ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Lo stato regionale dopo la sent. n. 192 del 2024
di Andrea Morrone
Sommario: 1. Una “sentenza quadro”, con luci e ombre. – 2. Una decisione sull’art. 116.3 Cost. che riscrive il titolo V? – 3. I molti volti della sussidiarietà: clausola di supremazia, ascensore, canone di adeguatezza. – 4. I limiti generali della differenziazione regionale (impliciti all’art. 116.3 Cost.). – 5. Le “materie sospette” difficilmente devolvibili, soggette a uno “strict scrutiny”: un nuovo “comma 22” e il problema degli elenchi. – 6. Oltre 100 pagine, 52 pronunce, un solo dispositivo. Quale “nucleo normativo” resta, dopo la “colegislazione” della Corte, anche ai fini dei referendum abrogativi. – 7. Le singole pronunce di accoglimento. L’oggetto della differenziazione per “specifiche funzioni” e non per “intere materie”, tra illusione e realtà. – 8. Il “test di adeguatezza” e la “giustificazione sufficiente” contenuto della “motivazione” necessaria per la legge di autonomia differenziata. – 9. Apologia della democrazia fondata sulla dialettica di unità-pluralismo e della centralità parlamentare: una legge di approvazione sostanziale e non “prendere o lasciare”. – 10. I limiti intrinseci della forma di governo parlamentare a garantire una differenziazione costituzionalmente adeguata e lo spostamento di potere dal Parlamento alla Corte costituzionale. – 11. Il nodo della determinazione dei Lep. Illegittimità del meccanismo di determinazione (non della necessità dei Lep): una delega legislativa in bianco e l’incoerenza intrinseca dei Dpcm. – 12. Senza il meccanismo di determinazione dei Lep, una legge inapplicabile? – 13. Come stabilire i Lep, tra legge e dpcm. La strada dei livelli di assistenza sanitaria. Lep e funzioni caso per caso. – 14. Concetto dei Lep. Differenza tra contenuto minimo di un diritto (right security) e Lep (right safety). Il nodo della condizionalità finanziaria dei Lep e il diritto alle risorse corrispondenti. – 15. Dopo la sentenza 192, due modelli di finanziamento del regionalismo: a) la “forma” costituzionale. – 16. (Segue): b) la “variazione sul tema” contenuta nella legge generale come manipolata dalla Corte costituzionale: finanziamento dinamico dei Lep, invarianza della compartecipazione. – 17. Una sintesi sulla “gestione efficiente” della differenziazione: una soluzione impossibile?
1. Una “sentenza quadro”, con luci e ombre
Per la terza volta nella storia della sua giurisprudenza, la Corte costituzionale ha adottato una decisione di portata generale sulla struttura della Repubblica “una e indivisibile, che riconosce e promuove le autonomie locali” (art. 5 Cost.). E già questo aspetto è rilevante.
Come nella sent. n. 177 del 1998 sull’interesse nazionale e, poi, nella sent. n. 303 del 2003 sul principio di sussidiarietà, anche nella sent. n. 192 del 2024 sul regionalismo differenziato i giudici di palazzo della Consulta hanno dato prova della volontà di tratteggiare le linee portanti del regionalismo. Il risultato è, però, un affresco con molte luci e molte ombre. È forse una conseguenza, inevitabile, della scelta di anteporre al giudizio sulle molteplici questioni di costituzionalità sulla legge n. 86 del 2024 – quasi solo l’occasio della pronuncia – una valutazione globale sullo stato dell’arte presente e futuro del nostro sistema pluralistico.
Molto si potrebbe dire comparando le tre decisioni generali oltre a questa osservazione preliminare sull’ambiguità di fondo di pronunce che vorrebbero chiudere una volta per tutte ma che, invece, finiscono per aprire molte porte. La sensazione – abbandonate le posizioni delle opposte tifoserie schierate in campo – è la distanza che si registra tra la “forma” della Costituzione scritta e la sua interpretazione vivente[1].
Nei precedenti ricordati, l’interesse nazionale e la sussidiarietà sono stati configurati come i criteri per ordinare i principi di unità e di differenziazione a vantaggio della centralizzazione, ma non hanno impedito affatto la regionalizzazione. L’unità della Repubblica (insieme a tutti i corollari che ne riempiono il contenuto ampiamente richiamati nella 192) nell’interpretazione recente della Consulta, invece, diventa la leva per rendere estremamente improbabile (se non impossibile) la forma più estrema della differenziazione territoriale prefigurata nell’art. 116.3 Cost. La legge n. 86/2024 ha portato allo scoperto tutte le ambiguità di quella norma: ed è l’aspetto positivo dell’intera vicenda sull’uso politico della differenziazione. Dopo la sent. n. 192, però, sembra di assistere all’ennesimo requiem del nuovo Titolo V.
Se mettiamo in fila l’esperienza degli ultimi vent’anni, quelli di una revisione costituzionale che aveva l’obiettivo di modernizzare il Paese attraverso un più avanzato processo di decentramento e di regionalizzazione, non è difficile scorgere le tracce del fallimento di un’impresa collettiva. In fondo, lo svuotamento sostanziale della legge n. 86 del 2024 non è che l’ultimo e, tutto sommato, marginale tassello di un mosaico depauperato (da parte di tutti gli attori: Parlamento, Governo, autonomie territoriali, Corte costituzionale) di tutte le tessere essenziali: la promessa trasformazione della “seconda camera” in un “senato delle regioni” (travolta dalle riforme costituzionali mancate, da quelle realizzate finora e dalla prassi parlamentare sul “monocameralismo di fatto”); una legge sul trasferimento delle funzioni mai nata dopo la revisione (basti ricordare il “ridicolo” tentativo della cd. “legge La Loggia” svuotata da Corte cost. sent. n. 280 del 2004); una decisione effettiva sull’allocazione delle risorse finanziarie di uno Stato pluralista complesso (entrate, spese, perequazione) sostituita da interventi settoriali che hanno perpetuato una finanza decentrata per trasferimenti vincolati (stante il “congelamento”, mediante i rinvii reiterati – l’ultimo dei quali contenuto nel Pnrr fino al 2027 – della legge sul cd. federalismo fiscale e di tutti i suoi decreti delegati)[2]; e, last but not least, la concreta difficilissima possibilità di accedere al cd. regionalismo differenziato, proprio dopo l’importante sent. n. 192.
2. Una decisione sull’art. 116.3 Cost. che riscrive il titolo V
La strategia argomentativa della pronuncia è quella di ribaltare il punto di vista. Essa si concentra non sulla legge n. 86 del 2024 (o non soltanto su di essa), impugnata da quattro regioni contrastate da altre tre, ma soprattutto sull’art. 116.3 Cost. Questo è il “vero” oggetto della decisione.
Ciò non dipende dal fatto che, almeno in uno dei ricorsi regionali, si contestava la legittimità della novella introduttiva del regionalismo differenziato rispetto ai principi supremi dell’ordinamento (possibile ex sent. n. 1146 del 1988), in primis quello di unità e indivisibilità della Repubblica (trattandosi, in fondo, di una censura messa in subordine rispetto a tutte le altre). Si potrebbe aggiungere che, del resto, nei ricorsi sembrava difficile separare la critica della legge da quella alla disposizione costituzionale. Il rischio paventato, in fondo, poteva essere che la legge n. 86 andasse considerata, non soltanto negli ambienti della maggioranza parlamentare che l’aveva voluta e approvata, la fedele riproduzione dei contenuti dell’art. 116.3 Cost. e, quindi, inattaccabile in sé e per sé, senza contestare (direttamente o indirettamente) la legittimità della “norma di riconoscimento”. Per superare questa prospettiva e, soprattutto, per allontanare il “calice amaro” di una inedita, per tanti versi difficile, e oltremodo improbabile, dichiarazione di incostituzionalità della previsione costituzionale in questione, la Corte ha fatto una scelta decisiva. Separare la norma costituzionale dalla legge di attuazione, interpretando in modo conforme ai principi supremi la prima, e manipolando in più punti e in maniera diversificata la seconda.
Lo si dice chiaramente fin dall’incipit: il 116.3 non è “un monade isolata” ma va collocato nel “quadro complessivo della forma di stato italiana, con cui va armonizzata”. Che questo fosse il da farsi non pare dubitabile. Solo un marziano – absit iniura verbis per coloro che avevano indossato questo figurino prima della presente decisione – poteva dubitare che l’art. 116.3 Cost. e la sua attuazione positiva avrebbero potuto svolgersi in contraddizione con il sistema costituzionale[3].
Il problema della sentenza è un altro. Siamo certi che il risultato ottenuto sia quello di una interpretazione sistematica? O, piuttosto, la Corte costituzionale ha riscritto i contenuti della forma di stato definiti dal nuovo Titolo V? Unità e pluralismo nella Costituzione scritta conducono alle conclusioni cui sono portati dalla decisione della Corte costituzionale?
3. I molti volti della sussidiarietà: clausola di supremazia, ascensore, canone di adeguatezza
Il principio di sussidiarietà è riletto rispetto alla sent. n. 303/2003. Dal fare le veci di una clausola di supremazia costituzionale (un surrogato aggiornato dell’interesse nazionale delineato, nella sent. n. 177 del 1988, con i corollari della leale collaborazione e della ragionevolezza), torna ad essere una sorta di “ascensore”, un canone “dotato di intrinseca flessibilità” nella distribuzione delle competenze tra centro e periferie, più in linea con il tenore e la ratio dell’art. 118 Cost., non quindi della “sentenza Mezzanotte” appena richiamata.
Nondimeno, la Corte – anche di fronte al silenzio dell’art. 116.3 Cost. che, invece, menziona solo l’art 119 Cost. – lo utilizza pure in un’altra prospettiva: quale principio per regolare il regionalismo differenziato, attraverso la sua metamorfosi in un canone generale “adeguatezza” (declinata partitamente nei criteri di efficienza, equità, responsabilità), quasi confondendo questo concetto con quello di sussidiarietà (nonostante la distinta menzione di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione nell’art. 118 Cost.).
Non basta. Addirittura, si arriva a sostenere che l’art. 116.3 Cost. è “espressione della flessibilità propria del principio di sussidiarietà”, dato che “contiene una clausola generale di flessibilità che consente a ciascuna regione di chiedere di derogare all’ordine di ripartizione delle funzioni ritenuto in via generale ottimale dalla Costituzione”.
Singolari affermazioni. L’art. 116.3 Cost. rappresenta, sì, il mezzo per derogare il regionalismo valido in via ordinaria (che la Corte definisce come “ordine di ripartizione delle funzioni ritenuto in via generale ottimale dalla Costituzione”), ma il risultato delle leggi rinforzate è quello di creare una situazione privilegiata, differenziata appunto, rispetto alle altre regioni (dette “terze”), che è rigida e definitiva (rebus sic stantibus: finché le intese e le leggi correlative non sono modificate), e che, se i testi hanno un senso, resta di norma impermeabile a qualsiasi applicazione della sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost. L’ascensore, per come dice il testo della Costituzione, vale rispetto al regionalismo ordinario, non certo nei confronti delle “regioni differenziate”. La flessibilità è propria del modello costituzionale, non certo di quello in deroga per effetto della differenziazione negoziata. O, viceversa, si vuole ammettere che, nonostante le leggi di differenziazione, la clausola di sussidiarietà possa essere attivata (e da chi? dallo Stato?, secondo il senso della sent. n. 303 del 2003?) per flessibilizzarne i relativi contenuti, portando (unilateralmente) verso l’alto alcune delle funzioni decentrate, oppure riportando a valle altre funzioni erariali, senza una nuova intesa con la regione interessata?
Nuovi usi della sussidiarietà, insomma, inediti anche rispetto alla stessa giurisprudenza costituzionale pregressa.
4. I limiti generali della differenziazione regionale (impliciti all’art. 116.3 Cost.)
La riscrittura del 116.3 Cost., per renderlo compatibile con la Costituzione – perché di questo si discute nella sentenza in esame – va apprezzata anche con riferimento ad altri dati.
La sintesi può essere letta in una delle tante formule “definitive”: “In conclusione, l’art. 116, terzo comma, Cost., richiede che il trasferimento riguardi specifiche funzioni, di natura legislativa e/o amministrativa, definite in relazione all’oggetto e/o alle finalità, e sia basato su una ragionevole giustificazione, espressione di un’idonea istruttoria, alla stregua del principio di sussidiarietà” (p.n. 4.3). Tornerò sul punto delle “specifiche funzioni” e della giustificazione del trasferimento, in uno con la questione del finanziamento, compreso il nodo dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep).
La sentenza snocciola una serie di limiti, derivanti dall’art. 116.3 Cost., ma dei quali, per la verità, non c’è traccia nel testo scritto. Proprio accogliendo il suggerimento dei ricorrenti, per cui il trasferimento deve essere necessariamente differenziato per “specifiche funzioni” e non per materie, la Corte precisa che, quandanche le funzioni siamo spostate alla competenza legislativa piena della regione richiedente le “forme e condizioni particolari di autonomia”, restano fermi una serie di vincoli: non solo i limiti generali dell’art. 117.1 Cost. – inutile precisazione, spiegabile solo se fosse rivolta a occasionali e frettolosi lettori della Costituzione scritta – ma anche le competenze trasversali come la tutela della concorrenza, i Lep, l’ordinamento civile, fermo il potere sostitutivo di cui all’art. 120.2 Cost., aggiungendo che la devoluzione non può sorpassare le “colonne d’Ercole” individuate “dall’art. 116, terzo comma, Cost., come precedentemente interpretato, a garanzia della permanenza dei caratteri indefettibili della nostra forma di stato”.
L’effettività di questi limiti è assicurata dal controllo di costituzionalità, che la Corte si riserva, sulle singole leggi di autonomia differenziata “alla stregua dei principi sin qui enunciati”. Tale sindacato è attivabile o in via incidentale, o in via d’azione su ricorso delle “regioni terze”, dato che la violazione dei limiti così individuati dell’art. 116.3 Cost. da parte delle singole leggi rinforzate si traduce in un “regime privilegiato per una determinata regione”, che si trasforma nella violazione “di per sé” della “par condicio tra le regioni”, ovvero della “loro posizione di eguaglianza davanti alla Costituzione” ex artt. 5 e 114.
Il costruttivismo interpretativo conduce ad un ampliamento dei poteri del Custode. Questi i profili palesi; ve ne sono anche altri che restano sottintesi. Ne dirò avanti.
5. Le “materie sospette” difficilmente devolvibili, soggette a uno “strict scrutiny”: un nuovo “comma 22” e il problema degli elenchi
Non paga, la decisione 192 stabilisce in un esteso paragrafo (p.n. 4.4) che, inoltre, vi sono “materie, cui pure si riferisce l’art. 116, terzo comma, Cost., alle quali afferiscono funzioni il cui trasferimento è in linea di massima difficilmente giustificabile secondo il principio di sussidiarietà”.
Scelta impegnativa, sia perché nel testo della Costituzione non c’è traccia di una simile “riserva indiana”, sia perché contraddittoria rispetto a quanto detto dalla Corte sulla sussidiarietà come “ascensore” per l’allocazione ottimale di tutte le funzioni (e non solo di alcune).
Ne deriva un lungo e argomentato elenco, che integra l’art. 117 di un nuovo “comma 22”, relativo a materie che “motivi di ordine sia giuridico che tecnico o economico (…) ne precludono il trasferimento”, per le quali “l’onere di giustificare la devoluzione alla luce del principio di sussidiarietà diventa, perciò, particolarmente gravoso e complesso”. Così tanto, si allega, da implicare, nientedimeno che uno “scrutinio stretto di legittimità costituzionale” (sia detto per incidens: negli altri casi lo scrutinio non sarebbe “stretto”?).
Il “comma 22” prevede così (lo dico in sintesi): il commercio con l’estero, il commercio con l’Unione Europea (Ue), la tutela dell’ambiente; la produzione, il trasporto, la distribuzione nazionale dell’energia; i porti e gli aeroporti civili e le grandi reti di trasporto e di navigazione; le professioni; l’ordinamento della comunicazione; le norme generali sull’istruzione.
Sono materie molte delle quali fortemente incise dalle “trasformazioni intervenute sul piano geopolitico e geoeconomico”, e, più concretamente, dal diritto dell’Ue e, quindi, come quella ambientale per tutte, su cui Bruxelles ha esercitato poteri normativi “in modo assai ampio”.
Quando si fanno elenchi, il rischio che si corre è quello degli assenti. Anche in questo caso, a voler seguire il ragionamento della Consulta, ci si potrebbe chiedere perché solo queste materie e non altre, come ad esempio la ricerca scientifica e tecnologica, la tutela della salute (la voce di bilancio più rilevante della spesa nazionale e regionale), la tutela e sicurezza del lavoro, l’alimentazione, l’ordinamento sportivo, la protezione civile ecc. In fondo, per qualsiasi delle materie individuate nell’art. 117.3 Cost. è possibile indicare funzioni espressione di “esigenze di carattere unitario” e quindi infrazionabili, interessate dal diritto europeo.
Continuando sulla strada seguita dalla Corte, certo, si sarebbe potuto arrivare alla conclusione che il regionalismo differenziato non avrebbe avuto alcun senso. Pare, nondimeno, difficile allontanare l’impressione che i limiti individuati pretoriamente abbiano di mira un risultato assai prossimo a quello appena paventato.
6. Oltre 100 pagine, 52 pronunce, un solo dispositivo. Quale “nucleo normativo” resta, dopo la “colegislazione” della Corte, anche ai fini dei referendum abrogativi
Una volta inquadrato il contenuto dell’art. 116.3 nella costellazione dei vincoli costituzionali, la sent. n. 192 si dedica alla risoluzione delle censure relative alla legge n. 86/2024. Anche in questo ambito, tuttavia, l’esame delle disposizioni legislative è stato preceduto da considerazioni di carattere generale, che hanno plasmato i contorni interpretativi di tutti i concetti fondamentali della Costituzione.
