ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il metodo elettorale del sorteggio. Appunti sul ruolo storico del sorteggio nella selezione dei titolari di poteri pubblici*.
di Salvo Spagano
Sommario: 1. Il sorteggio nel potere - 2. Il sorteggio ad Atene - 3. Scrutinio e Tratta: due esempi tra Medioevo e Rinascimento - 4. In luogo di una conclusione
1. Il sorteggio nel potere
Il primo esempio noto di sorteggio quale strumento impiegato all’interno di meccanismi funzionali alle procedure di organizzazione del potere pubblico risale, come ben noto, all’antica Atene. Tuttavia non abbiamo evidenze, che non siano ambigue, del tempo e delle circostanze in cui il fenomeno prese avvio ([1]). Di certo, nelle parole di Lyttkens, il sorteggio “ebbe profonde e permanenti conseguenze per la società atenese, e ciò per effetto della mutata visione del mondo che ne derivò ai cittadini” ([2]). Secondo tale impostazione, ciascun cittadino deve poter essere considerato astrattamente idoneo a svolgere funzioni che l’autorità pubblica riservi per sé. A fronte di questa declinazione, dal tratto inclusivo ed egalitario, l’utilizzo del caso nella individuazione della persona fisica cui deputare lo svolgimento di poteri d’autorità è in grado di conseguire fini diversi, forse non ancora adeguatamente evidenziati ([3]). In particolare, ciò che intendono mostrare queste brevi note, il caso ha storicamente provato d’essere idoneo al contrasto all’insorgere e al consolidarsi di poteri individuali e di legami interindividuali che, ove duraturi, potrebbero mettere a repentaglio il conseguimento di quei fini per i quali il potere a quegli individui era stato tributato. Così inteso, l’utilizzo del caso nella selezione del decisore, e quale che sia l’ampiezza della discrezionalità che gli si tributi, è uno strumento tutt’affatto neutrale, e ciò con buona pace di un dibattito corrente poco avvertito, che lo riduce ad una panacea livellatrice e ri-vendicativa di torti, veri o presunti, patiti per mano di qualsivoglia autorità.
2. Il sorteggio ad Atene
L’esempio più antico a noi pervenuto con certezza di utilizzo del sorteggio in funzione di contrasto alla concentrazione di potere consiste nella complessa riforma posta in essere da Clistene, che fu continuatore dell’opera di Solone. Nella testimonianza di Aristotele ([4]), egli ridisegnò i confini interni del territorio ateniese suddividendolo in trenta porzioni dette Trittie. Dieci di queste appartenevano al territorio costiero, dieci a quello della città in senso stretto, e dieci al territorio intermedio. All’interno di ciascuna Trittia, i legami familiari assicuravano un elevato grado compattezza. Appartenendo poi alla stessa regione, i tre gruppi di Trittie (costiero, cittadino ed intermedio) erano anche altamente omogenei tra loro. La prevedibile conseguenza era che ciascuno di questi tre gruppi si consolidasse, a difesa dei propri interessi, facendo fronte comune in contrapposizione agli altri due. Ci si trovava quindi nella situazione astrattamente descritta nel precedente paragrafo, secondo cui il consolidamento di legami interindividuali può determinare una contrapposizione che si risolve nella difficoltà concreta di produrre un vantaggio comune per un numero sufficientemente ampio di destinatari. L’idea di Clistene fu allora quella di riaggregare le Trittie in dieci unità amministrative maggiori, dette Tribù. Ciascuna Tribù era composta da tre Trittie, selezionate però in modo che una provenisse dalla regione costiera, una da quella cittadina e una da quella intermedia, affidando al sorteggio la concreta individuazione delle tre Trittie che componessero ciascuna tribù. Ne risultava una composizione disomogenea della popolazione interna a ciascuna tribù.
Tra il 508 e il 507 a.C., inoltre, Clistene aveva riformato la Boule, organo titolare dell’iniziativa legislativa e delle relazioni di Atene con le potenze straniere. Ebbene, i cinquecento buleuti venivano a loro volta scelti a sorte. A supporto del fatto che anche in tal caso il sorteggio fosse finalizzato a scongiurare la concentrazione di potere, è possibile addurre una prova indiretta. Vigeva infatti, a fianco del sorteggio, anche la rotazione delle cariche ([5]): nessuna di esse poteva essere detenuta più di una volta dallo stesso individuo. Lo scopo della rotazione era certamente, come accadeva nel caso del sorteggio, quello di consentire a ciascun cittadino di potere accedere a tutte le diverse cariche di governo. Ma, come quello, scoraggiava anche il fossilizzarsi di relazioni di potere: chi occupava una qualunque carica non avrebbe potuto credibilmente impegnarsi con terzi per atti da assumere in futuro, giacché mai più avrebbe potuto detenere quella carica. Il suo potere individuale ne veniva conseguente assai compresso. L’unica eccezione ammessa era quella relativa alla partecipazione alla Boule, in considerazione del numero limitato di cittadini “eleggibili”: se si fosse tenuto conto anche della rotazione si sarebbe infatti corso il rischio di non poter coprire stabilmente tutti i seggi.
Sorteggio e rotazione insieme, dunque, consentivano a tutti i cittadini accesso alle funzioni pubbliche. Al contempo, specie nel loro uso congiunto, assicuravano però anche un più indiretto beneficio, rappresentando essi ostacolo al costituirsi e al rafforzarsi di un troppo penetrante potere individuale, e all’instaurarsi di fazioni che avrebbero consumato, nella lotta per il potere, gran parte della forza che andava invece impiegata nel servizio alla collettività.
3. Scrutinio e Tratta: due esempi tra Medioevo e Rinascimento
Il sorteggio ebbe un momento di discreta diffusione in Italia a partire dall’età comunale. I principali esempi del fenomeno furono il Brevia e lo Scrutinio e tratta. Il primo appare diffuso nel Nord del Paese tra il dodicesimo e il tredicesimo secolo e, nelle forme che furono proprie di Venezia, se ne conserva traccia fino addirittura all’inizio del diciannovesimo secolo. Lo Scrutinio e tratta ebbe invece origine a Firenze agli inizi del quattordicesimo secolo e sopravvisse fino alla metà del quindicesimo.
È possibile mostrare come il sorteggio presente nello Scrutinio fosse consapevolmente stato introdotto allo scopo di superare le contrapposizioni tra fazioni politiche già costituite. Alla morte del duca di Lucca, che nel 1328 aveva restituito ai fiorentini il diritto di scegliersi il proprio governo, si pose il problema di quali strumenti adottare per l’esercizio di tale ritrovata autonomia. Nella discussione che ne seguì emerse con chiarezza l’obiettivo da perseguire:
"Dappoich’è Fiorentini ebbono novelle della morte del duca, ebbono più consigli e ragionamenti e avvisi, come dovessono riformare la città di reggimento e signoria per modo comune, acciocché si levassono le sette tra’ cittadini" ([6])
Pochi mesi dopo, Firenze adottò lo Scrutinio e tratta. Il meccanismo era essenzialmente composto dalla compresenza di un momento elettorale e di uno casuale: gli aventi diritto sceglievano per voto un certo numero di individui che ritenevano idonei a ricoprire una data carica e poi, tra i nomi così individuati, si procedeva per sorteggio all’estrazione di chi concretamente avrebbe ricoperto l’ufficio. Se, per volontà del caso, una famiglia si fosse trovata avvantaggiata perché così deciso dalla sorte, aveva sì occasionalmente il potere di prevalere su altre, ma correva il rischio che la situazione le si rivoltasse conto in un futuro non lontano. Anche questi occasionali vantaggi consigliavano dunque prudenza e obbligavano al dialogo con le altre fazioni politiche, giacché la misura del proprio relativo potere non era il frutto di battaglie o cospirazioni ben condotte, ma squisitamente dono della dea bendata. È interessante notare come tale schema impedisse che i parenti di chi fosse stato sorteggiato per reggere un ufficio potessero essere sorteggiati per reggere in futuro il medesimo. Appare così confermato, nello Scrutinio e tratta, lo stesso schema esposto a proposito di Atene antica: si ricorre al caso laddove si ritenga che la permanenza protratta sine die in un ufficio pubblico, o il contrapporsi tra fazioni che si contendano il potere, conducano ad un detrimento dell’interesse pubblico non altrimenti compensato. A nulla rileva, in tal caso, che l’origine del fazionalismo della Grecia antica fosse prevalente territoriale, mentre fosse a carattere più familistico quello fiorentino.
Lo strumento del Brevia fu introdotto a Parma nel 1233, esplicitamente rivolto ad evitare contentiones:
Capitulum ad evitandum quod aliquis qui non sit de consilio generali debeat stare ad sortes recipiendas, et ad evitandum contentiones super hoc ([7])
In maniera speculare allo Scrutinio, il Brevia prevedeva dapprima un sorteggio generale fra gli aventi diritto a ricoprire la carica. Solo successivamente, tra i sorteggiati venivano eletti coloro i quali avrebbero poi ricoperto le cariche in questione. Si noti come il metodo del sorteggio, in entrambi i casi, non risultava affatto alternativo a quello elettorale. Al contrario, le procedure mescolavano il momento elettorale con quello casuale in modo da pervenire a decisioni sostanzialmente intenzionali, in cui il sorteggio interveniva come temperamento affinché l’intenzionalità non travalicasse il confine oltre il quale troppo si sminuisse l’interesse della collettività.
4. In luogo di una conclusione
Si è provato a mostrare come l’utilizzo storico del sorteggio nella selezione dei titolari di cariche pubbliche sia stato funzionale all’allargamento a tutti i cittadini di tale possibilità, come anche a impedire il formarsi di rendite di potere. Dal punto di vista della teoria economica delle istituzioni, questo secondo fine si risolve nella introduzione di elevati costi di transazione nel contratto politico tra governanti, e tra governanti e governati. Rendere impervio l’accordo tra il singolo e (una parte de) i suoi elettori da una parte, e quello tra i decisori dall’altro, riduce la rendita di pochi soggetti accrescendo, a parità di condizioni, il beneficio che alla collettività può derivare dall’azione pubblica.
A fronte di tali benefici teorici, una populistica e recente vulgata suggerisce di soppiantare il metodo elettivo con uno che in qualche modo affidi al caso la selezione dei titolari di uffici destinatari di pubblici poteri, in una generale tensione verso l’appiattimento delle differenze e delle competenze. Poco conta che si tratti di parlamentari, ministri o componenti del Consiglio Superiore della Magistratura, o che la scelta vada fatta nella popolazione generale ovvero entro un set di competenti. Si tratta, ad avviso di chi scrive, di uno dei numerosi sintomi dell’attuale anelito alla disintermediazione che trova ispirazione, complice la (illusoria) diffusione di conoscenze a mezzo tecnologico, in una generalizzata sfiducia, ed ignoranza, delle funzioni pubbliche. Mentre è indiscusso ed indiscutibile il diritto a dubitare dei propri governanti e dei meccanismi che li selezionano, è illegittima l’operazione di piegare alle proprie opinioni le evidenze storiche. L’utilizzo del caso non pare mai aver soppiantato il momento teleologico, l’intenzionalità della scelta, ma semmai esservi stato solamente giustapposto, e per motivi specifici che nulla hanno a che vedere con finalità rivendicazionistiche. Si è trattato, come ho provato ad appuntare in queste note, di due motivi fondamentali. Il primo è consistito nella asserita opportunità di impedire al medesimo individuo, o a suoi familiari o sodali, di permanere troppo a lungo in una posizione di potere, tanto almeno da potervi trarre con regolarità e facilità rendite che non gli pertengono. Il secondo, più ricorrente, è stato quello di contrastare l’irrigidimento dei decisori in fazioni contrapposte, cosa che si è ritenuta neutralizzasse, o almeno inibisse, il perseguimento dell’interesse della generalità.
Laddove si rinvengano necessità di tal fatta nel discorso pubblico contemporaneo, la storia offre allora precedenti, esempi e strumenti che possono anche trovare un qualche spazio di inveramento, ferma la siderale distanza tra le strutture sociali, giuridiche, economiche e tecnologiche di allora e di oggi. Laddove tali specifiche urgenze non si ravvisino, invece, o se fini diversi volessero essere perseguiti, va allora ribadita l’illegittimità storica del richiamo a forme democratiche del passato che mai furono come talora si pretende.
* estratto da Migliorare il csm nella cornice costituzionale a cura di Beatrice Bernabei e Paola Filippi
([1]) Sulle origini non politiche del sorteggio si veda Dowlen (2017), pagg. 31 ss.
([2]) […] had profound long-term consequences for Athenian society by changing the citizens’ view of the world (Lyttkens 2013, pag. 93), mia traduzione.
([3]) Per una rassegna storica dei vari impieghi del caso nella selezione dei decisori pubblici si veda Delannoi and Dowlen (2016).
([4]) Aristotele (1986), pag. 164.
([5]) Engelsted (1989), pag. 24, mette in guardia sul rischio di sovrapporre, e dunque confondere, i due strumenti.
([6]) Villani (1845), III, p.103.
([7]) Statuta Communis Parmae (1855), II, p. 39. A tal proposito Wolfson (1899), p. 12, mostra come il sorteggio fosse inteso anche a ridurre corruzione e violenza.
Paesaggio e ricerca scientifica (nota a TAR Lazio - Roma, sez. II quater, n. 1080/2021).
di Giovanna Iacovone
Sommario: 1. Inquadramento del tema e della vicenda amministrativa e contenziosa - 2. Paesaggio e beni paesaggistici. Le ragioni della distinzione- 3. I criteri della necessaria ponderazione: proporzionalità e ragionevolezza. Rilevanza della ricerca scientifica
1. Inquadramento del tema e della vicenda amministrativa e contenziosa
La sentenza in commento consente di riflettere sulle molteplici declinazioni concettuali e normative del paesaggio mettendo a confronto l’evoluzione del concetto nei suoi diversi approdi evolutivi, tanto della legislazione quanto, alla luce di questa, della dottrina e della giurisprudenza.
Una sentenza che costituisce un ulteriore tassello, insieme alle diverse pronunce intervenute negli ultimi dieci anni a risolvere le numerose controversie aventi ad oggetto la messa in atto di un processo di tutela dell’intera Campagna romana, nella definizione di un quadro interpretativo di principi funzionali all’applicazione delle novità introdotte dal codice dei beni culturali e del paesaggio[1].
Fa da sfondo, ma anche da chiave di volta, nella decisione del Tar Lazio il pensiero critico nei confronti della logica che si potrebbe definire dell’“ipervincolo” cui si connette il rischio «di vincolare tutto per non tutelare nulla», e quindi la necessità di una gradazione di valore e del giusto discernimento tra vincoli utili e vincoli che possono essere non solo inutili ma talvolta anche produrre danni non giustificati in termini di proporzionalità e ragionevolezza, in un contesto di ponderazione di interessi.
Emerge l’intento di superare quella cultura che affida la qualità paesaggistica ad un gioco tutto difensivo e fondato sulle procedure vincolistiche, cercando di interpretare al meglio il contesto normativo e giuridico che nel corso dell’ultimo decennio è andato delineandosi.
La sentenza, dunque, offre una importante opportunità per contribuire al dibattito in corso circa i presupposti culturali e normativi con cui si produce, si tutela e si pone in valore il paesaggio di una nazione, così come di qualunque ambito territoriale e/o urbano.
Il contenzioso ha ad oggetto un vincolo paesaggistico di area vasta (di 1600 ettari) comprensivo di alcune aree di proprietà dell’Università della Tuscia su cui sono localizzati l’Orto Botanico, in cui si svolge l’attività istituzionale di didattica, di ricerca e di divulgazione scientifica, in particolare di coltivazione di specie vegetali da ogni parte del mondo (circa 20.000 esemplari di circa 2.500 specie) l’azienda Agraria Didattico-Sperimentale, (superficie di circa 30 ettari) per la ricerca e studio di tecnologie per il monitoraggio ambientale e la protezione delle colture[2].
La lesione prospettata dalla ricorrente a causa delle limitazioni imposte dal vincolo imposto, riguarda la preclusione delle proprie attività istituzionali e il cui svolgimento richiederebbe la trasformazione dell’area sia in termini di lavori (arature profonde) sia in termini di opere (demolizione e ricostruzione di un manufatto) funzionali alla ricerca[3].
L’ingiustizia del pregiudizio lamentato è ravvisata nella insussistenza, con riguardo alle aree di proprietà dell’Università, delle “caratteristiche tipiche del paesaggio agrario tradizionale della piana di Viterbo” idonee a postulare la dichiarazione di notevole interesse pubblico ai sensi dell’art. 136, comma 1, lett. c) e d) del d.lgs. n. 42 del 2004.
Il Tar ha annullato il provvedimento di vincolo in quanto affetto da un «deficit motivazionale» ravvisato nella non utilizzabilità dei principi posti a presidio della tutela del paesaggio inteso come “forma del territorio”, e richiamati dall’Amministrazione resistente ai fini della giustificazione del vincolo, in quanto non idonei a dar conto «delle caratteristiche prescritte dall’art. 136 del Codice» e che costituiscono la “causa” «che giustifica l’assoggettamento del bene ad un particolare regime giuridico», in ragione «del loro interesse pubblico paesaggistico di grado “notevole” (giudizio di valore)».
Inoltre, trattandosi di un vincolo di area vasta, occorre dimostrare l’unitarietà del complesso paesaggistico vincolato, ossia un «nesso di continuità percettiva che giustifi[chi] l’assoggettamento a vincolo di un’enorme porzione di territorio». Infatti, secondo il giudice «un vincolo di tale estensione può essere ritenuto legittimo, non esorbitante, solo ove risulti “necessario” per non infrangere quel rapporto delle singole parti con l’insieme di appartenenza, che costituisce l’unicum oggetto di tutela».
Nel caso di specie, invece, non vi ha ravvisato «la sussistenza di quell’unitarietà di contesto paesaggistico affermata in modo generico ed assiomatico dall’Amministrazione, e non confortata dalla rappresentazione dei luoghi stessi».
