ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Vacatio sententiae alla Consulta, nel corso di una vicenda conclusasi con un anomalo “bilanciamento” tra un bene costituzionalmente protetto e la norma sul processo di cui all’art. 136 Cost. (nota minima alla sent. n. 41 del 2021)
di Antonio Ruggeri
Sommario: 1. La Corte dismette i panni del giudice, sia pure peculiare qual è quello costituzionale, ed indossa le vesti del massimo decisore politico, mettendo da parte il principio della separazione dei poteri e causando, perciò, un grave vulnus alla Costituzione, nell’accezione ormai affermatasi negli ordinamenti di tradizioni liberali – 2. L’introduzione di un originale tipo di vacatio sententiae e gli imprevedibili effetti che possono conseguirne – 3. Il singolare ragionamento che ha portato alla invenzione della norma costituzionale forgiata dalla Consulta, la premessa inconsistente su cui esso poggia e gli argomenti teoricamente alquanto fragili addotti a sua giustificazione – 4. Una succinta notazione finale, a riguardo degli scenari che potrebbero delinearsi per il caso che le pronunzie emesse da organi giudicanti composti da giudici ausiliari dovessero essere impugnate davanti alla Corte di Strasburgo.
1. La Corte dismette i panni del giudice, sia pure peculiare qual è quello costituzionale, ed indossa le vesti del massimo decisore politico, mettendo da parte il principio della separazione dei poteri e causando, perciò, un grave vulnus alla Costituzione, nell’accezione ormai affermatasi negli ordinamenti di tradizioni liberali
Non è la prima volta – come si sa – che la Consulta piega ed adatta alle peculiari e pressanti esigenze di una situazione di fatto i canoni sul giudizio di costituzionalità. Questa vicenda riceve, tuttavia, oggi una esasperata e per molti versi originale rappresentazione segnalandosi per taluni profili, ora rapidamente richiamati, sui quali conviene far luogo ad una disincantata e, per quanto possibile, distaccata riflessione.
Avverto subito che non è facile cosa, perlomeno non lo è per chi, come me, è da tempo fermamente convinto del bisogno, di cruciale rilievo, di tenere fermi i canoni stessi, quale condizione necessaria, ancorché di per sé sola insufficiente, del mantenimento della “giurisdizionalità” della giurisdizione costituzionale, vale a dire della riconoscibilità della sua stessa natura ed essenza, della identità che la distingue da ogni altra espressione della giurisdizione[1].
La posta in palio è, dunque, elevatissima; e non può, perciò, non destare inquietudine la circostanza che essa sia messa in “gioco”, tanto più poi quando l’esito della partita appaia essere perdente.
Immediate e di tutta evidenza le conseguenze che discendono dalla mancata osservanza dei canoni suddetti. Dismettendo i panni del “giudice”, nella peculiare accezione e valenza posseduta dal termine nelle sue applicazioni alla giustizia costituzionale, alla Corte non resta che indossare al loro posto quelli del decisore politico, anzi del massimo decisore politico, commutandosi – come mi è venuto di dire già in altre occasioni – in un autentico potere costituente permanente, da se medesimo abilitato a disporre a piacimento, secondo occasionali convenienze, delle norme costituzionali che ne danno l’identità e ne qualificano l’attività. In buona sostanza, mette dunque da canto il principio della separazione dei poteri che, pur nella temperata accoglienza ricevuta dalla nostra Carta al pari delle altre venute alla luce all’indomani della seconda grande guerra, dà comunque la cifra espressiva di ogni ordinamento di tradizioni liberali. Non a caso, infatti, se ne fa menzione, quale una delle basi portanti della struttura di uno Stato costituzionale, nel famoso art. 16 della Dichiarazione dei diritti del 1789, unitamente al riconoscimento dei diritti fondamentali, nei cui riguardi si pone – come si sa – in funzione servente.
Viene, insomma, a determinarsi un’anomala commistione dei ruoli istituzionali, rendendosi pertanto indistinguibile quello giocato dalla Corte rispetto all’altro che è proprio degli organi della direzione politica. Ed è francamente singolare che la Corte reputi di potere scegliere di volta in volta quale vestito indossare a seconda della rappresentazione teatrale che si accinga a fare, se quello del garante ovvero l’altro del decisore o, magari – e perché no? –, nel corso di una stessa vicenda processuale entrambi, alternandoli man mano che la stessa si svolge e dando quindi modo agli stessi di rispecchiarsi, in forme inusuali, nei verdetti emessi in chiusura dei casi.
Non è consentito qui allargare il discorso oltre l’hortus conclusus entro il quale questa succinta riflessione è obbligata a stare; e, tuttavia, poiché ogni tessera di un mosaico si lega alle altre e tutte assieme compongono il quadro, non è inopportuno accennare di sfuggita come si siano avute non poche (ed esse pure preoccupanti) manifestazioni di questo trend volto ad un innaturale mescolamento dei ruoli. Mi limito al riguardo a rammentare qui il modo con cui l’ultima giurisprudenza intende e (non di rado non) mette in pratica il limite del rispetto della discrezionalità del legislatore, che pure per vero è da tempo soggetto a vistose oscillazioni[2], talora persino ad usi diametralmente opposti: ora, cioè, tenuto fermo e fatto valere davanti alle richieste venute dalle autorità remittenti di incisive manipolazioni del dettato legislativo ed ora però – e questo ciò che, appunto, ha qui specifico rilievo – messo sotto stress o, diciamo pure, interamente da canto. Quest’ultimo esito, poi, può presentarsi in varie forme: dandosi al legislatore un termine, del quale peraltro non sempre è chiara la ratio, perché provveda a far luogo al necessario, sostanziale rifacimento di una disciplina legislativa complessivamente carente e non in linea con il dettato costituzionale[3], ovvero sollecitando puramente e semplicemente il legislatore stesso ad intervenire sotto la minaccia della futura e pressoché certa caducazione operata direttamente dalla stessa Corte[4]. Ed è interessante notare, a sicura conferma della astratta sussistenza del limite e del suo disinvolto superamento, come la Corte non si trattenga dal prospettare al legislatore talune possibili discipline alternative (così, appunto, in Cappato) ovvero a dare un vero e proprio “catalogo” di indicazioni al quale attenersi, sì da conformare la propria decisione quale una sorta di anomala “pronunzia-delega”, ora più ed ora meno stringente per il suo primo e naturale destinatario[5].
La Corte insomma adegua la misura dell’intervento politico-normativo cui fa luogo alle circostanze, per come sono di volta in volta apprezzate, senza che peraltro non sempre risulti chiara la ragione per cui, fissate certe premesse del suo ragionamento e portate quindi ai loro conseguenti svolgimenti, si facciano veicolare gli esiti raggiunti ora da questa ed ora da quella tecnica decisoria: tecniche – si faccia caso – a volte assai diverse, persino opposte, malgrado la straordinaria somiglianza riscontrabile tra le vicende processuali alle quali si applichino[6].
È questo – a me pare – lo scotto, assai grave in termini di certezza del diritto costituzionale (e, perciò, di prevedibilità nell’uso degli strumenti processuali), che si è costretti a pagare per effetto della proliferazione incessante (e, negli ultimi tempi, a ritmi incalzanti) degli strumenti stessi. Insomma, quanto più si è arricchita la panoplia dei tipi e sottotipi di decisione forgiati dalla Consulta, tanto più in conseguenza del loro affollamento v’è il rischio del loro uso promiscuo e – se posso esser franco – improvvisato, faticandosi quindi non poco a capire (e talvolta non riuscendosi a capire affatto) quale mai possa essere stata la ragione della scelta nel singolo caso adottata[7].
2. L’introduzione di un originale tipo di vacatio sententiae e gli imprevedibili effetti che possono conseguirne
Ora, il dato che con maggiore evidenza balza subito agli occhi, già a prima lettura della decisione qui annotata, è dato dal suo porsi ben oltre (e, per ciò stesso, contro) il disposto di cui all’art. 136 della Carta che – come si sa – vorrebbe prodotto subito e in ogni caso l’effetto ablativo che è proprio delle pronunzie di accoglimento.
Sulla decisione si sono avuti già diversi commenti di accreditati studiosi[8], la qual cosa semplifica molto il compito che mi è stato oggi affidato dandomi modo di fermare specificamente l’attenzione unicamente sul punto evocato dal titolo dato alla mia riflessione.
In breve, la Corte fa qui luogo ad un’anomala vacatio sententiae, peraltro dalla durata stupefacentemente lunga[9], non prevista (e, per ciò stesso, non consentita[10]) dal disposto costituzionale sopra richiamato, mostrando in tal modo factis di ritenere “bilanciabile” la norma sul processo costituzionale in parola con altra norma, di cui all’art. 106 Cost., relativa all’amministrazione della giustizia (e, dunque, ad un bene costituzionalmente protetto da cui dipende il fisiologico ed ottimale esercizio della giurisdizione, con tutto ciò che esso rappresenta per i diritti e gli interessi in genere tutelati dalla Carta), malgrado si tratti di materiali del tutto eterogenei e, come tali, non confrontabili.
Si diceva che non è la prima volta che la Corte mostra di considerare “cedevoli” le norme sui giudizi di costituzionalità. La circostanza per cui se ne sono avuti non sporadici riscontri non è tuttavia – è banale dover qui rammentare – una giustificazione valida dell’operato del giudice costituzionale. Non si trascuri, ad ogni buon conto, il fatto che le manipolazioni per il futuro, quale quella operata in occasione della vicenda processuale che ha dato lo spunto per il commento che si va ora facendo, solo ad una prima ma erronea impressione appaiono essere speculari a quelle relative al passato, di cui pure si sono avuti non pochi riscontri[11]. E ciò, per la elementare ragione che il passato è noto e possono, perciò, ben darsi casi in cui la delimitazione temporale dell’effetto ablativo si dimostri essere perfettamente rispondente ad esigenze di sistema, anzi – a dirla tutta – non si ponga affatto quale una forma di manipolazione, nell’accezione propria del termine, bensì linearmente discenda dai canoni relativi all’avvicendamento delle fonti nel tempo ed alle dinamiche del processo costituzionale.
Si pensi, ad es., ad una legge regionale venuta alla luce nel pieno rispetto dei parametri al tempo della sua formazione vigenti e divenuta successivamente invalida a causa di un mutamento del parametro, quale potrebbe aversi per effetto della entrata in vigore di una nuova legge statale idonea a porre vincoli all’autonomia regionale. Ebbene, è chiaro che la eventuale perdita di efficacia dell’atto affetto da invalidità sopravvenuta[12] non già ex tunc bensì unicamente a far data dal momento del mutamento del parametro non urta coi canoni relativi alla composizione delle antinomie, costituendone piuttosto il piano e lineare svolgimento.
Di contro, le manipolazioni per il futuro sono gravate dall’ipoteca relativa alla inconoscibilità di quest’ultimo e, talora, alla sua imprevedibilità, tanto più poi quando l’evento prefigurato al quale è ancorata la perdita di efficacia dell’atto illegittimo potrebbe venire ad esistenza in un momento molto lontano nel tempo, come appunto si ha nel caso nostro[13], nel quale peraltro non è affatto certo che nella data prevista si abbia davvero il completamento della riforma della magistratura onoraria. Di qui all’ottobre 2025 possono, infatti, accadere molte cose, tali da rendere, per un verso, materialmente impossibile o, diciamo pure, non necessaria la produzione dell’effetto ablativo – ed è proprio ciò che, in fondo, la stessa Corte si augura[14] –, in conseguenza del complessivo rifacimento della disciplina della materia da parte del legislatore. Per un altro verso, è però pure da mettere in conto la evenienza che, non riuscendosi a portare a termine la riforma della magistratura onoraria, si avverta il bisogno di prolungare ulteriormente la vigenza della normativa oggi dichiarata costituzionalmente illegittima. La qual cosa, francamente, non vedo come possa farsi, se non tornando ad investire la Corte della medesima questione già decisa nel senso… dell’annullamento. Una ipotesi, chiaramente, impraticabile, semplicemente assurda. Si conoscono, infatti, molti casi di questioni dapprima rigettate e poi accolte[15], ma non ovviamente di questioni accolte e poi rigettate[16].