La Corte se ne occupa classificando i capitoli del “libro” sul regionalismo italiano a seconda che si tratti delle fonti di produzione e dei loro rapporti, della determinazione dei Lep, del sistema di finanziamento, della leale collaborazione.
I numeri aiutano a capire la singolarità della 192: nelle oltre 100 pagine di motivazione, la decisione ha restituito un dispositivo che contiene 52 pronunce, di cui 14 dichiarazioni d’incostituzionalità (6 accoglimenti secchi, 5 sostitutive, 1 additiva, 2 illegittimità consequenziali), 12 inammissibilità (motivate non solo in punto di rito, ma contenenti precisazioni esegetiche), 26 dichiarazioni di infondatezza (di cui almeno 3 interpretative di rigetto, relative ai punti qualificanti della disciplina).
Scendendo di piano, la demolizione della legge n. 86/2024 non ha tanto l’aspetto di una caducazione, quanto quello di una sua manipolazione interpretativa, frutto di una sorta di “co-legislazione” esercitata dal giudice costituzionale. La legge generale (la cui illegittimità “totale” è stata esclusa da tutti i profili censurati) è stata riscritta, nel senso che anche gli accoglimenti si sono risolti nella positivizzazione di contenuti normativi diversi da quelli originari.
Sulla base di questa considerazione, del resto, lo stesso Ufficio centrale per il referendum della Cassazione ha ritenuto – in applicazione analogica dell’art. 39 della legge n. 352 del 1970 – di trasferire il quesito abrogativo totale sul testo della legge risultante a seguito della sent. n. 192 (così come, parallelamente, ha dichiarato la cessazione delle operazioni per il quesito parziale, concernente il trasferimento di materie definite dalla legge “no-Lep” essendo stato raggiunto il risultato che anche per quegli stessi ambiti materiali la predeterminazione dei Lep consegue all’esistenza di funzioni concernenti diritti). È, pertanto, ragionevole ritenere, con la Cassazione, che il corpo elettorale poteva essere chiamato a pronunciarsi sulla perdurante vigenza di una legge generale sull’attuazione dell’art. 116.3 Cost., sia pure nella forma di “un nucleo normativo che non solo resta oggi formalmente vigente, ma vi resta convalidato nella interpretazione adeguatrice che ne è stata data”[4].
Questo non significa che il quesito sia pure ammissibile. La questione è in certo senso nuova: la Corte è chiamata a stabilire l’ammissibilità di un quesito totale su una legge che esse stessa, riscrivendola in alcuni punti, ha contribuito a rendere immune da vizi di costituzionalità[5].
La decisione di inammissibilità che è stata presa dalla Consulta, però, si spiega proprio in ragione della premessa che facevo. Avendo la sent. n. 192 deciso sulla compatibilità costituzionale del 116.3 Cost., l’oggetto del referendum è stato mutato, perché più che sulla legge n. 86/2024, il corpo elettorale sarebbe stato chiamato a pronunciarsi sulla norma costituzionale. Come in un “miracolo costituzionale” (quelli di cui parlava il decisionista Carl Schmitt) la legge di attuazione da facoltativa (la Corte ha escluso apertamente che sia una “legge necessaria”) è diventata “a contenuto costituzionalmente vincolato”. Non per nascita, ma per gli sviluppi successivi, prodotti dalla sent. n. 192[6].
7. Le singole pronunce di accoglimento. L’oggetto della differenziazione per “specifiche funzioni” e non per “intere materie”, tra illusione e realtà
L’effetto normativo della sent. n. 192 si è appuntato su alcuni nodi della legge: l’estensione alle regioni speciali (l’unica disposizione “palesemente” incostituzionale per evidente e chiarissimo contrasto con la lettera dell’art. 116 Cost.); l’oggetto della differenziazione (con la sostituzione delle “materie” con “specifiche funzioni”); la determinazione dei Lep (con l’annullamento della delega legislativa “in bianco”, dell’aggiornamento dei Lep mediante decreto del Presidente del Consiglio dei ministri e della procedura transitoria di determinazione dei Lep sempre mediante Dpcm); l’allineamento “fabbisogni-compartecipazioni” (sulla base del criterio della “spesa storica” anziché di quello dei “costi standard” o della “spesa efficiente”); il concorso delle regioni differenziate agli obiettivi di finanza pubblica (previsto come facoltativo anziché obbligatorio). Nessuna censura è stata accolta in materia di violazione del principio di leale collaborazione.
Se la prima decisione appariva scontata (tanto da sembra persino superfluo fare riferimento all’art. 10, legge cost. n. 3 del 2001, al fine di rintracciare una qualche ragione che potesse superare la “specialità” regionale, garantita mediante statuti approvati con legge costituzionale), le altre – quelle che hanno dato luogo ad altrettante decisioni di accoglimento – potevano dirsi controverse, e per nulla sicure (tutte quelle rigettate nel merito erano per me scontate).
Cominciamo dall’oggetto della differenziazione. Dopo aver escluso l’incostituzionalità dell’intera legge, la Corte ha annullato la disciplina positiva che disponeva trasferimenti indiscriminati, potenzialmente interessanti “tutte le funzioni di tutte le materie”.
Sulla decisione ha pesato l’esperienza delle prime intese, che avevano proprio questo contenuto (almeno quelle di Veneto e di Lombardia). Non era questo l’oggetto della causa petendi, però; anche se è difficile escludere che quel dato non fosse un “convitato di pietra” – anche perché la stessa legge rivitalizzava gli accordi già stipulati.
La Corte accoglie e sostituisce le “materie” con le “specifiche funzioni”, perché questo dato deriverebbe dal testo dell’art. 116.3 Cost.
Strana considerazione, se è vero che proprio quell’articolo parla di “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie (…)”. Formula che, evidentemente, ha generato un “equivoco” interpretativo (nella prassi e nel dibattito pubblico). Qui emerge lo iato creato dalla Corte tra il parametro e la legge: l’illegittimità di quest’ultima su tale punto discende dalla prima, ma per come essa è stata adeguata a Costituzione nella parte generale della sentenza, non certo per il suo tenore letterale.
Dal punto di vista positivo e applicativo, i trasferimenti riguardano sempre “funzioni”, non materie. In questi termini ne parlano gli artt. 116, 117, 118 e 119 Cost.; così si esprimono gli statuti speciali – il termine di comparazione più diretto con il regionalismo differenziato, stante la stessa fraseologia usata nell’art. 116 Cost. (cfr. ad es. art. 4, St. Friuli-Venezia Giulia: la regione “ha potestà legislativa nelle seguenti materie”; artt. 4 e 8, St. Trentino-Alto Adige). Lo stesso art. 1.2 della Legge n. 86 (oggetto di intervento manipolativo-sostitutivo) contempla “l’attribuzione di funzioni relative alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia (…) relative a materie o ambiti di materie (…)”.
Era, quindi, necessaria la precisazione della Corte? L’unica novità vera riguarda l’aggettivo “specifiche” funzioni, in effetti mancante nella formula legale (ma anche nel parametro!). Nondimeno: la precisazione impedisce che, trasferendo anche per “specifiche funzioni”, si arrivi comunque al risultato che si è voluto sterilizzare? Ossia che la devoluzione possa avere ad oggetto tutte le funzioni relative ad una o più materie indicate nel testo dell’art. 116.3 Cost. (al netto, ovviamente, dei limiti costituzionali individuati dalla Corte)?
Il merito della Corte è di avere colpito questa parte della disciplina per sgombrare il campo da ogni equivoco, imponendo trasferimenti solo per “specifiche funzioni”, che quindi vanno individuate di volta in volta, e – questo l’aspetto più rilevante che supera ogni dubbio – affinché con riferimento a ciascuna specifica funzione devolvibile vi sia una altrettanto specifica “giustificazione” della devoluzione.
Da questo punto di vista, ciò che viene aggiunto al testo della Costituzione è la necessità di una motivazione in termini di adeguatezza della differenziazione. Un trasferimento per “specifiche funzioni” purché “adeguato”.
8. Il “test di adeguatezza” e la “giustificazione sufficiente” contenuto della “motivazione” necessaria per la legge di autonomia differenziata
Giustificare per differenziare è il primo nodo da affrontare. Si tratta di un percorso ad ostacoli, a voler seguire l’indicazione della Corte, fatto dell’applicazione dei criteri di adeguatezza, del rispetto dei consistenti limiti costituzionali, dell’esperimento di una “idonea istruttoria”.
Sui primi la sent. n. 192 si dilunga assai. Il test di adeguatezza – che vale tanto per le parti dell’intesa, quanto ai fini del successivo eventuale giudizio di costituzionalità sulla legge rinforzata – sono individuati in valutazioni circa l’efficacia e l’efficienza ex art. 97 Cost., l’equità-eguaglianza ex art. 3 Cost., la responsabilità politica (nel quadro del “pieno rispetto” degli obblighi internazionali ed europei). Si chiarisce che la giustificazione dell’adeguatezza va fatta con riferimento alle caratteristiche della funzione e del contesto della devoluzione, previa “istruttoria approfondita” suffragata da “metodologie condivise, trasparenti e possibilmente validate dal punto di vista scientifico”. Infine, si indicano i vincoli da rispettare che, come anticipato, vanno da quelli generali del 117.1 Cost., alle materie trasversali come concorrenza, Lep, ordinamento civile, alle cd. “materie sospette” il cui trasferimento sarebbe “difficilmente giustificabile secondo il principio di sussidiarietà”.
Molti i dubbi che un simile discorso suscita. Il procedimento per la differenziazione esce ancora più complicato rispetto alla legge n. 86/2024.
Consideriamo l’idonea istruttoria, dalla quale dovrebbe emergere l’applicazione dei criteri di adeguatezza: chi dovrebbe svolgerla, e quando andrebbe fatta? La sent. n. 192 al p.n. 4.3. riferisce l’istruttoria all’iniziativa regionale che, quindi, dovrebbe esserne supportata. È evidente, tuttavia, che da sola la regione non sarebbe in grado di risolvere tutti i passaggi del test, anche perché l’adeguatezza non riguarda (non potrebbe) solo il contesto della richiedente (come sembrerebbe ritenere Lorenza Violini[7]), ma implica una visione di insieme che coinvolga direttamente anche lo Stato, attraverso il governo (non a caso nel p.n. 22.1 si evoca una “gestione più efficiente allo Stato”).
Non potrebbe essere altrimenti. Anche perché è lo Stato che deve trasferire le funzioni e le relative risorse; è lo Stato che deve determinare e garantire i Lep, e le relative risorse; e, quindi, è lo Stato che deve definire, insieme all’autonomia particolare della regione richiedente, anche il quadro delle grandezze organizzative che riguardano il resto del Paese (che deve poter andare avanti, nonostante la regione differenziata).
Non si dice, ma è come se la sent. n. 192 avesse imposto una “motivazione” sufficiente alla legge rinforzata (riaprendo il noto tema se la “legge” sia suscettibile di allegare una simile giustificazione).
9. Apologia della democrazia fondata sulla dialettica di unità-pluralismo e sulla centralità parlamentare: una legge di approvazione sostanziale delle intese e non un “prendere o lasciare”
Un ragionamento simile porta acqua al mulino del Parlamento, valorizzato nella sua funzione di rappresentanza degli interessi nazionali, senza colpire affatto il tenore della legge n. 86/2024, soltanto interpretando l’art. 116.3 Cost. nel quadro del sistema costituzionale. Pure stavolta non si rinuncia a sovrabbondanti argomentazioni retoriche. A volte contraddittorie.
Nella parte generale di questo “manuale” di diritto costituzionale e regionale, la Consulta sente il bisogno di partire ab imis, dalla definizione della democrazia italiana, fondata sulla dialettica di pluralismo e unità, precisando che essa “può essere mantenuta solamente se le molteplici formazioni politiche e sociali e le singole persone, in cui si articola il ‘popolo come molteplicità’, convergono su un nucleo di valori condivisi che fanno dell’Italia una comunità politica con una sua identità collettiva. In essa confluiscono la storia e l’appartenenza a una comune civiltà, che si rispecchiano nei principi fondamentali della Costituzione. A tutto ciò si riferisce la stessa Costituzione quando richiama il concetto di ‘Nazione’ (artt. 9, 67 e 98 Cost.)”.
In sostanza si postulano una serie di identificazioni: tra l’identità collettiva, la storia e la civiltà, la nazione, che costituirebbero un tutto. Il popolo (poco prima inteso come “molteplicità”) e la Nazione diventano, ora, unità non frammentabili, che postulano la “unicità della rappresentanza politica nazionale”.
Da qui opposte valutazioni: da un lato le modifiche costituzionali del 2001 “non permettono di individuare ‘una innovazione tale da equiparare pienamente tra loro i diversi soggetti istituzionali che pure tutti compongono l’ordinamento repubblicano, così da rendere omogenea la stessa condizione giuridica di fondo dello Stato, delle Regioni e degli enti territoriali’ (sentenza n. 365 del 2007)”; da un altro lato, la “ricchezza di interessi e di idee di una società altamente pluralistica come quella italiana non può trovare espressione in un’unica sede istituzionale, ma richiede una molteplicità di canali e di sedi…”. Ciò nondimeno, si aggiunge che “spetta, però, solo al Parlamento il compito di comporre la complessità del pluralismo istituzionale”. Anche se la tutela delle esigenze unitarie fa parte “dell’indirizzo politico della maggioranza e del Governo, nel rispetto del quadro costituzionale”, il Parlamento è il luogo del “confronto trasparente con le forze di opposizione”, che “permette di alimentare il dibattito nella sfera pubblica, soprattutto quando si discutono questioni che riguardano la vita di tutti i cittadini”. Sicché Il Parlamento “deve, inoltre, tutelare le esigenze unitarie tendenzialmente stabili, che trascendono la dialettica maggioranza-opposizione”, come dimostrano la riserva di competenza esclusiva “in alcune materie in cui siano curate esigenze unitarie”, e i compiti unificanti nei confronti del pluralismo istituzionale mediante i principi fondamentali delle materie di legislazione concorrente, le materie trasversali, la perequazione finanziaria.
Una simile scolastica, ma utile, apologia del Parlamento non poteva che condurre all’altrettanto ovvia deduzione – ovviamente dimenticata dalla maggior parte degli interpreti (comprese le regioni impegnate sulla differenziazione) – che la legge di approvazione delle intese non può essere un passaggio formale, ma un atto deliberativo sostanziale, perché l’art. 116.3 Cost. affida alle “alle Camere un ruolo centrale nella fase finale del procedimento” che si traduce in “un potere legislativo pieno” (p.n. 11.3), che può rimettere in moto il negoziato presupposto.
Del resto, solo a coloro che dimenticano la “nobile arte del distinguere” – tanto cara a Marco Cammelli[8] – poteva sfuggire che le regole degli artt. 8 e 116.3 Cost., per dirla con la n. 192, “pur essendo formulate in modo simile, si occupano di fattispecie eterogenee” (p.n. 5.5). L’avevo scritto in tempi non sospetti[9]. Inascoltato.
10. I limiti intrinseci della forma di governo parlamentare a garantire una differenziazione costituzionalmente adeguata e lo spostamento di potere dal Parlamento alla Corte costituzionale
Una considerazione a margine su quest’ultimo punto. Il discorso è ineccepibile in un manuale. Nella realtà delle nostre istituzioni di governo parlamentare è eccessivamente semplice. Ci consegna una visione elementare, in cui il governo è il contraltare del Parlamento, quando, invece, il governo è emanazione permanente di una maggioranza parlamentare, cui si contrappone, questa volta sì, una opposizione (l’una e l’altra spesso divise in diversi gruppi o partiti, ma questa è un’altra storia). E allora: la valutazione della giustificazione di una richiesta di regionalismo differenziato in termini di adeguatezza, l’apprezzamento sostanziale del Parlamento in sede di approvazione della legge rinforzata, come si conciliano con la realtà costituzionale del governo parlamentare? Un governo con una solida maggioranza può facilmente piegare la volontà parlamentare sull’uno e sull’altro fronte.
Da questo punto di vista, il disegno costituzionale, e la legge n. 86/2024, si presentano non adeguati alla rilevanza delle questioni connesse alla differenziazione negoziata, vieppiù di fronte alle corrette sollecitazioni della Consulta.
Sicché, le esigenze unitarie di cui il Parlamento dovrebbe essere il custode, sono destinate ad essere assorbite nell’indirizzo politico della maggioranza, ossia proprio il contrario di quanto vorrebbe farci credere la sent. n. 192. Un risultato comunque è stato ottenuto, ma non è la garanzia della “centralità parlamentare”, o di una dialettica maggioranza-opposizione equilibrata, de iure condito prive, entrambe, di adeguati sostegni.
Il controllo intorno all’adeguatezza del regionalismo differenziato da “politico” diventa “tecnico-giuridico”, nella misura in cui viene trasferito di fatto dalle aule parlamentari nella camera di consiglio della Corte costituzionale. Quel che emerge, anche dalla sent. n. 192, è la devoluzione al giudizio di costituzionalità della custodia del regionalismo differenziato. Non saranno le istituzioni politiche a svolgere quel test di adeguatezza di cui abbiamo detto; sarà la Corte costituzionale a farlo, sollecitata o in via incidentale o in via d’azione, caso per caso.