In proposito il Tar rinvia a quella giurisprudenza che, nel caso di assoggettamento al vincolo paesaggistico di area vasta intende in senso molto rigoroso l’onere motivazionale[4].
Il Tar, in particolare, non ha ritenuto conforme ai richiamati requisiti motivazionali la mera affermazione secondo cui lo stralcio avrebbe comportato “una destrutturazione dell’area e una sottrazione non coerente con gli obiettivi prefissati” a fronte di una situazione di fatto caratterizzata da «terreno totalmente pianeggiante» non identificabile, pertanto, alla stregua di “bellezza naturale” nei termini di cui all’art. 136 lett. d) che ivi prevede “le bellezze panoramiche [considerate come quadri] e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze”.
Né si è ritenuta «evincibile la presenza di elementi che possano indurre a ravvisarvi quel “complesso di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale”, contemplato dall’art. 136 lett. c) del Codice, risultando i luoghi […] come un insieme di appezzamenti geometrici di terreno, variamente coltivati, che si “caratterizzano” per il comune aspetto di “campi coltivati come tanti” presenti nella campagna laziale, privi di peculiarità specifiche o di evidente pregio intrinseco».
Ulteriore illegittimità del provvedimento di vincolo è stata ravvisata nella mancata ponderazione, in termini di ragionevolezza e proporzionalità, del contrapposto interesse pubblico perseguito dall’Università, che verrebbe ad essere totalmente sacrificato dall’assoggettamento a vincolo di aree mediante le quali realizza scopi istituzionali di didattica, di ricerca e di divulgazione scientifica.
Un interesse tanto più rilevante in quanto connesso alla persistenza della qualità di paesaggio agrario che «proprio a causa del vincolo, potrebbe rischiare di perdere quelle qualità […] “di rilevante valore” che si vorrebbero salvaguardare, data l’incombente minaccia dell’abbandono delle coltivazioni».
Significativamente si osserva che tale ponderazione è implicitamente richiesta proprio dal legislatore allorquando «esige, per la sottrazione del bene alla sua naturale destinazione, che questo rivesta non solo interesse paesaggistico come “bellezza naturale” secondo le categorie declinate dalla stessa disposizione, ma che questo sia presente in grado “notevole” (come già indicato dal legislatore del 1939 e dal regolamento del 1940), proprio perché il “sacrificio” imposto ad altri interessi (in questo caso di rilevante interesse pubblico essi stessi) deve trovare una “ragione adeguata” nell’esigenza di assicurare la tutela di un bene giuridico di valore preminente, che non può essere offerta altrimenti, e che costituisce la “giusta causa” del provvedimento di vincolo».
Dalla ricostruzione che precede emerge che le questioni rilevanti intorno alle quali il Tar ha focalizzato la riflessione ai fini del decidere sono sostanzialmente due, ma strettamente connesse ai fini dell’iter logico-argomentativo.
Innanzitutto viene in rilievo l’ormai acquisita distinzione giuridica tra regole di salvaguardia e di tutela relative, rispettivamente, alla presupposta differenziazione tra paesaggio e beni paesaggistici, questi ultimi a loro volta articolati a seconda della loro riconducibilità alle “bellezze di natura”, ai sensi dell’art. 136 del codice, o ai beni ambientali-culturali di cui all’art. 142 (c.d. beni paesaggistici diffusi, tutelati ex lege).
L’ulteriore tema affrontato dal giudice amministrativo riguarda la ponderazione valutativa secondo i canoni della proporzionalità[5] e ragionevolezza[6] che avrebbe dovuto guidare l’Amministrazione resistente nella considerazione degli interessi in gioco per giungere alla sottrazione del bene dichiarato di notevole interesse pubblico alla sua «naturale destinazione».
Di entrambi i profili si cercherà di dare specificamente conto nei paragrafi seguenti.
2. Paesaggio e beni paesaggistici. Le ragioni della distinzione
La dichiarazione di notevole interesse pubblico ai sensi dell’art. 136 lett. c) e d) del d.lgs. n. 42 del 2004, classifica le aree in contestazione come “Paesaggio dell’Insediamento storico diffuso” e “Paesaggio agrario di rilevante valore” integrando, in sede di vestizione del vincolo, le prescrizioni del P.T.P.R. adottato con diverse prescrizioni con l’obiettivo di «conservarne l’originaria destinazione d’uso, salvaguardare le aree circostanti, i tipi e i metodi di coltivazione tradizionali e le attività compatibili con le tradizioni tipiche[7]».
Il Tar, proprio avvalendosi dei riferimenti all’art. 131 del d.lgs n. 42 del 2004 su cui indugia il MiBAC nella sua relazione generale al vincolo, fonda gran parte della decisione sulla differenziazione tra paesaggio inteso come “forma del territorio”, la cui identificazione e obiettivi di salvaguardia con i relativi principi sono rimessi dal legislatore all’art. 131, commi 1,2,4,5 e 6 del codice, e beni paesaggistici espressamente riconosciuti al comma 2 dello stesso articolo ed elencati all’art. 134, nonché meglio specificati agli artt. 136 e 142 del codice medesimo.
Preliminarmente all’esame del merito, infatti, il giudice amministrativo, accogliendo l’evoluzione delle riflessioni della dottrina sul tema, si sofferma in una lunga e densa premessa interpretativa delle norme appena richiamate, rilevando in primo luogo che l’art. 131 del codice ha accolto preliminarmente un concetto di paesaggio inteso come “forma del territorio “come percepito nel suo valore identitario dalle Comunità che vi abitano e lavorano, riconoscendo tra i paesaggi anche quelli “della vita quotidiana”, che senza avere caratteri di pregio, “tuttavia raccontano una loro storia e presentano una loro identità”.
Il paesaggio, dunque, come luogo utile e dinamico, «che si interroga cioè sui nuovi comportamenti umani che stabiliscono centralità e identità nella vita di una collettività»[8].
Così inteso, conformemente ai principi sottoscritti nella Convenzione europea[9], il paesaggio deve intendersi come luogo fortemente creativo ed innovativo, che sperimenta materiali e tecniche nella ricerca di nuove sintassi e nuove grammatiche per rimettere in gioco ambienti altrimenti perduti e destinati al degrado[10].
Il paesaggio come processo in ininterrotta evoluzione, come corpo vivente, frutto del rapporto tra territorio e società e dunque, sotto tale profilo, espressione dell’identità culturale della comunità di riferimento, era stato configurato sin dal 1985 dalla l. n. 431 che aveva ottenuto al riguardo l’avallo della Corte costituzionale[11].
Come noto, un fondamentale ruolo, nello scardinare interpretazioni consolidate e nell’anticipare l’evoluzione legislativa, ha rivestito l’intuizione di Predieri che avvalendosi della preziosa contaminazione tra saperi e discipline diverse giunge ad affermare che «la tutela del paesaggio…non è solo la conservazione delle bellezze naturali…, ma la più ampia tutela (non limitata alla conservazione) della forma del territorio creata dalla comunità umana che vi è insediata, come continua interazione della natura e dell’uomo, come forma dell’ambiente, e quindi volta alla tutela dello stesso ambiente naturale modificato dall’uomo, dato che in Italia, quasi dappertutto, al di fuori di ristrettissime aree alpine o marine, non può parlarsi di un ambiente naturale senza presenza umana»[12].
La lettura innovativa di Predieri, subito condivisa dalla dottrina[13] e più tardi ripresa dalla giurisprudenza[14], appare molto utile, ai fini del presente commento, anche con riguardo ad un’altra implicazione accolta dal giudice amministrativo, ossia l’abbandono della nozione di tutela limitata alla mera tutela statica e conservativa di alcuni coni visuali fissi, oggetto di contemplazione, da esprimersi attraverso divieti e limitazioni.
Una specificazione, quest’ultima, tenuta in particolare considerazione dal Tar nel caso in esame, in cui il compendio immobiliare è stato assoggettato a vincolo ai sensi dell’art. 136 lett.c) del Codice (oltre che dell’art. 136, lett. d) come bellezza panoramica o punto di vista panoramico, per sottolineare una presa di posizione in favore della distinzione tra paesaggio e beni paesaggistici.
Infatti, nella direzione delineata dalla dottrina e dalla giurisprudenza il giudice di primo grado ha ricostruito il vigente quadro normativo attraverso una interpretazione volta ad uscire da eventuali residue ambiguità applicative del codice sul paesaggio, retaggio di posizioni abbandonate sul piano delle definizioni, ma ancora presenti in una cultura che stenta ad accettare, nella sostanza, quell’idea dinamica di salvaguardia che non è strettamente dipendente dall’apposizione del vincolo, bensì da quell’uso consapevole del territorio di cui al 6° comma dell’art.131 che va oltre il l’impostazione conservativa della tutela paesaggistica solo attraverso il vincolo.
Al riguardo, infatti, il Tar afferma che «L’impostazione conservativa della tutela dei beni paesaggistici sancita nell’ultima versione del Codice, unitamente alla perdita di rango del “principio dello sviluppo sostenibile”, rischia di risultare controproducente rispetto alle stesse finalità prefissate, come evidenziato dalla dottrina, specie nei confronti di alcuni tipi di paesaggio – in particolare con riferimento al paesaggio agrario, che costituisce un “bene paesaggistico vivo e dinamico”, che si modifica per il solo agire delle forze della natura – che finirebbero per essere addirittura danneggiati da vincoli troppo stringenti che ne impedissero lo sfruttamento con una sufficiente redditività, determinandone l’abbandono ed il ritorno a selva incolta dei relativi terreni.
Pertanto, se da un lato si valorizza l’esigenza di protezione del paesaggio agrario, anche al fine di contenere quel fenomeno di espansione della città verso la periferia (che comporta il parallelo degrado dei centri storici che vengono, per conseguenza, ad essere abbandonati), dall’altro lato, rischia di essere compromesso da vincoli eccessivamente rigidi, che ne limitino la naturale vocazione produttiva, imponendo determinate coltivazioni non più redditizie a causa della globalizzazione dei mercati agricoli, contribuendo al grave fenomeno dell’abbandono dei campi. Si tratta dei cd. “effetti perversi del vincolo”, che costituiscono una minaccia sia per i beni paesaggistici sia per i beni culturali immobili….».
Conseguentemente, il provvedimento giurisdizionale è molto chiaro nell’affermare che il valore identitario proprio del concetto di “paesaggio” «non è di per sé sufficiente per assoggettare un immobile o un’area al vincolo di tutela previsto dall’art. 136, essendo a tal fine richiesto anche, come requisito cumulativo, che si aggiunge al requisito proprio, quello del valore intrinseco dell’oggetto, del sito da tutelare, come “luogo dell’anima” o come “bellezza naturale” (nelle diverse declinazioni del “borgo pittoresco”, del sublime delle vette delle montagne o dell’orrido, della “curiosità” di una bizzarria della natura etc.), che costituisce una condizione indefettibile che non è stata “superata” dalla nuova concezione di paesaggio (che include anche la categoria del “bello di natura” oltre che i beni ambientali diffusi e lo stesso paesaggio-territorio privo di qualità). […] E ciò vale persino per quei beni paesaggistici “identitari” per eccellenza, quali i centri storici “dal caratteristico aspetto”, di cui all’art. 136 lett. c) del Codice, per i quali la dottrina ha chiarito che l’endiadi “valore estetico e tradizionale” va intesa nel senso del doppio requisito, dovendo il giudizio sul notevole interesse
paesaggistico soddisfare non solo il criterio “tradizionale”, ma anche quello “estetico”, trattandosi di requisiti cumulativamente richiesti.[…]. È pertanto richiesto un quid pluris, oltre al tradizionale aspetto, alla caratteristica identitaria, anche per classificare il “paesaggio agrario” - cioè quella parte di territorio caratterizzato da “naturale vocazione agricola” - nell’ambito di paesaggio agrario “di rilevante valore”, che presuppone che sia soddisfatto anche l’ulteriore e specifico requisito del “rilevante valore paesistico per l’eccellenza dell’aspetto percettivo, scenico e panoramico”, come precisato dall’art. 24 delle Norme del PTPR».
Sembra dunque di poter affermare che il valore identitario costituisca il minimo comune denominatore, quel filo rosso che unisce il paesaggio e il bene paesaggistico, in un rapporto tra genere e specie. La distinzione, invece, consisterebbe nella “causa” del vincolo costituita dalle «ragioni dell’estetica», rilevanti anche per stabilire il grado di valore del bene protetto e per differenziare la gravosità del regime giuridico vincolistico grazie alla disciplina contenuta nella c.d. “vestizione”.
Il valore identitario dei luoghi, ove riferito ai beni paesaggistici, costituirebbe, secondo l’orientamento giurisprudenziale in commento, «un motivo “aggiuntivo”, incidente sulla dimensione territoriale della sua rilevanza (per cui alcuni meritano di essere tutelati in funzione della loro rilevanza nazionale, mentre altri sono di interesse solo regionale, o addirittura locale: a parità di spettacolarità della veduta, un conto è l’ermo colle di Leopardi, ed altro conto è, pur con l’analoga configurazione, quella di Colle Amato oppure di Colle Paganello, che sono di particolare “affezione” per il loro valore “identitario” per i fabrianesi, ma non per gli jesini)».
Particolare interesse riveste, altresì, proprio la necessità di graduare il regime vincolistico attraverso le specifiche prescrizioni d’uso per evitare di incorrere in quegli “eccessi di tutela” non giustificati (un rischio sempre più incombente in un contesto di crescente espansione delle categorie dei beni da tutela e di intensificazione dell’attività vincolistica) ed addirittura in talune occasioni controproducenti rispetto alle stesse finalità di tutela perseguite.
3. I criteri della necessaria ponderazione: proporzionalità e ragionevolezza. Rilevanza della ricerca scientifica
Viene in rilievo, così, l’ulteriore essenziale profilo sopra anticipato, ossia il richiamo ai principi di ragionevolezza e proporzionalità, strettamente connessi e fondanti il complessivo ragionamento che ha condotto il Tar ad annullare il vincolo.
I due principi costituiscono un essenziale supporto, nelle loro diverse declinazioni, alle argomentazioni della sentenza volte a mettere in discussione il percorso logico seguito dalla pubblica Amministrazione metodologicamente incentrato sulla coerenza e congruità del bilanciamento di interessi.
Il tema riveste particolare interesse proprio in quanto riferito ad un provvedimento di vincolo paesaggistico, in cui quindi la valutazione è svolta sulla base di parametri classicamente afferenti la discrezionalità tecnica.
Il giudice amministrativo, infatti, costruisce il suo orientamento valorizzando, ai fini dell’operatività di tali principi, quel profilo “soggettivo” nel cui ambito vengono annoverate tematiche attinenti all’esito del processo decisionale, riguardanti l’accertamento e la valutazione dei dati di fatto rilevanti, la scelta oculata e la ponderazione degli interessi, nonché (ma non meno rilevante) la individuazione concreta del fine in rapporto alle peculiarità del caso da decidere.
In particolare, si sottolinea nella sentenza, proporzionalità e ragionevolezza sono apparsi rilevanti ai fini del decidere «in quanto hanno acquisito sempre più considerazione nel settore in esame a seguito della trasformazione del provvedimento di vincolo da atto meramente “dichiarativo” dell’interesse paesaggistico “notevole” ex art. 136 ad atto che prescrive direttamente le modalità di gestione dello stesso, indicandone le trasformazioni e gli usi compatibili (come già previsto dallo stesso legislatore del 1939 e dal regolamento del 1940); tale trasformazione ha reso non più attuale la contrapposizione tra il momento della “valutazione tecnica” (operata sulla base della “monorotaia del solo interesse culturale-paesaggistico”) che caratterizzava la prima fase (in cui l’Autorità è chiamata a verificare le caratteristiche del bene ed il loro grado al fine di “dichiararlo” bene culturale o paesaggistico) – cioè a “verificare” l’esistenza dei “presupposti di fatto” per l’assoggettamento del bene a vincolo (si fa per dire, dato che trattasi di “giudizio di valore” e non di “giudizio di fatto”) - e la successiva fase della “gestione del vincolo” – che attiene propriamente alle “scelte d’azione” – in cui si ammette invece la presenza di un momento di “valutazione discrezionale” anche di altri interessi co-primari concomitanti».
Ed infatti i principi di ragionevolezza e proporzionalità sono stati primariamente considerati quali criteri, e relativi parametri di giudizio, idonei a svolgere una valutazione funzionale a graduare la disciplina limitativa in relazione alla gravosità del vincolo, cercando così di dare un senso reale ed una effettiva utilità, in termini di efficacia ed efficienza, a quelle “prescrizioni d’uso” (il c.d. vincolo vestito) che il legislatore richiede in relazione al giusto grado di incidenza degli effetti, sia sfavorevoli che favorevoli, della disciplina medesima sugli interessi coinvolti.
In stretta sintonia si pone l’ulteriore considerazione, «in una prospettiva di ragionevolezza e proporzionalità», secondo cui la preesistenza di altri vincoli incombenti su aree adiacenti a quella oggetto del contenzioso, lungi dall’avallare la legittimità del provvedimento, avrebbe dovuto indurre l’Amministrazione resistente ad una attenta valutazione dell’operatività dei vincoli già esistenti al fine di «stabilire se e quanto consentano di assicurare un’adeguata tutela al bene in contestazione, approfondendo, in un’ottica comparativa delle diverse misure alternative possibili, se e come la nuova misura risulti a tal fine “necessaria” (secondo test di proporzionalità), non potendo la stessa finalità essere conseguita con la misura di protezione alternativa più lieve (cioè come zona di interesse archeologico).
Infine, ma in realtà determinante in quanto assurto con la sentenza in commento al ruolo di “terzo test di proporzionalità”, dunque quale “giusto punto di equilibrio degli interessi in gioco”, la mancata considerazione da parte dell’Amministrazione deputata alla tutela del paesaggio delle conseguenze discendenti dall’aggravamento del regime del vincolo sull’interesse pubblico perseguito dall’esercizio dei compiti istituzionali dell’Università, ossia la didattica e la ricerca che dall’assoggettamento al vincolo paesaggistico verrebbero irrimediabilmente sacrificati.