Come si vede, la tecnica decisoria che dà modo alla Corte di apporre un termine di vacatio alle proprie decisioni può – ne convengo – rivelarsi adeguata a talune circostanze, così come peraltro si è dimostrata essere negli ordinamenti che la conoscono[17], ma a condizione che l’intervallo temporale tra la emissione del verdetto e la produzione dell’effetto ablativo sia ragionevolmente contenuto, non già – come qui – in misura abnorme lungo. In ogni caso – come si viene dicendo –, un punto è da tener fermo, senza esitazione alcuna; ed è di dar modo al giudice costituzionale di muoversi unicamente entro il recinto segnato dai canoni che presiedono all’esercizio delle sue funzioni. Se poi si ritiene che l’ambito in parola, per com’è oggi, non sia più sufficiente a dar modo all’organo di spaziare e di spingersi in territori ad oggi preclusigli e invece bisognosi di essere dallo stesso coltivati, a beneficio della Carta e di quanti – cittadini ed operatori istituzionali – ad essa fanno capo per avere appagati taluni loro bisogni, ebbene la soluzione c’è ed è a portata di mano: quella indicata nell’art. 138, per la modifica dei canoni costituzionali sul processo, e in altre fonti (legge comune e norme frutto di produzione giuridica da parte della stessa Corte) quanto agli ulteriori canoni posti in svolgimento e ad integrazione dei primi[18].
Di contro, la Corte molte volte fa luogo ad occasionali rifacimenti degli stessi: innova cioè norme frutto di “diritto politico” con norme espressive di “diritto giurisprudenziale”, per riprendere ora i termini accreditati da un’autorevole, non dimenticata dottrina ed oggi d’uso corrente[19]. Ed è evidente che la seconda forma di produzione giuridica è, per sua indeclinabile vocazione, soggetta a continue oscillazioni e mai finiti ripensamenti, diversamente dalla prima che, pur andando essa pure ovviamente incontro a modifiche, esibisce nondimeno una maggiore rigidità e – ciò che più importa – offre, perlomeno sulla carta, garanzie maggiori di certezza del diritto in senso oggettivo. È poi chiaro che a volte enunciati presenti in atti di normazione, a partire da quelli costituzionali, possono essere forieri di ancora maggiori incertezze di quelle che possono conseguire alle espressioni della giurisprudenza, specie laddove quest’ultima si componga in “indirizzi” (in senso proprio), consolidati ed univocamente orientati.
La cosa ha particolare rilievo proprio sul piano costituzionale.
Non rinnego – sia chiaro – il significato profondo e ad oggi attuale avuto dalla “lotta per la Costituzione” – come suole essere chiamata – condotta nella gloriosa ed esaltante stagione che ha portato all’avvento delle prime Carte liberali; e non intendo, dunque, affatto rimettere in discussione il valore intrinseco in una nuova ed adeguata “razionalizzazione” costituzionale, alla quale a mia opinione sarebbe anzi urgente porre mano, svecchiando e rigenerando la Carta del ’48 in linea con la sua matrice originaria ed allo scopo di renderla ancora più confacente a nuovi bisogni nel frattempo venuti alla luce. Intendo solo dire che dovremmo tutti avere piena consapevolezza dei guasti che – ahimè, non di rado – conseguono ad un uso non vigilato delle tecniche di produzione giuridica, al punto che in talune circostanze un sano diritto non scritto – come mi è venuto di dire in altre occasioni – si rivela essere assai preferibile ad uno scritto e malfatto[20].
Sempre a fugare ogni possibile fraintendimento del mio pensiero, tengo poi a chiarire che, pur nella consapevolezza dei rischi ai quali fa comunque andare incontro il “diritto politico”, non ne auspico di certo l’abbandono, accompagnato dalla entrata in campo, in modo prepotente, in sua vece del “diritto giurisprudenziale”, che a sua volta – come si è venuti dicendo – comporta esso pure inconvenienti non da poco. Il modello vincente, nel quale da tempo mi riconosco, è, invece, quello del congiunto ed equilibrato concorso di entrambe le forme di produzione giuridica in parola: all’uno, in ispecie, toccando la descrizione della cornice del quadro, a mezzo di indicazioni a maglie larghe (essenzialmente per principia), restando poi demandato ai pratici (e, segnatamente, appunto ai giudici) il perfezionamento e completamento dell’opera a mezzo di atti congrui con le peculiari esigenze dei casi[21].
Ad ogni buon conto, per tornare alla questione qui di specifico rilievo, le norme sul processo – come si è fatto altre volte notare – non sono passibili di “bilanciamento” alcuno e la loro osservanza si impone quale condizione per ogni altro “bilanciamento”, proprio perché è dalla stessa che si riconosce la natura dell’organo e la fedeltà al munus ad esso conferito dalla Carta. Sarebbe come – per fare un esempio volutamente esasperato ma immediatamente eloquente – immaginare che il Parlamento, in occasione della formazione di una legge, pensi di poter cambiare le regole al riguardo stabilite con… la legge stessa in tal modo venuta alla luce che, perciò, presenti carattere riflessivo, legittimando se stessa. O sarebbe come se un arbitro di una partita di calcio o di altro sport si inventasse sul posto, in corso di svolgimento del gioco, una nuova regola che non c’è (e non può esserci), quale quella di sentirsi abilitato a venire in soccorso della squadra perdente e di poter perciò dare calci alla palla contro la rete avversaria[22].
L’assurdità degli esempi appena fatti è talmente eloquente da non richiedere che si spenda alcuna parola in più a commento dell’accaduto.
3. Il singolare ragionamento che ha portato alla invenzione della norma costituzionale forgiata dalla Consulta, la premessa inconsistente su cui esso poggia e gli argomenti teoricamente alquanto fragili addotti a sua giustificazione
V’è però un punto che merita di essere ulteriormente rimarcato, sia per il fatto che non è la prima volta che se ne ha riscontro nelle esperienze della giustizia costituzionale e sia perché è sicuro che tornerà ancora a ripresentarsi. Ed è dato dal singolare, per l’aspetto logico, itinerario compiuto dal giudice, già per ciò che attiene alla sua partenza ed ai passi quindi fatti lungo il solco inizialmente tracciato.
In breve, il ragionamento si svolge così.
In premessa, la Corte muove da un dato ritenuto incontestabile nella sua vistosa portata e per gli effetti ad esso riconducibili, muove cioè da una situazione di fatto che con argomenti stringenti qualifica essere in sé e per sé contraria a Costituzione (la partecipazione dei giudici ausiliari all’amministrazione della giustizia). Aggiunge che questa situazione si è ormai – come dire? – consolidata e che, perciò, la sua rimozione “secca” e con effetti immediati produrrebbe effetti devastanti, comunque intollerabili, per l’amministrazione della giustizia e, di riflesso, per i suoi fruitori, i cittadini e quanti in genere ad essa si rivolgono per avere appagamento in diritti e bisogni meritevoli di tutela[23].
La conseguenza, linearmente svolta muovendo dalla premessa fissata e dalla constatazione di com’è fatta la realtà, è che, a giudizio della Corte, non è possibile far subito luogo alla caducazione della disciplina normativa illegittima, che nondimeno merita ugualmente di essere subito dichiarata contraria a Costituzione, rimandandosi quindi la produzione dell’effetto ablativo alla data futura indicata nella parte motiva della decisione.
Ebbene, di questo schema – sarei tentato di dire, di questo standard – si hanno numerose altre testimonianze nei campi più varî di esperienza. Il “modello” è, in buona sostanza, sempre lo stesso. Perlopiù si ricorre all’emergenza quale causa determinante un certo stato di cose e giustificativa della decisione che il giudice sarebbe obbligato ad adottare, che può appuntarsi in uno dei corni dell’alternativa seguente: far luogo al mantenimento della normativa oggetto di giudizio, di cui pure non si nascondono le non poche né lievi carenze, oppure – come qui – caducarla con effetti però molto differiti in avanti.
Come si vede, può aversi ora una tecnica provvisoriamente assolutoria (ma con previo riconoscimento di… colpevolezza) ed ora invece una di condanna ma con spostamento temporale in avanti dell’applicazione della pena. Tecniche, dunque, alternative per il tipo di appartenenza (e, di conseguenza, per gli effetti loro propri) ma utilizzate in modo promiscuo, secondo occasione[24].
Ora, vi è un punto, di cruciale rilievo, che mi sta particolarmente a cuore mettere in evidenza. Ed è che le emergenze in genere – tranne rare evenienze, quale può essere un evento della natura ad oggi non scongiurabile, come un terremoto – non spuntano come funghi in un bosco dopo una notte di pioggia né sono come un violento acquazzone che ricade su uomini e cose determinando allagamenti e catastrofi in genere, obbligando pertanto il legislatore a far luogo a discipline normative problematicamente conciliabili con la Carta o, diciamo pure, con essa frontalmente contrastanti, quale ad es. è stata quella varata negli anni bui del terrorismo rosso e mandata quindi assolta dalla notissima sent. n. 15 del 1982[25].
Le emergenze, di contro, sono – perlomeno, il più delle volte – la conseguenza immediata e diretta, seppur non sempre subito riconoscibile, di annose e gravi carenze (e talora della vera e propria latitanza) del legislatore, del perpetuarsi di intollerabili ingiustizie sociali, del reiterarsi di fenomeni corruttivi diffusi[26] e di quant’altro insomma fa a pugni con l’etica pubblica repubblicana cui dà voce la Carta.
È, poi, chiaro che le mancanze in parola si debbono, in misura determinante, alla crisi ingravescente della rappresentanza politica, su cui – come si sa – è venuta col tempo a formarsi una messe copiosa di scritti di vario segno e orientamento ed alla quale pertanto non giova ora riservare neppure un cenno[27]; una crisi che si alimenta da radici profonde, diffuse, reciprocamente aggrovigliate in seno al corpo sociale. La qual cosa induce invero a non poco pessimismo circa la possibilità di apprestare rimedi efficaci a questo stato di cose universalmente deplorato, ove si convenga – come a me pare si debba – che non sono di certo sufficienti allo scopo pur corpose riforme dell’apparato istituzionale, laddove non accompagnate e sorrette da un rifacimento complessivo della struttura della società sottostante e da un critico ripensamento delle relazioni che in essa s’intrattengono, in primo luogo, tra i consociati e, quindi, tra questi ultimi e gli organi dell’apparato stesso[28].
Il vero è che è proprio il tessuto sociale ad essere ormai gravemente sfilacciato, proprio perché sono andati smarriti gli antichi punti ideali di riferimento; ed a pagarne in primo luogo le conseguenze – come si diceva – sono stati (e sono) i valori fondamentali dell’ordinamento dal cui inveramento dipende la salvaguardia dell’idea di Costituzione e dello Stato che da essa prende il nome.
Come si vede, la posta in palio è ben altra di quella, pure di primario rilievo, costituita dal merito della vicenda che ha dato lo spunto per la succinta riflessione che si sta per chiudere. Forse, la Corte non è pienamente avvertita del fatto che, aggiungendo un disposto in deroga all’art. 136 dapprima mancante, non ha semplicemente manipolato una norma come un’altra del parametro costituzionale – cosa, comunque, di per sé di singolare gravità – ma ha riplasmato l’essenza della Costituzione, con la stessa facilità con cui si traggono da una sostanza gommosa e malleabile, quale la plastilina con cui giocavamo da bambini, figure sempre nuove, secondo la fantasia e l’ispirazione del momento.