È una pellicola già vista. Come ricordano i regionalisti, il giudizio sull’interesse nazionale, che la Costituzione del 1948 – non la Consulta – aveva affidato al Parlamento era stato trasformato – dal giudice costituzionale – da un controllo successivo di merito politico a un “presupposto di legittimità” costituzionale del regionalismo. Siamo oggi nella stessa situazione, quindi, anche se nel mezzo c’è stata una revisione costituzionale, che aveva l’obiettivo di ridisegnare il volto della Repubblica delle autonomie a partire dalle istituzioni di governo politico, non per mezzo dell’iniziativa dei giudici.
Condivido, perciò, quanto dice Lorenza Violini[10], che le leggi di approvazione delle intese non saranno sorrette da nessun test preventivo di adeguatezza, e si limiteranno al mero trasferimento di funzioni e risorse, ieri come domani. Aggiungo, come detto, che tutto il resto, sulla adeguatezza della differenziazione, è stato riservato, da sé stessa, alla Corte costituzionale.
11. Il nodo della determinazione dei Lep. Illegittimità del meccanismo di determinazione (non della “necessità previa” dei Lep): una delega legislativa in bianco e l’incoerenza intrinseca dei Dpcm
Sul regionalismo differenziato grava la spada di Damocle dei Lep, la cui previa determinazione (in senso ampio, di “specificazione” degli standard e del relativo “finanziamento”, come si dirà) è la conditio sine qua non dei trasferimenti di “specifiche funzioni”. Questa previsione legislativa viene confermata e ulteriormente rilanciata dalla sent. n. 192. L’affresco che ne risulta, però, resta tutto da colorare.
Com’è noto, la legge n. 86/2024 affidava, a regime, la determinazione dei Lep ad una delega legislativa (art. 3), costruita per relationem, rinviando alla disciplina transitoria dettata dalla legge di bilancio per il 2023 (art. 1, commi 701-801-bis, l.n. 197/2022).
L’una e l’altra sono state dichiarate incostituzionali. La delega legislativa è caduta per l’insufficienza dei “criteri direttivi” richiamati a rispettare i canoni dell’art. 76 Cost., risolvendosi in un conferimento di poteri “in bianco” (sicché sono venuti meno, oltre al comma 1, anche i commi 2, 4, 5, 6, 10 dell’art. 3). Ciò avrebbe ulteriormente svilito la funzione di controllo del Parlamento, ampiamente valorizzata nei punti precedenti.
L’accoglimento è in linea con la premessa generale, che la differenziazione interessi “specifiche funzioni” e sia “giustificata adeguatamente”. Una delega per “numerose e variegate materie”, sostiene la Corte, mal si concilia col fatto che ogni materia “ha le sue peculiarità” e, quindi, che ognuna richiede “distinte valutazioni e delicati bilanciamenti”. In questa circostanza il legislatore non ha seguito neppure i precedenti, dato che, in passato, stabilire i Lep è stato fatto “in modo distinto per ciascuna materia” (così per i livelli di assistenza in materia sanitaria, per i Lep nei servizi sociali, nell’istruzione e nella formazione professionale).
Parallelamente, la Corte ha annullato sia la previsione dell’aggiornamento dei Lep mediante un Dpcm, per incoerenza intrinseca alla stessa norma, rispetto alla previsione di un atto legislativo primario per la loro determinazione (art. 3, c. 7); sia la determinazione dei Lep, nelle more dell’adozione dei decreti legislativi, sempre mediante Dpcm, per un’incongruenza sopravvenuta tra il regime transitorio e quello ordinario (art. 3, c. 9, con illegittimità conseguenziale sopravvenuta alla data di entrata in vigore della l.n. 86/2024 della disciplina contenuta nella richiamata legge di bilancio per il 2023).
12. Senza il meccanismo di determinazione dei Lep, una legge inapplicabile?
I dubbi che emergono in proposito sono diversi. Ci si può chiedere se, caduta questa disciplina, sia venuta meno la stessa possibilità di applicare la legge n. 86/2024 e, con essa, l’art. 116.3 Cost. Un argomento simile è stato speso da chi ha ritenuto inammissibile il referendum totale (dimenticando, però, che l’applicatività in concreto non rileva nel giudizio, perché, ai fini dell’abrogazione, conta la “vigenza” e, addirittura, come nel precedente sul referendum abrogativo della “scala mobile”[11], anche la non vigenza, se da essa possono derivare conseguenze giuridiche[12]).
L’intervento demolitorio è stato chirurgico: è stata annullata con effetto ex tunc la norma sulla delega legislativa (che, eventualmente, andrà riscritta seguendo le indicazioni della Corte), mentre il procedimento di adozione dei Dpcm è venuto meno “a decorrere da”, restando valido fino alla data di entrata in vigore della legge n. 86/2024. Il fatto che medio tempore, sulla base di quest’ultima disciplina, non siano stati adottati nuovi Dpcm sui Lep rende, di fatto, inapplicabile la regola della loro previa determinazione rispetto ai trasferimenti di funzioni.
Ciò impedisce l’iniziativa regionale ai sensi dell’art. 116.3 Cost.?
Come specificato anche dalla Corte, la legge generale non era necessaria, ma frutto di una libera e legittima decisione del legislatore. Anche per tale ragione, l’art. 116.3 Cost. va considerato autoapplicativo, non richiede l’interpositio legislatoris. C’è oggi, però, la legge di attuazione, manipolata in più punti dalla Corte, della quale resta un “nucleo normativo” vigente, ma non sul punto specifico della concreta possibilità di previa determinazione dei Lep. Dal ragionamento complessivo, pare desumersi che, mentre il trasferimento delle funzioni debba avvenire per specifiche funzioni, la determinazione dei Lep vada assicurata – analogamente a quanto accaduto nei casi citati (come la sanità) – “in modo distinto per ciascuna materia” (si noti la sfumatura concettuale, che distingue il trasferimento per “specifiche funzioni” e la determinazione dei Lep per “ciascuna materia”).
Ora, poiché la Corte ha affermato come regola generale che non sia sostenibile costituzionalmente la distinzione legale tra “materie Lep” e “materie no-Lep” (art. 3.3, interpretato, per questa parte, in modo conforme a Costituzione), per cui ogni qualvolta una funzione differenziata riguardi un diritto (civile o sociale) ciò impone allo Stato di stabilire i relativi livelli essenziali delle prestazioni prima della devoluzione, se ne deduce che i negoziati possono essere avviati e, direi anche, che l’intesa può essere stipulata (anche perché come fa lo Stato a sapere se deve fissare i Lep?), fermo restando che l’approvazione per legge non può esserci finché lo Stato non ha determinato i Lep (con le relative risorse) nelle materie su cui insistono le specifiche funzioni richieste dalla regione. Ne consegue, quindi, che ad impedire l’attuazione dell’art. 116.3 Cost. non è tanto il venir meno della delega e della disciplina transitoria (il meccanismo), quanto soprattutto il criterio normativo che ha stabilito l’ordine temporale tra determinazione dei Lep e trasferimento delle funzioni.
13. Come stabilire i Lep, tra legge e dpcm. La strada dei livelli di assistenza sanitaria. Lep e funzioni caso per caso
Sul meccanismo di determinazione dei Lep vale la pena di insistere. Com’è noto la critica maggiore concerne la scelta di stabilire i Lep mediante Dpcm in violazione della riserva legislativa rinvenuta nell’art. 117.2, lett. m). Dopo la sent. 192, quella tesi ha avuto un riconoscimento? Non sarei sicuro a rispondere affermativamente[13].
Come detto, la Corte ha fatto cadere la delega legislativa per insufficienza dei criteri direttivi e ha censurato la concorrenza di fonti eterogenee (primarie e secondarie) nella stessa materia, ma non ha detto né che l’atto legislativo è necessario, né che un Dpcm è uno strumento inadeguato. Proprio il riferimento alla consolidata esperienza dei Lea in materia sanitaria, previsti dalla legge n. 502 del 1992 e specificati nei relativi patti intergovernativi (l’ultimo risale al 2008) e in appositi Dpcm, fa ritenere duplicabile questo schema misto di intervento anche in altre circostanze.
L’art. 117.2 lett. m) è una norma attributiva di una competenza legislativa, nel quadro del riparto dei poteri di normazione primaria tra lo Stato e le regioni: non è una riserva di legge e, comunque, non si risolve in una riserva assoluta di legge. È con atto legislativo statale che vanno determinati i Lep, ma ciò non impedisce che entro una chiara e definita cornice legale, la specificazione delle singole prestazioni possa essere fatta con una fonte secondaria, come il Dpcm. Come di norma avviene in materia di tutela della salute.
Nel nostro caso, dopo la n. 192, la maggioranza parlamentare potrebbe riscrivere il procedimento di delegazione legislativa, risolvendo i vizi emersi nella presente decisione. Non penso sia necessario (e neppure opportuno) ormai, proprio perché la sent. n. 192, nell’imporre i Lep “in modo distinto per ciascuna materia”, consiglia di procedere in concreto e caso per caso, in relazione alle funzioni oggetto di un’iniziativa regionale, piuttosto che per mezzo di una delega generale, pure articolata per specifiche materie. Insomma, quel che emerge dalla decisione n. 192 è la necessità che la determinazione dei Lep preceda la devoluzione, che le rispettive attività sono strettamente collegate, a partire dal giudizio di adeguatezza che devono sorreggere entrambe, ma pure perché, tanto l’una che l’altra, sono soggette ai criteri di specificazione e di determinatezza.
14. Concetto dei Lep. Differenza tra contenuto minimo di un diritto (right security) e Lep (right safey). Il nodo della condizionalità finanziaria dei Lep e il diritto alle risorse corrispondenti
È sulla qualificazione dei Lep che la sentenza offre spunti al contempo interessanti e problematici. Si riducono i margini di incertezza che avevano, come una nebbia, offuscato il dibattito e la stessa codificazione sulla differenziazione.
I Lep sono correttamente inquadrati come il risultato di una decisione politica che la Costituzione affida al legislatore statale e si risolvono in standard uniformi relativi alle prestazioni necessarie in materia di diritti da garantire in tutto il Paese “tenendo conto delle risorse disponibili”. Essi “implicano una delicata scelta politica, perché si tratta – fondamentalmente – di bilanciare uguaglianza dei privati e autonomia regionale, diritti e esigenze finanziarie e anche i diversi diritti fra loro” (p.n. 9.2; p.n. 14).
Se nella pregressa giurisprudenza era difficile separare i Lep dal “contenuto minimo” di un diritto – i due concetti, anzi, potevano dirsi confusi – nella 192 si compie uno sforzo per precisarne i confini (anche se non fino in fondo).
Dai lavori preparatori della legge cost. n. 3/2001 la Corte trae che la formula “livelli essenziali delle prestazioni” è stata preferita a quella dei “livelli minimi di garanzia” proprio perché si voleva così “assicurare uniformità dei diritti fondamentali” in tutto il Paese; assicurare, cioè, “se possibile uno standard di tutela superiore al nucleo minimo del diritto, in collegamento (per quel che riguarda i diritti sociali) con l’art. 3, secondo comma, Cost., che affida alla Repubblica il compito – di più ampio respiro rispetto all’erogazione delle prestazioni minime – di ‘rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Se ben intendo, si è così introdotta una distinzione tra due tipi di garanzia dei diritti fondamentali. Posso tradurla utilizzando i due concetti inglesi di “sicurezza” (security e safety): la tutela minima ovvero sufficiente di un diritto (right security); la tutela essenziale o adeguata di un diritto (right safety). La prima è consustanziale alla nozione stessa di diritto, sicché mancando la tutela del contenuto minimo non c’è neppure un diritto. La seconda, che presuppone che la prima condizione sia stata soddisfatta, implica una garanzia del diritto adeguata in ragione della natura del diritto (civile o sociale, individuale o collettivo), e del contesto di riferimento (sociale, economico, politico).
Riletta, l’argomentazione, in questi termini, si spiegano meglio le conseguenze che la Corte ne trae.
La prima. Dalla distinzione concettuale deriva la risoluzione della problematica circa la sostenibilità finanziaria. Posto che la garanzia dei diritti implica (sempre) costi economico-finanziari a carico della collettività, il contenuto minimo proprio perché diretto alla right security va necessariamente garantito e, quindi, non può essere condizionato da considerazioni di carattere finanziario (secondo la formula giurisprudenziale, fortunata, ma che solo così può assumere un senso razionale, per cui “è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione”: sentt. nn. 275/2016, 152/2020, 309/1999). I Lep, viceversa, in quanto diretti alla right safety, a realizzare un’adeguata protezione di un diritto, sono discrezionali, frutto di decisioni politiche, condizionate dalle risorse economico-finanziarie disponibili.
La seconda conseguenza riguarda il rapporto tra i Lep e l’autonomia regionale. La Corte spiega che mentre il contenuto minimo costituisce “un limite derivante dalla Costituzione” che va garantito dallo stesso giudice costituzionale “anche nei confronti del legislatore statale, a prescindere da considerazioni di carattere finanziario”, i Lep “sono un vincolo posto dal legislatore statale, tenendo conto delle risorse disponibili, e rivolto essenzialmente al legislatore regionale e alla pubblica amministrazione; la loro determinazione origina, poi, il dovere dello stesso Stato di garantirne il finanziamento”. Come viene ribadito più avanti, dalla determinazione dei Lep, deriva per le regioni differenziate il “diritto” a ricevere le risorse sulla base del principio costituzionale di corrispondenza (art. 119.4 Cost.).
15. Dopo la sentenza 192, due modelli di finanziamento del regionalismo: a) la “forma” costituzionale “ottimale”
Da queste affermazioni, i dubbi. Se i Lep sono frutto di scelte non imposte dalla Costituzione, ma dipendenti dall’indirizzo politico di maggioranza in ragione delle risorse disponibili, non si comprende per quale ragione essi devono essere necessariamente predeterminati nel caso della differenziazione. O sono necessari o sono facoltativi.
Ragioni di opportunità, quindi, giustificano la scelta del legislatore (nel 2022 e nel 2024), e della stessa Corte costituzionale, di contemplarne la determinazione ex ante rispetto alla devoluzione di specifiche funzioni. Per la Corte “nel momento in cui il legislatore statale conferisce una maggiore autonomia a una determinata regione con riferimento a una specifica funzione, che implica prestazioni concernenti diritti civili o sociali” deve “previamente determinare uno standard uniforme di godimento del relativo diritto in tutto il territorio nazionale, in nome del principio di solidarietà (…). La determinazione dei Lep (e dei relativi costi standard) rappresenta in necessario contrappeso della differenziazione, una ‘rete di protezione’ che salvaguarda condizioni di vita omogenee sul territorio nazionale”.
La domanda lecita è: a che cosa serve la differenziazione, se quel che una regione chiede, con riferimento a funzioni Lep, deve essere garantito su tutto il territorio nazionale? E se i Lep vanno comunque garantiti, essendo una “spesa obbligatoria”, quale sarebbe l’interesse della regione richiedente in questo scenario? Solo quello di poter disporre di autonomia piena in ordine ad “altre funzioni”, diverse da quelle interessate dai Lep?
L’interpretazione della Corte va poi inquadrata nel sistema (cosa che non mi pare faccia fino in fondo la sent. n. 192)
Nel regime ordinario della Costituzione (l’ottimo secondo la qualificazione della sentenza) i Lep possono essere stabiliti dal legislatore statale ex ante o ex post e, qualora lo fossero, costituiscono un limite al potere di conformazione dei diritti riconosciuto alle regioni nelle materie di propria competenza. Secondo il combinato disposto degli artt. 117, 118 e 119 Cost. è lo Stato che “determina” i Lep che, se tagliano trasversalmente materie regionali, sono le regioni a dover garantire, sulla base delle risorse disponibili in base al proprio bilancio.
Ecco perché, nel modello disegnato dal nuovo titolo V, le regioni e le altre autonomie territoriali dovrebbero disporre di fonti di finanziamento adeguate a coprire le spese relative alle attribuzioni assegnate dalla Costituzione (tributi ed entrate proprie, compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio, fondo perequativo senza vincolo di destinazione) o dagli statuti speciali. La mancata attuazione del cd. federalismo fiscale ha lasciato sulla carta questo aspetto fondamentale. Ma non è venuto meno il criterio costituzionale per cui la responsabilità finanziaria dei Lep segue il criterio di riparto delle competenze (chi ha la competenza normativa ha anche il potere-dovere di spesa).
Nel caso del regionalismo differenziato, proprio il richiamo al “rispetto dei principi di cui all’articolo 119”, implica l’applicazione di un analogo criterio: delle “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” rispondono finanziariamente le regioni richiedenti, cui spetta la copertura delle spese dei Lep stabiliti o prestabiliti dal legislatore statale. Anche l’art. 116.3 Cost., dunque, implica l’attuazione dell’art. 119 Cost., senza il quale non l’autonomia differenziata, ma l’autonomia territoriale è sostanzialmente un flatus vocis.
È da questo, non insignificante, particolare che nascono molte delle contraddizioni della legge n. 86/2024 e, a cascata, della sent. n. 192 (che ne segue la logica “distorta” rispetto al Titolo V). Le regioni che hanno chiesto la differenziazione hanno preteso la corresponsione di risorse adeguate al finanziamento delle nuove competenze, Lep compresi. Per puntellare questo percorso si è “inventato” il criterio della previa determinazione dei Lep rispetto al trasferimento delle funzioni, prima nella legge di bilancio per il 2023, poi nella legge 86/2024 e, quindi, confermato dalla stessa Corte costituzionale. Da questa premessa sono derivate le nuove regole sul finanziamento dei Lep (e delle altre funzioni devolute), che finiscono per disegnare un regime in deroga rispetto al modello costituzionale.
