento sulla valenza duplice del principio di solidarietà e su quell’orientamento, già visto, della Corte costituzionale in forza del quale è irrilevante la distinzione tra vaccini meramente raccomandati o imposti dal legislatore ai fini del diritto solidaristico all’indennizzo per le conseguenze pregiudizievoli e permanenti sofferte dall’individuo per essersi sottoposto al trattamento stesso, e strutturando l’argomentazione sulla base delle disposizioni normative già illustrate, qualifica il virus come un fattore di rischio professionale, e definisce il tema del vaccino come un trattamento «di cui il datore di lavoro non può disinteressarsi e di cui lo stesso datore deve prescrivere, per tempo, l’assunzione, quale necessaria misura di prevenzione e protezione per la tutela della salute e per l’accesso nei luoghi di lavoro»[30]. Riverso sottolinea come nel sistema di sicurezza sociale, sulla base del principio di prevenzione su cui è costruito, agli obblighi del datore ne corrispondono altrettanti in capo al lavoratore disciplinati dall’art. 20 del testo unico, il quale prevede proprio quello di contribuire all'adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, di osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro e, per quanto qui rileva, soprattutto quello di prendersi cura della propria salute e di quella dei colleghi e di tutti gli altri soggetti presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni. L’Autore ritiene che nell’ambito del rapporto di lavoro, il dipendente deve essere tutelato, per legge, anche contro la sua volontà e, soprattutto, vanno tutelati i colleghi ed i terzi dai rischi discendenti dalla sua volontà. «In questa diversa prospettiva il nodo che si discute sembrerebbe già risolto dalla legge in una chiave solidaristica: il lavoratore non può, in nome del proprio diritto alla libertà di cura, decidere di mettere a repentaglio l’incolumità altrui (…) In ambito lavorativo, l’ordinamento obbliga il lavoratore a prendersi cura della salute altrui ed a considerare l’effetto potenzialmente nocivo della sua omissione: quando il rischio esista, il vaccino sia disponibile e sia efficace».[31] Da ciò consegue che la mancanza della vaccinazione richiesta dal datore di lavoro, a fronte del rischio, «potrebbe in effetti rilevare in chiave di violazione degli obblighi legali incombenti sul lavoratore in base al rapporto di lavoro», sia nel caso di rischio biologico specifico di cui all’art. 279 del testo unico, sia in ogni altro caso di rischio qualificato o aggravato, legittimando «una reazione disciplinare che può comportare una sanzione di diversa gravità, a seconda della reale situazione di fatto e dei diversi contesti aziendali, in base al principio di proporzionalità». Quanto alla congruità della sanzione massima e non conservativa, l’Autore propende per un’interpretazione «che miri a responsabilizzare al massimo le parti del rapporto, a fronte della drammatica pandemia. Anche perché mi pare elusivo, sul piano sistematico, far scadere il rifiuto di una misura di sicurezza come il vaccino – pregnante questione contrattuale, imputabile alla volontà di una parte – a mera inidoneità professionale: come se il lavoratore fosse malato, o incapace a svolgere le mansioni, mentre è renitente agli obblighi di protezione citati. È una tesi che, a ben vedere, indebolisce anche le tutele, conservative e retributive, modulabili meglio sul piano soggettivo, col principio di proporzionalità, piuttosto che attraverso la fattispecie dell’impossibilità sopravvenuta fondata esclusivamente sulla valutazione del residuo interesse alla prestazione del creditore»[32].
Aldo De Matteis, ricostruendo anch’esso i termini del problema sulla base della nozione di rischio ubiquo, rischio professionale interno ed esterno insieme, atto a mettere in pericolo la salute del dipendente, dei colleghi e di tutti i terzi, si rifà alla scala presuntiva di rischio elaborata dall’Inail specificamente nella circolare 3 aprile 2020 n. 13, posta la qualificazione della infezione da coronavirus in occasione di lavoro come infortunio sul lavoro[33]. Su queste premesse, evidenzia come la dottrina abbia operato un passaggio ulteriore[34]: il lavoro prestato durante la fase pandemica costituisce di per sé solo fattore di aggravamento del rischio di contagio. Nel caso di infezione da coronavirus, l’aggravamento del rischio è costituito dall’aggregazione sociale per ragioni lavorative: aggregazione interna, con altri colleghi, o esterna, per i contatti imposti per ragioni lavorative con una pluralità di soggetti. Ciò posto, la nozione accolta da De Matteis di rischio ubiquo, «ai fini correlati della copertura assicurativa e della responsabilità del datore di lavoro verso i dipendenti e verso i terzi, comporta due conseguenze: da una parte risulta arduo ipotizzare categorie immuni dal rischio di contagio; dall’altra la difficoltà di misure conservative quali la ricollocazione in ambienti protetti da tale rischio, salvo lo smart working»[35].
Una posizione intermedia è poi occupata da chi, da una parte, esclude che il datore di lavoro possa, in linea generale, imporre a un proprio dipendente un trattamento sanitario personale come il vaccino anti-Covid in assenza di una specifica previsione di legge, ma dall’altra, prevede due eccezioni alla regola, sempreché le condizioni di salute del lavoratore consentano la somministrazione del vaccino: «la prima è quando l’obbligo di vaccinarsi può essere ricondotto al codice deontologico del lavoratore (esempio medico o infermiere in situazioni ad elevatissimo rischio di contagio); la seconda quando il vaccino può essere necessario per garantire la sicurezza negli ambienti di lavoro», e questo perché, nella prima ipotesi «vengono meno i requisiti di idoneità professionale, il lavoratore non è più abilitato a svolgere la propria attività e può essere persino licenziato» e nel secondo caso «molto dipende da quanto è indispensabile il vaccino al fine di garantire la sicurezza negli ambienti di lavoro. Nell’effettuare questa valutazione rilevanza prioritaria devono avere le condizioni oggettive in cui viene resa la prestazione e la effettiva disponibilità di un vaccino efficace»[36]. Quanto, poi, alle conseguenze per l’ipotesi del rifiuto ingiustificato del dipendente di sottoporsi al vaccino quando questo gli sia obbligatorio, Zoppoli propende, più che per l’opportunità di un intervento del legislatore, per una regolamentazione specifica delle sanzioni nella contrattazione collettiva.
6.2. Le tesi contrarie.
Non mancano anche posizioni – per vero minoritarie – più scettiche sulla possibilità di introdurre un obbligo vaccinale sulla base delle disposizioni già vigenti, se non addirittura contrarie[37], che si fondano sulla convinzione che le disposizioni riportate, singolarmente considerate, non integrano la riserva di legge disposta dall’art. 32 della Costituzione, aderendo ad una interpretazione maggiormente garantista della libertà individuale di autodeterminazione e ritenendo necessaria una legge ad hoc[38].