Il fatto occasionale a volte resta un evento unico, dando vita ad una momentanea sospensione del vigore di un precetto costituzionale che quindi torna ad espandersi ed a riaffermarsi nella sua originaria portata[29]. Non si trascuri, tuttavia, che nulla va mai perduto e che, piuttosto, tutto si conserva, ogni novità introdotta per via giurisprudenziale rendendosi pur sempre disponibile per futuri utilizzi, anche per casi imprevedibili al momento in cui vi si è fatto inizialmente luogo. È perciò che alla circostanza che ha dato lo spunto per questo commento va assegnato un particolare rilievo, soprattutto per ciò che essa potrebbe rappresentare per l’avvenire.
4. Una succinta notazione finale, a riguardo degli scenari che potrebbero delinearsi per il caso che le pronunzie emesse da organi giudicanti composti da giudici ausiliari dovessero essere impugnate davanti alla Corte di Strasburgo
Un’ultima notazione, che consegno in forma dubitativa. La Corte ha acclarato che la partecipazione dei giudici ausiliari all’amministrazione della giustizia non è rispettosa della Costituzione, sospendendo nondimeno la produzione degli effetti conseguenti al suo accertamento. Mi chiedo, dunque, se le pronunzie emesse dai giudici stessi o da collegi di cui essi facciano parte vadano incontro a rischi conseguenti all’ormai riconosciuta invalidità della composizione degli organi giudicanti.
Qui pure – come si vede – si assiste ad un bilanciamento risoltosi a discapito di coloro che chiedono giustizia e che per anni seguiteranno ad averla da parte di chi non aveva (e non ha) il titolo per somministrarla, per ciò solo risultando destinatari di una giustizia… ingiusta. Un esito – si dice nella pronunzia in commento – che va pur tuttavia tollerato, a fronte dell’inconveniente ancora maggiore che si avrebbe con la caducazione immediata della normativa incostituzionale. È tuttavia da mettere in conto – temo – una pioggia di ricorsi alla Corte europea per violazione dei canoni relativi al giusto processo, quanto meno per l’aspetto del lasso temporale irragionevolmente lungo intercorrente tra la pronunzia odierna del giudice costituzionale e l’atteso rifacimento della composizione degli organi giudicanti. Intendo dire che, seppure la Corte di Strasburgo dovesse rimettersi – come con ogni probabilità farà – al margine di apprezzamento riconosciuto allo Stato in ordine alla disciplina della materia, ugualmente potrebbe giudicare intollerabile un’attesa così lunga qual è quella oggi concessa dalla Consulta al legislatore.
Si vedrà.
Non disponiamo, ovviamente, di alcun elemento in grado di dare lumi circa i possibili sviluppi della vicenda, una volta che quest’ultima dovesse poi trasporsi in ambito sovranazionale. Certo si è, in conclusione, che la questione è di scottante attualità, gravida di implicazioni a largo raggio e suscettibile di esiti sotto plurimi aspetti imprevedibili. Già solo per ciò avrebbe forse meritato un supplemento di attenzione da parte della Corte prima che quest’ultima si fosse determinata nel senso che sappiamo. È pur vero che l’alternativa all’accoglimento (“secco” ed immediato ovvero con rinvio a termine spostato molto in avanti) non avrebbe potuto che essere quella del rigetto con monito che, però, com’è noto, il più delle volte resta privo di sostanziali ed apprezzabili effetti.
Stretta nella morsa soffocante tra il lasciare le cose così come oggi sono, sollecitando vigorosamente il legislatore a cambiarle, ed innovarvi ma solo per l’avvenire, la Corte non ha esitato – verosimilmente, non a cuor leggero – ad optare per il secondo corno dell’alternativa. E l’ha fatto – come si è venuti dicendo – con una sentenza di… revisione costituzionale.
Una volta di più, insomma, anziché sollecitare il legislatore a far luogo al mutamento del quadro normativo vigente battendo la via piana del mutamento costituzionale con le procedure indicate nell’art. 138, specificamente volto a dotare la Corte dello strumento della vacatio sententiae noto ai sistemi di giustizia costituzionale propri di altri ordinamenti, è stato lo stesso arbitro costituzionale a centrare subito il bersaglio, segnando il risultato decisivo per le sorti della partita. Solo che, una volta messosi a tirare calci alla palla, a mia opinione ha fatto un… autogol.
L’augurio è che ne abbia piena avvertenza, prima che ne discendano conseguenze di ordine istituzionale suscettibili di imprevedibili sviluppi per la tenuta complessiva del sistema.
[1] Basti solo, al riguardo, rammentare che – secondo una opinione largamente diffusa ed autorevolmente accreditata [tra i molti, C. Drigo, Giustizia costituzionale e political question doctrine. Paradigma statunitense e spunti comparatistici, Bononia University Press, Bologna 2012; R. Basile, Anima giurisdizionale e anima politica del giudice delle leggi nell’evoluzione del processo costituzionale, Giuffrè, Milano 2017; AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’, a cura di R. Romboli, Giappichelli, Torino 2017; G. Bisogni, La ‘politicità’ del giudizio sulle leggi. Tra le origini costituenti e il dibattito giusteorico contemporaneo, Giappichelli, Torino 2017; M. Raveraira, Il giudizio sulle leggi: la Corte costituzionale sempre più in bilico tra giurisdizione e politica, in Lo Stato, 11/2018, 123 ss.; A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quad. cost., 2/2019, 251 ss. (nei riguardi del cui pensiero, criticamente, v. R. Bin, Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, in Quad. cost., 4/2019, 757 ss., e, pure ivi, E. Cheli, Corte costituzionale e potere politico. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, 777 ss.); A. Spadaro, I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., cit., 154 ss.; M. Nisticò, Corte costituzionale, strategie comunicative e ricorso al web, in AA.VV., Potere e opinione pubblica. Gli organi costituzionali dinanzi alle sfide del web, a cura di D. Chinni, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, 77 ss.; R. Di Maria, Brevi considerazioni sul rapporto fra tutela sostanziale dei diritti (fondamentali) e rispetto delle forme processuali: la Corte costituzionale e gli “animali fantastici”. The final cut, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2020, 7 gennaio 2020, 1 ss.; F. Abruscia, Assetti istituzionali e deroghe processuali, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2020, 23 ottobre 2020, 282 ss.; AA.VV., Una nuova stagione creativa della Corte costituzionale?, a cura di C. Padula, Editoriale Scientifica, Napoli 2020. In prospettiva comparata, per tutti, AA.VV., Giustizia e Costituzione agli albori del XXI secolo, a cura di L. Mezzetti - E. Ferioli, Bonomo, Bologna 2018.] – la Corte racchiuderebbe al proprio interno due “anime”, come sono pittorescamente raffigurate, l’una appunto giurisdizionale e l’altra politica, chiamate a stare in costante, seppur precario, equilibrio, richiesto dal peculiare munus demandato all’organo e dalla parimenti peculiare conformazione dei materiali normativi coinvolti in occasione del suo esercizio, in ispecie del parametro costituzionale di cui l’organo stesso è chiamato a porsi quale interprete privilegiato e massimo garante. È pur vero però che molti segni si hanno, specie negli sviluppi della giurisprudenza degli anni a noi più vicini, che denotano una marcata prevalenza della seconda “anima” sulla prima; ed allora il rischio assai grave che si corre è che, laddove ciò si abbia in una particolarmente accentuata e francamente intollerabile misura (ed è proprio questo il caso nostro), venga a conti fatti a smarrirsi l’attributo della “giurisdizionalità” della funzione.
[2] … prontamente rilevate dalla più avveduta dottrina [tra gli altri, A. Spadaro, I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2019, 26 novembre 2019, 154 ss.; C. Panzera, Esercizio sussidiario dei poteri processuali e discrezionalità legislativa nella recente giurisprudenza costituzionale, in Foro it., 3/2020, V, 127 ss., e T. Giovannetti, La Corte costituzionale e la discrezionalità del legislatore, in AA.VV., Rileggendo gli Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1987-2019). A Roberto Romboli dai suoi allievi, Giappichelli, Torino 2020, 19 ss.].
[3] Così, in ispecie, nel discusso (e discutibile) caso Cappato o nella vicenda di cui a Corte cost. n. 132 del 2020 che sarà definita nel giugno prossimo, ad un anno esatto dalla pronunzia interlocutoria emessa in applicazione della stessa tecnica decisoria in due tempi inaugurata nel primo caso ora richiamato.
[4] V., di recente, part., Corte cost. nn. 32 e 33 del 2021 [e, su di esse, se si vuole, la mia nota La PMA alla Consulta e l’uso discrezionale della discrezionalità del legislatore (Nota minima a Corte cost. nn. 32 e 33 del 2021), in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2021, 11 marzo 2021, 221 s.]. Un riferimento alla discrezionalità del legislatore è, ora, anche nella sent. n. 48 del 2021, con nota di L. Trucco, Diritti politici fondamentali: la Corte spinge per ampliare ulteriormente la tutela (a margine della sent. n. 48 del 2021), in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2021, 1° aprile 2021, 283 ss.
[5] In realtà, destinatari delle pronunzie sono sempre anche i giudici e gli organi dell’amministrazione, a vario titolo chiamati a far luogo alle attività “conseguenziali” sollecitate dalla loro adozione, in forme varie a seconda dei casi.
[6] La “fungibilità” delle tecniche decisorie è ora rilevata anche da R. Pinardi, Costituzionalità “a termine” di una disciplina resa temporanea dalla stessa Consulta (note a margine di Corte costituzionale sent. n. 41 del 2021), in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 6 aprile 2021, 289 s.
[7] Per fare ora solo un esempio già altrove addotto, ad es. non mi è chiaro perché la tecnica inaugurata in Cappato, di cui pure deploro l’utilizzo, non sia stata fatta valere anche nella vicenda di cui a Corte cost. n. 230 del 2020, definita con una decisione d’inammissibilità [sulla vicenda, fatta oggetto di numerosi commenti, riferimenti ora in E. Olivito, (Omo)genitorialità intenzionale e procreazione medicalmente assistita nella sentenza n. 230 del 2020: la neutralità delle liti strategiche non paga, in Oss. cost. (www.osservatorioaic.it), 2/2021, 2 marzo 2021, 137 ss., e A. Giubilei, L’aspirazione alla genitorialità delle coppie omosessuali femminili. Nota alla sentenza n. 230 del 2020 della Corte costituzionale, in Nomos (www.nomos-leattualitaneldiritto.it), 3/2020, 1 ss.]. E così via in molti altri casi. Il disagio davanti a siffatte oscillazioni ed aporie di costruzione giurisprudenziale è stato, di recente, manifestato anche da altra, accreditata dottrina [N. Zanon, I rapporti tra la Corte costituzionale e il legislatore alla luce di alcune recenti tendenze giurisprudenziali, in Federalismi (www.federalismi.it), 3/2021, 27 gennaio 2021, 86 ss., spec. 96 ss. (con richiamo ad un mio pensiero sul punto)].
[8] … tra i quali, V. Onida, Modulazione degli effetti della pronuncia di incostituzionalità o “sospensione” temporanea della norma costituzionale?, in Oss. cost. (www.osservatorioaic.it), 2/2021, 6 aprile 2021, 130 ss., spec. 135 s., e R. Pinardi, Costituzionalità “a termine” di una disciplina resa temporanea dalla stessa Consulta, cit., 288 ss.
[9] … fino all’ottobre 2025.
[10] Non è inopportuno qui rammentare che, a differenza di ciò che ordinariamente vale al piano dei rapporti inter privatos, laddove tutto ciò che non è vietato è permesso, in diritto pubblico il potere si ha unicamente laddove vi sia una norma che previamente lo fondi e ne disciplini le modalità di esercizio.
[11] Un esempio per tutti, quello di cui alla sent. n. 10 del 2015, che ha animato un fitto dibattito ai cui esiti ricostruttivi nondimeno non può ora riservarsi neppure un cenno; a riprova della varietà dei punti di vista al riguardo espressi è sufficiente il solo dato per cui nel sito Consulta OnLine (www.giurcost.org) sono richiamati, in testa alla decisione in parola, ben trentanove commenti ospitati da sedi scientifiche in rete, senza ovviamente tener conto quelli presenti su Riviste cartacee, sui manuali di giustizia costituzionale e monografie nelle quali si tratta degli effetti temporali delle decisioni del giudice costituzionale.