16. (Segue): b) le “variazioni sul tema” contenute nella legge generale come manipolata dalla Corte costituzionale: finanziamento dinamico dei Lep, invarianza della compartecipazione
Vediamo il regime del finanziamento che emerge dalla sent. n. 192. In ordine alle disposizioni finanziarie, la Corte costituzionale ha sostanzialmente salvato l’impianto complessivo, avvalorandolo. Com’è noto, la legge n. 86/2024 prevede per la sua attuazione l’invarianza della spesa pubblica; contempla la copertura delle spese relative ai Lep in ragione dell’aumento dei costi; individua genericamente nella “compartecipazione” (il 119 Cost. dice: “al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale”) la fonte di finanziamento della differenziazione, aggiungendo la possibilità di un suo allineamento al variare della spesa relativa; assicura genericamente alle “regioni terze” la garanzia della invarianza finanziaria e della perequazione (art. 4, 5, 9).
Due sole sono state le disposizioni annullate: la norma sull’allineamento tra i fabbisogni e le aliquote delle compartecipazioni, perché riferita al criterio non efficiente e deresponsabilizzante della “spesa storica” (art. 8.2: illegittimità “secca”; la Corte ricorda che non c’è traccia di un simile allineamento nell’art. 119 Cost., aggiungendo che, comunque, potranno essere previsti “aggiustamenti” delle compartecipazioni in via straordinaria, purché regolati dalle leggi rinforzate e all’interno di un trasparente processo che coinvolga anche il Parlamento); cade, poi, la norma sulla mera facoltatività anziché sulla “doverosità”, per le regioni differenziate, di “concorrere agli obiettivi della finanza pubblica” (art. 9.4: pronuncia sostitutiva).
Il presupposto di questo magro bottino (rispetto alla mole delle censure regionali, in larga parte rigettate) è la lettura adeguatrice dell’impianto finanziario della legge n. 86/2024.
La previsione sulla “invarianza finanziaria” dell’attuazione è ritenuta “coerente” con la ratio dell’art. 116.3 Cost. laddove impone una differenziazione “funzionale a migliorare gli apparati pubblici, ad assicurare una maggiore responsabilità politica e a meglio rispondere alla attese e ai bisogni dei cittadini, in attuazione del principio di sussidiarietà”. Ne consegue, per un verso, che il trasferimento delle funzioni deve avvenire senza aumentare la spesa o riducendola; per altro verso, che il criterio deve essere quello per cui i relativi costi vanno depurati delle “inefficienze” (“come può essere il costo e il fabbisogno standard, da applicare se la funzione attiene ad un Lep”).
Questa premessa generale sulla “gestione efficiente” porta la Corte ad escludere dalla legittimità prescritta dall’art. 116.3 Cost. il riferimento alla “spesa storica”; nonché ad imporre, alle intese, di tener conto del “quadro generale della finanza pubblica, degli andamenti del ciclo economico, del rispetto degli obblighi eurounitari[14], anche alla luce del nuovo sistema di governance”.
Su questa scena non potevano continuare ad insistere le due previsioni ricordate e per questo annullate. Posso aggiungere che, proprio sul mancato rispetto dei vincoli di bilancio, avevo previsto il vulnus più grave della legge n. 86/2024[15].
L’invarianza della spesa, tuttavia, non riguarda il finanziamento dei Lep. Qui la sentenza valorizza la disciplina positiva laddove distingue la spesa per i Lep e la spesa per le altre funzioni devolute: mentre le variazioni dei costi dei Lep (in aumento) implicano la relativa copertura e il trasferimento delle funzioni correlative potrà avvenire solo ex post, dopo aver trovate le risorse corrispondenti, le altre funzioni sono soggette all’invarianza della spesa.
Uno dei problemi[16] che pone un simile argomento è come conciliare un trasferimento “a costo zero” e l’invarianza quale metro della compartecipazione ai fini della “neutralità” finanziaria, con la flessibilità dei costi previsti per i Lep.
Il quadro normativo risultante dalla sentenza disegna due sistemi di finanziamento paralleli? Uno (ma quale sarebbe?) per le funzioni Lep (permeabile all’aumento dei costi), l’altro per le altre funzioni (mediante compartecipazioni vincolate all’invarianza)? Se, invece, il sistema fosse unico, dipendente solo dalla compartecipazione, come si concilia l’invarianza della spesa con il fatto che essa comprende anche quella, suscettibile di essere aumentata, dei Lep? L’aumento della spesa essenziale per i Lep dovrà comportare ulteriori trasferimenti di risorse adeguate? Pare difficile escluderlo.
Sulla compartecipazione “a costo zero” molto si potrebbe dire: fra le tante critiche, quella più consistente deriva proprio dalla motivazione. Prodromico alla differenziazione è il giudizio di adeguatezza, che comprende anche la valutazione dei costi secondo il criterio della gestione efficiente. Ciò significa che la compartecipazione da destinare alla regione differenziata, per essere efficiente, equa, responsabile, dovrà essere determinata al netto della spesa statale per le funzioni trattenute, per quelle che vanno garantite a tutte le regioni terze, nonché al netto della spesa per i Lep da garantire sempre per tutto il resto del Paese. Che dire: un “vasto programma”.
Vorrei aggiungere, ma non posso approfondire, che il concetto di compartecipazione usato dalla sent. n. 192 non ha quasi nulla a che vedere con quello dell’art. 119.2 Cost.: qui si parla di uno strumento variabile perché calibrato sul diverso gettito espresso dal territorio regionale di riferimento, un mezzo di “sperequazione finanziaria” che, insieme alla potestà tributaria regionale (e alle entrate), giustifica, nella logica dell’art. 119 Cost., la perequazione ordinaria mediante il fondo senza destinazione “per i territori con minore capacità fiscale per abitante”. Nella sent. n. 192, invece, le compartecipazioni sono molto più simili alle “quote di tributi erariali” previste dal vecchio art. 119 Cost.: trasferimenti di risorse predeterminate e tendenzialmente fisse.
17. Una sintesi sul postulato di una “gestione efficiente” della differenziazione: una soluzione impossibile?
Provo a riassumere il quadro dopo la sent. n. 192. La differenziazione regionale potrebbe avvenire alle seguenti condizioni:
a) mediante trasferimenti per “specifiche funzioni”;
b) se toccano diritti (civili e sociali) il trasferimento è subordinato alla determinazione previa dei Lep (non ha più alcun rilievo la distinzione “materie Lep” e “materie no-Lep”);
c) la garanzia dei Lep costituisce un vincolo per le regioni differenziate;
d) lo Stato deve: 1) determinare i Lep; 2) individuare le risorse corrispondenti secondo il criterio del “costo standard”, adeguando la spesa alle variazioni (in aumento), il tutto nei limiti dell’equilibrio di bilancio e dei vincoli europei;
e) con riferimento ai Lep, così determinati, lo Stato deve trasferire le risorse alla regione differenziata al netto di quelle necessarie a garantirli per tutte le altre regioni che non accedono alla differenziazione (risorse trattenute, che vanno ad aggiungersi a quelle relative alle funzioni, diverse dai Lep, anch’esse mantenute dallo Stato nelle materie in cui insistono quelle altre funzioni trasferite alla regione differenziata);
f) lo strumento da cui attingere le risorse (per le funzioni differenziate, attinenti ai Lep o alle funzioni no-Lep) sono le compartecipazioni (la cui determinazione è tutta da costruire: non essendo stata definita né nella legge n. 86 né nella sent. n. 192);
g) le compartecipazioni devono garantire l’invarianza della spesa e la gestione efficiente;
h) le politiche di bilancio della regione differenziata, quindi, sul lato delle spese, conosceranno due regimi: una spesa necessaria per i Lep (le relative risorse, trasferite dallo Stato, saranno perciò a destinazione vincolata, com’è oggi per la spesa sanitaria), una spesa discrezionale per le altre funzioni (diverse dai Lep);
i) per le regioni terze, invece, la garanzia dei Lep, relativi alle funzioni devolute alla regione differenziata, continuerà ad essere assicurata dallo Stato.
Si tratta di un “sistema” veramente complesso. Allora, davvero l’ultima domanda è questa: prima ancora di chiedersi se tutto ciò, dopo la sent. n. 192, sia effettivamente realizzabile (politicamente e giuridicamente), quello qui rappresentato, frutto di una funzione colegislativa della Corte costituzionale, rappresenta esso stesso un “modello” (ammesso che si possa usare questo termine) per una “gestione efficiente” della nostra Repubblica?
Non avevamo bisogno di quest’ultima, sia pure importante, decisione della Corte costituzionale per prendere coscienza del fatto che, allo scopo di realizzare il nuovo titolo V, mancano alcuni presupposti fondamentali, che non possono certo dirsi inverati, se si continua a pensare – come si è fatto dal 2001 ad oggi – che, per costruire una “casa ben ordinata” (la Repubblica delle autonomie), si deve cominciare dal tetto (procedere ad una differenziazione, caso per caso, senza alcun quadro generale, positivizzato ed effettivo, di riferimento funzionale e finanziario), anziché dalle fondamenta (trasferire funzioni e risorse in via ordinaria a tutte le regioni e agli enti locali).
[1] Denuncia la “tendenza della Corte a superare la lettera del Titolo V” confermata in questa sentenza, bollata di “una certa artificiosità dell’operazione interpretativa” C. Pinelli, Perché la disciplina dell’autonomia differenziata non va intesa come “una monade isolata” (Osservazione a Corte cost. n. 192 del 2024), in www.diariodidirittopubblico.it, 23 dicembre 2024.
[2] Ho trattato funditus del tema dell’allocazione delle risorse come presupposto dell’autonomia nel mio studio Il sistema finanziario e tributario della Repubblica. I principi costituzionali, Bologna, Bononia University Press, 2021 (open access: https://buponline.com/prodotto/il-sistema-finanziario-e-tributario-della-repubblica/). Sull’argomento ritorna G. Rivosecchi, Regioni, finanza, livelli essenziali e principio democratico, www.lecostituzionaliste.it, ottobre 2024.
[3] Cfr. A. Morrone, Il regionalismo differenziato. Commento all’art. 116, comma 3, della Costituzione, in “Federalismo fiscale”, 2007, 139 ss.
[4] Ucr, ord. 12 dicembre 2024.
[5] Riprendendo una tesi di S. Ceccanti (da ultimo: Sulla legge Calderoli agisca il Parlamento, in “QN – Nazione-Il Resto del Carlino-Giorno”, 20 gennaio 2025) anche A. Poggi, Il referendum sul regionalismo differenziato: i principi, l’attuazione, le Corti e la sovranità popolare, www.federalismi.it, 1 gennaio 2025, ha sostenuto l’inammissibilità per mutamento dei principi e inapplicabilità della legge oggetto del referendum totale. Per l’ammissibilità, invece, L. Castelli, Divagazioni sparse intorno all’ammissibilità del referendum sulla legge Calderoli, www.diariodidirittopubblico.it, 7 gennaio 2025.
[6] Si è detto tra l’altro che se di difetto di chiarezza si deve discutere “qui non sarebbe dovuto alla mano dei promotori bensì a quello della stessa Corte”: A. Ruggeri, Dopo la pronuncia della Cassazione, il referendum “totale” sulla legge 86 del 2024 cambia pelle, convertendosi in…parziale, www.dirittiregionali.it, 16 dicembre 2024.
[7] L. Violini, Alcune considerazioni sulla sentenza nr. 192/2024 della Corte costituzionali, in www.lecostituzionaliste.it.
[8] M. Cammelli, Istituzioni deboli e domande forti, ora in Id., Amministrazioni pubbliche e nuovi mondi, 2019, Bologna, 267 e ss.
[9] A. Morrone, Il regionalismo differenziato. Commento all’art. 116, comma 3, della Costituzione, cit.
[10] L. Violini, op. cit.
[11] Corte cost. sent. n. 35/1985.
[12] Sul punto rinvio ai miei studi: A. Morrone, La Repubblica dei referendum. Una storia costituzionale e politica (1946-2022), Bologna, Il Mulino, 2022.
[13] Non convince la tesi di C. Buzzacchi, Pluralismo, differenze, sussidiarietà ed eguaglianza: dalla sentenza n. 192 del 2024 il modello per il sistema regionale “differenziato”, in www.astridrassegna, n. 18/2024, secondo cui la sent. n. 192 avrebbe preservato “in maniera completa” la competenza del Parlamento sui Lep.
[14] Una prece: smettiamo di parlare di diritto “eurounitario”, di obblighi “eurounitari”. Il concetto è sbagliato, sia perché non c’è ancora una “unità” in Unione europea, sia perché l’aggettivo qualificativo giuridicamente corretto è “europeo/a”: Unione europea, diritto europeo, obblighi europei…!
[15] A. Morrone, Differenziare le regioni senza un disegno di Repubblica, in Nuove Autonomie, 2024, 219 ss.
[16] Per una analoga critica su questo punto debole della decisione C. Buzzacchi, op. cit.
Etica e deontologia nella professione del magistrato
di Gabriella Luccioli
Sommario: 1. L’etica e la deontologia dei magistrati. 2. I principi di imparzialità e indipendenza. 3. L’apparenza dell’indipendenza. 4. Il codice etico dei magistrati. 5. L’etica nella motivazione delle sentenze. 6. La questione del linguaggio. 7. Conclusioni.
1. L’etica e la deontologia dei magistrati
Ogni volta che la Scuola mi invita a parlare ai m.o.t. di etica e di deontologia avverto il peso di una grande responsabilità: la responsabilità di affidare a giovani che stanno per ricevere le funzioni giurisdizionali il messaggio giusto, di trovare parole che lascino il segno, le parole – tra le tante che possono dirsi parlando di etica e di deontologia – più efficaci a trasmettere un’idea di magistrato conforme al modello delineato in Costituzione. E questo senso di responsabilità si fa tanto più forte nell’attuale momento storico, in cui la magistratura sta affrontando il livello più basso di stima e di credibilità nel nostro Paese ed è oggetto di proposte di riforma tese a limitarne l’indipendenza.
A tale responsabilità non ho mai voluto sottrarmi, perché sono convinta della necessità di parlare a coloro che hanno appena vinto il concorso di deontologia prima ancora che di diritto[1], perché il rispetto delle regole deontologiche è condizione della credibilità del magistrato, perché credo che per superare la crisi che ci affligge e recuperare la fiducia che tanti cittadini ci negano sia indispensabile l’impegno di ciascuno ad esercitare al meglio le proprie funzioni e ad assumere un modello professionale che sappia coniugare preparazione, sobrietà, umanità, in adesione ai valori costituzionali dell’imparzialità, dell’indipendenza, della disciplina e dell’onore.
Proverò quindi a svolgere alcune riflessioni che, lontane da ogni moralismo, trovano aggancio nei principi costituzionali, ed in particolare nei principi di imparzialità e indipendenza, perché è la Costituzione che delinea lo statuto costituzionale del magistrato e che integra la prima fonte degli imperativi etici.
Cercherò di evitare le astrazioni, spesso ricorrenti quando si parla di etica, per soffermarmi su aspetti concreti dell’operare del magistrato.
2. I principi di imparzialità e indipendenza
Imparzialità e indipendenza sono nozioni concettualmente distinte, attenendo la prima alla posizione del magistrato in relazione a singole vicende giudiziarie e la seconda al rapporto tra ordine giudiziario e altri poteri dello Stato, ma entrambe costituiscono il fondamento della deontologia del magistrato.
All’imparzialità si riferisce l’art. 111, comma 2, Cost., che prevede il contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale; tale disposizione va letta in stretta connessione da un lato con il disposto dell’art. 54, comma 2, che fa carico a tutti i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche, in aggiunta al dovere generale di fedeltà alla Repubblica, di adempiere a dette funzioni con disciplina e onore, dall’altro lato con il principio di soggezione del giudice soltanto alla legge, di cui all’art. 101, comma 2. Va inoltre richiamato l’art. 97, comma 2, che trova applicazione anche in ambito giudiziario e che impone a tutti coloro cui sono affidate funzioni pubbliche di assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.
Il principio di indipendenza è sancito dall’art. 104, comma 1, secondo il quale la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, e dall’art. 107, comma 3, il quale dispone che i magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni. A tutela del valore supremo dell’indipendenza l’art. 98, ultimo comma della Costituzione sancisce che si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati. In adesione a tale previsione l’art. 3, comma 1, lett. h), del d.lgs. n. 109 del 2006 ha configurato come illecito disciplinare l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici.
A livello sovranazionale mi limito a richiamare come disposizioni di riferimento l’art. 10 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, l’art. 6, comma 1, della CEDU e l’art. 47, comma 2, della Carta di Nizza.
Nel dare concretezza a tali concetti mi preme chiarire innanzi tutto che imparzialità non vuol dire lontananza o indifferenza alle vicende politiche e alle questioni di rilevanza sociale che investono il Paese, perché un magistrato non attento al dibattito politico e culturale e disinteressato ai temi della giustizia sociale e della democrazia, un magistrato asceta, ove pure esistesse, non sarebbe un buon magistrato e neppure un buon cittadino. Il magistrato non è e non deve essere soltanto un tecnico che fa buon uso del ragionamento sillogistico, ma è una persona che ha le sue convinzioni politiche e i suoi orientamenti culturali, che acquista alcuni e non altri giornali, e che nel momento in cui giudica non può spogliarsi del proprio mondo interiore e della propria scala di valori[2]. Il modello di riferimento non può essere quello che Marco Ramat definiva magistrato di clausura, che come le suore vive nel chiosco e in tal modo si protegge da ogni contaminazione, o quello portatore di una coscienza solitaria ed autosufficiente, separata dal mondo che lo circonda. Si delinea pertanto il profilo per certi aspetti paradossale di un magistrato che è immerso nelle dinamiche politiche, culturali e sociali, ma nello stesso tempo deve essere rigorosamente terzo rispetto ad esse.