La peculiarità riguarda proprio la tipologia di interessi di cui il Tar ha dovuto constatare la concreta contrapposizione, la ricerca scientifica e il patrimonio culturale, che in quanto garantiti dalla medesima norma costituzionale non dovrebbero, in astratto, confliggere in quanto orientati al perseguimento di un fine unitariamente considerato dal costituente e dunque immanentemente affini, “consanguinei”.
Sembrerebbe di assistere ad una vicenda analoga a quella che talvolta ha visto entrare in collisione la nozione di paesaggio con quella di ambiente, seppure entrambe riconducibili entro l’egida dell’art. 9 della Costituzione, come ad esempio avviene sovente quando si tratta di valutare la compatibilità paesaggistica di impianti di produzione di energia rinnovabile che rispondono ad esigenze di tutela delle matrici ambientali, ma che possono risultare conflittuali con la tutela del paesaggio inteso nel senso identitario culturale[15].
Si potrebbe così essere indotti a pensare ad un confronto dagli incerti equilibri e dai variabili rapporti di forza che rischia di rendere a loro volta instabili i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, mettendone in discussione il ruolo di categorie del diritto amministrativo.
In realtà, se è vero che la Corte costituzionale ha individuato nel paesaggio un valore primario, in quanto tale «insuscettivo di essere subordinato a qualsiasi altro»[16], è altrettanto vero che la portata della primarietà e assolutezza sono state specificate affermando che «questa primarietà non legittima un primato assoluto in una ipotetica scala gerarchica dei valori costituzionali, ma origina la necessità che essi debbano sempre essere presi in considerazione nei concreti bilanciamenti operati dal legislatore ordinario e dalle pubbliche amministrazioni»[17].
Sul punto, infatti, il Tar non rinuncia a sottolineare che l’area in questione, «proprio a causa del vincolo potrebbe perdere quelle qualità di paesaggio agrario “di rilevante valore” che si vorrebbero salvaguardare, data l’incombente minaccia dell’abbandono delle coltivazioni» determinato dalla impossibilità di continuare a svolgere quell’attività di ricerca e di didattica la cui libertà nei contenuti è, peraltro, ugualmente tutelata dalla Costituzione.
Sembra dunque di poter concludere che nel caso di specie, il giudice amministrativo abbia ritenuto che la qualitas di valore primario e assoluto non solo include, le due “anime” della nozione di paesaggio, ma risale al macro valore della cultura, al cui interno eventuali contrasti non avrebbero potuto che essere risolti sul piano della ragionevolezza attraverso un bilanciamento in sede procedimentale, «luogo elettivo di composizione tra i diversi interessi coinvolti, tutti costituzionalmente rilevanti»[18].
[1] Ne dà atto S. Amorosino, Il T.A.R. Lazio legittima il maxi vincolo paesaggistico sull'Agro Romano (nota alle sentenze n. 33362, 33363, 33364 e 33365/2010), in Riv. giur. edilizia, fasc.5, 2011, p. 187 ss.
[2] La localizzazione e la consistenza dei terreni interessati dal vincolo in contestazione, nonché il carattere e l’aspetto che ne caratterizzano la morfologia, sono esattamente evincibili dalla Relazione di accompagnamento al vincolo e dalla relativa documentazione, da cui si evince, come attestato in sentenza « la scomposizione dell’area in quattro parti unitarie: quella della sorgente del Bullicame – con le caratteristiche puntualmente evidenziate nella Relazione di accompagnamento al vincolo - al di sotto della quale è sito l’orto botanico – del pari descritto nella medesima Relazione -; dallo stesso lato del Bullicame è sita l’azienda agricola – non oggetto di specifica descrizione nel predetto documento – adeguatamente inquadrabile per la sua caratteristica di terreno pianeggiante, geometricamente diviso in particelle separate, destinate alle diverse coltivazioni, dall’aspetto “comune” dei tanti campi coltivati nella nostra Regione. Sull’altro lato della strada, sorge la collina di Riello, con la necropoli etrusca e la presenza della romana Sorrina Nuova, oggetto di particolare attenzione nella Relazione in parola. In sostanza l’azienda agricola è sita tra il Bullicame (a sinistra) e la collina di Riello (a destra), e l’esattezza della sua collocazione, la sua conformazione e la sua consistenza trovano conferma nelle immagini delle riprese satellitari disponibili su google maps e dalla visione dei luoghi tramite la funzione street view, che induce ad escludere eventuali errori per quanto riguarda la percezione dello stato dei luoghi».
[3] A p. 3 della sentenza in commento si legge che «l’Azienda Agraria Didattico-Sperimentale, attiva dal 1981 (superficie di circa 30 ettari) per la ricerca e studio di tecnologie per il monitoraggio ambientale e la protezione delle colture, con necessità di opere di adattamento del terreno (con aratura in profondità anche superiore a 40 cm concimazione, esecuzione di buche per l’impianto di strutture di sostegno) e modifiche (con creazione di pendenze per studiare fenomeni di deflusso ed erosione mediante simulazioni di pioggia), allestimento di strutture metalliche di raccolta e studio delle precipitazioni, stazione per la misura dei dati climatici etc.».
[4] Si richiama, in particolare, Cons. St., sez. VI, n. 2309 del 2018 che ha annullato il provvedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico dell’ambito meridionale dell’Agro romano condividendo la non adeguatezza argomentativa del MIBAC nel rigettare le osservazioni avverso l’imposizione del vincolo.
[5] Tra tanti e importanti contributi al tema, S. COGNETTI, Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2011.
[6] Sulla ragionevolezza quale canone decisionale della pubblica amministrazione P.M. Vipiana, Introduzione allo studio del principio di ragionevolezza nel diritto pubblico, Padova, Cedam, 1993.
[7] Cfr. p. 1 delle norme allegate al decreto di vincolo del 25 luglio 2019, oggetto del gravame.
[8] F. Zagari, Questo è paesaggio. 48 definizioni, Roma, 2006, p.80.
[9] Art. 2 della Convenzione europea del paesaggio e, più in generale il riferimento contenuto nel Preambolo sia ai paesaggi della vita quotidiana, sia agli importanti fattori di trasformazione, tra cui le tecniche di produzione agricola. Sul tema, D. Sorace, Paesaggio e paesaggi nella Convenzione Europea, in Convenzione Europea del paesaggio e governo del territorio a cura di GF Cartei, il Mulino, Bologna, 2007, pp. 18-22.
[10] E. BOSCOLO, in Appunti sulla nozione giuridica di paesaggio identitario, in Urb. app n. 7/2008, p. 798
[11] Corte cost., 27 giugno 1986, n. 151, in www.giurcost.org. Si veda in proposito M. Immordino, in M.A. Sandulli (a cura di) Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2012, p. 986, in cui l’Autrice rileva l’innovatività di tale configurazione, delineata con largo anticipo sulla previsione contenuta nell’art. 131, comma 2, del d.lgs. n. 42 del 2004.
[12] A. Predieri, Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio, in ID., Urbanistica, tutela del paesaggio, espropriazione, Giuffré, Milano, 1969, part. 3-6, i cui risultati, nei termini riportati in testo, furono sintetizzati e ribaditi dall’A. in La regolazione giuridica degli insediamenti turistici e residenziali nelle zone alpine, in Foro amm., 1970, III, p. 360, nonché nella voce Paesaggio, in Enc. dir., XXXI, Milano, 1981, p. 503.
[13] Si pensi a G. Ghetti, Prospettive giuridiche della tutela del paesaggio negli ordinamenti regionali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1972, p. 1527; F. Merusi, Commento all’art. 9 della Cost., in G. Branca ( a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna, Zanichelli – Roma, Soc. ed. del Foro italiano, 1975, pp. 434-460; F. Levi, Italia, in ID. (a cura di), La tutela del paesaggio. Studi di diritto pubblico comparato, Torino, 1979, pp. 1-45. Tale tesi, poi definita integrale (V.G. Severini, La tutela costituzionale del paesaggio, (art.9 Cost.), in S. Battini, L. Casini – G. Vesperini – C. Vitale (a cura di), Codice di edilizia e urbanistica, I Codici commentati, Torino, 2013, p.33) ha finito con il sostituire la c.d. tesi “statica” o “storico-riduttiva” e su cui A.M. Sandulli, La tutela del paesaggio nella Costituzione, in Riv. giur. ed., II/1967
[14] Oltre alla sentenza n. 151 del 1986, cit., qualche mese prima la Corte costituzionale, con la sentenza n. 39 del 3 marzo (in www.giurcost.org.) aveva affermato che la nozione di paesaggio «è comprensiva di ogni elemento naturale ed umano attinente alla forma esteriore del territorio». Sul tema M. A. Sandulli, Il paesaggio nel Codice dei Beni Culturali: prospettive di riforma, in Atti del convegno AIDU svoltosi a Parma il 18 novembre 2005, Napoli, 2006.
[15] Si veda sul punto P. Carpentieri, Paesaggio contro ambiente, in Urb. e App., 2005, n. 8, p. 931 ss.; Id., Eolico e paesaggio, in Riv. giur. ed., 2008, p. 326 ss.
[16] Corte cost., 24 giugno 2004, n.196, in www.giurcost.org.
[17] Corte cost., ult. cit., nella parte in diritto.
[18] Corte cost.,5 aprile 2018, n. 69, 6.1; sui criteri che presiedono al bilanciamento, Corte cost., 23 marzo 2018, n. 58, p.1 e 3.2.
Brevi riflessioni sul ruolo del Pubblico Ministero nell’esercizio della funzione giurisdizionale
di Giuseppe Amara
Sommario: 1. Introduzione - 2. La Costituzione e la normativa primaria 3. Il ruolo lato sensu giurisdizionale del Pubblico Ministero sino all’esercizio dell’azione penale - 4. Separazione delle carriere - 5. Conclusioni.
1. Introduzione
Piace iniziare questa breve riflessione con una banale citazione, banale nel senso che chiunque operi nella giurisdizione probabilmente già la conosce, ma che racchiude, con estrema sintesi, il significato del pensiero che si cercherà di sviluppare.
“Fra tutti gli uffici giudiziari, il più arduo mi sembra quello del pubblico accusatore: il quale, come sostenitore dell’accusa, dovrebb’essere parziale al pari di un avvocato: e, come custode, della legge, dovrebb’essere imparziale al pari di un giudice. Avvocato senza passione, giudice senza imparzialità: questo è l’assurdo psicologico nel quale il pubblico ministero se non ha uno squisito senso di equilibrio, rischia ad ogni istante di perdere per amor di serenità la generosa combattività del difensore, o per amore di polemica la spassiona oggettività del magistrato.”[1]
Negare, o comunque sminuire, il ruolo del magistrato del Pubblico Ministero nell’esercizio della funzione giurisdizionale è una miopia che prescinde da una visione sistematica dell’operato dell’organo requirente ed un eccezionale assist per chi sostiene la necessità della separazione delle carriere.
2. La Costituzione e la normativa primaria
Il Pubblico Ministero è un organo della giurisdizione.
Secondo il disposto di cui all’art. 102 della Costituzione (norma introduttiva del titolo IV che, ancora, disciplina l’ordinamento “giurisdizionale” e non “giudiziario”), la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituti e regolati delle norme sull’ordinamento giudiziario. Ancora, l’art. 106 Cost. prevede che le nomine dei Magistrati hanno luogo per concorso, e l’art. 107 Cost. precisa come i Magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni, sottolineando all’ultimo comma, che il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario, norme che sono stabilite con legge.
Ma come è garantita la giurisdizione? Attraverso il giusto processo regolato dalla legge (art. 111 Cost.), processo che deve svolgersi in condizione di parità. Ma è una condizione di parità che impone al Pubblico Ministero l’oneroso e difficile ruolo di affiancarvi quel senso di imparzialità richiesto dall’essere un organo della giurisdizione; certo, chiamato a sostenere la pubblica accusa, ma nell’esclusiva ottica dell’accertamento del fatto, sulla scorta del compendio probatorio acquisito.
Rilevante e foriera di un ulteriore onere per il magistrato del pubblico ministero è la recente normazione. Noto l’intervento del legislatore ordinario (d.lgs. 106/2006), in materia di riorganizzazione dell'ufficio del pubblico ministero che ha stabilito come il titolare esclusivo dell'azione penale sia il procuratore della Repubblica che la esercita sotto la propria responsabilità nei modi e nei termini fissati dalla legge. È compito del procuratore assicurare il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell'azione penale, l'osservanza delle disposizioni relative all'iscrizione delle notizie di reato ed il rispetto delle norme sul giusto processo da parte del suo ufficio. (art. 1)
Per poi ulteriormente ribadire (art. 2) che: “il procuratore della Repubblica, quale titolare esclusivo dell'azione penale, la esercita personalmente o mediante assegnazione a uno o più magistrati dell'ufficio. L'assegnazione può riguardare la trattazione di uno o più procedimenti ovvero il compimento di singoli atti di essi”. Ed ancora: “con l'atto di assegnazione per la trattazione di un procedimento, il procuratore della Repubblica può stabilire i criteri ai quali il magistrato deve attenersi nell'esercizio della relativa attività. Se il magistrato non si attiene ai principi e criteri definiti in via generale o con l'assegnazione, ovvero insorge tra il magistrato ed il procuratore della Repubblica un contrasto circa le modalità di esercizio, il procuratore della Repubblica può, con provvedimento motivato, revocare l'assegnazione; entro dieci giorni dalla comunicazione della revoca, il magistrato può presentare osservazioni scritte al procuratore della Repubblica”.
La gerarchizzazione dell’ufficio del Pubblico Ministero che consegna al Procuratore la titolarità esclusiva dell’esercizio dell’azione penale delegabile al Sostituto, prevedendo principi e criteri generali, ovvero specifici sui singoli fatti, qualifica ulteriormente il ruolo di organo della giurisdizione del Pubblico Ministero, da un lato onerando il Procuratore dell’equilibrato esercizio del potere attribuito in via esclusiva dal legislatore e, d’altro canto, onorando il Sostituto di un controllo diffuso sulla correttezza dell’esercizio di tali attribuzioni che può – e deve – giungere ad estrinsecarsi in comunicazioni agli organi di autogoverno distrettuali, ai fini delle valutazioni e delle conferme degli incarichi, ovvero centrali, nei casi di contrasto insanabile che si riverbera proprio sull’esercizio della giurisdizione e che, inevitabilmente, non può che manifestarsi proprio in relazione alle vicende di maggiore criticità sociale e delicatezza investigativa.
3. Il ruolo lato sensu giurisdizionale del Pubblico Ministero sino all’esercizio dell’azione penale
Il Pubblico Ministero rappresenta il primo organo della giurisdizione. Le funzioni svolte ne sono – e ci si augura rimangano tali – espressione e su queste si fondano le competenze ed il modo d’agire. Tale assunto non è superato dall’ulteriore considerazione per cui i provvedimenti emessi difettano, tecnicamente e, nella mera accezione del potere di dirimere una controversia (iudicatio), di natura giurisdizionale[2].
Il Pubblico Ministero dirige le indagini (art. 327 c.p.p.), dispone l’iscrizione degli indagati individuando le ipotesi di reato per cui si procede (art. 335 c.p.p.), nel dirigere le indagini, svolge accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini (art. 358 c.p.p.), individuando gli strumenti di ricerca della prova più utili, anche se fortemente invasivi della sfera di esercizio dei diritti dei cittadini ed anche senza dover richiedere l’autorizzazione al G.I.P. (fra tutti le si pensa alle attività di perquisizione – art. 247 c.p.p. – atto di indagine estremamente gravoso per la sfera dei diritti chi lo subisce), all’esito, qualora non emergano i presupposti per la richiesta di archiviazione ed ascoltate le eventuali difese assunte a seguito dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, dovendo obbligatoriamente esercitare l’azione penale (art. 112 Cost.).
Solo allora inizierà un processo ed il Giudice potrà esercitare il proprio potere, tecnicamente, avente natura giurisdizionale.
Ma negare che quanto accade sino all’inizio del processo non sia esercizio di un potere lato sensu intriso di natura giurisdizionale (a partire dall’iscrizione della notizia di reato per arrivare alle valutazioni di cui all’art. 125 disp.att. c.p.p.) pare francamente riduttivo ed ancorato ad una concezione formalista della giurisdizione ancorata esclusivamente all’attività di iudicatio.
Un buon Pubblico Ministero, nella fase delle indagini, deve avere la scaltrezza dell’investigatore, nel rispetto, presupposto, della piena e corretta applicazione delle norme processuali. All’esito, il buon Pubblico Ministero assume la veste del giudicante; nella prospettiva dell’esito processuale, deve comprendere quando l’accusa è sostenibile in giudizio (art. 125 disp.att. c.p.p.) e procedere di conseguenza. A quel punto la strada è segnata, l’esercizio dell’azione penale è obbligatoria, quale sarà l’esito del dibattimento dovrà poi determinare le richieste conclusive; la richiesta assolutoria è evenienza frequente e, di certo, non distonica con l’esercizio dell’azione penale.
Questa, si ritiene, essere la funzione del Pubblico Ministero. Eventuali distorsioni nell’operato devono essere censurate nelle opportune sedi, in presenza dei relativi presupposti, ma non devono essere il pretesto per negare il fondamentale ruolo assunto dal magistrato del pubblico ministero, primo organo della giurisdizione, chiamato all’onerosa funzione di istruire un fatto e valutarne la penale rilevanza.
Sono molteplici le norme del codice di procedura penale ulteriormente esemplificative del ruolo del Pubblico Ministero nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali.
Si pensi al ruolo nella fase precautelare, alla possibilità di disporre l’immediata liberazione dell’arrestato o del fermato se la P.G. ha operato fuori dai casi previsti dalla legge o sono stati violati i requisiti temporali (art. 389 c.p.p.), ovvero se, in base al caso concreto, non vi siano i presupposti per richiedere l’applicazione di misure coercitive (art. 121 disp.att. c.p.p.).