[12] … ovviamente, possibile col solo procedimento in via di eccezione, essendo ormai decorsi i termini per i ricorsi in via d’azione.
Per la distinzione tra una incostituzionalità sopravvenuta in senso stretto ed una in senso lato, v., volendo, A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale6, Giappichelli, Torino 2019, 209 s., dove si rileva come accanto ad una siffatta specie di invalidità potrebbe aversi anche quella, opposta, di una legittimità sopravvenuta.
[13] Per l’aspetto ora considerato, la manipolazione operata dalla pronunzia qui annotata si presenta ancora più incisiva – sempre che si reputi possibile fare una sorta di “graduatoria” al riguardo… – di quella posta in essere in Cappato, proprio per il più lungo lasso di tempo intercorrente rispetto alla definizione del caso, che di per sé gioca nel senso di lasciare un segno ancora più marcato sul dettato costituzionale, fatto oggetto di corposo rifacimento dalla tecnica decisoria in parola (sul significato posseduto dalla dimensione temporale nelle esperienze di rilievo costituzionale richiamo qui solo, per tutti, lo studio di T. Martines, Prime osservazioni sul tempo nel diritto costituzionale, in Scritti in onore di S. Pugliatti, III, Giuffrè, Milano 1977, 783 ss., nonché in Id., Opere, I, Giuffrè, Milano 2000, 477 ss.).
[14] … anche se si avrebbe la stranezza di un atto giuridico, la sentenza della Corte, rimasto improduttivo di effetti per suo stesso… auspicio.
[15] Ciò che, invero, è pacificamente ammesso ma che – come si è tentato di argomentare altrove – appare per vero essere problematicamente conciliabile col disposto di cui all’art. 137, ult. c., Cost. che – senza distinzione alcuna tra tipo e tipo di decisione della Corte – esclude categoricamente la eventualità della loro “impugnazione”, in vista dunque di un eventuale ripensamento da parte dello stesso giudice costituzionale di una questione, come che sia, ormai decisa, smarrendosi altrimenti il quid proprium della ragion stessa di esistere della Corte, che è di dare certezze di diritto costituzionale, in quanto abilitata a dire l’ultima parola sulle controversie coinvolgenti la legge fondamentale della Repubblica (ho indagato il senso complessivo e il modo di operare e di farsi valere del disposto summenzionato nei miei Storia di un “falso”. L’efficacia inter partes delle sentenze di rigetto della Corte costituzionale, Giuffrè, Milano 1990, e Ripensando alla natura della Corte costituzionale, alla luce della ricostruzione degli effetti delle sue pronunzie e nella prospettiva delle relazioni con le Corti europee, in AA.VV., La Corte costituzionale vent’anni dopo la svolta, a cura di R. Balduzzi - M. Cavino - J. Luther, Giappichelli, Torino 2011, 349 ss.).
[16] … salvo il caso di legge riproduttiva di altra legge dapprima caducata che, nuovamente impugnata, esca quindi indenne dal secondo giudizio della Consulta, magari – perché no? – per effetto di un fatto nuovo che lo giustifichi, quale potrebbe esser dato, ad es., da una pronunzia di questa o quella Corte europea venuta medio tempore alla luce. E, tuttavia, in una congiuntura siffatta, le due “situazioni normative” (che, a mia opinione, si pongono ad oggetto del sindacato di costituzionalità), una volta poste a raffronto, si dimostrano essere non coincidenti, proprio a causa del novum nel frattempo registratosi. Il fatto “riproduttivo”, ad ogni buon conto, nel caso nostro non può aversi, essendo ancora in vigore la disciplina normativa oggetto della pronunzia ablativa iniziale.
[17] Se n’è, d’altronde, avvertita la consapevolezza da parte di più d’uno studioso e la stessa Corte, dal suo canto, ha ritenuto la questione meritevole di approfondimento, tanto da farne oggetto di esame nel corso di uno dei Seminari annuali con i quali sollecita il confronto degli studiosi su questioni scottanti e gravide di implicazioni (v., dunque, AA.VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche in riferimento alle esperienze straniere, Palazzo della Consulta 23-24 novembre 1988, Giuffrè, Milano 1989).
Sta di fatto che la sospensione della produzione dell’effetto ablativo comporta pur sempre un costo innegabile per i diritti costituzionali in vista della cui salvaguardia è presentata la questione di costituzionalità avente ad oggetto la normativa poi provvisoriamente mantenuta in vigore e perciò applicata al giudizio a quo. Il sacrificio della rilevanza, registratosi nella circostanza (ancora R. Pinardi, Costituzionalità “a termine” di una disciplina resa temporanea dalla stessa Consulta, cit., spec. 294; altri riferimenti in A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale6, cit., 211), nondimeno, non costituisce – come si sa – di certo una novità nelle esperienze più recenti degli ultimi anni (basti solo por mente alle note pronunzie in materia elettorale ed alla sent. n. 10 del 2015, sopra già richiamata).
[18] L’auspicio di una revisione dell’art. 136 Cost., giudicata sommamente opportuna (e, anzi, necessaria), è formulato nello scritto da ultimo richiamato, 214.
[19] Il riferimento è, ovviamente, ad A. Pizzorusso, alla cui memoria è stato dedicato un incontro di studio proprio sul tema, svoltosi a Pisa il 16 dicembre 2019: v., dunque, AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il diritto giurisprudenziale, a cura di V. Messerini - R. Romboli - E. Rossi - A. Sperti - R. Tarchi, University Press, Pisa 2020.
[20] Ne dà, d’altronde, sicura riprova l’intera vicenda storica del costituzionalismo liberale maturata in Gran Bretagna, con ciò che essa ha rappresentato per il radicamento di siffatto modello anche in ordinamenti a tradizione costituzionale scritta. Ad ogni buon conto, non ha molto senso ora rimettere in discussione il valore incontestabile della scrittura costituzionale, con le garanzie ad essa inscindibilmente legate.
[21] Il rapporto tra le due forme di produzione giuridica è, nondimeno, circolare, l’una alimentandosi ed incessantemente rinnovandosi per effetto della spinta e delle sollecitazioni venute dall’altra.
[22] Il soccorso, poi, come si sa, molte volte si ha ugualmente, in forme ora abilmente mascherate ed ora invece spudoratamente scoperte, attraverso il cattivo uso della funzione arbitrale, spesso comunque – come tutte le umane cose – incorsa in errore senza cattiva intenzione.
[23] In realtà, come si è fatto notare da un profondo conoscitore delle dinamiche del processo (V. Onida, Modulazione degli effetti della pronuncia di incostituzionalità o “sospensione” temporanea della norma costituzionale?, spec. ult. par.), ben altri avrebbero dovuto essere i rimedi rispetto alla soluzione adottata dal legislatore per assicurare il superamento della crisi della giustizia. Il punto è che la loro messa in atto avrebbe richiesto (e oggi pure richiederebbe) tempi non brevi ed interventi plurimi e reciprocamente coordinati su più fronti. La qual cosa conferma per tabulas che la caducazione della normativa ad oggi in vigore non sarebbe di per sé sufficiente allo scopo, se non iscritta in un quadro organico di interventi aventi ad oggetto l’organizzazione dei servizi della giustizia e le modalità di svolgimento delle funzioni a quest’ultima facenti capo.
[24] Invito qui a fermare l’attenzione sul linguaggio adoperato; non dico infatti: secondo i casi, che possiedono una loro complessiva connotazione oggettiva, suscettibile di ripetizione temporale e di inquadramento sistematico in prospettiva teorico-astratta. Dico invece: secondo occasione, per significare l’uso imprevedibile ed improvvisato delle tecniche in parola, senza che ne risulti – come si diceva – molte volte chiara la ragione.
[25] … nella quale pure il fatto in sé dell’emergenza è stato – come si sa – determinante al fine della mancata caducazione della normativa adottata dal Governo per dilatare in modo abnorme i termini massimi della carcerazione preventiva, nell’intento di evitare che tornassero in libertà individui sospetti di appartenere alle BR e seguitassero a fare di persone innocenti bersagli viventi in funzione della realizzazione del disegno criminoso avuto di mira.
[26] Su ciò, di recente, la densa riflessione di G. Tarli Barbieri, Corruptio optimi pessima. La corruzione della politica nello specchio del diritto costituzionale, Mucchi, Modena 2020.
[27] Riferimenti e ragguagli possono, se si vuole, aversi dal mio Lo stato comatoso in cui versa la democrazia rappresentativa e le pallide speranze di risveglio legate a nuove regole e regolarità della politica, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2021, 25 gennaio 2021, 124 ss.
[28] Ho trovato particolarmente utile e, in più punti, davvero illuminante la cruda diagnosi al riguardo contenuta in un’agile pubblicazione monografica di un illustre studioso dell’antichità romana, A. Corbino, La democrazia divenuta problema. Città, cittadini e governo nelle pratiche del nostro tempo, Eurilink University Press, Roma 2020, dalla quale ho quindi preso le mosse per una personale riflessione i cui esiti possono vedersi rappresentati nel mio La democrazia: una risorsa preziosa e imperdibile ma anche un problema di ardua ed impegnativa soluzione, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2021, 6 marzo 2021, 325 ss.
[29] D’altronde, lo ha fatto (e lo fa) talvolta anche l’altro massimo garante del sistema, il Presidente della Repubblica. Ricordo, ad es., quanto verificatosi durante il settennato di Pertini (che pure non era di certo smanioso di “picconare” il sistema, come lo è stato un altro discusso Presidente), con riguardo alla nomina dei senatori a vita, in forza di una originale lettura, in precedenza ed in seguito smentita, del disposto di cui all’art. 59 Cost., favorevole – come si sa – a che ogni Presidente possa far luogo a cinque nomine, idonee perciò ad aggiungersi a quelle fatte dai suoi predecessori (una eventualità ormai scongiurata – come pure è noto – da una opportuna precisazione messa in coda al disposto suddetto con legge cost. n. 1 del 2020).
La proroga delle disposizioni emergenziali per i processi civili (d.l. 1° aprile 2021, n. 44). Una scheda
di Franco Caroleo
Il 1° aprile è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto-legge n. 44/2021 che, tra le altre cose, interviene a prorogare le norme per lo svolgimento dei giudizi in modalità alternative a quella in presenza.
La breve scheda che segue analizza le disposizioni del nuovo d.l. che riguardano il processo civile.
Titolo
Decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44, “Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici”. (21G00056) (GU Serie Generale n. 79 del 1° aprile 2021).
La norma riguardante il processo civile
- art. 6, co.1, lett. a)
La proroga delle disposizioni processuali di cui agli artt. 23 d.l. 137/2020 e 221 d.l. n. 34/2020
L’art. 6, co.1, lett. a), del d.l. n. 44/2021 recita:
“Al decreto-legge 28 ottobre 2020 n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 23, comma 1:
1) al primo periodo le parole «alla scadenza del termine di cui all’articolo 1 del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35» sono sostituite dalle seguenti: «al 31 luglio 2021»;
2) al secondo periodo dopo le parole «del medesimo termine» sono aggiunte le seguenti: «del 31 luglio 2021»”.
La vigenza delle norme processuali stabilite per il periodo pandemico viene così prorogata al 31 luglio 2021.
Questa volta, a differenza del precedente d.l. n. 2/2021, il legislatore ha scelto di non ancorare la proroga al termine dello stato di emergenza (di cui all’art. 1 d.l. 25 marzo 2020, n. 19, che al momento resta fermo al 30 aprile 2020), preferendo individuare un termine fisso.
Viene così novellato l’art. 23, co. 1, d.l. n. 137/2020, convertito con modifiche dalla legge di conversione n. 176/2020, nelle parti in cui stabilisce il termine ultimo per l’applicazione dei commi da 2 a 9 ter del medesimo art. 23 nonché delle disposizioni di cui all’art. 221 d.l. n. 34/2020.