Inoltre, e più specificamente, vi è chi evidenzia come gli obblighi imposti dalle disposizioni del Testo Unico non possano trovare concreta applicazione nel caso del vaccino anti Covid in quanto il datore di lavoro non si trova nelle condizioni di poter adempiere alle prescrizioni di cui al citato articolo 279 poiché le risorse e la procedura di vaccinazione sono ancora tutte in mano all’autorità sanitaria pubblica e non si può sostenere che siano nella disponibilità del datore[39].
Sul piano, comunque, delle posizioni che escludono la possibilità giuridica dell’irrogabilità del licenziamento, vi è chi sostiene che l’idea di evocare l’istituto del licenziamento in caso di rifiuto da parte del lavoratore di sottoporsi alla vaccinazione sia una posizione priva di fondamento normativo[40]. Anche nel caso in cui il datore di lavoro fosse obbligato ad integrare il sistema di sicurezza, procurando la possibilità della vaccinazione, si ritiene che non possa in ogni caso ritenersi che sorga un medesimo obbligo per il lavoratore di sottoporsi al trattamento perché il dipendente, in base a fondate prescrizioni mediche, può avere ragioni ostative al vaccino tra cui, secondo questa opinione, anche motivi legati alla paura e alla convinzione personale, arrivando così a giustificare anche un rifiuto da parte dei c.d. no-vax. In ogni caso, si precisa, per giungere a paventare un’ipotesi di licenziamento, il datore di lavoro dovrebbe affrontare un percorso ad ostacoli: in primis, dimostrare che la misura del vaccino sia indispensabile per tutelare la salute anche negli ambienti di lavoro e dei colleghi e che non vi siano misure alternative adeguate e ragionevolmente sufficienti (dispositivi di sicurezza, metodi di disinfezione, smart working, etc.); inoltre, non va dimenticato che sul datore di lavoro incombe sempre l’onere di provare a ricollocare il dipendente, magari su posizioni organizzative che presentino profili di rischio di contagio minori.
6.3. La posizione del Giudice del lavoro di Messina nell’ordinanza cautelare.
L’ordinanza di Messina in commento risponde al dibattito con argomentazioni di carattere generale pur sfiorando solamente il tema della possibile obbligatorietà del vaccino contro il Covid nell’ambito del rapporto di lavoro, nella misura in cui sono pronunciate in relazione alla vaccinazione anti influenzale comune.
La decisione sviluppa, en passant, il tema dell’intersecazione della disciplina dell’obbligo di sicurezza gravante sul datore di lavoro con la condizione della sottoposizione o meno a vaccini antivirali in contesti professionali a rischio qualificato di contagio, per concentrarsi piuttosto «sull’asseribile incidenza del potere amministrativo sul diritto costituzionale alla salute, nell’esplicazione dell’incoercibilità del consenso ai trattamenti sanitari».
Il ragionamento proposto dal Giudice si sviluppa per punti consequenziali partendo dalla constatazione che il provvedimento aziendale dell’Ospedale di Messina che attuava il decreto assessoriale regionale debba essere considerato una scelta quanto mai opportuna, non censurabile e obbligata del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., pena la sua responsabilità per avere colposamente violato una norma precauzionale vigente, sia pure di rango secondario.
Ciò posto il Tribunale ritiene comunque che il provvedimento aziendale, nell’imporre un requisito di idoneità del lavoratore, non possa definirsi ragionevole e proporzionato per l’illegittimità – accertata in un procedimento a trattazione sommaria – della decisione assessoriale.
Nell’ordinanza in commento, pur riconoscendosi che gli operatori sanitari e il personale di laboratorio fanno parte delle categorie maggiormente a rischio, per le quali i piani nazionali vaccinali hanno sempre attestato questo maggiore grado di esposizione a malattie infettive prevenibili con programmi ben impostati di vaccinazione – ritenuti capaci di ridurre in modo sostanziale i rischi sia di acquisire pericolose infezioni occupazionali, sia di trasmettere patogeni ad altri lavoratori e soggetti con cui i lavoratori possono entrare in contatto –; sono stati indicati come destinatari privilegiati di una serie di specifiche vaccinazioni al fine di un adeguato intervento di immunizzazione attiva, ritenuto fondamentale non soltanto per la protezione del singolo operatore, ma soprattutto per la garanzia nei confronti dei pazienti, ai quali l’operatore potrebbe trasmettere l’infezione determinando gravi danni e persino casi mortali; rappresentano una categoria target per la vaccinazione antinfluenzale, ai fini della protezione del singolo, della riduzione della diffusione dell'influenza a gruppi vulnerabili di pazienti e del mantenimento dell’erogazione dei servizi sanitari durante epidemie influenzali; ciononostante si sostiene che l’assenza di una norma di legge statale che renda espressamente obbligatorie specifiche vaccinazioni precluda tout cour la possibilità di ritenere sussistente un tale obbligo in capo ai dipendenti. A sostegno di ciò vi sarebbero le disposizioni dei piani nazionali vaccinali e delle circolari ministeriali annuali in tema che prevedono solo una forte raccomandazione e la sentenza n. 137 del 2019 della Corte costituzionale, già richiamata, per la quale, sulla base del combinato disposto degli artt. 32 e 117 Cost., la competenza legislativa in materia sanitaria spetta allo Stato, unico legittimato ad imporre trattamenti sanitari.
Un ultimo punto della decisione merita di essere segnalato: il Giudice messinese ritiene che l’attività di controllo svolta dal datore di lavoro per il tramite del medico competente e la prevista trasmissione dell’elenco dei lavoratori che non aderiscono alla campagna vaccinale al medico competente, in accompagnamento alla richiesta di visita per gli accertamenti di cui all’art. 41 d.lgs 81/2008, non sia pregiudizievole del diritto alla privacy dei lavoratori «in quanto è diretta esplicazione del diritto del datore di lavoro, in quanto obbligato all’adozione di misure di prevenzione del rischio professionale, di richiedere al professionista medico l’accertamento dell’idoneità alle mansioni».
Come è chiaro, nella prima occasione in cui la questione dell’obbligatorietà vaccinale è approdata nelle aule di giustizia, la giurisprudenza ha assunto una posizione contraria alla possibilità di ritenere sussistente un tale obbligo sulla base delle disposizioni già vigenti, a massima protezione della libertà di autodeterminazione dell’individuo; una posizione, però, che si presta a qualche riflessione critica.
In primo luogo, l’ordinanza pare essere contraddittoria nella misura in cui esclude l’introduzione di un obbligo a vaccinarsi se non per legge dello Stato, ma, senza prevedere quali strumenti il datore di lavoro possa adoperare e come possa gestire una tale situazione, riconosce a chiare lettere e in più punti la doverosità di considerare, nell’organizzazione del lavoro e nell’attuazione della sua posizione di garanzia verso la salute e la sicurezza dei dipendenti e di tutti i terzi che entrino in contatto con quelli, il fattore vaccinale, ritenendo non irrilevante, ai fini della sua responsabilità, anche colposa, l’accertamento e il controllo sulla renitenza o la sottoposizione a vaccino dei lavoratori. E se ciò viene sostenuto per il vaccino antinfluenzale comune, tanto più vale e non può non valere per il vaccino anti Covid.