Si pensi al fermo disposto dal Pubblico Ministero (art. 384 c.p.p.), ovvero alle attività di indagini che consentono al Pubblico Ministero di sostituire al provvedimento del GIP, la propria decretazione d’urgenza, quale attività di intercettazione d’urgenza: art. 267 comma 2 c.p.p., prelievi coattivi biologici d’urgenza art. 359 bis comma 2 c.p.p.
Si pensi, ancora, all’art. 655 c.p.p., norma cardine che attribuisce al Pubblico Ministero la titolarità dell’esecuzione dei provvedimenti. Detti provvedimenti, pur non avendo natura tecnicamente giurisdizionale[3], ne attribuiscono al magistrato del Pubblico Ministero, di fatto, una funzione alquanto prossima, a mente la discrezionalità richiesta in ordine alle concrete modalità esecutive – attuative (si pensi ad un ordine di sgombero, piuttosto che di demolizione di immobili).
Che quella del Pubblico Ministero sia una funzione giurisdizionale, incidentalmente, è una circostanza rimarcata anche in varie pronunce della Suprema Corte. Ad esempio, in tema di reati del consulente tecnico del P.M.: “E questa Sezione anche di recente ha avuto modo di sottolineare che il consulente tecnico del pubblico ministero, sia per l'investitura ricevuta dal magistrato, sia per lo svolgimento di un incarico ausiliario all'esercizio della funzione giurisdizionale, assume la qualifica di pubblico ufficiale, concorrendo oggettivamente all'esercizio della funzione giudiziaria (Sez. 5, n. 4729 del 10/12/2019, Moriani Stefano, Rv. 27855803; nello stesso senso, in epoca risalente, Sez. 6, n. 4062 del 07/01/1999, Pizzicaroli G, Rv. 21414201).”[4]
4. Separazione delle carriere
Negare il ruolo del Pubblico Ministero nell’esercizio della funzione giurisdizionale, peraltro, offre, come detto, un ulteriore spunto a chi postula la separazione delle carriere sulla scia del disegno di legge costituzionale presentato dall’Unione delle Camere Penali nel 2018 e che, periodicamente, torna in auge nel dibattito politico.
A parere di chi scrive, sono molteplici le ragioni di dissenso da tale tesi, ancora oggi sostenuta da chi vede nell’Ufficio del Pubblico Ministero una parte non imparziale che peraltro ha, dalla sua, strumenti d’indagine indebitamente più incisivi ed efficaci.
Innanzi tutto, una riforma che preveda la separazione delle carriere, affiancandovi la previsione di due CSM, l’eliminazione dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale (o la previsione di altre forme di esercizio in capo ad altri soggetti), sino ad arrivare ad un controllo centralizzato, frutto di scelte di politica giudiziaria, sulle priorità di contrasto alla criminalità, innegabilmente priverebbe di contenuto la funzione giurisdizionale del Pubblico Ministero, la cui essenza si ritiene risedere proprio nell’indipendenza esterna (art. 104 Cost.) dal potere esecutivo.
Considerazione che, peraltro, risulta del tutto aderente alla giurisprudenza sovranazionale. A tal proposito, nella parte motiva di una recente pronuncia della Suprema Corte[5], si legge che: “In particolare, la Corte U.E. ha affermato che la nozione di «autorità giudiziaria emittente», ai sensi dell'articolo 6, par. 1, della decisione quadro 2002/584, che è una nozione autonoma del diritto dell'Unione europea, deve essere interpretata nel senso che essa non ricomprende le procure di uno Stato membro che siano esposte al rischio di essere soggette, direttamente o indirettamente, a ordini o a istruzioni individuali da parte del potere esecutivo, quale un Ministro della Giustizia, nell'ambito dell'adozione di una decisione relativa all'emissione di un mandato d'arresto europeo (GC, sent. 27/05/2019,C-508/18, OG, C-82/19, PI).”
Che la separazione delle carriere possa anticipare un controllo terzo sull’operato dell’organo inquirente non pare un’ipotesi remota e, già in passato, sostenuta proprio da chi postulava la necessità di una dicotomia fra le funzioni[6].
Ancora, c’è un primo innegabile argomento di fondo: l’inutilità sostanziale di tale riforma.
È fatto notorio come il passaggio di funzioni sia circostanza alquanto rara nella vita professionale di un magistrato. I casi sono pochi; da un lato per i noti “paletti geografici” che comportano cambiamenti personali significativi e, d’altro canto, per la difficoltà intrinseca, specie nel passaggio alle funzioni civili, che richiede un’integrale riconversione professionale.
Alla luce di queste considerazioni, pertanto, pare assolutamente suggestivo l’argomento di chi teme un rischio di parzialità del magistrato che muta funzioni, perché inquinato nel giudizio dalla pregressa esperienza professionale; l’ordinamento ha valutato l’evenienza e l’ha risolta prevedendo – ad avviso di chi scrive, peraltro, applicando un criterio alquanto precauzionale – la necessità di un allontanamento dal circondario (per le funzioni giudicanti civili) e, più frequentemente, dal distretto (per le funzioni giudicanti penali).
Ancora, nel postulare una riforma dell’ordinamento giudiziario che parta dalla separazione della carriere c’è chi ritiene[7], all’indomani del caso Palamara, che gli Uffici della Procura abbiano un “immenso, anomalo potere” ed ancora: “quanto l’apertura di una indagine, la semplice iscrizione nel registro degli indagati, una richiesta di misura cautelare bastino di per sé sole a determinare le sorti della vita istituzionale, politica ed economica del Paese, e quanto indifferente sia poi l’esito giudiziario di quelle indagini.
Si dissente, senza possibilità di composizione, con tale teorema ed in particolare, con le conclusioni che vi si vogliono associare.
Gli effetti pubblici correlati all’esercizio della funzione giurisdizionale del Pubblico Ministero sono innegabili, ma esulano dall’esercizio della giurisdizione e devono esulare dalla prospettazione del Pubblico Ministero sulle conseguenze del proprio operato.
L’applicazione di norme processuali e sostanziali correlate all’attività di indagine esclude finalità ulteriori a quelle dell’accertamento del reato per cui si procede.
Qualora nella pratica dovessero emergere anomalie nell’esercizio della funzione, le stesse devono essere valutate e, se del caso, sanzionate disciplinarmente o, in presenza dei relativi presupposti di legge, anche penalmente.
Non si può pensare di limitare l’esercizio della funzione a vicende di pacifico consenso pubblico (sulle quali è difficile che si manifesti un’opinione dissenziente rilevante) o che non toccano interessi lato sensu politici, sarebbe la prima negazione della separazione dei poteri, baluardo delle democrazie moderni.
Altro, naturalmente, sarebbe un utilizzo strumentale del potere nella fase delle indagini, in modo funzionale ad esigenze di natura politica; ma questa è la patologia e, ove la si ravvisa, ben venga la sanzione e la censura, in ogni sede deputata ad esprimersi, purché questa non sia, a sua volta, strumentale ad interessi di parte e fondata su pregiudizi di commentatori che, evidentemente, sono lontani anni luce dall’operato degli uffici del Pubblico Ministero e che utilizzano la forza della parola per attribuire ai magistrati ruoli e funzioni che, non solo non hanno, ma che nemmeno vogliono avere.
E non si taccia di ingenuità o di provincialismo. Si mira, probabilmente in maniera ardua, ad un confronto onesto, privo di strumentalizzazioni del pensiero.
Su tale questione si innesta, inevitabilmente, il tema centrale dei rapporti con l’informazione. Tema tanto centrale che, sul punto, il CSM ha dettato regole molto precise[8], funzionali ad evitare una sovraesposizione personale del magistrato e idonee a scongiurare il sorgere di individualismi. Tale normativa secondaria, peraltro, si colloca sulla scia della previsione particolarmente stringente di cui all’art. 5 del già citato d.lgs. 106/06[9]. Si contraddirà tale assunto sostenendo che sono sempre certi magistrati a balzare agli onori delle cronache; bene, evidentemente, si tratta dei rappresentati dell’Ufficio del Pubblico Ministero che hanno lavorato più alacremente, giungendo a toccare i gangli di delicati contesti sociali, ravvisando ipotesi di reato ed esercitando l’azione penale, obbligatoria.
Ancora, gli esiti processuali delle indagini.
Si contesta, da più parti, come le sentenze assolutorie siano la riprova dell’abuso dell’esercizio delle funzioni del Pubblico Ministero. Il sillogismo giudiziario è un percorso argomentativo incerto, non è un algoritmo. La struttura dei tre gradi di giudizio ne è la riprova. Gravi violazioni di legge possono rilevare disciplinarmente e, a parer di chi scrive, devono trovare spazio nel percorso delle valutazioni di professionalità, ove reiterate e sintomatiche di un giudizio, per l’appunto professionale, di non positività, nell’esercizio delle funzioni (considerazioni, evidentemente, valide anche per i magistrati giudicanti, fallibili come quelli requirenti).
Negare che la decisione del Giudice che si discosta dalle richieste del Pubblico Ministero sia un’evenienza connaturata all’essenza dell’accertamento giudiziale, significherebbe ritenere superflua ogni attività difensiva od ogni autonomia di giudizio, capisaldi del processo. A mo’ di provocazione, se il Pubblico Ministero avesse sempre compreso il fatto, individuandone, oltre ogni ragionevole dubbio, l’autore e sussumendo il fatto nella giusta norma violata, non vi sarebbe esigenza di un giudizio o di un patrocinatore che possa rilevare gli errori dell’organo requirente.
Peraltro, non si può non ravvisare la contraddittorietà dell’argomento logico che postula la separazione delle carriere, allorquando si rimarca come la stessa sia servente all’autonomia del Giudice dal Pubblico Ministero; pare impresa ardua trovare un magistrato che possa sostenere come il Giudice sia condizionato nell’operato dalle determinazioni assunte dal Pubblico Ministero.
La Giustizia non è un algoritmo a maggior ragione allorquando si tratta di processi tecnici, di contestazioni complesse. Se un furto è pacificamente commesso - o non commesso - dall’autore (ed anche qui entrano in gioco tante sfaccettature e variabili), un fatto corruttivo, tanto per citare i casi di maggiore polemica politica, può disperdersi nei rivoli di variabili inattese; così come lo può essere un complesso reato tributario, piuttosto che un fatto di fallimento, soffuso nel suo elemento soggettivo.
5. Conclusioni
Dall’interno, negare che il Pubblico Ministero sia un organo della giurisdizione è una visione che sconta una carenza di interpretazione sistematica. Il Pubblico Ministero è il dominus delle indagini preliminari. Gli esiti delle indagini preliminari sono il presupposto dell’esercizio della giurisdizione. Ogni atto del Pubblico Ministero è un atto di giurisdizione funzionale alla celebrazione del processo, dove al giudicante spetta inoltre l’onere del giudizio (iudicatio). L’operato del Pubblico Ministero si colloca ed è intriso della sua natura giurisdizionale; è sì una parte, ma, per tornare all’incipit di questa breve riflessione, una parte imparziale che lavora non già per un esito predeterminato da perseguire con ogni tipologia di accertamento investigativo, ovvero di costruzione giuridica accusatoria, ma per giungere ad un accertamento che priva di discrezionalità la successiva scelta in ordine all’esercizio dell’azione penale. E nel processo prosegue analogamente, contribuendo a formare la prova ed all’esito determinatosi nelle richieste definitorie.
Dall’esterno, negare che il Pubblico Ministero sia un organo della giurisdizione equivale a dare un assist a chi, periodicamente, riporta il dibattito verso la separazione delle carriere; opzione ordinamentale da cui si rifugge, alla luce delle argomentazioni sopra spese. Ogni magistrato del Pubblico Ministero deve rispondere soltanto alla legge e non può, in alcun modo, essere condizionato nel suo operato da imposizioni interne, ovvero da criteri direttivi centralizzati esterni che determinano, magari sulla scorta del pensiero dominante del momento, le priorità da seguire nel contrasto alla criminalità.
[1] CALAMANDREI P., “Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Ed. Ponte alle Grazie, p. 56:
[2] ad esempio, in materia d’esecuzione, Sez. 1, Sentenza n. 26321 del 27/05/2019 Cc. (dep. 14/06/2019) Rv. 276488;
[3] in parte motiva, recentissima Sez. 3, Sentenza n. 1300 del 13/11/2020 Cc. (dep. 14/01/2021) Rv. 280272
[4] Sez. 5, Sentenza n. 18521 del 13/01/2020 Ud. (dep. 18/06/2020) Rv. 279046
[5] Sez. 6, Sentenza n. 15922 del 21/05/2020 Cc. (dep. 26/05/2020) Rv. 278934
[6] COMITATO SISTEMA DELLE GARANZIE, SEDUTA DI MARTEDÌ 22 APRILE 1997: “Il senatore Marcello PERA … Propone pertanto di far seguire al comma 1 del nuovo articolo 101 un ulteriore comma che reciti: "La magistratura è distinta in magistratura giudicante e magistratura requirente". Si dichiara poi d'accordo sul principio secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge, rilevando che presenterebbe inconvenienti il riferirlo anche alla magistratura requirente. Accanto all'autonomia e all'indipendenza dei magistrati infatti vi è anche l'esigenza di individuare i responsabili della politica giudiziaria e di contrasto alla criminalità, per evitare la polverizzazione delle funzioni dei pubblici ministeri e l'eccesso di protagonismo di alcuni soggetti. Occorre pertanto prevedere che i magistrati requirenti siano soggetti alla legge ma anche alle necessarie forme di coordinamento all'interno del singolo ufficio del pubblico ministero e fra i vari uffici del pubblico ministero stesso.” In https://www.camera.it/parlam/bicam/rifcost/comitati/sg0422rs.htm;
[7] https://www.camerepenali.it/cat/10516/un_pm_indipendente_dalla_politica,_un_giudice_indipendente_dal_pm.html
[8] Si rimanda alla circolare del CSM su “Linee guida per gli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale” del 13/7/18;
[9] 1. Il procuratore della Repubblica mantiene personalmente, ovvero tramite un magistrato dell'ufficio appositamente delegato, i rapporti con gli organi di informazione. 2. Ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all'ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento. 3. È fatto divieto ai magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell'ufficio. 4. Il procuratore della Repubblica ha l'obbligo di segnalare al consiglio giudiziario, per l'esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell'azione disciplinare, le condotte dei magistrati del suo ufficio che siano in contrasto col divieto fissato al comma 3.
Responsabilità (contrattuale) della pubblica amministrazione e tutela del terzo (a proposito di CGARS 15 dicembre 2020 n. 1136)
di Giulia Mannucci
Sommario: 1. Premessa – 2. Il caso – 3. I passi in avanti della pronuncia… – 4. …e le battute d’arresto: il caso dei terzi. – 5. Terzi-parte e terzi-chiunque – 6. Conclusioni
1. Premessa.
La pronuncia del Consiglio di giustizia per la regione siciliana (15 dicembre 2020, n. 1136) si occupa di responsabilità dell’amministrazione: un tema classico, eppure, come dimostra la stessa rimessione all’Adunanza Plenaria, ancora foriero di dubbi interpretativi. Questo perché l’approccio al tema è condizionato dal modo di intendere l’interesse legittimo e, più in generale, il rapporto tra amministrazione e privati. Dunque, dipende da come si leggono i mutamenti che, a livello sostanziale e processuale, hanno riguardato il diritto amministrativo negli ultimi anni. L’interesse per la sentenza nasce così, prima ancora che dalla soluzione adottata, dai presupposti che la sorreggono e dagli argomenti che il giudice utilizza per supportarla, specificamente concernenti la natura dell’interesse legittimo e la fisionomia del rapporto giuridico amministrativo.
Osservata da questa angolatura, la pronuncia, che a una prima lettura sembra proporre una soluzione innovativa e condivisibile, rivela alcune criticità nell’impianto argomentativo: per quanto, infatti, presupponga l’idea che il diritto amministrativo oggi non serva più (soltanto) a controllare il potere pubblico, ma abbia anche (innanzitutto) a oggetto la tutela di posizioni individuali, sono visibili gli echi di impostazioni di segno diverso che, per un verso, minano la coerenza del disegno complessivo e, per l’altro, dimostrano capacità di resistenza anche di fronte al mutato assetto dei rapporti nel diritto pubblico.
Nel commento che segue, anziché analizzare nel dettaglio i quesiti proposti all’Adunanza plenaria e le conseguenze dell’adesione alla tesi della natura contrattuale della responsabilità[1], si vorrebbe riflettere su alcune di quelle contraddizioni. Dopo un rapido excursus sui fatti che stanno alla base della decisione, ci si soffermerà sul focus della pronuncia relativo al cd. rapporto pubblico, esaminato dalla prospettiva dei soggetti terzi, cui la stessa pronuncia, in un passaggio rapido ma carico di significati, fa riferimento. L’esistenza di ‘terzi’, come noto, è non di rado considerata fonte della vera specialità del diritto amministrativo, perché la loro tutela imporrebbe una torsione delle logiche sottese alla tutela soggettiva dei rapporti: secondo un’opinione diffusa, che sembra trovar riscontro anche nella sentenza, la (piena) ricostruzione delle relazioni amministrative in termini obbligatori rischierebbe “di privare di rilevanza la posizione dell’eventuale soggetto terzo”[2], finendo per riespandere l’area delle scelte sottratte a ogni sindacato. Il terzo continuerebbe così a rappresentare il baluardo della specificità del diritto amministrativo, fungendo da freno alla transizione del diritto (e del processo) amministrativo dall’atto al rapporto.
Ma è proprio così? La logica obbligatoria che oggi connota il rapporto con il destinatario è davvero incompatibile con la figura del terzo? Oppure è giunto il momento di mettere in discussione anche questo segmento del rapporto amministrativo?