Alla luce di questo intervento, il testo dell’art. 23, co. 1, risulta ora il seguente:
“Dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 luglio 2021, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35 si applicano le disposizioni di cui ai commi da 2 a 9-ter. Resta ferma fino alla scadenza del 31 luglio 2021 l’applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 221 del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77 ove non espressamente derogate dalle disposizioni del presente articolo”).
Da qui deriva la proroga dell’operatività delle disposizioni emergenziali di cui agli artt. 23 d.l. n. 137/2020 e 221 d.l. n. 34/2020.
Devono quindi ritenersi prorogati al 31 luglio 2021:
- l’obbligo del deposito telematico di tutti gli atti (anche quelli introduttivi) e documenti, per come previsto dall’art. 221, co. 3, d.l. n. 34/2020;
- la celebrazione a porte chiuse che il giudice può disporre per le udienze pubbliche, per come previsto dall’art. 23, co. 3, d.l. n. 137/2020;
- la trattazione scritta che il giudice può disporre per le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti, per come previsto dall’art. 221, co. 4, d.l. n. 34/2020; tale modalità di trattazione può essere adottata anche per le udienze in materia di separazione consensuale e di divorzio congiunto, nel caso in cui tutte le parti che avrebbero diritto a partecipare all’udienza vi rinuncino espressamente, come ammesso dall’art. 23, co. 6, d.l. n. 137/2020;
- la celebrazione con collegamento da remoto che il giudice può disporre per le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice, per come previsto dall’art. 221, co. 7, d.l. n. 34/2020; in questi casi, il giudice può essere collegato anche da un luogo diverso dall’ufficio giudiziario (art. 23, co. 7, d.l. n. 137/2020);
- il giuramento telematico del c.t.u., con dichiarazione sottoscritta con firma digitale da depositare nel fascicolo telematico (in luogo dell’udienza all’uopo fissata), per come previsto dall’art. 221, co. 8, d.l. n. 34/2020;
- la possibilità per gli organi collegiali di assumere le deliberazioni in camera di consiglio mediante collegamenti da remoto, per come previsto dall’art. 23, co. 9, d.l. n. 137/2020;
- la possibilità di deposito telematico degli atti e dei documenti da parte degli avvocati nei procedimenti civili innanzi alla Corte di Cassazione, per come previsto dall’art. 221, co. 5, d.l. n. 34/2020;
- la possibilità del cancelliere di rilasciare in forma di documento informatico la copia esecutiva delle sentenze e degli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria di cui all’art. 475 c.p.c., previa istanza telematica dell’interessato, per come previsto dall’art. 23, co. 9 bis, d.l. n. 137/2020.
Bruno Capponi intervista Modestino Acone
Modestino Acone (classe 1936) è stato allievo del prof. Virgilio Andrioli. Ha concluso la sua carriera di professore ordinario di diritto processuale civile nell’Università di Napoli “Federico II” dopo aver insegnato nelle Università di Bari, Teramo e Salerno. Nella X Legislatura è stato Senatore (PSI) occupandosi delle più importanti riforme della giustizia civile: i “provvedimenti urgenti” (legge n. 353/1990) e il giudice di pace (legge n. 374/1991). È stato anche relatore della legge sul procedimento amministrativo e sostenitore del principio della risarcibilità dei danni da lesioni di interessi legittimi. Esercita da sempre la professione di Avvocato.
1. Caro Modestino, sei uno dei più “anziani” – passami il termine – allievi del prof. Virgilio Andrioli, tra i massimi processualisti dello scorso secolo. Hai anche tu l’impressione che i giovani conoscano e richiamino poco gli scritti di questo grande Maestro?
L’insegnamento di Virgilio Andrioli – al pari di quello del Suo maestro Giuseppe Chiovenda – è, a mio avviso, tuttora attuale, caratterizzato come è dalla concretezza delle soluzioni cui perviene, mai indulgenti verso costruzioni teoriche fini a se stesse. I giovani processualcivilisti che, come tu ritieni, citano poco i suoi scritti, molte volte si accorgono solo alla fine del loro indagare che Andrioli, senza strepito e con parole semplici, era pervenuto al medesimo risultato. Andrea Proto Pisani, nel suo ultimo lavoro, ha messo bene in evidenza questa straordinaria qualità del Suo insegnamento.
2. Nella X Legislatura, Ti sei impegnato in prima fila, da Senatore, a favore delle “riforme urgenti” del processo civile (oltre che del giudice di pace). Cosa ti sembra sia rimasto di quelle novità, e cosa invece ti sembra sia mancato già da allora?
La X° legislatura fu molto importante per la giustizia civile. Conferì veste legislativa ai risultati di due iniziative culturali. Quella dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile e quella di Magistratura Democratica. La prima rivoluzionava il processo di cognizione, con l’introduzione di un rigido sistema di preclusioni nel giudizio di cognizione di primo grado e in quello di appello, non più novum iudicium, e con l’istituzione del “giudice unico in primo grado”, pomo della discordia tra i tre valorosi autori della proposta di riforma. La seconda riscriveva l’intera tutela cautelare introducendo una disciplina uniforme valida per tutte le misure cautelari.
Solo chi, come me, è sufficientemente “anziano” può comprendere oggi quanto siano state rivoluzionarie queste elaborazioni culturali della dottrina e della magistratura per rendere al cittadino una giustizia più efficiente. Mi toccò il solo compito di “assemblarle” e sono orgoglioso di avere contribuito a farle divenire leggi dello Stato, nonostante la caparbia ed ingiustificabile opposizione degli avvocati, miopemente conservatori, che ne fecero ritardare, per ben cinque anni, l’entrata in vigore.
3. La questione della magistratura onoraria sta esplodendo. Qualche anno fa, hai presieduto una commissione ministeriale che ha prodotto un testo che non ha poi avuto seguito. Come pensi possa essere risolto il problema dell’inquadramento degli onorari e della loro convivenza con i magistrati togati?
La X legislatura fu importante anche sul versante dell’ordinamento giudiziario perché introdusse una nuova figura di giudice onorario – il giudice di pace –, ostinatamente ostacolato, anche questa volta, dall’avvocatura che, ricordo, indisse uno sciopero di ben sei mesi, ritardando, senza alcuna reale giustificazione, l’entrata in vigore della riforma, non considerando che, ad un asfittico “conciliatore”, che oramai amministrava la giustizia per uno sparuto numero di controversie, veniva contrapposta la figura di un nuovo giudice onorario, cui si attribuiva una significativa competenza, oltre che per valore, per materia. Mi toccò anche per il “giudice di pace” il compito di condurre al traguardo quanto la scienza giuridica aveva elaborato. Oggi il giudice di pace decide oltre il 30% delle controversie civili!! E gli avvocati non storcono più il naso; anzi affollano le aule di questo giudice tanto da loro contrastato.
Ti ringrazio per il ricordo del lavoro della Commissione Ministeriale che ebbi l’onore di presiedere. Il lavoro si concretizzò in un testo che, come tu hai detto, non ha avuto alcun seguito; è rimasto abbandonato, sotto una pila di inutili carte, in qualche scaffale degli uffici del Ministero. Il lavoro della Commissione fu continuamente turbato da questioni sindacali o parasindacali, pretendendosi da taluni dei componenti la Commissione la collocazione dei giudici di pace nello status, se non giuridico, perché impedito dalla norma costituzionale, in quello previdenziale dei giudici nominati per concorso; come si sa la legge prevedeva, invece, la retribuzione a cottimo in base al numero delle decisioni.
Nonostante il tempo trascorso le posizioni contrapposte sono pressappoco le stesse.
4. Avremmo bisogno di una Corte Suprema che pronuncia principi di diritto effettivamente vincolanti? E, nella situazione attuale, che vincolo vedi possa nascere dalle altalenanti giurisprudenze della Corte?
È impossibile che una Corte di legittimità, che pronunzia ogni anno più di trentamila decisioni – tra sentenze ed ordinanze –, possa assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge (art.65, 1 comma, ord. giud.).
La selezione all’ingresso dei ricorsi non è stata in grado di evitare che non vengano segnalati casi di identità di questioni. Sono sotto gli occhi di tutti i contrasti, presenti anche tra le decisioni delle sezioni unite.
Insomma, se i ricorsi sono tanti, è impossibile pretendere l’uniformità delle decisioni e, di conseguenza, principi di diritto effettivamente vincolanti.
5. Si ha quasi l’impressione che la Corte di cassazione abbia litigato col diritto processuale civile: che ne pensi delle nullità processuali e dello “specifico pregiudizio” che la parte, che ha interesse a denunziarle, dovrebbe dimostrare?
Dici bene che si tratta di un vero e proprio litigio con il diritto processuale civile. Se la nullità esiste in iure, va dichiarata. Altrimenti ci affidiamo a valutazioni che possono essere del tutto arbitrarie. E tanto basta per essere scettici.
6. Si parla poco, se non tra gli addetti ai lavori, dei danni che il Coronavirus ha arrecato all’amministrazione della giustizia civile. Cosa pensi al riguardo? Come vedi le udienze da remoto e le cartolari? È diritto emergenziale, o resterà qualcosa anche in futuro?
Il Coronavirus ha soltanto accertato una situazione già divenuta irreversibile. Del resto il progresso tecnologico ha invaso, da tempo, non soltanto gli uffici giudiziari e gli studi professionali, quanto, soprattutto, l’intera vita delle persone. Non si tornerà indietro anche dopo la pandemia ed è un bene per tutti. Gli avvocati si sono consapevolmente accorti solo adesso della rivoluzione già avvenuta.
Sotto questo aspetto la riforma del 1990, eliminando le udienze di mero rinvio ed introducendo le memorie ex 183 c.p.c., ha previsto lo svolgimento di gran parte del processo di cognizione fuori della presenza in udienza, facendo salve, in sostanza, le sole udienze di assunzione delle prove.
Agli studiosi del processo civile compete il compito di spiegare in che modo l’ “oralità”, la “concentrazione” e l’ “immediatezza” di chiovendiana memoria sono presenti nel contesto del processo tecnologico, senza mettere in pericolo il principio di fondo che il processo “deve attribuire all’attore che ha ragione tutto quello e proprio quello che ha diritto di ottenere”. Sono convinto che il processo telematico è perfettamente compatibile con questi principi.
7. Hai da sempre esercitato la professione forense, e anche se ti piace scherzare su te stesso definendoti “avvocato di provincia”, pochi possono dire di avere la tua esperienza dei giudizi civili. Guardando a ritroso nella tua professione, quali considerazioni ti suggerisce la situazione attuale?
Caro Bruno, sono l’ultimo dei discepoli di un Maestro che non esitava a difendere le cause anche in pretura. Del resto sai meglio di me che per una questione controversa la difficoltà non si misura sul valore economico della stessa. L’esperienza del c.d. “avvocato di provincia” non è di importanza inferiore rispetto a quella di qualsiasi altro avvocato, come è testimoniato dai numerosi casi concreti che approdano in Cassazione.
Mi chiedi quali considerazioni la situazione attuale suggerisce.
Ebbene, ti dirò schiettamente quello che penso. Abbiamo consentito che non vi fosse un serio sbarramento per il conseguimento dei titoli necessari per essere abilitati all’esercizio della professione forense, favorendo indirettamente l’esplosione del numero delle controversie. Ma non è solo questo il motivo che ha condotto alla situazione attuale. Si è privilegiata esclusivamente la soluzione delle controversie per decisione del giudice. Non si è curata, invece, quella che in altri Paesi è la soluzione a cui si tende prioritariamente: la conciliazione della lite.
Tutti i tentativi del legislatore si sono rivelati vani perché la cultura della conciliazione deve soprattutto albergare nei difensori delle parti, prima ancora che nelle parti stesse. Si tratta, a mio avviso, di un problema culturale e morale che investe il fondamento stesso della professione di avvocato.