Se allora imparzialità non significa assenza di pensieri, occorre intercettare un diverso significato della parola, che recepisca e rispetti i valori di terzietà, di parità, di solidarietà, di dignità delle persone che innervano la nostra Costituzione: occorre insomma riferire l’imparzialità alle parti del giudizio e ai loro contrapposti interessi, e non ai valori in gioco nel processo.
Ciò vuol dire operare con la massima onestà intellettuale, assicurare il rigoroso rispetto delle garanzie processuali ed attenersi saldamente al principio di soggezione soltanto alla legge, ricercando la verità nelle singole vertenze poste al proprio esame, valutandole con il loro carico di umanità e nella loro specificità ed unicità, senza trascurare il contesto giuridico e sociale in cui si manifestano, restando sempre immuni da vincoli esterni e da influenze che possono indurre a decidere in modo diverso da quanto suggerito dalla propria scienza e coscienza.
Vuol dire quindi mantenere salda durante il processo la determinazione a decidere solo sulla base delle prove legittimamente acquisite, liberandosi da preconvincimenti o pregiudizi che alterano l’oggettività del giudizio.
Ma che cos’è il pregiudizio?[3] Possiamo identificare il pregiudizio in un atteggiamento interiore, in un preconcetto culturale privo di fondamento scientifico che deve essere rimosso attraverso la sua percezione e la messa in discussione delle ragioni sulle quali presume di fondarsi. Se ne occuparono Voltaire e D’Holbach, e prima ancora Bacone e Cartesio. Norberto Bobbio lo considerava un errore più tenace e più pericoloso di qualsiasi errore di opinione, a causa della sua resistenza ad essere sottoposto al controllo della ragione. In quanto giudizio emesso prima, esso deve innanzi tutto essere percepito nella sua esistenza e poi razionalmente demolito, così che al pregiudizio si sostituisca il giudizio.
Il mio pensiero al riguardo non può non andare innanzi tutto al gender bias, il pregiudizio di genere, oggetto già dagli inizi degli anni ’80 del secolo scorso di analisi e di riflessioni negli USA: specifiche ricerche sul campo hanno messo in evidenza quanto sia forte nel sistema statunitense l’influenza del gender bias in tutti i tipi di processi e quanto tale fenomeno richieda di essere messo in luce e denunciato.
L’imparzialità va quindi identificata in quella posizione che rifiuta atteggiamenti partigiani o settari o ripiegamenti sul pensiero dominante, che prende le distanze da ogni valutazione che sia altra dall’accertamento dei fatti e dalla ricerca delle cause che in un determinato contesto li hanno determinati.
Imparzialità vuol dire inoltre disponibilità all’ascolto e alla considerazione di tutte le opinioni, anche di quelle più lontane dalle proprie, nonché accettazione sul piano epistemologico del carattere probabilistico, e non assoluto, della verità processuale, e quindi consapevolezza che la sentenza che reca la propria firma è una sentenza solo tendenzialmente giusta, in quanto condizionata dai limiti posti dal rito e dal quadro probatorio acquisito e corroborata da una motivazione plausibile. Ciò comporta avere ben presente il senso e il limite della funzione svolta e possedere una solida cultura della giurisdizione.
Questo significa coltivare il valore dell’umiltà, ricordando le parole di Piero Calamandrei: Signori giudici, il vostro potere è così grande che l’umiltà per voi è il prezzo dovuto perché siate legittimati ad esercitarlo.
Vuol dire ancora, secondo l’insegnamento di Luigi Ferrajoli[4], coltivare l’etica del dubbio, da assumere come aspetto fondamentale della deontologia giudiziaria, come abito mentale da non dismettere mai, rifiutando ogni tipo di arroganza o supponenza nell’attività investigativa ed in quella valutativa, rendendosi sempre pronti a rivedere le proprie opinioni, perché l’errore è sempre possibile.
Vuol dire altresì porsi di fronte all’imputato come di fronte ad un soggetto che forse ha sbagliato, ma che deve considerarsi innocente fino all’accertamento definitivo della sua colpevolezza e che deve essere giudicato per quanto ha commesso, e non per come è, in quanto si giudica il fatto, e non la persona.
Significa anche prendere le distanze dai verdetti popolari governati dall’emotività, in una degenerazione massmediatica del processo penale e in una spettacolarizzazione dei più eclatanti fatti di cronaca tesa ad individuare subito un colpevole e orientata a ritenere che soltanto se poi arriva una condanna giustizia è fatta.
In questa prospettiva va gestito il delicato rapporto con le vittime e con le parti civili: essere imparziale comporta assumere un atteggiamento di comprensione e di attenzione nei loro confronti, ma anche di pacato distacco, atteso che essi, devastati dalla sofferenza loro inflitta, si aspettano dal p.m. e dal tribunale verdetti di condanna rapidi e severi pur a fronte di indagini delicate e complesse ed in tale risultato processuale ripongono ogni speranza di sopravvivere al dolore. E quando la condanna non è pronunziata, perché mancano elementi a sostegno della responsabilità dell’imputato, o quando ritengono inadeguata la misura della pena inflitta rispetto all’incommensurabilità della loro afflizione, sono non di rado inclini ad accusare quel p.m. o quel tribunale di incapacità ad espletare la funzione o anche a sollecitare, con il supporto di una stampa compiacente, la proposizione di implausibili azioni disciplinari.
Ritengo inoltre, ricordando gli ammonimenti di Alessandro Pizzorno, che l’imparzialità si sostanzi nel rifiuto di ogni forma di protagonismo o di atteggiamenti da giudice star, e anche nel rifiuto di incarnare un potere buono contro i mali del mondo, erigendosi ad esclusivo custode e difensore della virtù e della moralità pubblica. Mi riferisco a quelle forme di protagonismo becero che si traducono in una esibizione narcisistica della propria persona, dando sfogo ad incontenibili pulsioni egotiche e ad altrettanto incontenibili ricerche di notorietà, talvolta garantite dalla partecipazione a talk show televisivi in cui si mettono in scena processi paralleli, in una inaccettabile rappresentazione scenica dei fatti.
Significa ancora – e qui mi rivolgo in particolare a chi svolgerà funzioni requirenti – evitare di esercitare la giurisdizione in termini di lotta al crimine o a generici fenomeni criminali, dell’uno contro tutti, di assumere un ruolo salvifico che impone di cercare il reato anche in mancanza di notitia criminis, di considerare il processo come un’arena da combattimento in cui si vince o si è abbattuti, piuttosto che come strumento per il ripristino della legalità violata da fatti specifici previsti come reati, nel rispetto delle garanzie difensive e del principio del contraddittorio.
Vuol dire inoltre restare lontani dall’ossessione della carriera – che non è configurabile nel nostro lavoro – e del successo personale, recuperando le acquisizioni e lo spirito del congresso di Gardone ed impegnandosi a non utilizzare l’attività svolta in ambito associativo per trarne indebiti vantaggi professionali.
Imparzialità vuol dire altresì rifiutare il modello di giudice burocrate sul quale si appuntavano le critiche, ancora così attuali, di Dante Troisi nel suo indimenticabile Diario di un giudice: giudice burocrate è quel giudice pigro, opaco e ripiegato su se stesso che cerca riparo in adeguati presidi difensivi, sepolcro imbiancato che facendosi schermo dell’indipendenza orienta la sua condotta verso un tranquillo quieto vivere e verso ogni forma di disimpegno, fino a scadere nel conformismo che non nuoce a nessuno e quindi non può danneggiare chi lo pratica; un giudice che tende esclusivamente alla conservazione dello status quo limitandosi a svolgere un’attività avalutativa e meccanica; un giudice che tiene molto al proprio stipendio e molto meno alla qualità del lavoro, che coltiva una asfittica prospettiva sindacale di tutela dei vantaggi, economici e non solo, della professione.
Vorrei allora proporvi un’altra dimensione dell’imparzialità, come capacità di operare in silenzio, lontano dai clamori dell’informazione e dalla tentazione del consenso popolare, che è effimero e a volte male informato e può servire forse a rassicurare gli insicuri, ma non può riempire le lacune probatorie o infirmare le prove acquisite. Il consenso popolare è la fonte della legittimazione democratica della politica, non della giurisdizione; gli applausi che scaturiscono da certe decisioni vanno stigmatizzati non solo perché sono la spia di un eccesso di aspettative, del tutto improprie, nell’intervento del giudice, ma anche perché esprimono la tensione verso il raggiungimento di determinati risultati totalmente estranei alla giurisdizione, che non è e non può essere – come ci ricorda Franco Ippolito – una istituzione di scopo, che sceglie i mezzi più idonei al conseguimento del fine prefissato.
Quanto all’indipendenza, sia quella esterna rispetto agli altri poteri dello Stato sia quella interna, va ricordato che essa non costituisce un privilegio di casta, ma è strumento di garanzia dell’eguaglianza di tutti i cittadini: ed è proprio in ragione dello stretto nesso esistente tra tutela dell’indipendenza e qualità del servizio reso alla collettività che essa non può essere mai subordinata alle direttive e neppure agli umori del potere politico o alle attese dell’opinione pubblica.
Essere indipendente significa non porsi pregiudizialmente dalla parte del potere, ma neppure sentirsi in via preconcetta contropotere.
Significa essere affrancati da condizionamenti o contiguità o collateralismi con qualsiasi tipo di potere, sia esso politico che economico che religioso o di affari.
Significa ancora tenere un atteggiamento di massima prudenza nell’accettare inviti o nell’instaurare nuovi rapporti amicali ed evitare di essere invischiati in situazioni che comportino debiti di riconoscenza o restituzione di favori.
Significa altresì non sollecitare appoggi correntizi per la progressione o per altre esigenze di carriera, perché ogni forma di aiuto, anche all’interno dell’ordine giudiziario, ha dei costi ed incide sul principio di indipendenza, oltre che sulla dignità di chi quell’aiuto richiede.
3. L’apparenza dell’imparzialità e dell’indipendenza
Gaetano Silvestri ha in più occasioni affermato, evocando il pensiero di Piero Calamandrei, che i magistrati non devono cercare il consenso, ma devono operare in modo da essere credibili; l’impegno in tale direzione esige il rispetto anche dell’apparenza, e non solo della sostanza dell’imparzialità. All’apparenza fanno riferimento gli artt. 8 e 9 del codice etico; inoltre tra i principi di condotta giudiziaria fissati nella Risoluzione di Bangalore approvata dai presidenti delle Corti Supreme dei Paesi di civil law nell’ambito della tavola rotonda svoltasi a L’Aja il 25-26 novembre 2002 è stato attribuito valore primario non solo al concetto di propriety, ma anche a quello di appearance of propriety, a tutela del bene dell’immagine, indispensabile per la fiducia nel sistema.
Credo che questo richiamo all’apparenza, che Mario Serio definisce formula fortunata[5] in ragione della sua generale e reiterata utilizzazione, un concetto recepito in Italia dal sistema anglosassone nel quale ha trovato da tempo cittadinanza, esiga qualche puntualizzazione. Se è vero infatti che il criterio dell’apparenza attiene essenzialmente a condotte estranee all’esercizio delle funzioni, ed in particolare ai comportamenti dei giudici lato sensu politici ed alla loro partecipazione alla vita sociale e culturale, allo scopo di evitare che a causa di detti comportamenti possa fondatamente dubitarsi della loro imparzialità e indipendenza, va tenuto conto che i magistrati godono degli stessi diritti di libertà garantiti a tutti i cittadini, ma che la funzione svolta impone un bilanciamento tra interessi diversi, facendo salvo da un lato l’esercizio di detti diritti di libertà ed assumendo dall’altro il criterio dell’apparenza non come valore in sé, ma come sintomo della sussistenza o insussistenza dell’imparzialità e dell’indipendenza nell’esercizio delle funzioni.
Si tratta allora di coniugare etica della convinzione ed etica della responsabilità, secondo l’insegnamento di Max Weber. In forza del dovere non solo di essere, ma anche di apparire imparziale e indipendente ogni magistrato deve farsi custode della sua immagine in ogni contesto di vita professionale e sociale.
Sembrano ancora attuali le affermazioni contenute nella remota sentenza della Corte costituzionale n. 100 del 1981, lì dove affermava che l’equilibrato bilanciamento degli interessi tutelati non comprime il diritto alla libertà di manifestare le proprie opinioni, ma ne vieta soltanto l’esercizio anomalo e cioè l’abuso, che viene ad esistenza ove risultino lesi gli altri valori.
Più di recente la stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 224 del 2009 ha ricordato che i magistrati devono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni cittadino e che quindi possono non solo condividere un’idea politica, ma anche manifestare espressamente le proprie opzioni al riguardo, ma che le funzioni esercitate e la qualifica rivestita … non sono indifferenti e prive di effetto per l’ordinamento costituzionale: ciò comporta appunto l’esigenza di bilanciare dette libertà con quella di assicurare la terzietà e anche l’immagine di terzietà dei magistrati.
4. Il codice etico dei magistrati
Lo strumento con il quale i principi costituzionali si traducono in specifiche regole di condotta è costituito dal codice etico dei magistrati.
Nel 1994 i magistrati italiani si sono dotati di un proprio codice etico, il primo della magistratura in ambito europeo: un testo elaborato in un momento di profonda crisi morale dei partiti e della pubblica amministrazione scaturita, come è noto, dalle indagini del pool di pubblici ministeri milanesi.
La stesura del testo ha costituito puntuale adempimento di una prescrizione contenuta nella legge n. 421 del 23 ottobre 1992, che delegava il Governo ad emettere un decreto legislativo che attribuisse alla Presidenza del Consiglio il compito di adottare un codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni; in attuazione della delega l’art. 26 del d.lg. 23 dicembre 1993 n. 546 ha inserito nel d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 sul pubblico impiego l’art. 58 bis, secondo il quale anche le associazioni di categoria delle varie magistrature[GL1] [G2] e dell’Avvocatura dello Stato erano tenute ad adottare un codice etico, da sottoporre all’adesione degli appartenenti alla magistratura interessata.
Successivamente la legge 6 novembre 2012, n. 190 (cd. anticorruzione), nel riscrivere con il suo art.1, comma 44, l'art. 54 del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165 (testo unico dei dipendenti pubblici), ha recepito la precedente disposizione, analogamente prevedendo che per ciascuna magistratura e per l’Avvocatura dello Stato gli organi delle associazioni di categoria adottano un codice etico a cui devono aderire gli appartenenti alla magistratura interessata.
Tale percorso si allinea pienamente al disposto della Magna Carta dei giudici adottata dal Consiglio Consultivo dei giudici europei il 17 novembre 2010 , la quale all’art. 18 ha affermato che l’azione dei giudici deve essere guidata da principi di deontologia, distinti dalle norme disciplinari. Tali principi devono emanare, quanto a redazione, dagli stessi giudici e debbono costituire oggetto della loro formazione.
Il potere di autoregolamentazione attribuito per la magistratura ordinaria all’ANM si basa quindi su una specifica disposizione normativa. L’avere il legislatore affidato l’adozione del codice etico alla stessa associazione rappresentativa dei magistrati, come depositaria degli interessi e dei valori dell’intera categoria, a prescindere dal vincolo formale di iscrizione, non solo comportava il riconoscimento del ruolo storico dell’associazionismo italiano e della sua funzione istituzionale, ma stava anche a dimostrare che lo stesso legislatore considerava l’autodisciplina come lo strumento più idoneo a garantire l’indipendenza del corpo dei magistrati e ad assicurare la maggiore efficacia delle norme autonomamente adottate, promuovendo la maturazione di un’autocoscienza professionale.
È appena il caso di puntualizzare che l’essere stato il codice etico, per espressa previsione normativa, elaborato dall’ANM – designata dal legislatore, come già osservato, quale soggetto strutturalmente depositario ed interprete dell’etica professionale del magistrato – ed approvato dai suoi organi rappresentativi non esclude la sua generale applicabilità a tutti i magistrati, a prescindere dalla loro iscrizione al sodalizio. L’articolato non può pertanto definirsi, come talvolta avviene, il codice etico dell’ANM, ma come il codice etico della magistratura italiana.
A distanza di 16 anni, il 13 novembre 2010, l’ANM ha approvato un nuovo codice etico, dichiaratamente volto – come si legge nella sua premessa – ad aggiornare la figura del magistrato, inserito in una società ormai in continua evoluzione [6]: il nuovo testo riscrive il precedente con alcune modifiche, che tengono conto delle criticità emerse nell’applicazione di quello del 1994 e recepiscono nuove istanze e sensibilità al tema, con particolare riferimento ai settori dell’informazione, della comunicazione e dell’organizzazione, e pongono ulteriori precetti, puntualizzando anche i doveri dei dirigenti.
Il codice etico, da alcuni definito come una sorta di patto con i cittadini, fornisce alla collettività la conoscenza delle regole cui i magistrati sono tenuti, così offrendo elementi di chiarezza sulla condotta che essi devono assumere in ogni contesto esperienziale e consentendo ai consociati di pretendere il rispetto degli impegni in esso indicati; al tempo stesso indica a tutti i magistrati la cifra della loro condotta quotidiana, la possibilità di costruirsi un abito mentale e di formarsi una comune coscienza etica, indirizzando i loro comportamenti verso un modello ideale di operatore della giustizia. Per questa via ciascun appartenente all’ordine giudiziario si colloca all’interno di una casa comune e si rende parte attiva di un sistema che lo unisce a tutti i suoi colleghi intorno ad un nucleo di valori condivisi.