2. Il caso.
Nel caso in esame, un’impresa aveva ottenuto il rilascio di una autorizzazione unica ambientale soltanto dopo che il giudice di primo grado aveva ordinato all’amministrazione di pronunciarsi sul silenzio illegittimamente serbato di fronte all’istanza privata. Lo stesso Tar aveva nondimeno dichiarato inammissibile la domanda di risarcimento del danno, che viene riproposta davanti al Consiglio di giustizia siciliano, sia sotto forma di danno emergente, sia sotto forma di lucro cessante: nelle more del procedimento era infatti stata modificata la disciplina degli incentivi pubblici, rendendo così impossibile l’effettivo esercizio della attività, che avrebbe finito per svolgersi “in condizioni di costante perdita […] non potendo i ricavi remunerare gli elevati costi della tecnologia da impiantare”[3].
Il giudice di secondo grado, a differenza del Tar, apre alla possibilità di una responsabilità dell’amministrazione e chiede all’Adunanza plenaria se la sopravvenienza occorsa debba effettivamente considerarsi interruttiva del nesso causale, così escludendosi la responsabilità dell’amministrazione, o se non sia invece applicabile la teoria dello scopo della norma violata. In base a esso, la causa dell’effetto lesivo è “un evento che costituisce concretizzazione dello specifico rischio che la norma incriminatrice mirava a prevenire”[4], con la conseguenza che il ritardo dell’amministrazione andrebbe considerato la causa del pregiudizio prodottosi in capo all’impresa, indipendentemente dalla sopravvenienza.
Ciò non dipenderebbe, secondo il giudice, soltanto dal fatto che, su un piano generale, “il passare del tempo” inevitabilmente aumenta “il rischio del fallimento dell’operazione programmata”, ma discenderebbe, prima ancora, dalla logica cui si ispira l’art. 2 della legge sul procedimento amministrativo. Siffatta norma, secondo il giudice, non rappresenta “un mero canone generale dell’attività amministrativa”, bensì è stata introdotta dal legislatore a tutela del “valore economico del tempo e dei rischi al medesimo connessi”[5] ed è dunque apprezzabile in termini di diritto alla certezza. Una conferma giungerebbe dalla connotazione “patologica” e “fortemente negativa” che il silenzio riveste nella triplice prospettiva “eurounitaria, costituzionale e sistematica”, nonché dalla parallela centralità progressivamente assunta nel nostro ordinamento dal principio di trasparenza[6].
Sulla base di questi presupposti il giudice compie una articolata (ancorché “largamente sovrabbondante”[7]) ricostruzione della responsabilità civile della amministrazione, riconducendola nell’alveo della responsabilità contrattuale[8], con effetti a cascata sulla configurazione del rapporto amministrativo. Proprio a questi due punti chiave (la responsabilità contrattuale e il rapporto amministrativo), in riferimento ai quali la sentenza si rivela particolarmente innovativa, è necessario volgere l’attenzione.
3. I passi in avanti della pronuncia…
Secondo il giudice siciliano, l’interesse legittimo è una posizione sostanziale, consistente nella chance di ottenere il bene finale cui il privato aspira[9]. Il rapporto tra privati e amministrazione è improntato, si aggiunge, al rispetto del principio di legalità-garanzia: del resto, è stata proprio “l’imposizione di limiti agli ambiti di intervento pubblico e di regole”[10] a consentire l’evoluzione dell’interesse legittimo da mera soggezione a posizione soggettiva. Così, se è vero che il “potere pubblico costituisce l’unica risorsa a disposizione del privato per ottenere soddisfazione piena e in forma specifica”[11], è altrettanto vero che l’interesse legittimo non ha per oggetto soltanto le prerogative procedimentali collegate all’esercizio di quello stesso potere. Le facoltà procedimentali sono, infatti, strutturalmente “inidonee a offrire soddisfazione all’esigenza del privato, che può, invece, trovare (non sempre ma potenzialmente) soddisfazione […] nell’agire pubblico”[12]. L’interesse legittimo non è dunque una posizione (soltanto) dinamica, visibile nel procedimento, ma è innanzitutto una posizione statica, che ha come oggetto la chance, appunto, di ottenere il bene della vita cui il privato aspira[13]. La titolarità dell’interesse legittimo non assicura il bene finale, proprio perché l’amministrazione ha il potere di scegliere, tra più opzioni tutte legittime, ma è tutelato “nei limiti delle regole di condotta dell’agire pubblico”[14].
Il riconoscimento all’interesse legittimo di una struttura creditoria ben si lega all’idea che la responsabilità dell’amministrazione debba inquadrarsi negli schemi della responsabilità contrattuale[15].
Nella logica del giudice siciliano, la responsabilità dell’amministrazione dovrebbe essere assimilata alla responsabilità da inadempimento di una obbligazione, con applicazione del relativo regime: ai sensi dell’art. 1173 del codice civile, sono “fonti delle obbligazioni […] non soltanto il contratto e il fatto illecito ma altresì il fatto idoneo a produrle secondo l’ordinamento giuridico”[16]. Fin dall’apertura del procedimento amministrativo, il privato assume la titolarità di una serie di diritti collegati ad altrettanti obblighi in capo all’amministrazione, espressione del necessario rispetto delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione[17], “delineandosi così una relazione che non si connota per la sua episodicità, essendo, essa, necessitata”. Un utilizzo scorretto del potere pubblico va letto esclusivamente all’interno della relazione amministrativa e dunque si riverbera “senza soluzione di continuità” sull’interesse legittimo del destinatario[18].
Ciò implica che quando viola “le regole dell’azione amministrativa e del provvedimento amministrativo, la parte pubblica ignora norme ben più precise e circostanziate del generico dovere di neminem laedere”, cosicché “il rapporto che si instaura fra Amministrazione e privato si rivela distante dalla modalità tipica della responsabilità del passante, emblema del contatto casuale e occasionale, e quindi della responsabilità ex art. 2043 c.c.”.
Benché questo assunto strida con la prevalente giurisprudenza amministrativa, tutt’oggi ancorata al modello della responsabilità aquiliana, esso, come lo stesso Consiglio di giustizia afferma, appare coerente con la graduale emersione di un tipo di responsabilità speciale. In alcuni ambiti, si riconosce infatti che la responsabilità dell’amministrazione non sorga in assenza di un rapporto, ma si fondi su una relazione tra soggetti “che nasce prima e a prescindere dal danno”[19], dando vita a una ibridazione tra le due forme di responsabilità (contrattuale ed extracontrattuale)[20].
Così, la piena dignità all’interesse legittimo nel panorama delle posizioni soggettive, il riconoscimento di una relazione giuridica tra amministrazione e privati e la riconduzione della responsabilità dell’amministrazione allo schema contrattuale sono i punti chiave del ragionamento del giudice siciliano. Un ragionamento che evoca un cambio di paradigma nel diritto amministrativo[21]: da diritto sugli atti a diritto dei rapporti, da insieme di regole sul potere a regole relazionali che collocano al centro l’individuo.
4. …e le battute d’arresto: il caso dei terzi
Il cerchio però non sembra chiudersi. Resta infatti aperto il nodo dei soggetti altri, diversi dal destinatario, i cd. terzi. La sentenza dedica loro un passaggio tanto breve quanto significativo, dal quale si coglie una (ultima?) difficoltà nel trarre pienamente e coerentemente le conseguenze da quel cambio di paradigma cui la pronuncia aspira.
Secondo il giudice siciliano, il diritto pubblico non conosce, a differenza del diritto privato, “la nozione di terzo”[22], dal momento che “l’Amministrazione è tenuta a considerare tutti gli interessi coinvolti dalla sua azione nell’ambito del procedimento amministrativo”, vista anche “l’attitudine di quest’ultimo a coinvolgere tutti gli interessi possibili”. Ciò emergerebbe chiaramente quando, come nel caso in esame, “l’istanza del privato sia volta alla soddisfazione di un interesse pretensivo, con la conseguenza che l’aspetto autoritativo del provvedimento finale si apprezza in particolar modo nei confronti dei non destinatari”. D’altra parte, chiosa la sentenza, proprio l’indeterminatezza degli interessi che l’amministrazione può compromettere con la propria azione relegherebbero la stessa autorità in una “posizione difficile”, esponendola “a un rischio elevato di violare situazioni giuridiche soggettive”[23], così giustificandosi una limitazione della sua responsabilità per danni.
Il quadro che emerge è il seguente. Per un verso, l’interesse legittimo del destinatario del provvedimento, a lungo ridotto a una dimensione meramente processuale, ha progressivamente assunto contenuti sostanziali, fino a conseguire una tendenziale equiparazione al diritto soggettivo, almeno in termini di effettività della tutela, consentendo al destinatario di essere riconosciuto come polo “attivo” di un rapporto con l’amministrazione. Per altro verso, però, la posizione dei terzi (dei titolari cioè di interessi altri) continua a vivere in un limbo giuridico, a connotarsi per i contorni incerti[24], a non essere inquadrabile in una relazione obbligatoria e, così, a rappresentare un elemento di insopprimibile differenza tra il diritto amministrativo e il diritto civile[25].
La posizione del terzo è evidentemente rimasta imprigionata nelle più risalenti concezioni dell’interesse legittimo, che il singolo “non ha alcun modo di soddisfare se non facendo valere una pretesa che si collega all’interesse generale o collettivo, a garanzia del quale è posta la norma che disciplina l’esercizio dell’attività amministrativa”[26] e che deve la sua rilevanza all’esistenza del potere pubblico e all’esigenza di controllo che a quello si collega (la cd. dimensione autoritativa dell’attività pubblica richiamata dalla sentenza) [27]: in breve, un interesse che è l’“essenza stessa del potere”, attribuito per garantire situazioni “che eccedono le sfere giuridiche del soggetto dell’atto [...] e del suo destinatario”[28] .
Il risultato è una posizione dei terzi sospesa tra rilevanza e irrilevanza giuridica: rilevante, se toccata dall’attività amministrativa e utile ad attivare il sindacato del giudice sulla legittimità di quell’attività; irrilevante, invece, nella sua dimensione individuale, perché l’eventuale titolarità di un diritto non conta, essendo ritenuta sufficiente l’imputazione al terzo di una frazione dell’interesse pubblico. Poiché, a differenza del destinatario, non ha una pretesa sufficientemente definita da contrapporre all’obbligo della amministrazione, il terzo si vede attribuire una posizione collegata all’interesse pubblico e in quello riflessa, che gli offre una centralità sconosciuta nel diritto comune, sorreggendola nondimeno su un’idea dell’interesse legittimo ormai difficilmente sostenibile.
5. Terzi-parte e terzi-chiunque
Mentre le relazioni pubbliche sono sempre più spesso caratterizzate da schemi multipolari (basti pensare alle fattispecie regolatorie), il superamento della dialettica bipolare autorità-libertà non ha portato con sé un adeguamento del modello teorico necessario per spiegare la più ricca trama di relazioni nella quale il diritto amministrativo tende a muoversi, così determinandosi una empasse nella teoria delle situazioni soggettive, ben visibile dal versante dei terzi.
Per superare simile empasse, è necessario tenere distinti due casi: quello in cui il terzo è titolare di una posizione giuridica qualificata e differenziata, e che perciò diventa la terza parte di un rapporto multipolare insieme all’amministrazione e al destinatario (diretto) dell’atto[29]; e quello in cui invece quella posizione soggettiva manca e il terzo può considerarsi titolare (al più) di una mera aspettativa al rispetto della legalità da parte della amministrazione, indistinguibile da quella del chiunque[30].
L’emancipazione dell’interesse legittimo del terzo non può così che prendere le mosse da una indagine rigorosa sui requisiti della qualificazione e della differenziazione della sua posizione sostanziale. Possono essere considerati terzi meritevoli di tutela soltanto i titolari di una posizione qualificata (ossia, protetta da una norma) e singolarmente considerata, (ossia, differenziata, sempre da parte di una norma, dalla posizione della generalità dei consociati). Soltanto operando questa distinzione si può, ad avviso di chi scrive, tentare di fare chiarezza nella crescente propensione del diritto amministrativo a produrre schemi multipolari, senza ricorrere a concezioni dell’interesse legittimo ormai obsolete, che la stessa sentenza in commento tenta, per il resto, di accantonare.
Accedendosi a questa prospettiva, tutte le volte in cui una disciplina non preveda una norma “investitiva”[31], cioè una disposizione che qualifichi e differenzi la posizione del terzo, tale posizione resta equiparata a quella del ‘chiunque’, cioè di colui che, anche se più intensamente toccato, sul piano fattuale, dall’azione (o inazione) amministrativa, non è titolare di un interesse meritevole di tutela.
D’altra parte, ciò non esclude che quella posizione, ancorché giuridicamente irrilevante (non protetta), non possa trovare spazio nella ponderazione degli interessi e quindi non possa far ingresso nel procedimento amministrativo. Vanno infatti tenuti distinti, a differenza di quanto sembra fare la pronuncia, i piani del procedimento e del processo: mentre il procedimento può e deve essere aperto all’acquisizione di un’ampia gamma di interessi, proprio nell’ottica della accurata ponderazione e massimizzazione dell’interesse pubblico, il processo, per contro, per la funzione che gli è propria, non può che avere a oggetto (soltanto) posizioni soggettive, ossia situazioni giuridicamente qualificate e differenziate.
La distinzione proposta, tra terzi-parte di un rapporto (titolari di posizioni qualificate e differenziate) e terzi-chiunque (confinati nell’irrilevante giuridico), ha un evidente impatto sul sistema delle posizioni soggettive. Liberata la posizione dei terzi (dopo quella del destinatario) dal fardello ‘oggettivante’ dell’interesse pubblico, la transizione dal modello (della tutela) della legalità al modello (della tutela) dei diritti può giungere a compimento: alla logica provvedimentale si sostituisce quella relazionale, rendendosi possibile il pieno e corretto esplicarsi della tutela soggettiva emergente dalla Costituzione[32].
L’impostazione suggerita, oltre a essere dettata da esigenze di coerenza teorica, consentirebbe il superamento di non secondarie problematiche applicative.
Si pensi al regime della notificazione del ricorso e a quello, speculare, della legittimazione. Di fronte alla indeterminatezza della categoria dei terzi, la notificazione continua a essere affidata in via principale alle indicazioni provenienti dal provvedimento impugnato, secondo una prospettiva rigidamente formalista. La presenza in processo non dipende così dall’effettivo coinvolgimento in una vicenda giuridica, ma dalla completezza dell’istruttoria procedimentale[33]: pur di non rendere troppo gravoso il compito del ricorrente e, poi, del giudice, si ammette così un ‘contraddittorio amputato’. Per converso, ma per ragioni coincidenti, il regime della legittimazione a ricorrere è caratterizzato, come noto, da un approccio particolarmente estensivo della giurisprudenza, che slabbra le maglie dell’accesso al processo sul presupposto che garantire una legittimazione ampia consenta un ampliamento di tutela. L’effetto, però, è per un verso contraddittorio e per l’altro paradossale.
E’ contraddittorio perché uno stesso soggetto potrebbe essere considerato legittimato a ricorrere eppure non essere destinatario della notificazione del ricorso in un processo iniziato da altri[34]: i vicini di casa, per esempio, pur legittimati a ricorrere, non sono normalmente considerati controinteressati in senso tecnico, non essendo indicati nel provvedimento impugnato; avrebbero così una posizione soggettiva quando sono dal lato attivo, ma non anche quando si trovano dal lato passivo (poiché non sono annoverati tra i litisconsorti necessari e se vogliono partecipare al processo devono intervenire autonomamente).
L’effetto è altresì paradossale perché all’ampliamento della legittimazione non corrisponde un rafforzamento della tutela, visto che ciò che viene garantito non assurge a ‘vera’ posizione soggettiva e finisce per coincidere con la legalità obiettiva. La legittimazione, di conseguenza, da strumento per la tutela di un interesse individuale, è piegata a un disegno giudiziale di espansione del proprio controllo sull’amministrazione.
6. Conclusioni
E’ vero che dietro l’opportunità di un complessivo cambio di paradigma vi è una resistenza di fondo, che connota la posizione di chi, come il giudice siciliano, ha saputo cogliere le più recenti evoluzioni del diritto amministrativo, pur senza riuscire a tirare tutti i fili che compongono la trama: come è possibile coniugare l’esigenza di garanzia soggettiva emergente dal dato costituzionale con la naturale tendenza del potere pubblico a produrre effetti su una platea spesso indefinita di soggetti? Può il diritto (e il processo) amministrativo servire ‘soltanto’ a offrire tutela alle posizioni individuali oppure vi sono delle esigenze di garanzia dell’interesse pubblico che non possono essere dimenticate?
Non v’è dubbio che mantenere elastica la categoria dei terzi consenta di ampliare le occasioni di controllo di potere e che rinunciare al modello pubblicistico dei rapporti (anche) sul versante dei terzi comporterebbe un ripensamento della funzione del processo e dello stesso giudice amministrativo. E ciò soprattutto in un contesto caratterizzato, da un lato, da un potere che si ritrae per effetto delle misure di semplificazione e liberalizzazione e che perciò accresce il bisogno di controllo sulla legalità e, dall’altro, dalla scarsa pregnanza che ancora oggi hanno, nel nostro ordinamento, i rimedi interni quali i controlli o la responsabilità dirigenziale.
Epperò, viene al contempo da chiedersi se queste ragioni siano sufficienti a perpetuare una certa concezione del diritto amministrativo, che tiene in vita attraverso i terzi l’idea dell’interesse occasionalmente protetto, e se sia ancora accettabile una caratterizzazione oggettiva del nostro processo.
[1] Si tratta di profili esaustivamente esaminati da M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’adunanza plenaria, in Questa Rivista, 2021.
[2] F. Merloni, Funzioni amministrative e sindacato giurisdizionale. Una rilettura della Costituzione, in Dir. pubb., 2011, 497.
[3] Consiglio di giustizia amministrativa, sez. giur., 15 dicembre 2020, n. 1136, punto 13.3.
[4] Punto 17.4 della sentenza in commento.
[5] Punto 17.4 della sentenza in commento.