Siamo perciò giunti al punto che la Comunità Europea, visti vani gli ammonimenti delle Corti di Giustizia e considerata, nonostante gli interventi legislativi in tema di definizione alternativa delle controversie, “catastrofica” la condizione della giustizia civile in Italia (che, peraltro, incide su una non insignificante porzione del pil), ha condizionato l’erogazione di una notevole quota del recovery fund all’efficacia ed alla sostenibilità della “riforma” della giustizia civile.
8. Secondo Te, chi studia il processo civile può non conoscere la dimensione pratica del processo?
A domanda categorica rispondo altrettanto categoricamente: no, il processo è (anche) tecnica. Se non la si conosce, è impossibile praticarlo.
9. Secondo Te, che caratteristiche dovrebbe avere chi, ora, si vuole impegnare nello studio del diritto processuale civile?
Domanda difficilissima. Il profilo del processualcivilista moderno è quello di chi, oltre alla materia processuale, non può prescindere da una conoscenza ulteriore imposta anche dall’accresciuto numero dei diritti giustiziabili. La specializzazione diviene una vera e propria necessità.
10. Per concludere: cosa pensi si dovrebbe fare per migliorare l’attuale situazione? La tutela civile dei diritti ti sembra una realtà, o un’aspirazione che tende a entrare nel mito?
Abbiamo esaurito tutti gli escamotages per ridurre la durata delle controversie civili che è poi il primo ostacolo da superare per realizzare una giustizia “giusta”. Non conosco cosa proporrà il nostro governo alla Comunità Europea e rabbrividisco al solo pensiero che possa trattarsi dell’ennesima “variazione sul tema”.
Se l’Italia vuole incidere sull’attuale realtà, deve agire su vari fronti introducendo: a) un esame rigoroso per l’ammissione al corso di laurea in giurisprudenza; b) un esame, altrettanto rigoroso, per l’ammissione al patrocinio; c) il rafforzamento della conciliazione obbligatoria; d) l’ulteriore ampliamento della competenza dei giudici di pace.
Aggiungi, caro Bruno, una seria riforma delle circoscrizioni giudiziarie - riforma di difficile attuazione, sino ad ora ostacolata dagli interessi dei potentes locali -, con l’accentramento dei tribunali nei capoluoghi di provincia, visto che il nostro Paese è fornito ormai di un sistema articolato e moderno di strade e di mezzi di comunicazione e tenuto conto che si va verso un processo sempre più affidato, nel suo svolgimento, alle comunicazioni telematiche sia delle parti che del giudice.
Tutto questo potrà non bastare nell’immediato, ma in un tempo che non oso stabilire consentirà di allineare l’Italia agli altri Paesi della Comunità Europea.
Problemi e prospettive della Sezione tributaria della Cassazione: le possibili soluzioni*
di Biagio Virgilio
Sommario: 1. I ventuno anni della sezione tributaria: la storica sottovalutazione del problema dell’entità del contenzioso - 2. L’attuale organizzazione della sezione - 3. Necessità di una svolta di mentalità e un’occasione da non perdere.
1. I ventuno anni della sezione tributaria: la storica sottovalutazione del problema dell’entità del contenzioso
Il 14 novembre 2000, in apertura del convegno sulla sezione tributaria organizzato nell’Aula Magna della Corte di cassazione ad un anno dall’inizio della sua attività, il Primo Presidente della Corte Andrea Vela affermò che lo scopo essenziale del convegno era quello di “porre sul tappeto, in maniera chiara e oserei dire perentoria, le esigenze attuali della giurisdizione tributaria; le scarse risorse di cui essa dispone per farvi fronte; il grave danno che conseguentemente ne ricevono tanto l’esercizio della funzione nomofilattica, quanto gli interessi generali dello Stato e quelli correlati dei contribuenti”; e si voleva altresì verificare, “al cospetto dei responsabili del settore, se e come sia possibile trovare a tutto ciò qualche rimedio efficace, in tempi brevi. Perché di questo si tratta: di provvedere presto e bene”. E subito dopo il presidente titolare della sezione, Michele Cantillo, rilevato che il numero dei ricorsi pendenti era già arrivato a superare ampiamente le 14000 unità (di cui circa la metà iscritti nell’ultimo anno), osservò che “un aumento dell’organico della Corte (….) può essere la via concretamente praticabile e, se sorretta da adeguata volontà da parte di chi di dovere, rapidamente percorribile per evitare il formarsi nel giro di qualche anno di un arretrato non più razionalmente gestibile”.
Dopo oltre venti anni da quel convegno, le parole allora pronunciate, che dimostrano come la Corte avvertì immediatamente il problema e lanciò subito un allarme, mantengono sostanzialmente integra la loro attualità.
Il grave sbilanciamento del rapporto tra contenzioso pendente e organico della sezione tributaria si è, infatti, rivelato una caratteristica costante: è sufficiente rilevare, a grandi linee e senza appesantire il discorso con eccessivi dati statistici, che il numero dei magistrati effettivamente assegnati alla sezione, compresi i presidenti, si è mediamente attestato, almeno per un quindicennio, intorno a 30/35, pari al 20/22 per cento dei magistrati complessivamente addetti alle sezioni civili della Corte, a fronte di sopravvenienze annue pari invece a quasi il 40 per cento del totale dei nuovi procedimenti civili e di una pendenza in costante aumento, fino a raggiungere presto quasi la metà di quella totale della Cassazione civile.
È poi interessante notare che la Commissione flussi, nel dicembre 2017, riconobbe che, in base all’applicazione del dato numerico, alla sezione tributaria dovessero essere attribuiti 52 consiglieri, ma che ciò avrebbe comportato uno “sbilanciamento esorbitante delle competenze della Corte (per un terzo assegnata ad affari tributari)”, con “l’effetto distorcente di deviare le complessive competenze civilistiche”; propose, pertanto, per la sezione, un organico di 40 consiglieri.
A parte alcune misure organizzative interne (quale l’applicazione, per qualche udienza straordinaria e su base volontaria, di magistrati di altre sezioni), solo con la legge di bilancio 2018 (n. 205 del 2017) il legislatore si è attivato, prevedendo, per un verso, la nomina, in via straordinaria e non rinnovabile, di magistrati ausiliari nel numero massimo di 50, da reclutare tra i magistrati a riposo e da destinare per un triennio a comporre i collegi della sezione (con il limite di due per collegio), e, per altro verso, la possibilità di applicazione parziale (cioè per due udienze/adunanze mensili) e temporanea (anch’essi per tre anni) alla sola sezione tributaria di magistrati addetti all'Ufficio del Massimario (con il limite di uno per collegio).
Si è trattato sicuramente di una iniziativa positiva che ha prodotto buoni risultati (anche se la compagine dei magistrati ausiliari, originariamente composta di 21 unità, si è andata riducendo nel tempo in ragione di intervenute dimissioni, giungendo alle attuali 13 presenze): basti pensare che, nell’unico anno in cui la sezione ha potuto fruire a pieno regime dell’apporto dei magistrati del Massimario e degli ausiliari, cioè nel 2019, è stato raggiunto per la prima volta il risultato del superamento, pari a circa 2000 unità, dei ricorsi definiti – quasi 11500 - rispetto a quelli sopravvenuti. Ma sono misure che volgono al termine: tra poco tempo scadranno dalle funzioni sia gli applicati (il 31 maggio) che gli ausiliari (a cavallo dell’estate). Ciò comporterà inevitabilmente, in mancanza di proroghe, un drastico ridimensionamento della produttività della sezione, quantificabile in 4.500/5000 ricorsi per anno.
Attualmente, la sezione è composta dalla presidente titolare, da cinque presidenti non titolari, da 40 consiglieri (di cui 11 assegnati alla sottosezione presso la sesta sezione), oltre, come detto, da 25 magistrati del Massimario applicati e da 13 magistrati ausiliari (2 assegnati alla sottosezione).
Al 31 dicembre 2020, i ricorsi pendenti in materia tributaria ammontavano a 53482, pari al 44 per cento della pendenza civile totale.
Perdura, quindi, una situazione di estrema criticità che non può e non deve ulteriormente essere tollerata: ecco perché possiamo, e dobbiamo, ripetere oggi le parole dei presidenti Vela e Cantillo prima ricordate.
2. L’attuale organizzazione della sezione
a)Generalità
Prima di passare ad esprimere qualche valutazione in ordine a quanto detto fin qui e ad avanzare alcune proposte concrete di soluzione (o di avvio a soluzione) del problema “tributaria”, ritengo utile, anche per offrire spunti di riflessione per l’ulteriore corso del convegno (con particolare riferimento alla seconda tavola rotonda), descrivere sinteticamente l’attuale assetto organizzativo della sezione, cioè il suo concreto modus operandi, come si è stabilmente delineato negli ultimi anni.
L’intento è sempre stato di perseguire la finalità di incrementare la quantità delle decisioni (la cosiddetta “produttività”), ma, allo stesso tempo, di favorire nel miglior modo possibile la coerenza della giurisprudenza.
Il risultato di accrescere il numero delle decisioni, di eliminare l’arretrato e quindi di ridurre la durata del giudizio di legittimità in materia tributaria a tempi fisiologici e ragionevoli è indubbiamente fondamentale e ormai improcrastinabile, ma ciò, anche per le ragioni che dirò tra poco, non può andare a detrimento della nomofilachia, funzione essenziale attribuita alla Corte di cassazione dall’art. 65 dell’ordinamento giudiziario, quale espressione dell’art. 111 Cost.
b) La suddivisione della sezione in aree tematiche
Venendo al concreto, i magistrati della sezione sono suddivisi già da molti anni in tre gruppi che rispecchiano le tre aree tematiche in cui la sezione stessa è articolata, individuate per tributi o gruppi di tributi (imposte dirette; iva, diritti doganali e accise; imposta di registro e tributi locali); nella proposta di organizzazione tabellare per il triennio 2020/2022 approvata dalla sezione nel mese di novembre 2020, è stato previsto l’inserimento in tabella della detta organizzazione, la composizione delle aree e i criteri di assegnazione e di permanenza dei magistrati presso le stesse.
c) L'Ufficio "spoglio e formazione dei ruoli"
L'Ufficio "spoglio e formazione dei ruoli" svolge, com’è intuibile, una funzione centrale per la funzionalità della sezione.
Esso, coordinato in ultima istanza dal Presidente titolare, è diviso anch’esso in tre settori, corrispondenti alle aree tematiche in cui la sezione è, come detto, tradizionalmente ripartita. Ciascun settore si compone attualmente di un presidente coordinatore, di un consigliere e di un magistrato del Massimario, e si avvale della attività di schedatura e classificazione dell'arretrato meritoriamente operata da un nucleo della Guardia di finanza distaccato presso la Corte. Ad un altro consigliere è, inoltre, affidato il compito di monitorare le decisioni e di segnalare al Presidente titolare incoerenze e antinomie e consentire a quest’ultimo le opportune iniziative.
Ai fini dell'attività di formazione dei ruoli, l'Ufficio adotta linee guida sperimentate, che prevedono il criterio di base della prioritaria fissazione dei ricorsi di più antica iscrizione, contemperato con la fondamentale esigenza di composizione, innanzitutto per le udienze pubbliche (ma anche, ove possibile, per le adunanze camerali), di ruoli tematici, formati cioè da controversie legate da connessione e/o stretta affinità di questioni, a prescindere dall’anno di iscrizione dei relativi ricorsi.
Rivestono poi priorità di trattazione: i ricorsi in relazione ai quali le parti abbiano comprovato ragioni di particolare urgenza; i ricorsi per revocazione ai sensi dell'art. 391-bis c.p.c.; i ricorsi coinvolgenti questioni sulle quali si registra un vasto contenzioso di merito (anche eventualmente segnalate dall'Avvocatura Generale dello Stato ai sensi del Protocollo d'intesa sottoscritto ormai da vari anni), la cui sollecita definizione in sede nomofilattica potrebbe avere anche funzione preventivamente deflattiva.