In secondo luogo, l’ordinanza si basa su una analisi del quadro normativo parziale, non considerando la direttiva europea n. 739 del 2020, già recepita con legge italiana, né l’intero sistema di sicurezza sul lavoro e, in ultima analisi, vuole far dire alla Corte costituzionale più di quanto abbia in effetti detto, come si è evidenziato supra.
7. Considerazioni conclusive.
In conclusione, il quadro, così ampiamente tracciato, suggerisce di porre in termini il più possibile chiari e schematici qualche considerazione di sintesi per cercare di sciogliere una materia fortemente complessa e intrecciata di libertà individuali, solidarietà collettive, misure di emergenza e stato d’eccezione, che si scontra con la gestione ordinaria e straordinaria dei rapporti di lavoro.
Pare, pertanto, che si possa sostenere che:
a) i vaccini in generale, e il vaccino anti-Covid in particolare, dovrebbero essere correttamente intesi nella società e nelle sedi politiche non solo come trattamenti sanitari, ma anche come beni comuni, tra le misure preventive più efficaci per la realizzazione del patto di solidarietà costituzionale finalizzato alla tutela della salute individuale e collettiva, con un rapporto rischi/benefici particolarmente positivo, riconoscendo loro un valore non solo sanitario, ma anche etico intrinseco di particolare rilevanza[41];
b) il virus SARS-CoV-2 è stato qualificato e classificato, dalla Direttiva (UE) n. 739 del 2020, come patogeno per l’uomo del gruppo di rischio 3 e al Covid-19 sono state estese le misure di prevenzione previste nella Direttiva 2000/54/CE dedicata alla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da un'esposizione ad agenti biologici durante il lavoro e adottate in Italia nel Titolo X del d.lgs. n. 81/2008. La citata direttiva è stata già recepita nell’ordinamento italiano mediante apposite modifiche proprio del Testo unico sulla sicurezza con due decreti legge già convertiti (artt. 4, d.l. 7 ottobre 2020, n. 125 come convertito dalla legge 27 novembre 2020, n. 159, e art. 17, d.l. 9 novembre 2020 n. 149 inserito nell’art.13-sexiesdecies del d.l. Ristori 28 ottobre 2020, n. 137 come convertito dalla legge 18 dicembre 2020 n. 176);
c) un intervento legislativo positivo statale non si è avuto né per rendere obbligatoria la vaccinazione contro il virus SARS-CoV-2 (solo fortemente raccomandata negli atti governativi più recenti), né in senso generale né per determinate categorie di soggetti particolarmente a rischio, né per esplicitare le conseguenze nel rapporto di lavoro, ai fini della responsabilità del datore di lavoro, di quell’aggiornamento degli agenti patogeni cui le attività lavorative sono state ritenute esposte ex lege; d)la Corte costituzionale è chiara nel ribadire la natura ambivalente del vaccino, quale misura atta a proteggere la salute dell’individuo e della collettività, l’obiettivo che la Costituzione intende perseguire con le campagne vaccinali (la massima copertura possibile della popolazione), la necessità di una normativa statale che renda obbligatorio un determinato vaccino e il diritto costituzionalmente necessario all’indennizzo per chiunque si sottoponga ad un vaccino, obbligatorio o raccomandato che sia, per le conseguenze dannose permanenti subite;
e) mentre non è altrettanto chiara nel ritenere necessario, ai fini della corretta attuazione dell’articolo 32 Cost., un intervento normativo ad hoc ovvero nel ritenere possibile anche il desumere la sussistenza di un tale obbligo dalla normativa già vigente: sul punto la Corte non si è espressa. In più occasioni ha, invero, sostenuto come sia necessario, ai fini della decisione sulla legittimità o meno dell’imposizione di determinati trattamenti sanitari, valutare ed evidenziare le circostanze concrete fattuali e contingenti sulla base delle quali giustificare ed adottare le scelte di politica sanitaria;
f) nell’ambito del rapporto di lavoro, il datore è per legge garante della salute e della sicurezza dei propri lavoratori e collaboratori e di tutti coloro che entrano in contatto con questi nei locali aziendali e in occasione di lavoro. La normativa d’emergenza ha riconosciuto la natura professionale del contagio da Covid nei luoghi di lavoro ponendo anche un meccanismo presuntivo per determinate attività lavorative ritenute maggiormente esposte al rischio infettivo;
g) le parti sociali, nell’aprile 2020, hanno stipulato dei protocolli di sicurezza, che la legge ha reso obbligatori e integrativi delle previsioni dell’art. 2087 c.c., per consentire la ripresa in sicurezza delle attività lavorative: in quei protocolli non si fa menzione del vaccino anti covid, necessariamente successivo a quelli, ma le procedure e i dispositivi di protezione anti contagio sono entrati così a far parte dell’obbligo di sicurezza gravante tanto sui datori di lavoro quanto sui lavoratori.
Tutto ciò posto e considerato, mi pare si possa concludere che, allo stato, il datore non può imporre ai propri dipendenti l’obbligo di sottoporsi al vaccino anti Covid, ma deve, in prima battuta, attivamente promuovere la campagna vaccinale e farsi promotore di una adeguata e seria informativa sul trattamento sanitario in discorso per favorire nella misura massimamente possibile una adesione volontaria e consapevole al vaccino e, in secondo luogo, sul piano degli obblighi di sicurezza e prevenzione ex art. 2087 c.c. e dell’intero sistema di sicurezza sul lavoro, specialmente ex art. 279 del testo unico, prevedere un procedimento di controllo e pretendere dai suoi dipendenti e collaboratori una certificazione attestante la loro avvenuta vaccinazione, assumendo le necessarie informazioni, nel rispetto della privacy sui lavoratori vaccinati e non, per poter accettare la loro prestazione o prendere le necessarie cautele[42].
Il comportamento del lavoratore che non si è sottoposto al vaccino e ne rifiuta la somministrazione, infatti, pur non assumendo rilievo disciplinare[43], comporta necessariamente delle conseguenze in termini di valutazione oggettiva della sua idoneità alle mansioni, da accertarsi mediante il procedimento di sorveglianza sanitaria previsto dal Testo unico e con la collaborazione, quale corresponsabile del datore, del medico competente.