[6] Punto 17.4 della sentenza in commento.
[7] M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile, cit.
[8] Si tratta della seconda questione posta all’Adunanza plenaria. Di conseguenza il giudice chiede se la sopravvenienza normativa, escluso che possa determinare una rottura del nesso di causalità, debba essere inquadrata nel modello dell’art. 1223 c.c. (ossia ai fini della quantificazione del danno) ovvero del 1225 c.c. (ossia ai fini della prevedibilità).
[9] Punto 29 della sentenza in commento.
[10] Punto 29, lett. d) della sentenza in commento.
[11] Punto 29, lett. f) della sentenza in commento.
[12] Punto 29, lett. g) della sentenza in commento.
[13] L. Ferrara, Statica e dinamica nell’interesse legittimo: appunti, in Aa.Vv., Colloquio sull’interesse legittimo. Atti del convegno in memoria di Umberto Pototschnig. Milano 19 aprile 2013, Napoli, 2014, 105 ss.
[14] Punto 29 lett. q) della sentenza in commento
[15] L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al processo di esecuzione. La dissoluzione del concetto di interesse legittimo nel nuovo assetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 2003; ma anche Id. L’interesse legittimo alla riprova della responsabilità patrimoniale, in Dir. pubbl., 2010, 650.
[16] Punto 26 della sentenza in commento.
[17] Punto 33 della sentenza.
[18] Punto 34 della sentenza.
[19] Punto 25 della sentenza.
[20] Soprattutto in ordine al regime probatorio, al termine della prescrizione, all’elemento soggettivo, al danno risarcibile: punto 30 della sentenza.
[21] A. Pajno, Il codice del processo amministrativo tra “cambio di paradigma” e paura della tutela, in Giorn. dir. amm., 2010, 885 ss.
[22] Punto 29, lettera m) della sentenza.
[23] Punto 37 della sentenza in commento.
[24] Sulla assenza di una “autonoma nozione di terzo nel diritto amministrativo” v. L. De Lucia, Provvedimento amministrativo e diritti dei terzi. Saggio sul diritto amministrativo multipolare, Torino, 2005, 3.
[25] P. Carpentieri, La razionalità complessa dell’azione amministrativa come ragione della sua irriducibilità al diritto privato, in Foro amm./Tar, 2005, p. 2673; sulla nozione di terzo nel diritto amministrativo e sulle differenze col diritto privato v. pure: B.G. Mattarella, Il provvedimento, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Parte generale, I, Milano, 823 s.
[26] S. Piraino, L’interesse diffuso nella tematica degli interessi giuridicamente protetti, in Riv. dir. proc., 1979, 209.
[27] Per M. Ramajoli, La s.c.i.a. e la tutela del terzo, in Dir. proc. amm., 2012, 352 “il terzo può avvantaggiarsi del rispetto della disciplina sostanziale che si compone di norme pubblicistiche, visto che tali norme non hanno un destinatario unico, ma prendono in considerazione tutti gli interessi coinvolti”.
[28] G. Corso, L’efficacia del provvedimento amministrativo, Milano, 1969, 362 s.
[29] Secondo S. Civitarese Matteucci, La forma presa sul serio. Formalismo pratico, azione amministrativa ed illegalità utile, Torino, 2006, 475, quando un terzo diventa titolare di pretese in un determinato rapporto, questi “non è più terzo”, ma diventa parte.
[30] Si tratta di una prospettiva sviluppata in un lavoro più ampio: sia consentito il rinvio a G. Mannucci, La tutela dei terzi nel diritto amministrativo. Dalla legalità ai diritti, Sant’Arcangelo di Romagna, Maggioli, 2016.
[31] N. Maccormick, Children’s Rights: A Test-Case for Theories of Rights, ora in Id.., Legal Right and Social Democracy. Essays in Legal and Political Philosophy, Oxford, Clarendon Press, 1984, pp. 154 ss.
[32] A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello stato di diritto. Per una giustizia non amministrativa (Sonntagsgedanken), Milano, Giuffrè, 2005, 46.
[33] Si veda, per es., Cons. Stato, Sez. IV, 15 dicembre 2011, n. 6066.
[34] A. Corpaci, La comunicazione dell’avvio del procedimento alla luce dei primi riscontri giurisprudenziali, in Le Regioni, 1994, 307.
Arte e diritto. Il diritto nell’arte e il diritto come arte
di Carlo Vittorio Giabardo*
[In copertina, Abraham Solomon, Waiting for the Verdict, ca. 1859, J.Paul Getty Museum, Los Angeles]
Sommario: 1. Diritto, scienza, “techne” e “ars” (con un pensiero di Francesco Carnelutti) - 2. Diritto nell’arte. Diritto e arte come “esperienza” – 2.1. (Segue). Iconografie della giustizia. Le Virtù e la Legge di Raffaello – 3. Diritto come arte. Riflessioni sparse sullo “sguardo artistico” sul diritto – 4. Conclusione. Diritto, interpretazione e musica (Bach non è il miglior interprete di Bach).
1. Diritto, scienza, “techne” e “ars” (con un pensiero di Francesco Carnelutti)
È opinione assai diffusa che il diritto sia, in primo luogo, una tecnica. Nel linguaggio corrente, si definisce tecnico quell’agire che è basato su una scienza, su un sapere scientifico; e difatti è affermazione altrettanto comune quella per la quale il diritto è una scienza (si parla di “scienza del diritto”, appunto). Scientifico, a sua volta, è quel sapere che pretende di essere obiettivo, che esige per sé una validità generale e universale, che vada al di là di che è soggettivo, di ciò che deriva dall’esperienza o dai valori del singolo. Il diritto inteso come scienza e quindi come tecnica è pertanto oggettivato, reso un dato di indagine razionale - proprio come è la natura per il fisico o la cellula per il biologo. Se lo guardiamo da questo angolo visuale, il diritto è un congiunto di istituti, norme, concetti e nozioni; compito del giurista è quello innanzitutto di constatarne l’esistenza e poi di misurarli e ordinarli secondo relazioni e rapporti. Le categorie così individuate e i loro nessi sono poi descritti mediante affermazioni, enunciati, proposizioni di cui è possibile predicare la verità o falsità[1]. Il diritto dal punto di vista tecnico-scientifico è quindi ordinamento, struttura logica formale ordinata, e basta.
Kelsen è stato senza dubbio il maggior esponente di questo atteggiamento neutrale e l’importante tradizione della filosofia analitica ne ha raccolto – almeno in certe parti - l’eredità, ramificandola in nuove direzioni di indagine. Certamente aver studiato il diritto in questo modo ha condotto a risultati fondamentali. Sappiamo molto di ciò che il diritto è, e il nostro intendimento della sua struttura e del suo funzionamento è aumentato considerevolmente. È quindi senza dubbio merito di questa svolta scientifico-tecnica il grande progresso fatto nella conoscenza sia delle caratteristiche generali dell’ordinamento (la cd. “teoria generale del diritto”, la jurisprudence in senso anglosassone) sia, a scendere, dei meccanismi dei singoli istituti (la proprietà, il contratto, la responsabilità civile, il processo, e via dicendo, cioè la “filosofia applicata del diritto”). Il progresso dovuto all’aver trattato il diritto come scienza non è qui in discussione.
Ma – la domanda sorge con forza - è questo tutto quello, e solo quello, che c’è da sapere sul diritto? In altri termini: la conoscenza tecnico-scientifica esaurisce tutto ciò che possiamo dire sensatamente sul diritto e quindi tutto ciò che vale la pena conoscere? Questa riduzione del diritto a tecnica non tralascia forse altri aspetti dell’esperienza giuridica?
Facciamo un passo indietro.
La parola “tecnica” deriva del greco antico techne, un vocabolo che ha assunto col tempo un significato centrale nel pensiero occidentale. Techne originariamente designava in via del tutto generale e atipica il saper fare, il creare, il modellare, il plasmare un oggetto o una certa realtà usando maestria, al fine di ottenere altro: tanto il pittore quanto il calzolaio, tanto il medico o il generale dell’esercito quanto il musicista, tanto il panettiere come il poeta erano tecnici nel senso greco del termine (ricordiamo, tra parentesi, che poesia, poiesis, deriva da ποιέω, poieo, che indica il semplice verbo “fare, produrre”: la poesia è pertanto “ciò che è fatto”, la produzione umana per eccellenza). I romani tradussero techne con la parola ars, da cui la nostra arte. La techne greca e l’ars latina quindi non veicolavano tanto l’idea dell’impersonalità delle regole “tecniche”, l’obbiettività dei principi generali che presiedono all’azione (il significato odierno di tecnica) ma incorporavano, comprendevano e anzi presupponevano ed esaltavano la singolarità dell’esperienza, la soggettività, l’umanità di “colui che faceva”, dell’artista. Se noi oggi distinguiamo rigorosamente tra tecnica e arte, all’origine le due parole identificavano una cosa sola.
Tutto questo – credo – è estremamente rilevante per capire il diritto nella sua pienezza, e cioè non solo come scienza ma come esperienza (v. infra, sul senso di questo termine), al fine di recuperare cioè la dimensione artistica, in senso lato, e quindi creativa, soggettiva, esperienziale della giuridicità.
In questo senso antico, dire che il diritto è un’arte è lo stesso che dire che il diritto è un saper fare, un saper produrre creativamente qualcosa. Non è un caso che una delle più antiche definizioni del diritto che possediamo è formulata in termini di arte: ius est ars boni et aequi, il diritto è l’arte del bene e del giusto, affermava Celso nel II secolo d. C. (poi ripreso dai commentatori giustinianei)[2]. Il diritto è quindi un saper fare artigianale, una prassi nella quale si esprime, normativamente, l’esperienza del soggetto, nella quale si manifesta il suo sentire e il suo vissuto.
Uno sguardo solo tecnico (nel senso riduttivo moderno) ci dice quindi sì molto sul diritto, ma non ci dice tutto. Lascia fuori ciò che è più significativo per l’uomo, per la sua vita, per la sua esistenza. Se anche conoscessimo tutto scientificamente e tecnicamente del diritto – immaginiamoci un notaio espertissimo di codici e commi, un giudice assai preparato su sentenze e precedenti, un professore capace di maneggiare e ordinare i concetti del diritto – ancora non sapremmo cosa è il diritto per la nostra esperienza soggettiva ed esistenziale. E indagare questa dimensione umana, spesso drammatica, è anch’essa autentica conoscenza del diritto, così come l’arte è autentica forma di conoscenza (è esperienza di verità, come dicono i filosofi). Non diremo nulla di nuovo, né di particolarmente stravagante, sostenendo questa tesi[3]. Noi, ad es., conosciamo qualcosa del sole sia attraverso le informazioni che ci vengono date dallo scienziato, dall’astrofisico, sia anche ammirando un quadro che rappresenta un tramonto o che raffigura il lavoro nei campi in agosto; e così - con ancor più evidenza - apprendiamo molto di più sull’amore o sulla sofferenza leggendo Dante o una poesia di Neruda invece che chiedendo informazioni a un esperto di neuroscienze o a uno psicologo.
L’immenso giurista Francesco Carnelutti intitolò L’arte del diritto un suo volume del 1946, composto negli anni della sua maturità. Qui egli, mentre viaggiava in nave verso l’America Latina (tra una lettura e l’altra del filosofo e scrittore spagnolo Miguel de Unamuno, come egli stesso racconta) mise per iscritto alcune sue originali meditazioni sui concetti di diritto, legge, fatto, giudizio, sanzione e dovere da questa prospettiva che possiamo definire consapevolmente antiscientifica e artistica. La scienza del diritto - per l’ultimo Carnelutti, quello più mistico - è impotente, non coglie l’essenza del diritto; il linguaggio tecnico nasconde la verità delle cose, più che esprimerla. Non il concetto preciso, non la logica, ma la parola poetica, musicale, sfumata, emotiva, libera, artistica, in breve, è quella più adatta a cogliere il senso misterioso del diritto. Rileggiamo allora questo suo brano che risuonano in tutta la sua forza:
«Questo è dunque il diritto? E questi è il giurista, il quale pretende di sapere come è il diritto? Non sa, al fine, niente di preciso. Si esprime, insomma, piuttosto che come un dotto, come un poeta. Proprio in ciò sta la differenza tra la mia giovinezza e la mia vecchiezza di giurista. Il giovane aveva fede nella scienza; il vecchio l’ha perduta. Il giovane credeva di sapere; il vecchio sa di non sapere. E quando al sapere si aggiunge il sapere di non sapere, allora la scienza si converte in poesia. Il giovane si accontentava col concetto scientifico del diritto; il vecchio sente che in questo concetto si perde il suo impeto e il suo dramma e, pertanto, la sua verità. Il giovane cercava i contorni decisi della definizione; il vecchio preferisce le sfumature di un paragone. Il giovane non credeva se non in quello che si vede; il vecchio non crede più se non in quello che non può vedere. […]. Il giurista vorrebbe esser musico per fare che gli uomini possano sentirne l’incanto»[4].
2. Diritto nell’arte. Diritto e arte come “esperienza”
Ora, intendo affrontare questo aspetto non tecnico del diritto declinando il suo rapporto con l’arte secondo due linee direttrici: il diritto nell’arte e il diritto come altre. Queste due prospettive getteranno luce su due dimensioni diverse eppure intrecciate tra loro. Entrambe sono infinitamente debitrici dei risultati ai quali è giunto il movimento di law and literature che - come noto – si propone di indagare i molteplici punti di contatto tra esperienza giuridica e letteratura, estendendone i confini.
Nel primo sguardo – quello più immediato e, se vogliamo, più intuitivo, più facile – cioè quello del diritto nell’arte, lo scopo è di portare più a fondo l’indagine sulla comprensione del diritto prendendo in considerazione le grandi opere artistiche in quanto autentiche fonti di conoscenza della giuridicità intesa come esperienza esistenziale.
Di cosa parla infatti l’arte? Qual è il suo oggetto? L’arte tratta fondamentalmente dell’esperienza eterna dell’uomo, delle esperienze di vita che egli fa in ogni tempo e in ogni luogo. L’arte antica ci parla tuttora e non abbiamo motivo per non credere (anche se non lo possiamo verificare) che l’arte moderna e quella contemporanea parlerebbero all’uomo antico con la stessa intensità con la quale comunicano all’uomo d’oggi. Vi è insomma questa trascendenza dell’arte, questa capacità di andare oltre il qui e ora, oltre la contingenza.
E, d’altro canto, l’esperienza giuridica che tutti noi facciamo quotidianamente (il «vivere giuridicamente» di cui parlava Salvatore Satta[5]) non è forse anch’essa una esperienza eterna? Non ci confrontiamo forse oggi noi con gli stessi problemi e drammi (giuridici) dell’uomo antico o dell’uomo di altre tradizioni?
Uso qui l’espressione “esperienza giuridica”, e non semplicemente “diritto”, per enfatizzare proprio questa portata soggettiva, interiore, vissuta, quasi intima, della giuridicità. Giuseppe Capograssi è il grande punto di riferimento di questa visione, il quale come noto, parlava di dottrina dell’esperienza giuridica[6]: individuo, persona, vita concreta, azione (e quindi volontà), prassi, immediatezza, soggettività necessariamente frammentaria, eppure capace di generalizzarsi, sono al centro delle sue riflessioni, lontanissime dalle costruzioni dogmatiche, sistematiche, pure, scientifiche nel senso corrente. Dirà, ancora, Salvatore Satta, a proposito di Capograssi, da lui definito come il «cantore dell’individuo»: egli «ha visto l’azione dell’uomo, e tutto quello che indica la sua azione, e quindi ha visto nel diritto, la storia. Che questa sia impurità è indiscutibile: il giurista che si ponga rispetto al diritto nella stessa posizione del biologo di fronte alla vita (e questa è in sostanza la singolare rivendicazione fatta da un suo critico in difesa di Kelsen) non può che scandalizzarsi di questa intrusione dell’uomo nel diritto, e chiamare impuro chi lo professa. Vedere nel diritto l’uomo, vedere la storia, significa riconoscere che il diritto è un’esperienza…»[7].
Che cosa è l’esperienza? È senza dubbio una forma di conoscenza, quella specifica che si acquisisce a contatto con la realtà vissuta, con il pianto, con il riso, con il dolore, con tutta la gamma fisica delle emozioni che ci toccano da vicino. Ed è evidente come questa esperienza, che è conoscenza, sia sì individuale, intraducibile (la mia esperienza, la tua esperienza), ma abbia anche al tempo stesso un valore generale, condiviso, com-partecipato. Non rimaniamo indifferenti davanti alle esperienze altrui. In qualche modo le capiamo, le facciamo nostre. L’esperienza singola, puntuale è sempre anche umana, generale: qui sta tutto il paradosso. La rappresentazione artistica, alla medesima maniera, è da sempre caratterizzata da questo dualismo, che è il suo situarsi tra particolare e generale, tra frammento e totalità, tra istante ed eternità; l’arte rappresenta quindi sì una azione, o una emozione, individuale, ma che suscita una com-passione, una partecipazione piena, un sentire comune da parte di coloro che ne fruiscono[8].
Ora, è certo che nei grandi capolavori letterari e artistici si agitano questioni giuridiche, depurate e ripulite dal tecnicismo contingente, e che vengono assunte a modello, a forma pura di tutti i problemi umani. Questo già a partire dai Greci. Essi hanno riflettuto profondamente sul diritto, da Omero, con l’Iliade e l’Odissea, al mito, nelle opere di Esiodo, nelle grandi tragedie (l’Antigone di Sofocle, una su tutte, la più celebre[9]), e poi nella riflessione filosofica e razionale affidata da Platone a quella forma letteraria che è il dialogo[10]. I Greci quindi non si affidarono, per la loro comprensione del diritto, alla scienza e alla tecnica, ma bensì all’arte. Anzi, essi non avevano nemmeno una classe, una élite di tecnici del diritto. Non c’era il giurista di professione, né l’avvocato, né la dottrina; c’era semmai il retore, l’oratore. La riflessione giuridica greca era perciò una riflessione esistenziale, che partiva dalle opere artistiche, che sole consentono quella meditazione sul dramma e sul mistero del diritto. La loro non fu mai una scienza, ma bensì una co-scienza condivisa sul diritto.