La distribuzione dei ricorsi tra udienze pubbliche e adunanze camerali risponde ai criteri dettati dall'art. 375, secondo comma, c.p.c., in base ai quali alle udienze pubbliche sono indirizzate le controversie in cui sia prima facie riscontrabile una chiara valenza nomofilattica, anche se, poiché l'esperienza insegna che siffatta valenza si rivela a volte nell'ambito della dialettica della camera di consiglio, non sono poche le decisioni camerali che presentano anch’esse un qualche interesse di tipo nomofilattico.
Il numero di ricorsi inseriti, per ciascun consigliere, nei ruoli di udienza/adunanza è, in linea tendenziale, di 4/5 per le udienze pubbliche e di 6/7 per le adunanze camerali (o anche in numero maggiore, per queste ultime, nel solo caso di trattazione congiunta di controversie sostanzialmente identiche), fatti salvi i correttivi resi attualmente necessari dallo svolgimento delle adunanze in via telematica.
Va sottolineato che, contrariamente a quanto probabilmente si ritiene all’esterno, sono molto rari i casi di ricorsi caratterizzati da elevata serialità pura (cioè concernenti una precisa e identica questione di diritto) e, quindi, la trattazione stabile in adunanza dell’anzidetto numero di ricorsi richiede ai consiglieri e ai presidenti di collegio un impegno non sostenibile oltre un ragionevole limite di tempo.
Negli ultimi anni, in particolare a decorrere dal 2018 (e a parte il 2020, per i ben noti motivi che lo rendono scarsamente idoneo ad essere valutato a fini statistici), le adunanze camerali sono state di gran lunga prevalenti, nella misura di circa i tre quarti del totale, rispetto alle udienze pubbliche.
Va infine sottolineato che la sezione ordinaria tiene da tempo mediamente 30/35 udienze/adunanze mensili, molto spesso quindi, inevitabilmente, con due, a volte anche tre, collegi che operano in contemporanea.
d) Definizione agevolata delle controversie tributarie ai sensi dell'art. 6 d.1. 23 ottobre 2018, n. 119
Nel corso del 2020 sono state emesse alcune centinaia di decreti presidenziali di estinzione del processo a firma della Presidente titolare, relativi sia a controversie definite per condono ai sensi dell’art. 11 del d.l. n. 50 del 2017, convertito dalla legge n. 96 del 2017 (sostanzialmente esaurite), sia a quelle soggette alla definizione agevolata di cui all’art. 6 del d.l. n. 119 del 2018, convertito dalla legge n. 136 del 2018.
Va, poi, ricordato che, con recente provvedimento della presidente titolare, in considerazione dell’elevato numero, pari a circa 6000, di processi pendenti interessati dal condono introdotto dal citato art. 6 del d.l. n. 119 del 2018, è stata organizzata una struttura destinata alla definizione veloce e allo stesso tempo corretta di tali processi. In particolare, è stato previsto che i giudizi suscettibili di estinzione siano distribuiti in parti uguali tra la Presidente titolare e i tre Presidenti coordinatori dei gruppi tematici; che l’attività di individuazione e di controllo dei detti giudizi finalizzata alla emissione dei decreti di estinzione, finora compiuta dal Nucleo della Guardia di finanza in servizio presso la Corte sotto il coordinamento di un magistrato del Massimario, sia potenziata, al fine di garantire una verifica ulteriore e più scrupolosa, con un consigliere e altri due magistrati del Massimario, dichiaratisi disponibili senza riduzione dei compiti loro ordinariamente assegnati; che, infine, i Presidenti coordinatori possano anch’essi, in qualità di delegati, sottoscrivere i decreti di estinzione.
Ci si avvale, anche in questo ambito, ove occorra, della interlocuzione con l’Avvocatura Generale dello Stato.
In virtù di detta struttura organizzativa, si confida di estinguere almeno 4000 processi nell’arco dell’anno, senza intaccare l’ordinaria attività giurisdizionale.
e) Misure tese a favorire la coerenza della giurisprudenza
Consapevole della capitale importanza che il corretto esercizio della funzione nomofilattica riveste, anche al fine di contenere l'entità del contenzioso, la sezione si è particolarmente impegnata nella predisposizione di strumenti miranti a favorire l'uniformità della propria giurisprudenza.
In particolare, si è operato sia sul versante della prevenzione delle difformità interpretative (al fine di evitare contrasti inconsapevoli), sia su quello della risoluzione dei contrasti interni.
Sotto il primo aspetto, considerato il numero di udienze/adunanze che i diversi collegi della sezione, come si è detto, tengono giornalmente anche in contemporanea ed il tempo che mediamente trascorre tra la decisione e la pubblicazione delle sentenze/ordinanze, il primo e più delicato problema che si pone è quello della tempestiva conoscenza della giurisprudenza in itinere.
In proposito, pur nella consapevolezza della necessità che non sia data pubblicità a decisioni ancora non trasfuse in sentenze pubblicate, si è tuttavia fortemente incentivato l’uso di canali informativi riservati (dropbox, chat sezionale e per area tematica, iniziale sperimentazione di archiviazione sulla piattaforma Teams) per tenere al corrente i colleghi, nel modo più rapido e semplice possibile, di decisioni relative a questioni nuove o che si discostano da precedenti orientamenti.
Considerato inoltre l’elevatissimo numero delle pronunce, si è raccomandato ai presidenti di collegio di utilizzare il modulo a tal fine predisposto per segnalare all’Ufficio del Massimario le sentenze più rilevanti sul piano nomofilattico, allo scopo di agevolare e velocizzare il lavoro di selezione svolto da quell’Ufficio, anche ai fini della rassegna periodica della giurisprudenza della sezione, che il Massimario ha meritoriamente introdotto da oltre due anni e che si è rivelato uno strumento molto utile di immediata consultazione.
Per quanto concerne il problema della risoluzione dei contrasti interni già verificatisi (consapevolmente o inconsapevolmente) con la pubblicazione della decisione, va segnalato che, oltre alla indizione di eventuali apposite riunioni sezionali, nella proposta di variazione tabellare deliberata nel mese di novembre 2020 (sopra citata), è stata inserita una rilevante novità, costituita dalla previsione, ritenuta di particolare efficacia, di uno specifico modulo organizzativo, che può essere definito collegio speciale nomofilattico, formato (a rotazione) da magistrati appartenenti a tutte le aree tematiche e deputato, appunto, alla composizione, all’interno della sezione, di contrasti su questioni di competenza “trasversale” ai gruppi (quali quelle concernenti istituti procedimentali o processuali tributari, ma anche, in casi non infrequenti, di diritto tributario sostanziale).
Lo scopo è quello di discernere i contrasti effettivi da quelli meramente apparenti e, quanto ai primi, che attengano ovviamente a questioni di stretta competenza sezionale, di tentare di pervenire al riassorbimento del conflitto interpretativo in ambito interno (anche avvalendosi, ove ritenuto necessario, di relazioni dell’Ufficio del Massimario), prima di richiedere il definitivo intervento chiarificatore delle Sezioni unite.
f) Rapporti con la sottosezione presso la sesta sezione
La sottosezione è attualmente composta, oltre che dal coordinatore, da un numero di consiglieri (10 più due ausiliari), in regime di assegnazione esclusiva, idoneo ad assicurare l’operatività di due collegi.
Il mantenimento di tale assetto (sotto entrambi i profili, doppio collegio e assegnazione a tempo pieno) è oggetto di riflessione negli ultimi tempi; personalmente ritengo inopportuno, allo stato, apportare variazioni strutturali, anche in ragione della situazione di incertezza in cui versa in questo momento la sezione nel suo complesso.
Si rivela di grande importanza il mantenimento, e anzi l’intensificazione, di un costante flusso informativo tra la sezione e la sottosezione, la quale ultima, in particolare, deve segnalare al Presidente titolare o ai presidenti coordinatori delle aree tematiche le controversie rimesse alla sezione che presentino ragioni di urgenza della decisione, dovute, ad esempio, alla presenza di un vasto contenzioso di merito che richiede, anche a scopo deflattivo, una rapida risposta nomofilattica.
3. Necessità di una svolta di mentalità e un’occasione da non perdere
A) Tornando al tema dell’entità del contenzioso pendente presso la sezione tributaria, innanzitutto intendo fare una premessa di carattere generale, una sorta di testimonianza personale che sento doverosa per conoscenza diretta, lavorando in sezione da oltre 15 anni, e che certamente è stata sempre condivisa da tutti: la quantità del contenzioso non può essere certo addebitata ai magistrati o ai componenti la cancelleria. Gli uni e gli altri, in pari misura, hanno sempre, e vieppiù nel tempo, profuso il massimo impegno, fino ai limiti, e forse anche oltre, dell’esigibile.
Ciò posto, temo che la sottovalutazione del problema sia stata dovuta anche, da parte di alcuni, ad una inadeguata percezione (che, devo dire, ho colto in qualche occasione, e non solo io) dell’importanza e della complessità e difficoltà del diritto tributario.
Non si tratta evidentemente di fare graduatorie, fuori luogo, tra settori del diritto, ma di riconoscere, molto semplicemente e quasi banalmente, che il diritto tributario: a) disciplina il dovere di tutti di concorrere alle spese pubbliche in base al principio di capacità contributiva – cioè di pagare la “giusta“ imposta, secondo il dettato dell’art. 53 Cost., che costituisce specificazione ai fini fiscali del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. -, e quindi la essenziale attività dello Stato diretta a procurarsi i mezzi finanziari per il raggiungimento delle proprie finalità a vantaggio della intera collettività: riveste pertanto un evidente e fondamentale rilievo sociale ed economico (in proposito, da un recente calcolo statistico risulta che il valore complessivo dei ricorsi in materia tributaria pendenti in Cassazione è pari a circa 38 miliardi di euro); b) regola in tale ambito il rapporto tra Stato e cittadini, cioè tra fisco e contribuente, la cui conformazione costituisce la misura del grado di civiltà di una nazione; c) come ha detto il Primo Presidente della Corte di cassazione nella relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2020, e quindi nella più elevata sede istituzionale, “è uno dei settori più complessi e impegnativi dell’esperienza giuridica”: non vi è dubbio, infatti, che il diritto tributario è caratterizzato da elevata tecnicità, accentuata e resa ancor più complessa sia dalla necessità, da parte dell’interprete, di adeguarsi alla disciplina e alla giurisprudenza unionali (costituita, quest’ultima, da pronunce molto frequenti della Corte di giustizia, con la quale si può dire che si è instaurato una sorta di continuo e proficuo “dialogo”), sia dalla presenza di una normativa interna asistematica, stratificata, confusa, che rende a volte difficile anche il mero reperimento della regula iuris applicabile alla fattispecie concreta ratione temporis.
In definitiva, il diritto tributario - e il relativo contenzioso – non è affatto un diritto “minore”, quasi da considerare con sufficienza, e richiede, quindi, a pieno titolo, l’esercizio della funzione attribuita dall’ordinamento alla Corte di cassazione. Come ha affermato in un recente scritto Franco Gallo, con riferimento alla proposta di trasferire la materia tributaria ad altro ambito giurisdizionale, “non si tocchi nella sostanza l’attuale assetto della Corte di cassazione riguardo alla giurisdizione tributaria. La si lasci svolgere pienamente la sua funzione nomofilattica, perché anche in campo fiscale la legge e l’evoluzione nel tempo della giustizia hanno affidato ad essa, e non ad altri giudici, questa superiore funzione, quale unico ufficio giudiziario di pura legittimità che opera, nei limiti dell’art. 360 c.p.c., con l’apporto della Procura generale e conclude negli interessi della legge”.
B) L’attuale momento storico è particolarmente propizio per affrontare finalmente ed efficacemente, con interventi strutturali stabili, l’ultraventennale questione della funzionalità della sezione tributaria della Corte di cassazione.