Il datore di lavoro pertanto, sulla base della certificata renitenza, ingiustificata da motivi sanitari, alla vaccinazione del dipendente, dovrà valutare attentamente la rilevanza nel caso concreto dell’art. 42, d.lgs. n. 81/2008, sull’inidoneità alla mansione specifica espressa dal medico compente, per verificare con quale strumento gestire il rapporto di lavoro. Il datore, dopo aver controllato l’impossibilità dell’obbligo di repechage, anche eventualmente adibendo il dipendente a mansioni inferiori, se accettate dal lavoratore, potrà sospendere unilateralmente il rapporto, senza retribuzione e senza contribuzione, fintanto che perduri la condizione di inutilizzabilità dello stesso, arrivando in ipotesi anche a disporre un licenziamento per motivo oggettivo quando, per decorso del tempo, la prestazione del lavoratore sia divenuta inutile per la sua organizzazione.
Vero è che il datore di lavoro non può essere costretto ad adeguare la sua organizzazione, anche in termini di organico dei lavoratori dipendenti, per consentire l’esercizio di un diritto, seppure di rilevanza costituzionale, ad un suo dipendente che non intende vaccinarsi, ma l’adozione di una soluzione non conservativa del rapporto appare, allo stato incauta e pericolosa[44].
In conclusione, la esigenza costituzionale prioritaria di garantire la persona, nella sua libertà di autodeterminazione e nella sua salute suggerirebbe l’opportunità di un intervento chiaro ed esplicito in materia del legislatore, opportuno anche per evitare che si dia luogo ad un contenzioso infinito per i mesi successivi e ad una situazione di incertezza nella gestione quotidiana dei rapporti di lavoro, facendo propri gli auspici del Comitato Nazionale per la Bioetica che, in tema di obbligatorietà del vaccino, si augura che «sia rispettato il principio che nessuno dovrebbe subire un trattamento sanitario contro la sua volontà preferendo l’adesione spontanea rispetto all’imposizione autoritativa, ove il diffondersi del senso di responsabilità individuale e le condizioni complessive della diffusione della pandemia lo consentano», ma che, «nell’eventualità che perduri la gravità della situazione sanitaria e l’insostenibilità a lungo termine delle limitazioni alle attività sociali ed economiche, non vada esclusa l'obbligatorietà dei vaccini soprattutto per gruppi professionali che sono a rischio di infezione e trasmissione di virus; tale obbligo dovrà essere revocato qualora non sussista più un pericolo significativo per la collettività»[45].
[1] Sulla qualificazione del Covid-19 come agente biologico e sulla conseguente necessità per l’Azienda di aggiornare il DVR, si rinvia all’articolata disamina di L. M. Pelusi, Tutela della salute dei lavoratori e COVID-19: una prima lettura critica degli obblighi datoriali, in DSL, 2019, n. 2, 122- 137, reperibile al link https://www.repertoriosalute.it/wp-content/uploads/2020/04/Prof.-Pelusi-su-Corona-Virus.pdf. Per un approfondimento sul tema cfr. anche P. Pascucci, Ancora su coronavirus e sicurezza sul lavoro: novità e conferme nello ius superveniens del D.P.C.M. 22 marzo 2020 e soprattutto del d.l. n. 19/2020, in DSL, 2020, n. 1; pp. 117-135; P. Pascucci, Coronavirus e sicurezza sul lavoro, tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale?, in DSL, 2019, n. 2, pp. 98-121; R. Guariniello, La sicurezza sul lavoro al tempo del coronavirus, ed. Wolters Kluwer Italia, 2020; G. Natullo, Covid-19 e sicurezza sul lavoro: nuovi rischi, vecchie regole?, WP CSDLE “Massimo D’An- tona”.IT – n. 413/2020; S. Dovere, Covid-19: sicurezza del lavoro e valutazione dei rischi, in Giustizia Insieme, 22 aprile 2020, n. 1016; V. Filì, Covid-19 e rapporti di lavoro, in D. Garofalo, M. Tiraboschi, V. Filì, F. Seghezzi, Welfare e lavoro nella emergenza epidemiolo- gica, Volume I, ADAPT e-Book, n. 93, 2020.
[2] M. Basilico, Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato. Intervista di Marcello Basilico a Arturo Maresca, Roberto Riverso, Paolo Sordi e Lorenzo Zoppoli, in questa Rivista, 22 gennaio 2021, reperibile al link https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1508-il-vaccino-anti-covid-scomoda-novita-per-gli-equilibri-del-rapporto-di-lavoro-subordinato.
[3] R. Riverso, L’obbligo del vaccino anti Covid nel rapporto di lavoro tra principio di prevenzione e principio di solidarietà, in Questione Giustizia, 2021, consultabile al link https://www.questionegiustizia.it/articolo/l-obbligo-del-vaccino-anti-covid-nel-rapporto-di-lavoro-tra-principio-di-prevenzione-e-principio-di-solidarieta?idn=26&idx=28230&idlink=3&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=20210123.
[4] In relazione al problema dell’accesso alla vaccinazione, sicuramente attuale vista la carenza e la limitatezza delle dosi disponibili, occorre chiedersi, esiste un diritto ad essere vaccinati? Ad essere vaccinati entro un certo limite temporale? Quali priorità sono riscontrabili, se vi sono, tra la popolazione nell’accesso al vaccino? La Costituzione offre criteri per determinare l’ordine giusto ed equo di vaccinazione?
Ed ancora, in relazione al problema dell’indennizzo, è bene chiedersi, esiste un diritto all’indennizzo per qualunque tipo di vaccinazione? Ne è richiesta l’obbligatorietà o è sufficiente la sua raccomandazione da parte delle forze politiche e dalle autorità sanitarie?
[5] Ordinanza emessa nell’ambito di un giudizio cautelare d’urgenza dal Tribunale di Messina, sezione lavoro, n. 23455 del 12 dicembre 2020.
[6] A. De Matteis, Art. 32 della Costituzione: diritti e doveri in tema di vaccinazione anti-Covid, in Virus, stato di eccezione e scelte tragiche. Le politiche del lavoro, economiche e sociali e la tutela dei diritti fondamentali nei tempi incerti dell’emergenza sanitaria e della crisi. La costruzione di un nuovo diritto del lavoro. Conversazioni sul lavoro a distanza da agosto 2020 a marzo 2021 promosse e coordinate da Vincenzo Antonio Poso, nella collana Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi; il contributo è di prossima pubblicazione ne Il Giuslavorista.
[7] Basti pensare alla legge n. 891/1939 sull’obbligo di vaccino contro la difterite, alle dieci vaccinazioni obbligatorie previste dal d.l. n. 73/2017, conv. in legge n. 119/2017. Significative anche le leggi 5 marzo 1992 n. 292 e 20 marzo 1965 n. 419 sull’obbligo di vaccinazione antitetanica per determinate categorie di lavoratori. In tali situazioni il legislatore italiano ha sancito l’obbligatorietà del vaccino per determinate infezioni e per puntuali categorie di soggetti esposti, imponendo anche l’obbligo di esibire, ove richiesta, la relativa certificazione sanitaria.