Riscoprire quindi il senso greco del diritto, questa l’ambizione. L’arte è guardata e penetrata attraverso l’occhio del giurista, che ne trae qualcosa di significativo da dire giuridicamente. Questo lo si ottiene leggendo le grandi opere attraverso questa lente: Dante, Kafka, Shakespeare, Manzoni, la Bibbia, Dostoevskij, Borges, Dürrenmatt, Saramago, e via dicendo, cioè tutti quelli che definiamo i classici, nel senso dato da Italo Calvino nella sua famosissima definizione (la sesta): «Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire»[11].
Peraltro, questo approccio si è rivelato ben fecondo anche per la comprensione del diritto processuale civile e i processualcivilisti italiani si sono cimentati con grande originalità di risultati: dal riferimento necessario all’opera di Kafka[12], passando per Lewis Carroll, Rabelais, Dickens, Carlo Collodi[13], fino a giungere alla recente analisi processuale del Lohengrin di Richard Wagner[14].
Questa ricchezza inesauribile di conoscenza esperienziale giuridica non la si trova naturalmente solo nella narrativa, ma in tutte le forme d’arte, nella poesia, nel cinema[15], nel teatro, nell’opera lirica[16], nonché nelle arti figurative, nella pittura, nella scultura, persino nell’architettura (v. infra). Il recentissimo volume, curato dal costituzionalista Orlando Roselli, va in questa direzione[17], così come l’opera collettanea che raccoglie i contributi dell’ultimo Convegno della Italian Society for Law and Literature, a cura della professoressa di filosofia del diritto Paola Chiarella[18]. La tendenza e l’invito insomma è quello di andare al di là della letteratura, per abbracciare le espressioni artistiche nella loro totalità.
Certo, nel caso dell’arte figurativa l’intersezione col diritto si fa, forse, meno evidente, ma una volta che la si sappia scovare, si presenta con egual potenza conoscitiva. L’immagine dipinta veicola infatti con immediatezza un episodio, un frammento di un contesto più ampio (storico, sociale) che spesso ha implicazioni giuridiche. A partire da quel segmento di vita immortalato su una tela, e ripercorrendone le fila, si può dire quindi qualcosa di molto importante sul diritto, qualcosa che valga la pena esser detto. Così non manca chi abbia visto un accostamento tra un capolavoro di Caravaggio, la Vocazione di San Matteo, e la storia del diritto tributario (il quadro raffigura l’Apostolo Matteo, esattore delle tasse, che si converte e abbandona il suo lavoro per seguire Gesù)[19]. O ancora, il dipinto, altamente allegorico, la Calunnia di Sandro Botticelli, conservato alla Galleria degli Uffizi di Firenze, ci rivela molto sulla drammaticità e l’inquietudine di una scena processuale e sul ruolo cruciale e la valenza sociale della verità nel processo.[20]
2.1. (Segue). Iconografie della giustizia. Le Virtù e la Legge di Raffaello
A questo proposito va detto che l’iconografia della giustizia, specialmente quella presente nelle aule dei tribunali e negli edifici istituzionali, è stata fatta oggetto recentemente di penetranti indagini da parte di Judith Resnik, professoressa di Civil Procedure alla Yale Law School e una delle maggiori autorità al mondo nel campo della giustizia civile, e Dennis Curtis, Professore Emerito di Diritto anch’egli a Yale e studioso autorevole dei meccanismi di funzionamento delle corti[21] (per sfatare, semmai ce ne fosse bisogno, la falsa credenza che i processualisti siano interessati solo a scadenze, fascicoli e atti). Come si è evoluta l’immagine della Giustizia nei secoli? Cosa ci comunica, culturalmente, la raffigurazione della giustizia come una dea bendata? Da dove deriva questo elemento visuale?
Non solo la pittura e la scultura, ma anche l’architettura è poi un elemento rivelativo. Il modo in cui i tribunali sono costruiti e in cui lo spazio pubblico delle aule d’udienza è strutturato è politicamente significativo e indicativo di un certo modo di intendere il ruolo del giudice, la figura dell’accusato, la funzione degli spettatori del pubblico, la posizione della pubblica accusa e in generale la valenza “catartica” della scena processuale. Nel mondo anglosassone si parla di legal architecture, di politics of courtrooms. Linda Mulcahy, professoressa di Diritto dell’Università di Oxford, tra gli altri, ha dedicato a questo variegato rapporto tra arte, spazio, architettura e diritto preziosi studi[22]. Il giurista positivo che volesse approfondire il tema quasi certamente rimarrebbe stupito di fronte alla quantità e alla qualità delle ricerche a ciò rivolte[23].
Queste traiettorie d’indagine tardano a farsi strada nell’ambiente continentale. Troppo spesso sono ancora viste con un occhio se non proprio ostile quantomeno sospettoso o di superficialità da parte dell’operatore del diritto “duro e puro” (anche se le cose sono di molto cambiate negli ultimi anni). E pensare che proprio in Italia, più che altrove, potremmo attingere a una ricchezza sterminata.
Per esempio, molto si potrebbe capire sul diritto studiando quanto magistralmente raffigurato da Raffaello Sanzio in una delle pareti della Stanza della Segnatura dei Musei Vaticani, nell’affresco Le Virtù e la Legge (del 1511; il pittore, si noti, aveva 28 anni). Questo dipinto – di un incanto da togliere il respiro - è un vero e proprio trattato di filosofia del diritto. In basso a sinistra è raffigurata la consegna da parte di Triboniano (giurista bizantino) all’Imperatore Costantino (482 – 565) del Digesto, la base del diritto civile medioevale in tutta Europa, fino alle codificazioni e oltre. In basso a destra, in ideale complemento ed equilibrio con quanto dipinto dal lato opposto, è rappresentato Papa Gregorio IX (1170 – 1241) mentre approva le Decretali, la base del diritto canonico fino alla codificazione avvenuta nel 1917. Alla radice ci sono quindi i due fondamenti di tutto l’ordine giuridico medievale. Ed ecco poi che nella parte superiore sono raffigurate le entità che devono presiedere e governare tutte le leggi: le Virtù Cardinali (Forza, Prudenza e Temperanza) aventi sembianza di donna, e le Virtù Teologali (Fede, Speranza, Carità) aventi figura di fanciullo. Infine, l’immagine della Giustizia sovrasta ancora più in alto, nel medaglione della volta superiore, dipinta seduta su un trono di nubi mentre tiene in mano la bilancia e la spada. Dietro, la scritta «ius suum unicuique tribuit» (il diritto dà a ciascuno il suo).
Vi è in questa opera d’arte immortalata l’idea di giustizia, l’esigenza della forza, il bisogno dell’equità, la contrapposizione tra diritto naturale e diritto positivo: non esagero quindi se dico che il suo esame ben potrebbe servire per aprire un corso di filosofia del diritto.
3. Diritto come arte. Riflessioni sparse sullo “sguardo artistico” sul diritto
Ma andiamo più oltre. Vi è poi un secondo modo, più radicale, di guardare alle interazioni tra diritto e arte, e cioè quello concepire il diritto stesso come arte. Questo sguardo è certamente più difficile, meno evidente, ancora più profondo e problematico, di quello del diritto nell’arte. Quello che si vuol dire è che non solo possiamo comprendere il diritto attraverso l’arte, ma possiamo direttamente interpretare il diritto stesso in quanto tale come forma d’arte, e cioè come una prassi creativa, e persino visionaria, fantastica, immaginaria, visuale, illusoria, fittizia, e via dicendo. Una forma creativa d’arte, certo, che ha regole sue proprie, che ha una sua grammatica peculiare, ma pur sempre una forma d’arte, una impresa collettiva che è, in qualche modo, comprensibile e descrivibile con le categorie proprie dell’arte.
Innanzitutto partiamo dalla constatazione di come il diritto sia, oltre che un insieme generalizzato di comportamenti, un linguaggio e quindi una narrazione. I modi di comunicazione e di creazione di storie comuni, di racconti condivisi, che sono poi modi reali di costruire una realtà, sono cruciali per comprendere il diritto in questa sua prospettiva che possiamo definire narrata[24]. Si parla infatti di narrativismo giuridico, come parte di quel più ampio movimento che si suole identificare con la “svolta narrativa” (narrative turn) nelle scienze sociali, secondo la quale quasi tutto, nella realtà attorno a noi, è narrazione o prodotto da essa[25]. Lo aveva già detto benissimo Robert Cover, che così apriva il suo più celebre articolo, Nomos and Narrative: «Noi abitiamo un nomos. […]. Nessun insieme di istituzioni o di comandi esiste a prescindere dalle narrazioni che li situano e danno loro significato. Dietro ogni costituzione c’è un racconto epico; dietro ogni decalogo, una sacra scrittura. Una volta compreso il diritto nel contesto delle narrazioni che gli danno significato, esso diviene non soltanto un sistema di regole da osservare, ma un mondo nel quale viviamo»[26]. Il diritto è un luogo, una casa che abitiamo, sostenuta e essa stessa costruita e cementificata da racconti.
Questa è una consapevolezza che è entrata a far parte stabile del patrimonio comune del giurista solo negli ultimi trenta anni. Jerome Bruner (1915 – 2016), il grande psicologo cognitivo statunitense che è stato anche giurista (fu professore alla New York University School of Law) ha ben messo in luce questo potere creativo della parola narrata, autentico potere di costruire la realtà (uno dei suoi più saggi più belli in assoluto si intitola The Narrative Construction of Reality, la costruzione narrativa della realtà[27]) e la realtà giuridica in maniera emblematica. Lo story-telling, la capacità di raccontare (e raccontarci!) storie è costitutivo della giuridicità. Due volumi, in particolare, di questo Autore vengono in rilievo: Minding the Law (edito dalla Harvard University Press, nel 2000, con il sottotitolo assai indicativo How Courts Rely on Storytelling, and How Their Stories Change the Ways We Understand the Law - And Ourselves), scritto insieme all’avvocato Anthony Amsterdam, e Making Stories: Law, Literature, Life (sempre edito dall’Università di Harvard nel 2003 e tradotto successivamente in italiano con il titolo La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita). Poco prima, nel 1996, il critico letterario Peter Brooks e il giurista di Yale Paul Gewirtz avevano curato insieme il volume Law’s Stories: Narrative and Rhetoric in the Law, dove avevano dimostrato che il saper raccontare (bene) una storia, nel diritto, è tutto. Siamo distantissimi dall’immagine della piramide kelseniana o dalla dogmatica giuridica, dalle grandi costruzioni architettoniche sistematiche che avevano l’ardire di ingabbiare e recintare il diritto dentro categorie tagliate col coltello, dentro confini disegnati col righello.
Ora, se il diritto è narrazione, è storia, è argomentazione, è discorso, è retorica, è racconto che forma il nostro immaginario[28], allora il passo non è troppo lungo per dire che il diritto è arte.
Qui non è più il giurista che guarda alle creazioni artistiche con i suoi occhi e ne trae ciò che è giuridicamente rilevante, ma tutto all’opposto è l’artista che guarda al diritto con gli occhi dell’artista, traendone ciò che è artisticamente significativo (e che nondimeno è importante per il giurista sapere). Non il diritto nell’arte, ma vedere ciò che c’è di arte nel diritto. È il capovolgimento ultimo.
È forse negabile, per fare un esempio assai banale, che le argomentazioni giuridiche hanno una dimensione estetica molto forte e niente affatto secondaria? Una soluzione a un problema, un articolo di dottrina, una sentenza, una arringa, una spiegazione, un atto processuale, non possono forse essere descritti anche in termini di bello o brutto, elegante o grossolano, oltre che di corretto, giusto, ineccepibile? Una bellezza che è sia formale sia contenutistica. Senza dubbio. D’altronde, già da molto si discorre di stile della sentenza continentale o di quella francese, inglese, etc.[29] In Inghilterra la dimensione estetica delle decisioni giudiziali è notevolissima; le sentenze sono caratterizzate da un linguaggio emotivo, letterario e alcune di esse sono trattate come veri capolavori della letteratura. Dalla loro lettura traspare chiaramente l’autore: ogni grande giudice inglese ha il proprio linguaggio personale. Spesso, a questo proposito, si ricorda l’incipit assai poetico del leggendario giudice della High Court londinese, Lord Denning (un vero e proprio maestro della lingua inglese) nel caso Hinz v Berry: «It happened on April 19, 1964. It was bluebell time in Kent»[30].
È evidente che lo stile è un concetto squisitamente artistico, che è meglio indagato con gli strumenti della critica letteraria piuttosto che con quelli del giurista. Ma se è così, allora l’artista può dare un grande contributo alla comprensione del diritto.
Ma attenzione a seguire troppo a lungo le tracce di questo cammino. Si rischia di dissolvere la dura realtà del diritto, di ridurla a nient’altro che a un insieme di parole, a un vociare senza consistenza, di togliere qualsiasi capacità referenziale ai concetti giuridici, aprendo la strada alla destabilizzazione nichilistica e senza rimedio. È l’accusa che si muove alle cd. “teorie postmoderne” del diritto. Tutto il diritto, per queste teorie, sarebbe alla fine nient’altro che un grande testo – secondo il criptico detto di Jacques Derrida, il filosofo della déconstruction: «il n'y a pas de hors-texte», non esiste un “all’infuori” del testo, o «il n’y a rien hors du texte», non c’è nulla fuori del testo[31]. Testo è ciò che deve essere interpretato. Se diciamo così, allora stiamo sostenendo che nulla precede l’interpretazione; non c’è realtà storica, politica, istituzionale, economica, giuridica al di fuori dalle pratiche interpretative che assegnano e costantemente ri-assegnano i significati. Senza questa serie ininterrotta di interpretazioni, di prassi discorsive continuamente riprodotte e ripetute, il diritto semplicemente cesserebbe di esistere, perderebbe qualsiasi consistenza. Le parole, i concetti, le nozioni, non si riferiscono a nessuna realtà; sono loro a crearla. Come in un gioco di prestigio, alzato il velo, scopriamo che sotto non c’è nulla. Ma è davvero tutto una grande finzione?
Sicuramente questa è una esagerazione. Anzi, di più: è una esagerazione cattiva. Ma qualcosa di buono da tutto questo è comunque possibile ricavare. Ci permette quantomeno di de-sacralizzare l’oggettività neutrale del diritto, un esercizio che a volte può essere benefico.
Ecco un esempio. Il processo è sì quell’istituto regolato minuziosamente dai codici di procedura, che vede impegnate figure istituzionali, ognuna con una precisa funzione, con specifici poteri, doveri e facoltà assegnate e disciplinate dalla legge, dove si interpretano e si applicano le norme giuridiche, etc., ma è anche, al contempo, un grande rituale simbolico, una sorta di liturgia nella quale gli attori tutti recitano (inconsapevolmente) una parte, e che si snoda attraverso pratiche retoriche presiedute da canoni accettati, esattamente come in una pièce teatrale, davanti a un pubblico di spettatori, che si svolge in uno spazio sociale sacro, ben delimitato (il tribunale, come fosse un tempio), nel più generale contesto di una visione del mondo coerente con queste premesse[32]. Fra mille, duemila anni, forse, i nostri processi verranno studiati così, antropologicamente e simbolicamente, come d’altronde abbiamo fatto noi quando abbiamo studiato altri metodi di risoluzione delle controversie da noi lontanissimi[33].
Il quesito ritorna: non è forse, allora, il processo (e più in generale il diritto tutto) una performance – una performance serissima, certo, e che va presa terribilmente sul serio, ma pur sempre una performance?[34]
4. Conclusione. Diritto, interpretazione, musica (Bach non è il miglior interprete di Bach)
Diritto, rappresentazione artistica, arti performative. I parallelismi sono molteplici e ben noti. Non dirò quindi nulla di nuovo. Particolarmente esplorati sono quelli tra diritto e musica, due contesti solo all’apparenza lontani, ma tra i quali, anzi, gli studiosi più aperti hanno riconosciuto parentele ravvicinate[35].
Il primo punto di contatto – il più evidente – è che in entrambi l’interpretazione è centrale[36]. Il violoncellista Mario Brunello e il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky si sono cimentati proprio in un dialogo di questo tipo, che si è dimostrato assai fruttuoso[37]. Ma i precedenti sono altrettanto illustri: l’accostamento era ben noto a Emilio Betti[38], a Salvatore Pugliatti[39], agli esponenti del Realismo Giuridico Americano (soprattutto Jerome Frank[40]). Nella musica abbiamo semplicemente dei segni (le note) scritti dal compositore su un supporto; essi non dicono nulla. C’è silenzio. Giunge però un interprete che dà loro vita, che li fa suonare. C’è musica; e differenti esecutori danno luogo a differenti performance (i cultori di musica classica sanno bene che Le Sonate e Partite per violino solo composte da Bach e interpretate da Yehudi Menuhin sono diversissime da quelle suonate da Henryk Szeryng). Esiste una interpretazione giusta? Direi di no - anche se ne esiste, senza dubbio, una sbagliata. Se Bach potesse tornare in vita, nemmeno lui stesso potrebbe indicarci l’interpretazione corretta, autentica, avendo dopo tutto scritto lui la partitura? Parimenti direi di no. Un’opera d’arte non ha padroni. Una volta fatta nascere essa è consegnata all’eternità, al suo divenire storico che, esattamente come quello di un figlio, è indipendente dalle volontà e dalle intenzioni del suo genitore (simbolico). Così non solo Bach non potrebbe dirci quale è l’interpretazione corretta delle sue opere, ma nemmeno Platone, resuscitato, potrebbe dirci come devono essere interpretati i suoi dialoghi, o Kafka, che cosa davvero avesse inteso dire nelle sue opere oniriche. L’opera si oggettivizza, si astrae, diviene ontologicamente e contemporaneamente la totalità delle sue interpretazioni, staccandosi irrimediabilmente e perdendo ogni legame con il creatore. Ciò significa – e non è affatto paradossale! - che Bach non è il miglior interprete di Bach, Hegel non è il miglior interprete di Hegel, Montale non è il miglior interprete di Montale, e via dicendo (è chiarissima la radice ermeneutica di Hans-Georg Gadamer in queste mie parole[41]).