Va precisato che le norme etiche si collocano su un piano distinto, per diversità di natura e di funzione, rispetto alle regole disciplinari: esse esprimono il dover essere di chi esercita la giurisdizione, sono norme di autocontrollo e non sono provviste di sanzione, onde la loro efficacia strutturante è sostanzialmente rimessa alla sensibilità e all’impegno di ogni magistrato, mentre le regole disciplinari, che individuano il c.d. minimo etico, incidono più direttamente sull’interesse della generalità dei consociati e sono per questo riservate alla competenza del legislatore (il d.lgs.2006 n. 109), sono caratterizzate dal principio di tassatività e presidiate da sanzioni; la circostanza che della materia disciplinare si occupano ben due articoli della Costituzione (artt. 105 e 107) vale ad evidenziarne la rilevanza nel quadro costituzionale[7]. Le condotte disciplinarmente sanzionabili sono dunque soltanto quelle previste nel d.lgs. 2006 n. 109.
Peraltro l’inclusione delle norme etiche nel comparto della soft law non esclude l’esistenza di zone di contiguità e di parziali sovrapposizioni tra le due sfere, tanto che in alcuni casi la violazione di esse può integrare anche un illecito disciplinare o addirittura un illecito penale.
Il codice etico – un testo breve, di soli 14 articoli – compendia una summa di regole che hanno riguardo ad uno spettro assai ampio di comportamenti dei giudici e dei pubblici ministeri, inclusi i capi degli uffici. I valori e principi in esso dettati devono improntare la condotta del magistrato nell’esercizio delle funzioni, nei rapporti con le istituzioni, con i cittadini e con gli utenti della giustizia, con gli altri operatori del settore, con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione, nonché nella vita sociale. Le varie previsioni costituiscono un catalogo che sostanzialmente riproduce le regole di condotta che ho prima richiamato nel parlare di imparzialità e indipendenza.
I valori dell’indipendenza e dell’imparzialità sono infatti assunti nell’articolato come fondamentali criteri ispiratori della condotta dei magistrati; è inoltre ricorrente nel testo il riferimento al concetto di disinteresse personale, quale prerequisito di ogni corretto comportamento nella vita professionale e sociale.
Dalla sua impostazione complessiva si rileva la tendenza non solo o non tanto a tutelare valori generali ed astratti, quali il prestigio, il decoro e la dignità dell’ordine giudiziario, come evocati in passato nell’art. 18 della legge sulle guarentigie, ma piuttosto a garantire attraverso il rispetto di tali valori il buon funzionamento, l’efficienza, la tempestività e la correttezza del servizio reso alla collettività. Ne risulta così valorizzata la concezione dell’attività giudiziaria come servizio e la tensione alla effettività della tutela dei diritti.[8]
Un elemento di modernità del codice etico sta nella previsione di cui all’art. 9, primo comma, concernente il dovere di restare immuni da ogni tipo di pregiudizio, e in primo luogo dai pregiudizi di sesso.
Emerge dalla trama dei precetti la figura ideale di un giudice diligente ed operoso, equidistante, che osserva gli orari delle udienze e delle altre attività di ufficio, che assicura alle parti la possibilità di svolgere pienamente le loro difese, che è rispettoso delle opinioni di tutti, che è disponibile a rivedere i propri convincimenti, che esamina attentamente gli atti e le prove acquisite, che coltiva il valore del dubbio senza esserne sopraffatto, che garantisce la segretezza delle camere di consiglio, che utilizza correttamente le risorse dell’amministrazione, che coltiva costantemente lo studio e l’aggiornamento professionale e partecipa alle iniziative di formazione e all’attività organizzativa dell’ufficio.
Restano per contro nella sfera dell’irrilevanza dal punto di vista etico i comportamenti strettamente attinenti alla vita privata e familiare, in passato considerati potenzialmente lesivi della dignità dell’ordine giudiziario ed oggetto in non pochi casi di sanzioni disciplinari, nello spirito di una tutela ossessiva e pruriginosa di certi valori tradizionali.
Mi preme segnalare che l’art. 14 del codice etico, concernente i doveri del dirigente, pone nell’ultima parte del terzo comma (di nuova formulazione rispetto alla stesura del 1994) il dovere di curare l’inserimento dei giovani magistrati, cui va assicurato un carico di lavoro equo. L’obiettivo di detta disposizione è chiaramente quello di assicurare una adeguata formazione dei colleghi più giovani, che tenga conto della loro inesperienza e delle difficoltà insite negli inizi di un percorso così impegnativo, facilitando il loro inserimento nell’ambiente di lavoro e nella giurisdizione attiva.
Il codice etico dovrebbe essere a mio avviso aggiornato sul tema dell’utilizzazione dei social media da parte dei magistrati. Non ho il tempo di soffermarmi su tale delicata problematica, che è stata oggetto recentemente di un interessante convegno organizzato dal CSM[9]; mi limito in questa sede a suggerire la massima prudenza nell’uso di tali mezzi di comunicazione, molto spesso ricettacolo di volgarità e di pesanti aggressioni verbali, sovente stimolate da un’ansia di velocità della risposta e corroborate da sterminati anomali plebisciti. In quella sede convegnistica Massimo Luciani ha parlato di strumenti di comunicazione primitivi e nell’invitare alla cautela nel loro uso ha rilevato che le opinioni espresse nei social sono destinate a restare in eterno, con grande rischio di decontestualizzazione.
Osservo al riguardo che la genericità delle previsioni contenute nell’art. 6 del codice etico, concernente i rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa, rende dette previsioni del tutto inadeguate a disciplinare la materia ed integra un vuoto nel sistema dei doveri deontologici del magistrato che dovrebbe essere tempestivamente colmato con specifiche disposizioni relative all’utilizzo dei social. È interessante sul punto ricordare che il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa ha adottato in data 25 marzo 2021 una delibera contenente linee guida sull’utilizzo dei social media.
È importante infine segnalare che l’art. 9 dello Statuto dell’ANM, nel testo modificato il 14 settembre 2019, ha disposto che costituisce illecito disciplinare la violazione del codice etico dei magistrati, nonché la commissione di illeciti penali dolosi. Tale previsione conferisce una nuova valenza alle prescrizioni del codice etico, in quanto ora presidiate – ovviamente nei soli riguardi degli appartenenti all’ANM, essendo la nuova disposizione contenuta nello statuto dell’associazione – dalle sanzioni previste dall’art. 10 dello stesso statuto (censura, interdizione temporanea dai diritti sociali, espulsione dal sodalizio).
Come è evidente, attraverso la suindicata riformulazione dell’art. 9 si è rinvigorita l’effettività del codice etico, non più configurabile per gli iscritti come summa di regole morali incoercibili. Ai singoli precetti di detto codice è stata ora agganciata una sanzione che non è automatica, ma è rimessa prima all’apprezzamento del Collegio dei Probiviri ed in seconda battuta alla delibera del Comitato Direttivo Centrale dell’ANM.
5. L’etica nella motivazione delle sentenze
Ritengo opportuno svolgere qualche breve riflessione sull’importanza della motivazione, che l’art. 111, co.6, della Costituzione prevede come obbligatoria per tutti i provvedimenti giurisdizionali e la cui stesura costituisce un momento delicatissimo del lavoro del giudice ed assorbe molto tempo e molte energie della sua attività.
La motivazione è il più importante banco di prova del rigore logico e del livello professionale del giudice, oltre che della sua imparzialità. Se è vero infatti che la più rilevante fonte della legittimazione del magistrato consiste nella autorevolezza e persuasività delle decisioni adottate, è evidente la necessità che egli presti la massima cura nella redazione degli atti.
Scriveva Michele Taruffo che la motivazione svolge innanzi tutto una funzione endoprocessuale, in quanto costituisce strumento di controllo della decisione nelle fasi di impugnazione, ma anche una funzione extraprocessuale, perché offre la possibilità di una valutazione esterna dell’operato del giudice da parte della collettività, cosi fornendo una garanzia di trasparenza della giustizia di fronte all’opinione pubblica, in adesione ad una concezione democratica dell’esercizio della giurisdizione. Va altresì ricordato che la sentenza non va intesa come opera del suo estensore, ma quale emanazione dell’ufficio cui egli appartiene, come la stessa intestazione del documento lascia chiaramente intendere: ciò vuol dire che quando si scrive una sentenza si dà voce non già alla propria personale opinione, ma all’organo giudiziario di appartenenza. Appare pertanto non corretta quella tendenza, ispirata certamente ad esigenze di semplificazione, ad individuare le sentenze, specie quelle della Corte di Cassazione, con il nome del loro estensore.
Resta il dovere primario per ogni giudice di adottare motivazioni chiare, comprensibili non solo ai soggetti che ne sono destinatari e che generalmente non sono giuristi, ma a tutti i cittadini; che si esprimano in uno stile sobrio; che riflettano fedelmente, nel caso di decisioni collegiali, il dibattito della camera di consiglio e le conclusioni ivi raggiunte; che siano concise, secondo il chiaro disposto degli artt. 132, secondo comma, n. 4 c.p.c. e 118, secondo comma, disp. att. c.p.c., e quindi non contengano obiter e ripetizioni di concetti, né si dilunghino in dotte disquisizioni teoriche utili per una tesi di laurea o per una nota in una rivista giuridica, in quanto concisione espositiva non vuol dire incompletezza, ma padronanza della tematica e adeguato utilizzo degli argomenti pertinenti.
Mi preme anche ricordare che le parole vanno usate con accortezza e misura, avendo sempre presente che un termine o un’espressione aspri e non giustificati nell’economia della decisione possono causare ferite indelebili e ingiuste ai soggetti che ne sono destinatari.
Va inoltre rispettato il ruolo del presidente nel delicato compito di correttore di una pronuncia che reca anche la sua firma. La comune tensione verso il risultato di una sentenza corretta, puntuale e logicamente argomentata, che oltre che giuridicamente controllabile deve essere anche persuasiva, vale certamente il prezzo di qualche ferita alla vanità dell’estensore.
6. La questione del linguaggio
Ancora un breve cenno alla questione del linguaggio, che ha anch’essa a che fare con l’indipendenza del magistrato, in quanto le parole ci indicano, quando le scegliamo, la prospettiva che le ispira e le sostiene. È necessario essere consapevoli del ruolo potente giocato dal linguaggio nella rappresentazione della realtà e dei rapporti tra le persone e della sua capacità di riprodurre pregiudizi e stereotipi, o al contrario di diventare strumento di emancipazione e di parità. In forza di questa consapevolezza spetta ai magistrati nella scrittura delle sentenze, ma non solo, liberarsi di consolidate abitudini linguistiche di stampo androcentrico e usare un lessico che non renda invisibili le donne.
Ciò significa fare un uso corretto della lingua come veicolo di trasmissione di significati e di visioni e rifiutare l’assunto, da alcuni sostenuto anche sulla base di un’erronea lettura del testo della Costituzione, che il termine al maschile sia corretto in quanto identificativo dell’istituzione, e non del soggetto che la rappresenta, e che in ogni caso la coniugazione di un termine al maschile o al femminile sia del tutto priva di rilevanza. È per contro vero che, come affermava Luce Irigaray[GL3] , il parlare non è mai neutro e che ciò che non è rappresentato nel linguaggio non esiste.
Ricordo da ultimo, a conferma di tanta resistenza al cambiamento, che si è reso necessario un parere dell’Accademia della Crusca, sollecitato da una richiesta del Comitato pari opportunità presso la Corte di Cassazione, per consentire ad una collega di firmare le sentenze da lei redatte qualificandosi al femminile.
7. Conclusioni
Concludo. In una situazione così delicata e complessa io credo che vengano soprattutto in gioco la professionalità e l’impegno di ogni magistrato. Alla base delle vostre scelte comportamentali deve essere il convincimento che il rispetto degli utenti e della collettività si ottiene con il sapere, il costante aggiornamento professionale, la capacità di ascolto, oltre che con l’esempio di una condotta irreprensibile anche fuori delle aule giudiziarie e che la fiducia delle parti e dei cittadini nei loro giudici è il parametro fondamentale della legittimità della giurisdizione. Occorre allora tener sempre presente che dalla conduzione dell’udienza, con le sue forme e i suoi tempi, dall’interlocuzione attenta e rispettosa con le parti e con il foro, dal rispetto delle garanzie processuali, dalla redazione di motivazioni chiare e comprensibili, dalla sobrietà nella vita privata passa il difficile percorso per il recupero della fiducia dei cittadini. Come ricorda Alfonso Amatucci, il rispetto non è un diritto esigibile in ragione della qualifica rivestita, ma è un valore che può scaturire soltanto dal riconoscimento da parte dei cittadini della professionalità e dell’esemplarità della condotta del magistrato.
Vorrei infine osservare che, superato da tempo l’assioma di stampo illuminista del giudice bocca della legge, meccanico applicatore di un enunciato normativo astorico e atemporale, il magistrato dei nostri tempi deve essere anche giudice europeo, confrontandosi con un diritto positivo sempre più complesso, segnato dalla sovrapposizione di norme nazionali, comunitarie e sovranazionali, e sensibile ai grandi mutamenti della coscienza sociale, ed è spesso chiamato a dare riconoscimento e tutela a nuovi diritti, che il legislatore non è stato capace o non ha voluto disciplinare, lasciando sola la giurisdizione nel compito di rendere risposte di giustizia adeguate, salvo più tardi contestarle di aver svolto un ruolo di supplenza non richiesto e non gradito.
È peraltro chiaro che il potenziamento del ruolo dei giudici nella costruzione del diritto vivente a tutela dei diritti fondamentali implica un aumento di responsabilità,
che a sua volta richiede un forte lavoro di affinamento della professionalità ed una particolare attenzione al rispetto dei valori di autonomia e indipendenza.
Testo rielaborato della relazione svolta il 12 dicembre 2024 presso la SSM nel corso di formazione per i m.o.t. dell’11-13 dicembre 2024 sui temi dell’etica, della deontologia e della responsabilità disciplinare dei magistrati.
[1] V. in tal senso AMATUCCI, L’etica del magistrato. Esiste ancora?, in Giustizia Insieme, 5 luglio 2020.
[2] V. sul punto RORDORF, L’imparzialità del giudice: il punto di vista di un civilista, in Questione Giustizia, Trimestrale, n. 1.2/2024.
[3] V. sul tema DELL’UTRI, Sugli stereotipi nel ragionamento giuridico, in Giustizia Insieme, 1 giugno 2021.
[4] Cfr. Dieci regole di deontologia giudiziaria, conseguenti alla natura cognitiva della giurisdizione, in L’etica giudiziaria, Quaderno n. 17 della SSM, p. 25 e ss.
[5] In L’apparenza dell’imparzialità del giudice: i pericoli di una formula fortunata, in Questione Giustizia, 23 ottobre 2024. V. altresì sul tema, di recente, GIOSTRA, Essere e apparire imparziali: garanzia di valori diversi, in Questione Giustizia, 5 dicembre 2024.
[6] Sull’esigenza di una rivisitazione del codice etico del 1994, al fine di adeguarlo alle nuove problematiche dell’esercizio della giurisdizione, e sulla effettività di esso v. NATOLI e BIFULCO, Il codice etico dei magistrati tra effettività, prassi e tempo, in Giustizia Insieme, 2010, n. 1, p. 27 e ss.
[7] V. sul punto SALVATO, Due interrogativi sulla relazione tra etica, deontologia professionale e responsabilità disciplinare dei magistrati ordinari, in Giustizia Insieme, 19 gennaio 2021.
[8] V. in tal senso BINI, Le regole deontologiche dei magistrati: dalla Costituzione ai codici etici, relazione al seminario svoltosi nel gennaio 2007 presso l’Università degli Studi di Genova, www.costituzionale.unige.it/dottorato/BINI.html.
[9] La magistratura e i social network, 17 maggio 2024.
Immagine: particolare da Piero del Pollaiolo, La Giustizia, 1470, Galleria degli Uffizi, Firenze.
Il 16 ottobre 1943, all'alba, le truppe tedesche occupanti di Roma, con la collaborazione della polizia italiana, rastrellarono il ghetto ebraico della città. Era un sabato. le famiglie erano riunite nelle case. In quella che fu definita la "Strage del Ghetto", furono arrestati 1.259 ebrei, di cui 689 donne, 363 uomini e 207 bambini. Dopo il rilascio di un certo numero di componenti di famiglie di sangue misto (Mischlinge) o stranieri, 1.023 rastrellati furono deportati direttamente al campo di sterminio di Auschwitz. Soltanto 16 di loro sopravvissero (15 uomini e una donna). Giulia è un personaggio di fantasia.
Brano tratto dal romanzo di Licia Fierro “Le seduzioni del tempo” edizione Terre Sommerse - collana Sidera
[…] Nell'agosto del ‘44 circa 8000 prigionieri provenienti da Auschwitz arrivarono a Bergen Belsen, inquadrati dalla SS del maggiore Haase e del capitano Kramer che si avvicendavano nel dare ordini con la voce tonante e gli occhi dei mostri senza alcuna espressione. Giulia era tra i nuovi ospiti. Per poco aveva evitato i lavori forzati, perché ad Auschwitz bisognava avere 12 anni per essere impiegati in quei lavori. Lei era divenuta così minuta che le sarebbe andato largo perfino il grembiulino della terza elementare e cominciavano pure a caderle i capelli. Aveva i capelli a chiazze. Si era convinta di aver raggiunto l'anticamera della morte. Neppure voleva parlare con le altre, come nel primo periodo, quando ancora credeva che si sarebbe svegliata dall'incubo in braccio a sua madre, nella casa calda dietro il portico d’Ottavia perché non poteva durare così a lungo il regno del male. Sarebbe arrivato il Dio degli eserciti a liberare il suo Popolo, lo avrebbe tratto dalle catene come in Egitto al tempo del Faraone e lo avrebbe condotto nella terra che odora di latte e di miele. Perché non credere al rabbino?