[8] La legge di bilancio 2021, legge n. 178/2020, si occupa del piano strategico nazionale dei vaccini con numerose disposizioni, c. 457 ss., dettando misure di carattere amministrativo per la sua attuazione capillare, senza imporre l’obbligo individuale di vaccinazione. Il d.l. n. 1 del 2021, in continuità con la legge n. 219 nel 2017, ribadisce la necessità del consenso per le vaccinazioni non obbligatorie e detta criteri per l’espressione del consenso da parte di persone incapaci ricoverate presso strutture sanitarie assistite a mezzo dei rispettivi tutore, curatore, amministratore di sostegno e, in ultima analisi, direttore sanitario, o, in caso di contrasto, giudice tutelare. Si rinvia a F. Spaccasassi, Ospiti delle RSA e consenso alla vaccinazione anti Covid-19: un percorso ad ostacoli?, e L. Fumagalli, Le vaccinazioni anti Sars-CoV-2 delle persone incapaci «ricoverate presso strutture sanitarie assistite». Prima lettura dell’articolo 5 d.l. n. 1/2021, tutti in Questione giustizia, 27 gennaio 2021.
[9] A. De Matteis, cit.
[10] Si veda l’orientamento granitico espresso dalla Corte in numerose sentenze, tra cui, ex plurimis, n. 107 del 2012, n. 226 del 2000, n. 118 del 1996, n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990.
[11] La Corte chiarisce come l’obbligatorietà deve essere prescritta per legge o per ordinanza di un’autorità sanitaria.
[12] La Corte spiega che la raccomandazione di una vaccinazione può emergere da una serie variegata di atti: insistite e ampie campagne anche straordinarie di informazione e raccomandazione da parte delle autorità sanitarie pubbliche nelle loro massime istanze; distribuzione di materiale informativo specifico; informazioni contenute sul sito istituzionale del Ministero della salute; decreti e circolari ministeriali; piani nazionali di prevenzione vaccinale; oppure la stessa legge. Nel caso specifico della vaccinazione antinfluenzale, poi, si mostra particolarmente significativo quanto espresso nei Piani nazionali di prevenzione vaccinale, che, affiancando la vaccinazione antinfluenzale ad altri tipi di vaccinazioni raccomandate e indicando i rispettivi obiettivi di copertura, definiscono la complessiva programmazione vaccinale; le raccomandazioni del Ministero della salute adottate specificamente, per ogni stagione, con riferimento alla vaccinazione antinfluenzale; le campagne informative istituzionali del Ministero della salute, oltre che delle Regioni.
[13] I passaggi riportati tra virgolette nel capoverso sono tutti tratti dalla citata sentenza della Corte costituzionale, n. 268/2017.
[14] Per il riconoscimento del diritto all’indennizzo deve essersi verificata una menomazione permanente conseguente alla somministrazione del vaccino e deve essere giudizialmente accertato il nesso di causalità tra la somministrazione stessa e la menomazione subita.
[15] Si ricorderà come, a tale scopo, l’art. 1, c. 4, d.l. n. 73/2017 ha inserito un apposito colloquio tra le autorità sanitarie e i genitori, istituendo un momento di incontro personale, strumento particolarmente favorevole alla comprensione reciproca, alla persuasione e all’adesione consapevole.
[16] Quest’ultima ampiamente richiamata anche dall’ordinanza cautelare del Giudice del lavoro messinese.
[17] La normativa regionale pugliese censurata, in quell’occasione, è stata ritenuta compatibile con la riserva di legge di cui all’art. 32 Cost. poiché si sarebbe limitata a dettare «esclusivamente una disciplina sull'organizzazione dei servizi sanitari della Regione, senza discostarsi dai principi fondamentali nella materia “tutela della salute” riservati alla legislazione statale ai sensi dell'art. 117, terzo comma, Cost., senza introdurre obblighi vaccinali di nuovo conio e, comunque, senza imporre obbligatoriamente ciò che a livello nazionale è solo suggerito o raccomandato». Nel dettaglio, la normativa regionale si limitava a precisare che il rispetto delle indicazioni del Piano nazionale di prevenzione vaccinale vigente (anche PNPV) avrebbe costituito un onere per l’accesso degli operatori sanitari ai reparti individuati con la delibera della Giunta regionale. Così prevedendo, spiega la Corte, «la disposizione impugnata si muove nel solco del PNPV vigente, il quale infatti indica per gli operatori sanitari alcune specifiche vaccinazioni in forma di raccomandazione, sulla base della fondamentale considerazione che un adeguato intervento di immunizzazione degli operatori sanitari non solo protegge gli interessati, ma svolge un ruolo di “garanzia nei confronti dei pazienti ai quali”, date le loro particolari condizioni di vulnerabilità, “l’operatore potrebbe trasmettere l’infezione determinando gravi danni e persino casi mortali”» (così, C. Cost. n. 137/2019).
[18] P. Ichino, Perché e come l’obbligo di vaccinazione può nascere anche solo da un contratto di diritto privato, in LavoroDirittiEuropa, 1/2021; R. Riverso, L’obbligo di vaccino anti Covid nel rapporto di lavoro tra principio di prevenzione e principio di solidarietà, in Questione giustizia, 18/1/2021; A. De Matteis, cit.; R. Guariniello, Covid- 19: l’azienda può obbligare i lavoratori a vaccinarsi?, in www.ipsoa.it 28.12.2020; V.A. Poso, Dibattito istantaneo su vaccini anti-covid e rapporto di lavoro, in Labor on-line, 27.1.2021.
[19] R. Riverso, cit.
[20] P. Ichino, Perché e come l’obbligo di vaccinazione può nascere anche solo da un contratto di diritto privato, in LavoroDirittiEuropa, 1/2021, cit. l’Autore evidenzia come la circostanza della eccezionale brevità dei tempi necessari ad ottenere l’autorizzazione alla somministrazione del vaccino confermi che l’intera comunità scientifica e politica mondiale ritenga urgente la vaccinazione di massa su scala planetaria, sulla base di un confronto tra l’entità e la gravità degli eventuali effetti collaterali dell’inoculazione del vaccino e l’entità e gravità estrema dei danni certi derivanti dalla pandemia in atto. «Se dunque è del tutto ragionevole il rilascio accelerato dell’autorizzazione da parte delle autorità competenti, non può non ritenersi ragionevole anche l’adozione di questa misura da parte del titolare di un’azienda».
[21] Ichino ritiene che la renitenza del dipendente alla vaccinazione sia in astratto suscettibile di essere trattata allo stesso modo del rifiuto di una qualsiasi altra misura di sicurezza che nei casi più gravi può portare al licenziamento disciplinare, ma che l’intensità del dibattito politico in corso negli ultimi anni sull’obbligo delle vaccinazioni in generale, e su quello della vaccinazione contro il Covid-19 in particolare, possa avere un’incidenza sull’elemento psicologico indispensabile per il configurarsi della mancanza disciplinare grave. Per questo, indica come preferibile la qualificazione del rifiuto alla vaccinazione come impedimento di carattere oggettivo alla prosecuzione della prestazione, piuttosto che come mancanza disciplinare.