Trasferiamo tutto ciò nel campo nel diritto. Anche qui, parallelamente, abbiamo dei segni linguistici su un supporto (le parole in un codice, in un regolamento, in una sentenza) che non ci dicono nulla senza l’intermediazione di un interprete (il giudice, certo, ma anche il notaio, l’avvocato, lo studioso, il poliziotto, l’amministratore d’azienda, il burocrate, etc.). E parimenti, l’intenzione soggettiva del legislatore, del singolo parlamentare che ha redatto la disposizione, non è affatto vincolante quanto alla sua interpretazione (almeno normalmente, a meno che non intervenga a sua volta un atto normativo di interpretazione cd. autentica); anche l’enunciato normativo, come la partitura, vive di vita propria, è consegnato una volta per tutte e per sempre alla comunità dei giuristi-esecutori, i quali ne ricaveranno, con creatività e secondo i criteri interpretativi e le tecniche argomentative ammesse e legittime, differenti norme.
Un secondo punto di contatto è che spesso, nella musica, (emblematicamente nel jazz, ma non solo: si pensi alla Cadenza nei concerti per strumento solo di musica classica), l’interprete è chiamato in certi momenti a improvvisare. Ora, i musicisti sanno bene che l’improvvisazione è sì un esercizio di creatività ma, contrariamente a quanto si crede, non è affatto sregolata, arbitraria, capricciosa, bensì è governata da regole (armoniche, ritmiche, di contesto, etc.) molto precise. C’è insomma una improvvisazione musicale sensata e una cattiva. E ugualmente possiamo dire che anche il giudice, in un certo senso, qualche volta, è chiamato a improvvisare, a fare cioè un uso intelligente delle proprie doti creative, ma non in maniera né capricciosa né arbitraria, ogniqualvolta gli è permesso o addirittura imposto, ad esempio nel caso delle clausole generali o, con ancora più evidenza, in caso di lacune, dinnanzi a ipotesi non regolate e che pure non può sottrarsi dal decidere, oppure ancora nella tradizione di common law, qualora si trovi a dover risolvere una controversia nuova, innovando creativamente la tradizione a lui precedente[42].
I parallelismi sono molti, e non ancora del tutto esplorati. La potenzialità del dialogo è pertanto molto vasta.
In conclusione, deve però essere chiaro che tutto questo non è affatto un vezzo per giuristi stanchi del diritto positivo, un divertissement colto dovuto in gran parte al tedio del confronto sfiancante con i codici, i fascicoli e la dura realtà poco poetica dei tribunali. Al contrario: esplorare le convergenze (o le difformità) strutturali tra diritto e arte - o meglio tra esperienza giuridica e esperienza artistica - permette non solo di uscire dalle sacche del particolare, del settoriale, di alzare lo sguardo, ma, più radicalmente, di giudicare con senso critico il riduzionismo dato per scontato del diritto alla tecnica, per cogliere invece la sua anima esistenziale e, in ultima analisi, profondamente umana.
*Lo scritto riproduce, con varie modifiche e con l’aggiunta delle note, il testo della relazione tenuta presso il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, 30 gennaio 2021, nella Giornata di studi dedicata a “Creatività e Diritto”.
[1] Sul problema di trattare il diritto come scienza, v., per tutti, M. Jori, Oggetto e metodo della scienza giuridica, in U. Scarpelli (a cura di), La teoria del diritto. Problemi e tendenze attuali. Studi dedicati a Norberto Bobbio, Milano, 1983, 177, con molti riferimenti a N. Bobbio, Teoria della scienza giuridica, Torino, 1950.
[2] Sul punto v. l’originale volume di F. Gallo, Celso e Kelsen, Torino, 2010 dove il grande romanista esamina la portata delle definizioni (così distanti tra loro, l’una in chiave appunto artistica, e l’altra scientifica) di questi due giuristi del passato.
[3] La valenza conoscitiva dell’arte ha radici antiche e importanti (Hegel, ma non Kant, per il quale, invece, il giudizio estetico non è né vero o falso, né giusto o sbagliato; Adorno, ma non Benedetto Croce, e poi Heidegger e soprattutto Hans-Georg Gadamer, nonché l’italiano Luigi Pareyson) ed è argomentata con particolare radicalità dal filosofo statunitense Nelson Goodman (1906 – 1998), per il quale la finzione dell’arte non solo apre e dischiude, ma fa, costruisce mondi, al pari della scienza; cfr. N. Goodman, Vedere e costruire il mondo, Laterza, 2008 (ed. or., Ways of Worldmaking, 1978); Id., I linguaggi dell’arte, Laterza, 2017 (ed. or., Languages of Art, 1976).
[4] F. Carnelutti, Arte del diritto, a cura di D. Cananzi, con prefazione (Avant-propȏs) di Claudio Consolo, Torino, rist. 2017 (ed. or. italiana, 1949), 18 – 19. Peraltro, è interessante notare come Carnelutti dimostri questo attaccamento alla parola poetica e musicale anche in un altro scritto della sua maturità, Matematica e diritto (in Riv. Dir. Proc., 1951, 201): «[…] bisogna capire gli uomini per capire il diritto. Ma questa è materia ribelle ai numeri e anche alle parole. Anche alle parole. […] La parola [nel processo, nda] ha da essere parlata affinché se ne esprime la musicalità. E con l’oralità affiora l’eloquenza […]. Ma l’eloquenza combina la musica con la poesia. E il segreto della musica è la pausa; mediante i suoni essa riesce a far gustare il silenzio».
[5] «Tutti viviamo giuridicamente anche senza aver mai aperto il codice, e vivendo continuamente creiamo diritto e nell’atto stesso del porlo lo conosciamo»; così S. Satta, La vita della legge e la sentenza del giudice (1952), in Il mistero del processo, Milano,1994, 39, a 45.
[6] Ci riferiamo in particolare, tra gli altri, ai due lavori di G. Capograssi, Analisi dell’esperienza comune (1930) e Studi sull’esperienza giuridica (1932), ora in Mario D’Addio-Enrico Vidal (a cura di), Opere, Vol. II, Milano, 1959.
[7] S. Satta, Il giurista Capograssi, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1960, 785, a 790 – 791 (enfasi nostra).
[8] Questo paradosso è ben messo in luce da Massimo Cacciari nella sua conferenza Arte e terrore (23 febbraio 2019) disponibile online in Cacciari - Arte e terrore. L’arte, aristotelicamente, pur nella individualità e singolarità dell’episodio rappresentato, suscita éleos, mit-leid in tedesco, cioè con- (mit) sofferenza (leid), compartecipazione umana nel dolore.
[9] Di recente, M. Cartabia, L. Violante, Giustizia e mito (Con Edipo, Antigone e Creonte per indagare i dilemmi del diritto continuamente riafforanti nelle nostre società), Bologna, 2018.
[10] Su questa evoluzione, profondissimo il saggio di W. Jaeger, Elogio del diritto, ora ristampato a cura di Massimo Cacciari e Natalino Irti (con saggi a commento dei due Curatori), Elogio del diritto, Milano, 2019. Su questo, mi permetto di rinviare al mio Trascendenza della Giustizia, immanenza del diritto Alcune meditazioni a proposito della recente ristampa di “Elogio del diritto” di Werner Jaeger (con saggi di Massimo Cacciari e Natalino Irti), in Iustitia, 2021, https://www.iustitiaugci.org/trascendenza-della-giustizia-immanenza-del-diritto-alcune-meditazioni-a-proposito-della-recente-ristampa-di-elogio-del-diritto-di-werner-jaeger-con-saggi-di-massimo-cacciari-e-nat/
[11] I. Calvino, Perché leggere i classici, 1991 (op. postuma).
[12] B. Cavallone, Il processo come contagio, in Riv. Dir. Proc., 2002, 581; Id., La Lezioni di Titorelli, pittore e giurista (Kafka e la teoria del giudicato), ivi, 2011, 633; B. Capponi, Condanna senza giudizio, esecuzione senza condanna (una riflessione sul non- processo di Franz Kafka), in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2013, 541.
[13] Il riferimento è a tutti gli eclettici studi di Bruno Cavallone, ora raccolti in La borsa di Miss Flite. Storie e immagini del processo, Milano, 2016.
[14] A. Tedoldi, Il processo in musica nel Lohengrin di Richard Wagner, Pisa, 2017; v. anche, tra i filosofi del diritto, F. Cavalla, La struttura processuale nell’opera di Wagner, in 12, ISLL papers, 2019, http://amsacta.unibo.it/6229/1/Cavalla_ISLLPapers_2019_Vol12.pdf
[15] O. Rosselli (a cura di), Cinema e diritto. La comprensione della dimensione giuridica attraverso la cinematografia, Torino, 2020.
[16] F. Annunziata, G. Colombo (a cura di), Law and Opera, Springer, 2018.
[17] O. Roselli (a cura di), Le arti e la dimensione giuridica, Bologna, 2020.
[18] P. Chiarella (a cura di), Narrazioni del diritto, musica ed arti tra modernità e postmodernità, Napoli, 2020 (Atti del VIII Convegno Nazionale della ISLL, Italian Society for Law and Literature, Università degli Studi di Catanzaro, 2018, Le radici dell’esperienza giuridica).
[19] A. Salvati, La Vocazione di San Matteo: il peccato e le imposte, in Rivista di diritto delle arti e dello spettacolo, 2017, 103 (e anche online in 11, ISLL papers, 2018, http://amsacta.unibo.it/6017/1/Salvati_ISLL_Papers_2018_vol11.pdf).
[20] P. Moro, Forme del processo e figure della verità. Interpretazione retorica del dipinto La Calunnia di Sandro Botticelli, in L. Alfieri, M.P. Mittica (a cura di), La vita nelle forme. Il diritto e le altre arti. Atti del VI Convegno Nazionale ISLL (Urbino 3-4 Luglio 2014), 2015, 187 e seg., https://amsacta.unibo.it/5561/1/2015_ISLL_Dossier%20Atti_Urbino_2014.pdf
[21] J. Resnik, D. E. Curtis, Representing Justice, Yale, 2011; Id., Representing Justice: From Renaissance Iconography to Twenty-First-Century Courthouses, in 151 Proceedings of the American Philosophical Society, 2007, 139.
[22] L. Mulcahy, E. Rowden, The Democratic Courthouse: A Modern History of Design, Due Process and Dignity, London, 2019; L. Mulcahy, Back to the Future? The Challenge of the Past for Courthouses of Tomorrow, in J. Simon, N. Temple, R. Tobe (a cura di), Architecture and Justice: Judicial Meanings in the Public Realm, London, 2013; Id., Legal Architecture: Justice, Due Process and the Place of Law, London, 2011 (e la review di J. Scott, Legal Architecture Reimagined, in Law and Humanities, 2015, 2011, 415 e seg.); Id., Architects of Justice: the Politics of Courtroom Design, in 16 Social & Legal Studies, 2007, 383.
[23] J. Resnik, D. Curtis e A. Tait, Constructing Courts: Architecture, the Ideology of Judging, and the Public Sphere, in A. Wagner, R. Sherwin (a cura di), Law, Culture & Visual Studies, London, 2014; K. J. Bybee, Judging in Place: Architecture, Design, and the Operation of Courts, in 37, Law & Social Inquiry, 2012, 1014. N. W. Spaulding, The Enclosure of Justice: Courthouse Architecture, Due Process, and the Dead Metaphor of Trial, in Yale Journal of Law & the Humanities, 2012, 311.
[24] Fondamentali, a questo proposito, specie con riferimento alle storie narrate nel processo, i molteplici lavori della filosofa del diritto Flora di Donato; v., ex multis, The Analysis of Legal Cases: A Narrative Approach, London, 2020; La realtà delle storie. Tracce di una cultura (con prefazione di Jerome Bruner), Napoli, 2012; La costruzione giudiziaria del fatto. Il ruolo della narrazione nel processo, Bologna, 2008.
[25] Si veda il volume del compianto filosofo del diritto spagnolo, dell’Università di Malaga, uno dei maggiori esponenti della scuola spagnola di diritto e letteratura, José Calvo González, Proceso y Narración. Teoría y práctica del narrativismo jurídico, Lima, 2019 (ove anch’egli si occupa del tema soprattutto dalla prospettiva processuale).
[26] R. M. Cover, Nomos and Narrative, in 97, Harvard Law Review, 1983, 1 (e anche in Narrative, Violence and the Law: The Essays of Robert Cover, Ann Arbor, 1992). Trad. mia.
[27] J. Bruner, The Narrative Construction of Reality, in Critical Inquiry, 1991, 1.
[28] F. Ost, Raconter la loi. Aux sources de l’imaginaire juridique, Paris, 2004.
[29] Tra i molti, Monateri, Lo stile delle sentenze, in Pensare il diritto civile, Torino, 1995, 80. Sul linguaggio delle sentenze, v. da ultimo l’intervista, da parte del Professor Bruno Capponi, alla critica letteraria e scrittrice Gilda Policastro, https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1571-bruno-capponi-intervista-gilda-policastro
[30] [1970] 2 QB 40.
[31] J. Derrida, De la grammatologie, Paris, 1967, 227 e 233.
[32] Su questi aspetti, A. Garapon, Del giudicare. Saggio sul rituale giudiziario, Milano, 2007.
[33] Cfr. O. G. Chase, Law, Culture, and Ritual: Disputing Systems in Cross-Cultural Context, New York, 2005, dove il processualcivilista americano (Professore di Civil Procedure alla New York School of Law) descrive il metodo per risolvere i conflitti utilizzato da una tribù dell’Africa centrale, gli Azande, incentrato sull’avvelenamento dei pulcini e dell’esame del loro comportamento successivo (v. tradotto in italiano, a cura di M.R. Ferrarese, Gestire i conflitti. Diritto, cultura, rituale, Roma – Bari, 2009).
[34] Riprendo la fortunata definizione di J. M. Balkin e S. Levinson, Law as Performance, in 2, Law and Literature: Current Legal Issues, 1999, 1729 (anche in https://jackbalkin.yale.edu/law-performance); v. anche Id., Law, Music and Other Performing Arts, in University of Pennsylvania Law Review, 1991, 1597.
[35] Da ultimo, Giorgio Resta (a cura di), L’armonia nel diritto. Contributi a una riflessione su diritto e musica, Roma, 2020, liberamente disponibile nella sua interezza in http://romatrepress.uniroma3.it/libro/larmonia-nel-diritto-contributi-a-una-riflessione-su-diritto-e-musica/
[36] Sul parallelismo classico tra interpretazione giuridica e musicale la letteratura è, oramai, sorprendentemente ricca. Senza pretesa di completezza, M.P. Mittica, Ragionevoli dissonanze. Note brevi per un possibile accostamento tra le intelligenze della musica e del diritto, in A.C. Amato Mangiameli, C. Faralli, M.P. Mittica (a cura di), Arte e Limite. La misura del diritto (Atti del III Convegno nazionale della Società Italiana di Diritto e Letteratura, 16-17 giugno 2012), Roma 2012, 47; G. Resta, Il giudice e il direttore d’orchestra. Variazioni sul tema: «diritto e musica», in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2011, 435; Id., Variazioni comparatistiche sul tema: “diritto e musica”, in Comparazione e diritto civile (online), 2010; G. Iudica, Interpretazione giuridica e interpretazione musicale, in Riv. Dir. Civ., 2004, 467; E. Picozza, L’interpretazione musicale ed il metronomo. Problemi di interpretazione tra diritto e musica, in Ars Interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica, 2004, 327.
[37] M. Brunello, G. Zagrebelsky, Interpretare. Dialogo tra un musicista e un giurista, Bologna 2016.
[38] E. Betti, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, in Riv. It. Scienze Giur., 1948, 34; Id., Teoria generale della interpretazione, Milano, 1955, 760 e seg.
[39] Tra le molte opere dedicate al tema (egli era, oltre che giurista, esperto musicologo), S. Pugliatti, L’interpretazione musicale, Messina, 1940.
[40] J. Frank, Words and Music: Some Remarks on Statutory Interpretation, in 47 Columbia Law Review, 1947, 1259; Id., Say it with Music, in Harvard Law Review, 1948, 921 (cfr. E. Buono, «A moderate amount of cacophony». La funzione “sovversiva” della comparazione tra diritto e musica nel giusrealismo statunitense, in Cartografie sociali, 2018, 225).
[41] H-G. Gadamer, Verità e Metodo, trad. it. di Gianni Vattimo, Milano, 2000 (ed. or., 1960). Per chi volesse, anche G. Ripanti, Il problema ermeneutico in H. G. Gadamer, in Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 1977, 492, spec. 498.
[42] Per la discussion di tutti questi temi, A. P. Buffo, Interpretation and Improvisation: The Judge and the Musician Between Text and Context, in International Journal of Semiotic and Law, 2018, 215; E. Buono, Diritto e improvvisazione. Cenni comparativi ed esercizi di demistificazione, in P. Chiarella (a cura di), Narrazioni del diritto, cit., 341; V. Nitrato Izzo, Diritto e musica: performance e improvvisazione nell’interpretazione e nel ragionamento giuridico, in Dossier: Diritto e Narrazioni, Temi di diritto, letteratura e altre arti (Atti del secondo convegno nazionale della ISLL, Bologna 3-4 Giugno 2010), https://www.lawandliterature.org/area/papers/Dossier%20Atti%20ISLL%202010%20S.pdf; Id., Interprétation, musique et droit: performance musicale et exécution de normes juridiques, in Revue Interdisciplinaire d’Études Juridiques, 2007, 99; T. Piper, The Improvisational Flavour of Law, the Legal Taste of Improvisation, in Critical Studies in Improvisation, 2010, 1.
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