Poi trascorrevano i giorni e nessuna Tromba della riscossa suonava nel campo, solo le lunghe sirene, i fari che illuminavano la recinzione di ferro spinato, solo il rumore sordo degli stivali sulla terra battuta dove ogni tanto uno sparo seminava un paio di morti per soddisfare il gusto assassino.
“Svegliati, Gerusalemme” si ripeteva di notte, come se qualcuno in lontananza attraverso i fili segreti della mente potesse raccogliere il messaggio, come se oltre le siepi e la strada ferrata della Bassa Sassonia si fosse aperto il mare del Nord col bastone di un nuovo Mosè.
Era diventata adulta senza volerlo. Teneva spesso in testa un pezzo di stoffa. Lo usava per bendarsi un attimo di nascosto quando proprio non sopportava la visione del grande macello e si chiedeva se riaprendo gli occhi e tenendo dritte le orecchie non sentisse chiamare il suo numero per essere mandato a morire chissà dove.
Lo sapeva bene. Che erano tutti morti: la madre, il padre, i fratellini più piccoli. Solo per Fulvio, il primogenito, che non era a Roma la notte del ghetto, solo per lui sperava qualche rara volta di sopravvivere. Un giorno la megera bionda e ossuta che teneva sotto il comando le bambine, le si avvicinò parlando la sua lingua incomprensibile, poi la strattonò verso l'uscita della baracca. Doveva pulire gli alloggi dei soldati e farlo a puntino altrimenti l'avrebbe strozzata. Questo Giulia lo capì benissimo dai gesti e dalla presa stretta alla gola che le lasciò il segno rosso sul collo. Il vantaggio fu che poté raccattare le briciole di cibo come fanno i cani intorno alle tavole dei padroni. Ma ai cani si fanno carezze, a lei davano calci dovunque si trovasse. Una mattina riuscì a rubare una bella fetta di pane nero che infilò tra camicia e mutande per tenerla ben fissata. Di notte, nel grande silenzio, sgranocchiò quel tesoro e neppure pensò di condividerne un pezzetto con le sventurate. Invocava la morte e la fuggiva con l’innocenza di chi gioca una partita e non conosce per bene l'avversario. Quel tempo nella memoria è come una stagione unica, senza soluzione di continuità. Se dovesse disegnare i periodi o fare un diario preciso dei giorni, Giulia potrebbe solo squadrare un foglio, annerirlo tutto e avvolgervi del pane nero.
Un'alba di Aprile del ‘45, il 15 Aprile è ancora la sua Pasqua e il suo Natale. Il generale Montgomery aprì le porte alla luce del sole, squarciò la tenebra e il lutto, restituì al mondo ciò che era rimasto della gente infelice ed eletta. Più di 60.000 erano i morti di tifo e altri erano scheletri su gambe storte rattrappite e altri puzzavano ammucchiati. Ci voleva molta fantasia per definirli donne, uomini e bambini. Stracci di umanità putrescente che sarebbero morti col sole della libertà, al massimo l'indomani. Eppure Giulia li vide attraverso i cancelli come fossero i risultati dalla terra nemica e li aiutassero a cercare un mezzo per attraversarla all'incontrario. Una grande schiera di angeli l'accompagnava per la campagna. Lo zainetto inglese o americano pieno di cibo, una bottiglia di latta, bellissima per tanta acqua limpida di sorgente, per tanti giorni di viaggio ancora pieni di paura. Il gruppo era di quelli che si notano anche se avevano ricevuto vestiti e tute larghissime fatte per gente di sana e robusta costituzione.
Cominciava a risorgere la natura dopo il freddissimo inverno. La brughiera e le lande sono il paesaggio della Bassa Sassonia e certo, d'estate devono essere luoghi ideali per le passeggiate a piedi o in bicicletta. Dappertutto residui bellici, macchine trafitte di buchi, inservibili attrezzi da lavoro. Da Celle a Burgdorf ad Hannover avrebbero dovuto elemosinare chissà quanto per raggiungere la Svizzera o il Tirolo verso l'Italia passando per mezza Germania. Giulia si lasciava condurre nei solchi puliti di terra sterrata, sulle rotaie di treni sbuffanti, su vecchi camion sporchi di letame. E faceva strada, sempre più si allontanava dalle ciminiere di fabbriche in disuso, dalle cupole strette e lunghe di chiese abbandonate fin da quando la nuova religione nazista aveva sostituito al Vangelo il Main Kampf, alla bandiera nero- rosso-oro della Repubblica di Weimar la svastica, il simbolo delle genti ariane provenienti dall'antica India. […].
“Ma proprio nessuno si è accorto di noi, dico, della nostra rovina, dello sterminio?”.
“Certo che lo hanno saputo, ma non lo hanno voluto vedere”.
“E nessuna voce di uomini colti si è levata?”
“Piccola cara, sì, qualche voce dopo il rogo dei libri … una in particolare, la più bella, la meno ascoltata”
“Dimmela dunque”.
E Gad cominciò a recitare il Lamento di Brecht: “Parlino gli altri della propria vergogna, io parlo della mia. O Germania pallida madre! Come insozzata siedi tra i popoli! Fra i segnati d'infamia tu spicchi …”.
In Tema di Memoria v. Il sonno della ragione razzismo, antisemitismo e Shoah di Ruggero Taradel
Il MANIFESTO della RAZZA, preludio della persecuzione degli ebrei da parte del Regime fascista.
Nella Giornata della Memoria, quest’anno riteniamo utile ricordare «Il Manifesto della Razza›› firmato da professori, medici, intellettuali, che il Regime Fascista pose a base della persecuzione razziale che attuò negli anni successivi con introduzione delle legge razziali e dei provvedimenti che avrebbero di fatto “ristretto” gli ebrei in quegli stessi ghetti dai quali sarebbero stati poi condotti nei campi di sterminino (https://www.cdec.it/formazione/percorsi/per-la-storia-della-shoah/statistica-generale-degli-ebrei-vittime-della-shoah-in-italia-1943-1945/).
L’elaborazione del Manifesto della Razza costituisce la più grave offesa recata dalla scienza e dalla cultura italiana alla causa dell’umanità.
Come ha detto il presidente della Repubblica nel discorso tenuto il 25 luglio 2018, in occasione degli ottant’anni del manifesto posto a base della persecuzione fascista degli ebrei, “La aberrazione dell’affermazione della supremazia di uomini su altri uomini considerati di razze inferiori, la volontà di dominio che esprimeva, la violenza, segregazione, pulizia etnica che portava con sé, avrebbero segnato nel profondo la storia del XX secolo e, con essa, la coscienza dei popoli […] Una pagina infamante, riscattata con la solidarietà di pochi durante le persecuzioni, la lotta di Liberazione, con la Costituzione repubblicana, con il sangue, il sacrificio, l’unità del nostro popolo attorno a ideali di eguaglianza, democrazia, pace e libertà”.
L’indifferenza con la quale il manifesto fu accolto è rimasta incomprensibile. È stato detto che si trattò del Sonno della Ragione.
“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre" (Primo Levi in “I sommersi e i Salvati”)
Il rischio dell’assopimento è immanente alla vita dei popoli e bisogna fare attenzione a non sottovalutare i sintomi quali: l’indifferenza verso l’aumento delle diseguaglianze, l’indifferenza verso la persecuzione dei deboli e non ultima l’indifferenza verso la salvezza dal giusto processo assicurata agli autori di crimini verso l’umanità.
Occorre l’attenzione di tutti perché la nostra Costituzione scritta con il sangue dei martiri antifascisti mantenga la promessa consacrata all’art. 3 “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Occorre l’attenzione e lo sforzo di tutti i cittadini perché la Costituzione italiana, che è sacra, non sia toccata.
MANIFESTO DEGLI SCIENZIATI RAZZISTI, Pubblicato sul "Giornale d'Italia" il 14 luglio 1938.
1. Le razze umane esistono. La esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano ad ereditarsi.
Dire che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto che esistono razze umane differenti.
2. Esistono grandi razze e piccole razze. Non bisogna soltanto ammettere che esistano i gruppi sistematici maggiori, che comunemente sono chiamati razze e che sono individualizzati solo da alcuni caratteri, ma bisogna anche ammettere che esistano gruppi sistematici minori (come per es. i nordici, i mediterranei, i dinarici, ecc.) individualizzati da un maggior numero di caratteri comuni. Questi gruppi costituiscono dal punto di vista biologico le vere razze, la esistenza delle quali è una verità evidente.
3. Il concetto di razza è concetto puramente biologico. Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose. Però alla base delle differenze di popolo e di nazione stanno delle differenze di razza. Se gli Italiani sono differenti dai Francesi, dai Tedeschi, dai Turchi, dai Greci, ecc., non è solo perché essi hanno una lingua diversa e una storia diversa, ma perché la costituzione razziale di questi popoli è diversa. Sono state proporzioni diverse di razze differenti, che da tempo molto antico costituiscono i diversi popoli, sia che una razza abbia il dominio assoluto sulle altre, sia che tutte risultino fuse armonicamente, sia, infine, che persistano ancora inassimilate una alle altre le diverse razze.
4. La popolazione dell’Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà ariana. Questa popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola; ben poco è rimasto della civiltà delle genti preariane. L’origine degli Italiani attuali parte essenzialmente da elementi di quelle stesse razze che costituiscono e costituirono il tessuto perennemente vivo dell’Europa.
5. È una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici. Dopo l’invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione. Da ciò deriva che, mentre per altre nazioni europee la composizione razziale è variata notevolmente in tempi anche moderni, per l’Italia, nelle sue grandi linee, la composizione razziale di oggi è la stessa di quella che era mille anni fa: i quarantaquattro milioni d’Italiani di oggi rimontano quindi nella assoluta maggioranza a famiglie che abitano l’Italia da almeno un millennio.
6. Esiste ormai una pura “razza italiana”. Questo enunciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico-linguistico di popolo e di nazione ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l’Italia. Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana.
7. È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano-nordico. Questo non vuole dire però introdurre in Italia le teorie del razzismo tedesco come sono o affermare che gli Italiani e gli Scandinavi sono la stessa cosa. Ma vuole soltanto additare agli Italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra-europee, questo vuol dire elevare l’Italiano ad un ideale di superiore coscienza di se stesso e di maggiore responsabilità.
8. È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d’Europa (Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall’altra. Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l’origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili.
9. Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.
10. I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo. L’unione è ammissibile solo nell’ambito delle razze europee, nel quale caso non si deve parlare di vero e proprio ibridismo, dato che queste razze appartengono ad un ceppo comune e differiscono solo per alcuni caratteri, mentre sono uguali per moltissimi altri. Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall’incrocio con qualsiasi razza extra-europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani.
* Il "Manifesto degli scienziati razzisti" venne pubblicato sul "Giornale d'Italia" il 14 luglio 1938 e sottoscritto da 180 scienziati del Regime. Secondo i diari di Bottai e di Ciano esso fu redatto, quasi completamente, da Mussolini.
Al Manifesto degli Scienziati fascisti seguirà la DICHIARAZIONE SULLA RAZZA, approvata da Gran consiglio del fascismo il 6 ottobre 1938 e pubblicata sul "Foglio d'ordine" del Partito nazionale fascista il 26 ottobre 1938.
"Il Gran Consiglio del Fascismo stabilisce:
a) il divieto di matrimoni di italiani e italiane con elementi appartenenti alle razze camita, semita e altre razze non ariane;
b) il divieto per i dipendenti dello Stato e da Enti pubblici - personale civile e militare - di contrarre matrimonio con donne straniere di qualsiasi razza;
c) il matrimonio di italiani e italiane con stranieri, anche di razze ariane, dovrà avere il preventivo consenso del Ministero dell’Interno;
d) dovranno essere rafforzate le misure contro chi attenta al prestigio della razza nei territori dell’Impero.
Ebrei ed ebraismo
Il Gran Consiglio del Fascismo ricorda che l’ebraismo mondiale, specie dopo l’abolizione della massoneria, è stato l’animatore dell’antifascismo in tutti i campi e che l’ebraismo estero o italiano fuoriuscito è stato, in taluni periodi culminanti come nel 1924/25 e durante la guerra etiopica unanimemente ostile al fascismo.
L’immigrazione di elementi stranieri, accentuatasi fortemente dal 1933 in poi, ha peggiorato lo stato d’animo degli ebrei italiani, nei confronti del regime, non accettato sinceramente, poiché antitetico a quella che è la psicologia, la politica, l’internazionalismo d’Israele. Tutte le forze antifasciste fanno capo ad elementi ebrei; l’ebraismo mondiale è, in Spagna, dalla parte dei bolscevichi di Barcellona.
Il divieto d’entrata e l’espulsione degli ebrei stranieri
Il Gran Consiglio del Fascismo ritiene che la legge concernente il divieto d’ingresso nel Regno, degli ebrei stranieri, non poteva più oltre essere ritardata, e che l’espulsione degli indesiderabili, secondo il termine messo in voga e applicato dalle grandi democrazie, è indispensabile. Il Gran Consiglio del Fascismo decide che oltre ai casi singolarmente controversi che saranno sottoposti all’esame dell’apposita commissione del Ministero dell’Interno, non sia applicata l’espulsione nei riguardi degli ebrei stranieri i quali:
a) Abbiano un’età superiore agli anni 65;
b) Abbiano contratto un matrimonio misto italiano prima del 1° ottobre XVI.
Ebrei di cittadinanza italiana
Il Gran Consiglio del Fascismo, circa l’appartenenza o meno alla razza ebraica, stabilisce quanto segue:
a) E’ di razza ebraica colui che nasce da genitori entrambi ebrei;
b) E’ considerato di razza ebraica colui che nasce da padre ebreo e da madre di nazionalità straniera;
c) E’ considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da un matrimonio misto, professa la religione ebraica;
d) Non è considerato di razza ebraica colui che è nato da un matrimonio misto, qualora professi altra religione all’infuori della ebraica, alla data del 1° ottobre XVI.
Discriminazione fra gli ebrei di cittadinanza italiana
Nessuna discriminazione sarà applicata, escluso in ogni caso l’insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado, nei confronti di ebrei di cittadinanza italiana, quando non abbiano per altri motivi demeritato, i quali appartengono a:
1) Famiglie di Caduti nelle quattro guerre sostenute dall’Italia in questo secolo; libica, mondiale, etiopica, spagnola;
2) Famiglie dei volontari di guerra nelle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola;
3) Famiglie di combattenti delle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola, insigniti della croce al merito di guerra;
4) Famiglie dei Caduti per la Causa fascista;
5) Famiglie dei mutilati, invalidi, feriti della Causa fascista;
6) Famiglie di Fascisti iscritti al Partito negli anni 19- 20- 21- 22 e nel secondo semestre del 24 e famiglie di legionari fiumani.
7) Famiglie aventi eccezionali benemerenze che saranno accertate da apposita commissione.
Gli altri ebrei
I cittadini italiani di razza ebraica, non appartenenti alle suddette categorie, nell’attesa di una nuova legge concernente l’acquisto della cittadinanza italiana, non potranno:
a) Essere iscritti al Partito Nazionale Fascista;
b) Essere possessori o dirigenti di aziende di qualsiasi natura che impieghino cento o più persone;
c) Essere possessori di oltre cinquanta ettari di terreno;
d) Prestare servizio militare in pace e in guerra.
L’esercizio delle professioni sarà oggetto di ulteriori provvedimenti.
Il Gran Consiglio del Fascismo decide inoltre:
1) Che agli ebrei allontanati dagli impieghi pubblici sia riconosciuto il normale diritto di pensione;
2) Che ogni forma di pressione sugli ebrei, per ottenere abiure, sia rigorosamente repressa;
3) Che nulla si innovi per quanto riguarda il libero esercizio del culto e l’attività delle comunità ebraiche secondo le leggi vigenti;
4) Che, insieme alle scuole elementari, si consenta l’istituzione di scuole medie per ebrei.
Immigrazione di ebrei in Etiopia
Il Gran Consiglio del Fascismo non esclude la possibilità di concedere, anche per deviare la immigrazione ebraica dalla Palestina, una controllata immigrazione di ebrei europei in qualche zona dell’Etiopia.
Questa eventuale e le altre condizioni fatte agli ebrei, potranno essere annullate o aggravate a seconda dell’atteggiamento che l’ebraismo assumerà nei riguardi dell’Italia fascista.
Cattedre di razzismo
Il Gran Consiglio del Fascismo prende atto con soddisfazione che il Ministro dell’Educazione Nazionale ha istituito cattedre di studi sulla razza nelle principali Università del Regno.
Alle camicie nere
Il Gran Consiglio del Fascismo, mentre nota che il complesso dei problemi razziali ha suscitato un interesse eccezionale nel popolo italiano, annuncia ai fascisti che le direttive del partito in materia sono da considerarsi fondamentali e impegnative per tutti e che alle direttive del gran consiglio devono ispirarsi le leggi che saranno sollecitamente preparate dai singoli ministri”.
La dichiarazione sulla razza troverà completa esecuzione nelle leggi razziali e nei provvedimenti amministrativi razziali.
Le vittime identificate alla fine della guerra sono state 7579, questo numero vanno aggiunte persone che furono arrestate senza lasciare tracce e senza possibilità di identificazione perché entrate in Italia senza registrazione alle frontiere. Si tratta di almeno altre 900-1000 persone che portano il totale delle vittime ad almeno 8529.