[22] P. Ichino, cit.
[23] A. Maresca, Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato. Intervista di Marcello Basilico a Arturo Maresca, Roberto Riverso, Paolo Sordi e Lorenzo Zoppoli, in questa Rivista, 22 gennaio 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1508-il-vaccino-anti-covid-scomoda-novita-per-gli-equilibri-del-rapporto-di-lavoro-subordinato.
[24] Cass. 4 dicembre 2020, n. 27913. Trattasi di un caso in cui un lavoratore era stato vessato da un altro collega e il datore di lavoro non aveva adottato le giuste misure di precauzione per evitare che si concretizzasse un caso di mobbing.
[25] R. Guariniello, Covid-19: l’azienda può obbligare i lavoratori a vaccinarsi?, in www.ipsoa.it, 28 dicembre 2020; Id., Sorveglianza sanitaria: vaccino obbligatorio per i lavoratori?, in DPL, 2021, n. 1, pp. 27-34; nonché da ultimo Id., Sul vaccino per i lavoratori contro il Covid-19 si applichi la legge!, in www.ipsoa.it, 16 gennaio 2021 (è questa la versione da cui, qui, si cita).
[26] La Direttiva n. 739 del 3 giugno 2020 è stata recepita nel nostro ordinamento con due decreti legge già convertiti (artt. 4, d.l. 7 ottobre 2020, n. 125 come convertito dalla legge 27 novembre 2020, n. 159, e 17, d.l. 9 novembre 2020 n. 149 inserito nell’art.13-sexiesdecies del d.l. c.d. ristori 28 ottobre 2020, n. 137 come convertito dalla legge 18 dicembre 2020 n. 176).
[27] R. Guariniello, Sul vaccino per i lavoratori contro il Covid-19 si applichi la legge!, cit.
[28] Osserva G. Cazzola, Il vaccino anti Covid e il licenziamento del dipendente, in www.startmag.it, 2 gennaio 2021, che «il lavoratore potrebbe avere dei buoni motivi, come tali riconosciuti dalla legge o dai protocolli» per rifiutare la somministrazione del vaccino. «Ma solo quelli. Perché, in caso contrario, il datore potrebbe avvalersi del suo potere disciplinare e, alla fine, risolvere il rapporto».
[29] P. Iervolino, Sul licenziamento del dipendente no-vax: «Ignorantia excusat», in www.paoloiervolino.it, 29 dicembre 2020. L’Autore, tuttavia, osserva che «il lavoratore avrebbe colpa solo se dalle sue azioni, o meglio obiezioni, derivassero effetti sulle altre persone presenti sul luogo di lavoro. Ed un effetto tangibile al momento vi sarebbe solo per gli operatori sanitari, gli unici lavoratori che sappiamo avere la possibilità immediata di vaccinazione. Gli effetti andrebbero invece ad affievolirsi man mano che ci si avvicina alla c.d. immunità di gregge».
[30] R. Riverso, L’obbligo di vaccino anti Covid nel rapporto di lavoro tra principio di prevenzione e principio di solidarietà, in Questione giustizia, 18/1/2021.
[31] R. Riverso, op. ult. cit.
[32] R. Riverso, Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato. Intervista di Marcello Basilico a Arturo Maresca, Roberto Riverso, Paolo Sordi e Lorenzo Zoppoli, in questa Rivista, 22 gennaio 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1508-il-vaccino-anti-covid-scomoda-novita-per-gli-equilibri-del-rapporto-di-lavoro-subordinato.
[33] Il sistema di tutela costruito dall’Inail su scala presuntiva basata su di un criterio probabilistico suddivide le attività lavorative individuando il diverso grado, per ciascuna, dell’aggravamento del rischio pandemico per cause lavorative e, così, pone al vertice gli operatori sanitari, indipendentemente dal reparto in cui operano, cui equipara i lavoratori in costante contatto con il pubblico, oltre ad altri lavoratori cui possa applicarsi la stessa presunzione semplice di contagio (quali, a mero titolo esemplificativo, gli operatori delle Residenze sanitarie assistenziali, RSA, i tassisti, gli addetti alla pulizia negli studi medici, e simili). Per queste categorie di lavoratori si applica una presunzione semplice di professionalità del contagio per il solo fatto di svolgere quella data attività lavorativa. Lo stesso strumento presuntivo è stato applicato anche all’infortunio in itenere, considerato che nel mezzo di trasporto pubblico il rischio di contagio è più elevato, trattandosi di ambiente confinato con più persone, con la conseguenza che, da una parte, ai lavoratori che si avvalgano del trasporto pubblico si applica la presunzione di origine professionale, anche se non appartenenti alle categorie professionali esemplificate sopra; dall’altra l’uso del mezzo privato costituisce in questa fase pandemica una ulteriore ipotesi di mezzo necessitato.
[34] S. Giubboni, Covid 19: Obblighi di sicurezza, tutele previdenziali, profili riparatori, in WP CSDLE MASSIMO D’ANTONA, maggio 2020; G. Ludovico, Il contagio da Covid 19 come infortunio sul lavoro tra copertura Inail e responsabilità civile, in RDSS, 2020, II, 353.
[35] A. De Matteis, Art. 32 della Costituzione: diritti e doveri in tema di vaccinazione anti-Covid, cit. L’Autore conclude con l’auspicio della dottrina e delle parti sociali di un intervento chiarificatore del legislatore, come già avvenuto con l’art. 29-bis legge n. 40/2020, anche nel senso della obbligatorietà, e richiama le dichiarazioni di esponenti governativi che non escludono misure più cogenti nel caso in cui il metodo persuasivo non raggiunga il suo obiettivo, ulteriore dimostrazione della indipendenza della regolazione privatistica rispetto al contingente comando statale.
[36] L. Zoppoli, Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato. Intervista di Marcello Basilico a Arturo Maresca, Roberto Riverso, Paolo Sordi e Lorenzo Zoppoli, in Giustizia insieme, 22 gennaio 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1508-il-vaccino-anti-covid-scomoda-novita-per-gli-equilibri-del-rapporto-di-lavoro-subordinato.
[37] Sul punto, cfr. Covid: legale Rsa, personale non vaccinato è inidoneo, in www.ansa.it, 29 dicembre 2020.
[38] O. Mazzotta, Vaccino anti-Covid e rapporto di lavoro, in LavoroDirittiEuropa, n. 1/2021; A. Perulli, Dibattito istantaneo su vaccini anti-covid e rapporto di lavoro, in Labor on-line, 27.1.2021.
[39] G. Falasca, Non si può licenziare il dipendente che rifiuta di vaccinarsi, in www.open.online.it, 25 dicembre 2020.