Infatti, con la legge n. 145 del 2018 e il successivo d.m. del 17 aprile 2019 l’organico della Corte di cassazione è stato aumentato di 4 presidenti di sezione e 48 consiglieri, portando questi ultimi a 356: in realtà, peraltro, i posti in organico da distribuire tra le sezioni sono oggi di fatto 53, non essendo stati assegnati i 5 posti in più (da 303 a 308) già fissati con precedente decreto ministeriale.
Inoltre, il problema dell’arretrato della Corte in materia tributaria ha ormai superato i confini nazionali ed ha assunto rilevanza europea.
In definitiva, siamo di fronte a un’occasione da non perdere: anzi, è l’ultima chance che abbiamo per tentare di evitare che in Italia la giustizia tributaria – e quindi il diritto tributario – si avvii verso un degrado irreversibile.
Ed è il momento di intraprendere la strada maestra, costituita dall’aumento dell’organico, considerando la sezione tributaria non come una sorta di corpo a sé, quasi estraneo alla Corte di cassazione, e da trattare quindi con provvedimenti straordinari e precari (e a volte anche estemporanei), bensì per quella che è, vale a dire una sezione della Corte come le altre, il cui arretrato non è un quid di separato dal resto, ma si traduce e confluisce in arretrato della Corte di cassazione tout court e come tale va considerato e affrontato.
Vien da sé, pertanto, la netta contrarietà alla nuova proposta di assegnazione alla sezione, in via temporanea e contingente, di magistrati ausiliari onorari, prevista nel Piano nazionale di ripresa e resilienza: oltre a tutto quanto già detto in linea generale, va rilevato, da un lato, che non sono indicati i criteri di nomina di detti magistrati onorari (a differenza della misura introdotta nel 2017, la quale li individuava nei magistrati a riposo) e, dall’altro, che, dovendo ritenersi - e auspicarsi – che verrebbe stabilito anche questa volta il limite di due membri ausiliari per collegio, essi sarebbero ampiamente sottoutilizzati, in ragione della necessità di garantire nei collegi la presenza maggioritaria di magistrati istituzionali.
C) Consentitemi a questo punto di avanzare alcune proposte concrete, precisando che sono formulate a titolo personale, ma che sono anche il frutto di riflessioni e valutazioni comuni e antiche con i colleghi e che peraltro hanno già trovato espressione nella relazione recentemente inviata dalla Presidente titolare della sezione Camilla Di Iasi al Primo Presidente, ai fini della predisposizione del programma di gestione per l’anno 2021 previsto dall’art. 37 del d.l. n. 98/2011 (conv. nella legge n. 111/2011).
1) Aumento dell’organico dei consiglieri della sezione tributaria di almeno venti unità, portandolo così, rispetto alle attuali presenze effettive, a 60: ciò consentirebbe di definire stabilmente, tra sezione e sottosezione, intorno a 15000 procedimenti l’anno, e cioè da un lato di fronteggiare le sopravvenienze (stabilmente pari in media a 10000 all’anno negli ultimi 10 anni) e dall’altro di erodere l’arretrato di circa 5000 giudizi, sempre su base annua.
2) In attesa dell’aumento effettivo dell’organico all’esito del concorso da poco bandito, si rivela necessario, al fine di evitare nel frattempo una notevole diminuzione delle definizioni (pari a circa 3000 annue), prorogare, in via transitoria, l’applicazione presso la sezione degli attuali magistrati dell’Ufficio del Massimario, in scadenza, come detto sopra, il 31 maggio prossimo.
3) Misura ancor più auspicabile è una previsione legislativa – che rinviene un precedente in parte analogo nell’art. 5 del d.lgs. n. 24 del 2006 - che consenta il transito, previa ovviamente valutazione del CSM, degli attuali applicati del Massimario (o almeno di quelli che abbiano esercitato le funzioni giurisdizionali per un periodo ritenuto congruo) nella qualifica di consiglieri di cassazione, con destinazione alla sezione tributaria. Ciò al fine di non obliterare la loro pluriennale esperienza, avendo essi in questi anni, oltre a continuare a svolgere i compiti essenziali e preziosi tipici dell’Ufficio di appartenenza, acquisito, con risultati eccellenti, una profonda diretta conoscenza del giudizio di legittimità in genere e del contenzioso tributario in particolare: è un tesoro da non disperdere, nell’ottica di conservare, con effetto immediato, una composizione della sezione dotata della elevata professionalità che una materia così altamente specialistica e complessa esige; il provvedimento, d’altra parte, non andrebbe a scapito delle legittime e altrettanto fondate aspettative dei colleghi provenienti dal merito, per i quali resterebbero disponibili i 22 posti già messi a concorso per il settore civile (oltre a 18 per il penale), nonché quelli futuri, considerato che l’organico registra attualmente oltre 80 vacanze.
4) Nella stessa ottica di formare e affinare una specifica competenza nella materia, sarebbe molto importante, poi, la previsione di una permanenza minima in sezione di almeno 4/5 anni dei consiglieri ad essa assegnati, prima di eventuali trasferimenti; la storica natura – soprattutto con riguardo ad anni risalenti, poiché negli ultimi tempi il fenomeno si è notevolmente ridimensionato - di sezione di mero transito rivestita dalla sezione tributaria ha, infatti, comportato ovvi effetti negativi legati a tale turn over.
5) Altra essenziale misura è quella di un congruo incremento del personale di cancelleria, che lavora anch’esso da anni all’estremo limite delle forze e al quale esprimo, anche a nome di tutti i colleghi, un profondo apprezzamento e ringraziamento: in mancanza di un aumento consistente, commisurato all’entità del carico di lavoro in ogni fase dell’attività processuale, qualunque discorso sulla efficienza della sezione sarebbe del tutto vanificato.
6) Spetta, infine, esclusivamente al legislatore valutare, nell’esercizio della sua discrezionalità, l’opportunità, sempre al fine dell’abbattimento dell’arretrato, di introdurre misure deflattive del contenzioso di altra natura.
*L’articolo riproduce, con alcune limitate modifiche, il testo dell’intervento scritto allegato agli atti del Convegno organizzato da Area democratica per la giustizia, tenutosi in data 12 marzo 2021 sul tema Il recovery fund e le criticità della sezione tributaria della Corte di Cassazione: quali opportunità?
Obbligo di vaccino. Istruzioni per l’uso*
di Vladimiro Zagrebelsky
Il contesto di una epidemia che non passa, di un virus tuttora poco conosciuto, che va e viene e cambia forma, colpendo in modi diversi e poco prevedibili, dal quasi nulla al letale, è l’ideale terreno che spinge alla ricerca affannosa di soluzioni, per tentativi, anche solo a scopo di sostegno psicologico per una opinione pubblica allarmata. E anche questa volta, come spesso in Italia, la soluzione viene cercata in una legge. Ma la vera utilità delle leggi si giudica prima sul terreno della loro necessità, poi su quello della loro esecuzione e infine sulla loro efficacia. Ciascuno di questi passaggi andrebbe analizzato in vista della iniziativa legislativa annunziata dal presidente del Consiglio, per obbligare il personale sanitario a vaccinarsi contro il Covid-19. Recentemente si è avuta indicazione di ricoverati in ospedale o ospiti in RSA che sono stati infettati dal virus e si sospetta che all’origine ne sia il personale sanitario non vaccinato. È così tornato in discussione un tema che era stato affrontato a livello astratto quando si annunciò la prossima disponibilità di vaccini. Come si disse già allora, la Costituzione consente di imporre un trattamento sanitario, come sono i vaccini, contro la volontà della persona. La possibilità è sottoposta alla condizione che l’obbligo sia previsto da una legge o da un atto equivalente, come il decreto-legge.
Ora si tratta di obbligare, non tutta la popolazione o larghe fasce di essa, ma soltanto medici, infermieri, operatori socio-sanitari. È probabile che il governo disponga di dati affidabili sul fenomeno, che si vuole contrastare e correggere, del rifiuto del personale sanitario di farsi vaccinare. Le dimensioni del fenomeno ed anche la sua realtà nelle varie categorie interessate vanno naturalmente tenute in conto per valutare l’adeguatezza dell’intervento legislativo e soprattutto il tenore del sistema che si immagina di introdurre. Un obbligo può essere articolato in molti modi. Esclusa la coercizione fisica, naturalmente, si possono prevedere sanzioni penali o amministrative per chi non si adegua, ma esse rispetto al problema concreto e alla sua urgenza sarebbero inutili. Diverso è il caso di conseguenze sul piano del rapporto di lavoro, pubblico o privato che sia. Tali conseguenze e la loro concreta gestione sono necessariamente diverse se si tratta di uno dei (pochi) medici specialisti di un ospedale, o uno dei molto più numerosi infermieri o operatori socio-sanitari. Il loro rapporto di lavoro poi è diverso e non per tutti è richiesta l’abilitazione alla professione.
Quanto ai numeri, non risulta vi sia un vero problema per quanto riguarda i medici. Il ricorso alla vaccinazione sarebbe pressoché totale, se si escludono casi particolari come quello dei medici che, avendo patito il Covid-19 ed essendone guariti, per un certo tempo non possono vaccinarsi. La previsione dell’obbligo di vaccinarsi non sarebbe quindi necessaria. Non sorprende che sia così per l’evidente interesse personale e professionale ed anche perché in tal senso spinge il codice deontologico, recentemente richiamato dal presidente degli Ordini dei medici. Più significativo sarebbe il caso della categoria infermieristica. Ma sarebbe sbagliato assimilare la posizione di coloro che non si vaccinano a quella dei NoVax, irrazionali, complottisti, ecc. Anche per gli infermieri il codice deontologico spinge verso l’accettazione del vaccino. Sarebbero però presenti perplessità di tipo sanitario in una categoria composta in gran parte da donne, spesso giovani, che temono effetti collaterali non ancora sufficientemente testati. Un’opera di seria informazione sarebbe necessaria, ma la circostanza è rilevante poiché potrebbe aprire la via ad un diffuso contenzioso, per far valere motivi validi in opposizione alle sanzioni. Su un altro piano va considerato che non è escluso che una persona, anche vaccinata, possa essere infettata e poi per un certo tempo essere infettiva. L’elemento vaccinazione da solo non sarebbe quindi decisivo, ai fini della protezione degli ospiti di ospedali e RSA; andrebbe chiaramente espresso lo scopo prudenziale che spiega il provvedimento in cantiere e non la presunzione di una sua efficacia assoluta.
Si tratta di questioni che dovrebbero essere esaminate nel momento in cui l’intervento legislativo verrà definito, quando la parola “obbligo” dovrà essere declinata in una forma concreta, utile e praticabile. Come è noto è diffusa l’opinione secondo la quale l’operatore sanitario in un ospedale o in una RSA, che rifiuta di vaccinarsi potrebbe -anzi, dovrebbe- essere allontanato dal servizio o almeno dal servizio a contatto con i pazienti o ricoverati, in applicazione delle leggi già vigenti. È di pochi giorni fa la decisione del giudice di Belluno che ha respinto un ricorso contro provvedimenti di quel tipo. La legge in preparazione potrebbe intervenire sul piano civilistico dell’adempimento dei doveri propri del rapporto di impiego; potrebbe utilmente chiarire e disciplinare, con specifica attenzione al settore sanitario che è in considerazione, l’obbligo per le strutture sanitarie di reagire al rifiuto del dipendente con il suo trasferimento ad altre mansioni, se possibile senza danno per la funzionalità del servizio, ovvero il suo allontanamento dal lavoro o il licenziamento. Una graduazione di possibili provvedimenti sarebbe opportuna. Soprattutto andrebbe disciplinata la natura del provvedimento “sanzionatorio” e la tipologia dei possibili ricorsi al giudice. Il problema cui si vuol dar soluzione richiede l’immediata efficacia del provvedimento e l’attenta regolamentazione dello svolgimento del controllo giudiziario.
*Il presente articolo è stato pubblicato sul quotidiano La stampa del 27 marzo 2021 e viene qui riproposto con il consenso dell'editore e dell'autore.
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