In Tema di Memoria v. Il sonno della ragione razzismo, antisemitismo e Shoah di Ruggero Taradel
Un volo di stato chiude il caso Al Masri
La vicenda dell’arresto e del successivo rilascio di Al Masri, comandante della polizia giudiziaria di Tripoli destinatario di un mandato di arresto internazionale eseguito in Italia lo scorso 19 gennaio, è in queste ore al centro del dibattito soprattutto in ragione della successiva, peculiare decisione del Ministero dell’Interno di disporre il rimpatrio del criminale libico, eseguito prontamente attraverso un volo di stato.
Nelle relazioni tra Italia e Libia da quasi vent’anni si intersecano esigenze di realpolitik ed espedienti tesi a salvare l’apparenza sul piano del diritto internazionale.
Le implicazioni della vicenda sotto il profilo strettamente giuridico sono – e saranno – complesse. Nel tentativo di offrire al dibattito un contributo tecnico, come ci compete, proponiamo di seguito un’analisi della vicenda giudiziaria e del contesto normativo ed istituzionale in cui si colloca.
La Corte di Appello di Roma ordina la scarcerazione di Al Masri: alcune riflessioni sull’esecuzione da parte delle autorità italiane dei mandati d’arresto emessi dalla Corte Penale Internazionale
di Lavinia Parsi
Lo scorso 19 gennaio, veniva tratto in arresto Njeem Osama, noto come Al Masri (“l’egiziano”), poi rilasciato per ordine della Corte di Appello di Roma il 21 gennaio. L’arresto avveniva sulla base di un mandato emesso dalla Corte Penale Internazionale (CPI) il giorno precedente[1] per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi almeno dal 2015 nel centro di detenzione di Mitiga, il più grande della Libia occidentale.
Più precisamente, Al Masri è indagato da parte della CPI per i crimini di guerra di omicidio, tortura e trattamenti crudeli (ai sensi dell’art. 8(2)(c)(i) dello Statuto di Roma), oltraggio alla dignità personale (art. 8(2)(c)(ii)), stupro, violenza sessuale e schiavitù sessuale (art. 8(2)(e)(vi)) e per i crimini contro l’umanità di omicidio (art. 7(1)(a)), riduzione in schiavitù (art. 7(1)(c)), detenzione illegittima (art. 7(1)(e)), tortura (art. 7(1)(f)), stupro, violenza sessuale e schiavitù sessuale (art. 7(1)(g)), persecuzione (art. 7(1)(h)) ed altri atti disumani (art. 7(1)(k))[2] commessi nei confronti di migranti ed oppositori[3]. Tali crimini, già ampiamente documentati da numerosi avvocati per i diritti umani e dalla Independent Fact Finding Mission on Libya delle Nazioni Unite[4], venivano sistematicamente commessi a Mitiga da parte delle Forze Speciali di Deterrenza (note come “Rada’a”), un’unità islamista radicale formatasi in seno alla polizia militare di Tripoli durante la guerra civile del 2011 e che rappresenta ad oggi una delle maggiori milizie in controllo del Paese. In qualità di direttore del centro di detenzione di Mitiga, e membro di Rada’a, Al Masri avrebbe commesso personalmente, ordinato o partecipato alla commissione delle condotte di cui sopra[5].
Per questi motivi, simultaneamente all’emissione del mandato d’arresto, il 18 gennaio 2025 la CPI inoltrava una richiesta di apposizione di red notice da parte di Interpol, così da allertare le forze dell’ordine competenti nelle giurisdizioni nazionali interessate e richiedere l’arresto dell’indagato[6]. La stessa notte, quindi, la D.i.g.o.s. di Torino arrestava provvisoriamente Al Masri, trasmettendo la relativa nota alla Corte di Appello di Roma (competente in materia ex art. 11 della l. 237/2012, relativa all’adeguamento alle disposizioni dello Statuto della CPI) e al Ministero della Giustizia, in data 19 gennaio 2025. La Corte di Appello, sentito il Procuratore Generale, rilevava l’irritualità dell’arresto ed ordinava l’immediata scarcerazione di Al Masri[7]. Come si legge nel provvedimento, la fonte per l’applicazione della misura cautelare ai fini della consegna alla CPI è correttamente identificata nell’art. 11 della l. 237/2012, il quale dispone che – nei casi in cui sia già stato emesso dalla CPI un mandato d’arresto o una sentenza di condanna a pena detentiva – il Procuratore Generale presso la corte di Appello di Roma, ricevuti gli atti, chiede alla medesima corte l’applicazione della misura della custodia cautelare nei confronti della persona della quale è richiesta la consegna. La trasmissione degli atti al Procuratore Generale, invece, è affidata al Ministro della Giustizia che, ex art. 2, comma 1 della l. 237/2012, cura in via esclusiva i rapporti con la CPI, ad egli competendo di ricevere le richieste dalla Corte e darvi seguito.
Nel caso di specie, la Corte di Appello rileva che la D.i.g.o.s. di Torino, pur richiamando l’art. 11 della l. 237/2012, non ha atteso la richiesta del Procuratore Generale ai fini dell’applicazione della misura, ma ha agito di propria iniziativa, apparentemente ai sensi dell’art. 716 c.p.p.: tale norma, relativa alle procedure di estradizione, in casi di urgenza, prevede infatti la possibilità di effettuare un arresto su iniziativa della polizia giudiziaria, simultaneamente informando il Ministro della Giustizia e la Corte d’appello competente. A parere dei giudici, l’arresto di Al Masri sarebbe dunque irrituale perché sarebbe avvenuto in applicazione della procedura prevista per l’estradizione, e non invece di quella prevista per l’esecuzione dei mandati d’arresto emessi dalla CPI. A conferma di ciò, la Corte di Appello sottolinea che è prevista dalla stessa l. 237/2012 una norma rubricata “Applicazione provvisoria della misura cautelare” (art. 12), la quale rinvia però alla stessa procedura prevista dall’art. 11, e quindi alla richiesta da parte del Procuratore Generale in seguito a ricezione degli atti da parte del Ministro della Giustizia. Vale la pena notare che, come si apprende dall’informativa della D.i.g.o.s. relativa all’esecuzione dell’arresto, era una nota della Direzione Centrale della Polizia Criminale – Servizio di Cooperazione Internazionale, presso il Ministero dell’Interno, a pregare la Questura di Torino di “valutare la sussistenza delle condizioni e l’opportunità di procedere ai sensi degli art 716, in relazione al 715, del c.p.p.”[8].
A parere di chi scrive, vi era spazio almeno per un’interpretazione alternativa da parte della Corte di Appello. Come giustamente rilevato nell’ordinanza, l’art. 3 della l. 237/2012 prevede che, laddove non sia disposto diversamente, in materia di consegna, cooperazione ed esecuzione di pene si osservino le norme contenute nel libro XI, titoli II, III e IV del codice di procedura penale. Nei casi di mandato d’arresto emesso dalla CPI, quindi, se non previsto altrimenti, sono effettivamente applicabili le norme relative all’estradizione. Ebbene, la Corte di Appello di Roma esclude l’applicabilità dell’art. 716 c.p.p. in quanto la procedura per l’applicazione (anche provvisoria) di misure cautelari è prevista dagli artt. 11 e 14 della l. 237/2012: in osservanza del brocardo ubi lex voluit dixit, se il legislatore avesse voluto prevedere una forma di arresto su iniziativa della polizia giudiziaria, avrebbe redatto una norma a ciò dedicata. Tale lettura, tuttavia, è apparentemente contraria alla lettera dell’art. 3, l. 237/2012, che prevede – all’opposto – che le lacune possano e debbano essere colmate alla luce delle disposizioni rilevanti del codice di procedura penale: ciò avviene anche per aspetti essenziali inerenti all’applicazione di misure cautelari, come i termini che, non previsti espressamente dalla l. 237/2012, sarebbero altrimenti da considerarsi assenti tout court.
Anche un’interpretazione teleologicamente orientata delle norme in oggetto sembrerebbe militare a favore dell’applicabilità della procedura prevista dall’art. 716 c.p.p. ai casi di mandati d’arresto emessi dalla CPI. Sarebbe infatti illogico che l’ordinamento italiano prevedesse la possibilità di intervento su iniziativa della polizia giudiziaria per reati comuni e non per i crimini internazionali puniti dallo Statuto di Roma, che sono per definizione connotati da una eccezionale gravità. Inoltre, alla luce degli interessi tendenzialmente collegati alla posizione degli indagati oggetto di mandato d’arresto da parte della CPI, non potere applicare una procedura che assicuri l’arresto in tempi estremamente rapidi significherebbe, nella maggior parte dei casi, frustrare ogni possibilità di azione da parte della Corte[9].
A prescindere dall’adesione o meno all’interpretazione proposta dalla Corte di Appello di Roma, merita attenzione il fatto che sembra esserci stato un inadempimento da parte del Ministro della Giustizia, il quale non avrebbe trasmesso gli atti relativi al mandato d’arresto nei confronti di Al Masri al Procuratore Generale. Il fatto appare ancor più rilevante, poiché oltre ad avere ricevuto la richiesta attraverso i canali previsti per queste comunicazioni con la CPI, il Ministro della Giustizia era stato opportunamente avvisato dalla D.i.g.o.s. di Torino il 19 gennaio e dal Procuratore Generale il 20 gennaio. Come rilevato nell’ordinanza, il 21 gennaio il Ministero non aveva ancora fatto pervenire alcuna richiesta relativamente all’arresto di Al Masri.
La ricostruzione rispecchia quanto rilevato dalla CPI in un comunicato stampa dedicato[10]. Nel comunicato si riporta che, immediatamente dopo l’esecuzione dell’arresto, la Corte, su espressa richiesta delle autorità italiane, si era astenuta dal commentare pubblicamente la notizia; al tempo stesso, essa aveva continuato a impegnarsi con le autorità italiane per garantire l’effettiva esecuzione di tutti i passaggi procedurali richiesti dallo Statuto di Roma. In questo contesto, la Cancelleria della CPI aveva altresì ricordato alle autorità italiane che, nel caso in cui avessero riscontrato problemi capaci di ostacolare o impedire l’esecuzione della richiesta di cooperazione, avrebbero dovuto consultare la Corte senza indugio per risolvere la questione. Le autorità italiane, tuttavia, non rispondevano mai a tali solleciti: il 21 gennaio 2025, senza preavviso o consultazione alcuna, la Corte apprendeva che Al Masri era stato rilasciato e riportato in Libia.
Se, da un lato, l’esitazione si presta a facili interpretazioni, anche alla luce degli esposti presentati alla CPI nei confronti di alcuni Ministri ed ex-Ministri italiani proprio in relazione ai crimini commessi contro i migranti in Libia[11], vale la pena ricordare che, d’altro canto, l’Italia occupa un ruolo di cruciale importanza nell’indagine in oggetto, rappresentando uno dei quattro Paesi componenti la Squadra comune relativa ai crimini commessi contro i migranti in Libia, di cui è parte anche l’Ufficio della procura della stessa CPI[12]. Tale grave inadempimento, oltre ad essere stato oggetto di richieste di spiegazioni da parte di alcuni parlamentari[13] e di una denuncia per artt. 378 e 314 c.p.[14], è attualmente oggetto di verifica da parte della CPI. In effetti, agli articoli della l. 237/2012 sin qui menzionati, pare opportuno (se non necessario) aggiungere un riferimento all’art. 1, che sancisce un “obbligo di cooperazione” dello Stato italiano con la CPI: nonostante nelle ultime settimane vari membri del Governo abbiano rilasciato dichiarazioni di segno opposto[15], eseguire i mandati d’arresto della Corte rappresenta a tutti gli effetti un obbligo per gli Stati Parte, che si sono in tal senso impegnati tramite la firma e la ratifica dello Statuto di Roma[16]. Pertanto, come già rilevato da alcuni avvocati ed organizzazioni per i diritti umani[17], la condotta dell’Italia rappresenta altresì una violazione dell’art. 89 dello Statuto di Roma, il quale prevede che: “Gli Stati contraenti, in conformità alle disposizioni della presente Parte e alla procedura prevista dal loro diritto nazionale, ottemperano alle richieste di arresto e consegna.”
[1] CPI, Camera Preliminare I, Situazione in Libia, “Warrant of Arrest for Mr Osama Elmasry / Almasri Njeem”, ICC-01/11-149-US-Exp (18 gennaio 2025).
[2] ICC-01/11-149-US-Exp, para. 17-90.
[3] Come emerge dal mandato d’arresto nonché, da anni, dalle testimonianze raccolte da organizzazioni della società civile e dai rapporti pubblicati dalle Nazioni Unite, le vittime comprendono tuttavia anche avvocati, attivisti per i diritti umani e soggetti discriminati a causa del loro orientamento religioso o sessuale.
[4] UNGA, Human Rights Council, “Report of the Independent Fact Finding Mission on Libya”, A/HRC/52/83 (20 marzo 2023), para. 57-58, 61-66, 84, 97; UNGA, Human Rights Council, “Report of the Independent Fact Finding Mission on Libya”, A/HRC/50/63 (22 giugno 2022), para. 36-39, 65-66, 92-93.
[5] Come riportato nel mandato d’arresto, Al Masri dirigeva il carcere di Mitiga ed in particolare “era responsabile della gestione delle guardie, come dimostra il fatto che organizzava i loro turni e dava loro istruzioni e ordini. Assistendo il trattamento dei detenuti, decidendo l’assegnazione e la riassegnazione dei detenuti a fini organizzativi, al fine di punire i detenuti o per impedire qualsiasi forma di comportamento contrario, sembra che [Al Masri] abbia anche esercitato un controllo amministrativo sulle persone detenute nel carcere di Mitiga. Picchiare i detenuti era una pratica comune tra le guardie carcerarie e i comandanti, i quali riferivano al signor [Al Masri]. In alcune occasioni il signor [Al Masri] era presente mentre le guardie percuotevano i detenuti o sparavano contro di loro. [Al Masri] avrebbe ordinato alle guardie di picchiare i detenuti in modo che le ferite non fossero visibili. Inoltre, avrebbe punito le guardie che aiutavano i detenuti ad avere contatti con le loro famiglie o a procurarsi cibo migliore.”
[6] Come è noto, sebbene le red notice non rappresentino per se un mandato d’arresto, esse rappresentano una richiesta su scala globale di arrestare provvisoriamente i soggetti indicati, in quanto ricercati da Stati terzi o da tribunali internazionali.
[7] Corte di Appello di Roma, Sez. IV Penale, R.G. 11/2025, Ordinanza in materia di consegna ex lege 237/2012 Corte Penale Internazionale (21 gennaio 2025).
[8] Ministero dell’Interno, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Direzione Centrale della Polizia Criminale – Servizio di Cooperazione Internazionale, Prot. MI-123-U-B-1-2-FD-2025-51, 19 gennaio 2025.
[9] Come noto, la CPI non prevede la possibilità di procedere nei confronti di imputati in absentia. Solo in casi assolutamente eccezionali, la Corte ha recentemente determinato che è possibile svolgere l’udienza di conferma delle accuse (equiparabile all’udienza preliminare prevista dal nostro ordinamento) in assenza dell’indagato. Si veda: CPI, Camera Preliminare III, Situazione in Uganda, Procuratore c. Joseph Kony, “Decision on the criteria for holding confirmation of charges proceedings in absentia”, ICC-02/04-01/05-532 (29 ottobre 2024).
[10] CPI, Comunicato stampa: “Situation in Libya: ICC arrest warrant against Osama Elmasry Njeem for alleged crimes against humanity and war crimes” (22 gennaio 2025).
[11] Per una ricostruzione compiuta degli esposti presentati alla Corte Penale Internazionale sia consentito il rinvio a: Lavinia Parsi, Francesca Vitarelli, “Attuazione delle politiche anti-migratorie e crimini contro l’umanità: emergenti parallelismi ed esigenze di coordinamento tra giustizia penale nazionale e internazionale”, Sistema Penale 9/2023.
[12] CPI, Comunicato stampa: “Statement of ICC Prosecutor, Karim A.A. Khan QC: Office of the Prosecutor joins national authorities in Joint Team on crimes against migrants in Libya” (7 settembre 2022).
[13] Ansa, Le opposizioni all'attacco contro la scarcerazione del comandante libico Almasri” (22 gennaio 2025).
[14] Come riportato da fonti giornalistiche, la denuncia è stata presentata presso la Procura di Roma nei confronti della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ed il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, titolare della delega ai servizi segreti, su iniziativa dell’ex-sottosegretario alla Giustizia Luigi Li Gotti. Si veda: Ansa, “Avvocato denuncia Meloni e Piantedosi su caso Almasri” (23 gennaio 2025).
[15] Da ultimo, il Ministro degli Esteri Tajani avrebbe commentato il caso affermando che “L'Aia non è la bocca della verità, si possono anche avere visioni diverse. Noi siamo un Paese sovrano e facciamo la nostra politica”, Euronews, “Il ministro dell'Interno Piantedosi: ‘Al Masri pericoloso, espulso per la sicurezza dello Stato’” (23 gennaio 2025).
[16] Si veda da ultimo: CPI, Camera Preliminare II, Situazione in Ucraina, “Finding under article 87(7) of the Rome Statute on the non-compliance by Mongolia with the request by the Court to cooperate in the arrest and surrender of Vladimir Vladimirovich Putin and referral to the Assembly of States Parties”, ICC-01/22-90 (24 ottobre 2024).
[17] Fédération Internationale pour le Droits Humains, “Italy’s failure to surrender Libyan suspect to the International Criminal Court is a breach of its Rome Statute obligation” (23 gennaio 2025).
Il mandato di arresto a carico di Almasri è pubblicato sul sito della Corte penale internazionale.
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