[40] F. Scarpelli, Rifiuto del vaccino e licenziamento: andiamoci piano!, in www.linke- din.com, 29 dicembre 2020. Propende per negare la possibilità al datore di lavoro di licenziare il dipendente che si rifiuti di vaccinarsi anche G. Pellacani, Vi spiego perché non si può licenziare chi non si vaccina contro Covid-19, in www.startmag.it, 1° gennaio 2021, sebbene con alcune eccezioni. Osserva, infatti, l’Autore che «il primo aspetto da considerare è il contesto nel quale si svolge l’attività lavorativa, perché una soluzione valida per tutti e per tutte le stagioni non è ragionevolmente prospettabile. Occorre in particolare distinguere tra ambienti di lavoro in cui il Coronavirus-2 (SARS-CoV-2) sia introdotto intenzionalmente nel ciclo produttivo (laboratori) o in cui la presenza dello stesso non possa essere evitata (strutture sanitarie) dagli altri ambienti di lavoro». Nel primo caso, il vaccino risulterebbe una misura da assumere nel rispetto delle previsioni di legge in materia (art. 279 del d.lgs. n. 81/2008), per tutelare la salute dei lavoratori secondo l’esperienza e la tecnica. Nel secondo caso, invece, «in assenza di previsioni legali di portata generale o particolare, la questione si pone invece in termini differenti e con- duce ad escludere la possibilità di configurare, in capo al lavoratore, un obbligo di vaccinazione e la conseguente possibilità, in caso di rifiuto, di spostamento a mansioni di- verse o di licenziamento».
[41] In questo senso, le raccomandazioni del Comitato Nazionale per la Bioetica espresse nel documento I vaccini e covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione, del 27 novembre 2020.
[42] In senso conforme, V. A. Poso, cit.
[43] Diverso sarebbe il caso in cui i Protocolli siglati dalle parti sociali venissero aggiornati e venisse lì introdotta una qualche previsione relativa al vaccino anti covid: in quel caso, il contravvenire a quelle regole cautelari si colorerebbe di illiceità, offrendo al datore di lavoro la possibilità di contestare l’addebito al dipendente e, all’esito del procedimento previsto per legge, irrogargli la sanzione ritenuta la più proporzionata rispetto alla gravità del comportamento anti-disciplinare posto in essere.
[44] Si concorda con le preoccupazioni espresse da Ichino nel suo articolo, già ricordate. V., P. Ichino, Perché e come l’obbligo di vaccinazione può nascere anche solo da un contratto di diritto privato, cit.
[45] Comitato Nazionale per la Bioetica, I vaccini e covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione, 27 novembre 2020, cit.
Rivive il principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale?
di Carlo Citterio
1. All’udienza del 28 gennaio 2021 le Sezioni unite penali della Corte di cassazione, chiamate a rispondere al quesito “se, in caso di annullamento ai soli effetti civili della sentenza di condanna, pronunciata in appello senza previa rinnovazione della prova dichiarativa decisiva, a seguito di gravame della sola parte civile contro la sentenza di assoluzione di primo grado, il rinvio debba essere disposto al giudice civile competente per valore in grado di appello o a quello penale” hanno risposto affermando il principio di diritto che “il rinvio deve essere disposto al giudice civile competente per valore in grado di appello, a norma dell'art. 622 cod. proc. pen., che così dispone con riferimento a tutti i casi di annullamento che abbiano ad oggetto esclusivamente le statuizioni ad effetti civili” [ricorso n. 5219/2020, ordinanza di rimessione n. 30858/2020, ric. Cremonini].
2. Si tratta di una decisione di rilevantissima importanza, per le implicazioni che dovrebbe, o almeno potrebbe, comportare anche su una serie di altre questioni determinate dalla possibilità di protrarre l’esercizio dell’azione civile nel processo penale pur dopo la conclusione dell’esercizio dell’azione penale.
Attendiamo con grande interesse le motivazioni della sentenza, perché dalle stesse si trarranno le indicazioni per comprendere se torneremo, finalmente, a restituire al senso sistematico del principio dell’accessorietà dell’azione civile nel processo penale un’efficacia di sicuro orientamento nelle soluzioni giurisprudenziali di tali questioni ovvero se proseguirà il recente approccio, che pare ancorato all’affermazione di un reciproco diritto di (ex)-imputato e (presunta) persona offesa danneggiata (o presunto mero soggetto danneggiato) di pretendere comunque la deliberazione del giudice penale. Tale ‘pretesa’ comportando poi il rispetto non già delle sole “forme” della procedura (art. 573, comma 1, cod. proc. pen.: L’impugnazione per i soli interessi civili è proposta, trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale), bensì pure delle peculiari garanzie che la legge processuale penale impone per poter affermare la responsabilità penale, quella che comporta applicazione di sanzioni di natura penale e che, solo come tale, trova anche in sede di normativa e giurisdizione europea specifiche peculiari tutele. Tutele in tale sede per il vero mai estese, in eguale natura dimensione e prospettiva, alla mera azione civile.
3. Valga, per tutte, la questione dell’applicabilità dell’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale nel caso di “appello contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa”, previsto dall’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen..
La dizione della norma introdotta dalla legge n. 103/2017 è chiarissima: limita l’obbligo al caso dell’appello del pubblico ministero, quindi all’impugnazione che determina prosecuzione dell’esercizio dell’azione penale. E si tratta di norma che segue (e quindi conosce) il diverso approdo delle precedenti sentenze Dasgupta (27620/2016) e Patalano (18620/2017).
Lo hanno riconosciuto le stesse Sezioni Unite nella sentenza n. 14426/2019, ric. Pavan, p. 9: “La norma - avendo evidente natura eccezionale rispetto alle previsioni di cui ai precedenti commi, ed essendo, quindi, di stretta interpretazione - ha sì introdotto una nuova ipotesi di ammissione d'ufficio delle prove (art. 190, comma 2, cod. proc. pen.), ma l'ha disciplinata limitando l'obbligo ("dispone") di rinnovazione dell'istruttoria alle seguenti condizioni: a) che il soggetto impugnante sia il pubblico ministero (non, quindi, la parte civile);”.
La vicenda è davvero emblematica.
Tre appunto gli obiettivi dati di fatto: una giurisprudenza precedente che estende in via interpretativa l’obbligo anche al caso dell’impugnazione della parte civile (strutturalmente diverso per gli interessi sottesi alle azioni penale e civile); una norma successiva (l’art. 603, comma 3-bis) che, consapevole di tale giurisprudenza e della disciplina dell’art. 576, cod. proc. pen. (che anche alla parte civile riconosce il diritto di impugnare le sentenze di proscioglimento), riserva l’obbligo di rinnovazione al solo caso dell’impugnazione, quella della parte pubblica, che determina la prosecuzione dell’azione penale (e quindi la permanenza della qualità di imputato nell’appellato pur assolto in primo grado); una sentenza delle Sezioni Unite successiva (Pavan) che riconosce la inequivoca scelta normativa e l’afferma.
E tuttavia si impone la giurisprudenza estensiva che, bypassando la novità normativa e ignorando la sentenza Pavan, si àncora al precedente Dasgupta, seguito dalla sentenza Patalano. Ma se si ritorna al testo della sentenza Dasgupta (pregevolissima e condivisibile per l’impostazione sul piano penale) si deve constatare che il principio estensivo era nato in termini sostanzialmente assertivi: “8.5. Inoltre, lo stesso è da dire nella ipotesi in cui il rovesciamento della pronuncia di assoluzione di primo grado sia sollecitata nella prospettiva degli interessi civili, a seguito di impugnazione della sola parte civile (in questo ordine di idee, Sez. 6, n. 37592 del 11/06/2013, Manna, Rv. 256332), essendo anche in questo caso in gioco la garanzia del giusto processo a favore dell'imputato coinvolto in un procedimento penale, dove i meccanismi e le regole sulla formazione della prova non subiscono distinzioni a seconda degli interessi in gioco, pur se di natura esclusivamente civilistica; tanto che anche in un contesto di impugnazione ai soli effetti civili deve ritenersi attribuito al giudice il potere-dovere di integrazione probatoria di ufficio ex art. 603, comma 3, cod. proc. pen.”
L’affermazione avrebbe dovuto confrontarsi con il fatto obiettivo che, terminata l’azione penale, l’imputato rimane nel processo solo come “convenuto”, e la parte civile è non più la “persona offesa” (né mai lo è stata se soggetto solo danneggiato) ma l’ “attore”, e che pertanto si è davanti ad un’azione a contenuto solo civile che prosegue, depurata di ogni implicazione sanzionatoria penalistica, e il cui rito mantiene “le forme” del processo penale (573, comma 1), non necessariamente i suoi principi probatori (sicché la reinterpretazione del principio di accessorietà dell’azione civile avrebbe dovuto essere oggetto di specifico esame e pertinente spiegazione; ma, a ben vedere considerando il caso oggetto della sentenza Dasgupta, l’estensione del principio all’impugnazione della parte civile era sostanzialmente un obiter dictum: il pericolo del quale sta proprio nella mancata possibilità dello sviscerare tutte le implicazioni della questione).
Proprio su quest’ultimo passaggio (i principi probatori) attendiamo con interesse vivo la motivazione delle Sezioni Unite Cremonini. Perché la giurisprudenza non occasionale che le Sezioni Unite hanno disatteso nasceva dall’improvviso reciso rifiuto della Terza sezione civile della Corte di cassazione di adeguarsi, nei giudizi di rinvio ex art. 622, cod. proc. pen., ai principi penalistici di valutazione della prova.
4. Rinviamo dunque necessariamente ogni approfondimento alla lettura della motivazione della sentenza Cremonini. Con almeno due aspettative per i giudici penali d’appello.
La prima. Che si aprano strade interpretative sicure per restituirli alla funzione propria pertinente: innanzitutto e specialmente tutti i processi in cui è in atto l’esercizio dell’azione penale, allontanando il rischio inabissante di distogliere le non adeguate risorse per rispondere ad una tipologia di domanda e di incombenze procedurali che, nel processo penale, non trovano giustificazione mentre possono ancora trovare piena efficace e ‘naturale’ tutela nella sede civile propria. Basti pensare, per rendere la concretezza del problema e la gravità delle sue implicazioni, che il disegno di legge del Ministro Bonafede (C.2435, Camera dei Deputati in discussione alla Commissione Giustizia) contiene anche una norma, l’art. 13, che tra l’altro indica quale contenuto della delega: la previsione che le parti o i loro difensori possano presentare istanza di immediata definizione del processo quando siano decorsi i termini di durata dei giudizi in grado di appello (e in cassazione) stabiliti ai sensi dell’art. 12 (due anni per l’appello), dovendo i processi essere definiti ‘entro’ sei mesi dall’istanza di immediata definizione, con (ma questa ormai pare la bacchetta magica per risolvere i problemi a costo zero) possibili conseguenze disciplinari per il dirigente che non ha organizzato per assicurare il rispetto di tali termini e il giudice che non li abbia rispettati. Sia chiaro: con la giurisprudenza prevalente fino al 28 gennaio, vorrebbe dire che il giudice penale d’appello passerebbe il suo tempo a trattare solo i processi con azione penale in corso e parte civile (anche se bagatellari) ovvero le assoluzioni (intervenute dopo pieno contraddittorio e quindi quantomeno con presunzione di infondatezza della pretesa civilistica) con impugnazione delle sole parti civili, in questo secondo caso rinnovando pressoché in tutti i processi l’istruttoria. Con buona pace delle aspirazioni dei cittadini ad avere dalla giustizia penale, per le azioni penali esercitate e in atto, processi giusti e in tempi ragionevoli, con decisioni nel merito e non per prescrizione dei reati.
La seconda. Che si rifletta davvero in termini sistematici sull’attualità o meno di un principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale, per comprendere, così e per esempio, se davvero (come sorprendentemente conclude Sezioni Unite sentenza 28911/2019, ric. Massaria/Papaleo): “Nei confronti della sentenza di primo grado che abbia dichiarato l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione, così come nei confronti della sentenza di appello che tale decisione abbia confermato, è ammissibile l'impugnazione della parte civile ove con la stessa si contesti l'erroneità di detta dichiarazione (In motivazione la Corte ha precisato che la legittimazione della parte civile ad impugnare deriva direttamente dalla previsione dell'art. 576, comma 1, cod. proc. pen., mentre l'interesse concreto deve individuarsi nella finalità di ottenere, in caso di appello, il ribaltamento della prima pronuncia e l'affermazione di responsabilità dell'imputato, sia pure ai soli fini delle statuizioni civili, e, in caso di ricorso in cassazione, l'annullamento della sentenza con rinvio al giudice civile in grado di appello, ex art. 622 cod. proc. pen., senza la necessità di iniziare "ex novo" il giudizio civile).
Difficile comprendere perché la legittimazione ad impugnare (576) debba assorbire l’interesse ad impugnare (568, comma 4) e perché, appunto “se” l’azione civile è accessoria, la parte civile abbia interesse ad impugnare una sentenza (erronea dichiarazione di prescrizione in primo grado) che non fa stato nei suoi confronti nel senso che (ex art. 651 ss, cod. proc. pen.) non le impedisce di rivolgersi, con la stessa impregiudicata domanda, al giudice civile, originario referente fisiologico della sua domanda; ed invece il giudice d’appello debba fare (in ipotesi) tutta l’istruttoria non svolta in primo grado per assecondare una scelta preferenziale discrezionale di una parte “accessoria” al processo penale, pure al di fuori di alcun pregiudizio giuridicamente rilevante (che il contingente interesse di fatto per sé mai rileva), mentre i ‘suoi’ processi penali corrono verso la prescrizione.
Ecco. Attendiamo che la motivazione Cremonini ci confermi che nel codice di rito esiste ancora il principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.