ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
G. Canzio - F. Fiecconi, GIUSTIZIA per una riforma che guarda all'Europa, Vita e pensiero, Milano, 2021.
Recensione di R. Conti
Qual è il contesto nel quale Gianni Canzio e Francesca Fiecconi hanno messo mano al libro “Giustizia per una riforma che guarda all’Europa” edito da Vita e Pensiero?
Il mondo della giustizia appare sempre più popolato da una pluralità di conflitti e problemi, interni alla magistratura ed esterni.
Fra i primi emergono, nemmeno sotto traccia, le diversità di accenti ed i distinguishing fra giudici di merito e giudice di legittimità, quest’ultimo spesso accusato dai primi di svolgere una funzione notarile e legalistica, lontana dalla carnalità delle vicende esaminate nel merito.
Conflitti che coinvolgono, per altro verso, la Cassazione, la Corte costituzionale e le Corti sovranazionali - di Giustizia dell’Unione europea e dei diritti dell’uomo - i rapporti fra Costituzione e Carte dei diritti fondamentali a tratti protagonisti di vere e proprie “guerre” che hanno dato l’impressione di superare la normale dialettica fra diversi plessi giurisdizionali per mostrarsi come meno commendevoli tentativi di accaparramento del ruolo di “guida” e di primato nell’interpretazione della Costituzione e delle Carte dei diritti sovranazionali.
Conflitti, ancora, ormai storicamente pervadono i rapporti fra magistratura e legislatore e sempre di più il mondo della giustizia e quello della comunicazione, ponendo in quest’ultimo ambito l’interrogativo sul modo con il quale la giustizia comunica sé stessa, sulla tendenza dei mezzi di informazione, cani da guardia della democrazie, a surrogarsi alla giustizia con processi mediatici che, privi delle garanzie tipiche dei processi, mettono in crisi l’apparato giudiziario, a volte condizionandone l’azione, la credibilità e l’autonomia.
Insomma, è questo un tempo nel quale la rappresentazione della giustizia si associa all’idea dei “problemi” che attorno ad essa ruotano.
Problemi di certezza e prevedibilità del diritto in ragione dalla pluralità dei centri decisionali e dei differenti livelli di protezione di sistemi tra loro concorrenti e non sempre omogeneamente interpretati.
Problemi di legittimazione democratica che si assume mancare in capo alla magistratura – comune e costituzionale -tutte le volte in cui essa si arrogherebbe compiti riservati alla discrezionalità del legislatore ed all’investitura popolare che non ha il giudice, disancorando la sua azione dal rispetto dalla separazione dei poteri.
Ecco, riassunto per sommi capi ed a tratti forse in modo approssimativo, il tempo attuale del mondo della giustizia.
L’idea dei due Autori del libro qui recensito di dedicare tempo e meningi al tema della giustizia si potrebbe subito dire che non sia originale e che, anzi, molti magistrati, in servizio o freschi della pensione, siano propensi a dedicare parte del loro tempo a ragionare su ciò che è stata la compagna di vita per anni.
Un’unione al femminile con la “compagna giustizia” che accompagna le giornate delle magistrate e dei magistrati in un modo che spesso (non sempre, sia ben chiaro) entra nell’epidermide e si innerva fino a far generare e pensare allo stereotipo che la toga il magistrato non può dismetterla mai, anche a volerlo.
È però vero che questo cappello iniziale forse sarebbe andato bene per un libro sulla giustizia scritto prima delle vicende che nell’ultimo periodo hanno scosso il sistema giudiziario. Al punto che quello stereotipo oggi rischia seriamente di diventare un boomerang difficile da gestire.
Ecco che l’impresa di Canzio e Fiecconi è davvero coraggiosa e per certi aspetti titanica, perché giunge quando l’indice di credibilità e affidabilità della magistratura si attesta su livelli estremamente bassi.
Del resto, le mani che hanno contribuito a tessere la trama di questo saggio sulla giustizia non si nascondono affatto il contesto nel quale prende luce il libro.
Anzi, è proprio da quel contesto che Giustizia prende le mosse proponendosi, senza tentennamenti, come libro modello, nel quale l’analisi delle inefficienze e del degrado etico e deontologico dell’essere magistrato non è fine a sé stessa, ma diventa scommessa per il riscatto, proposta operativa sul come uscire dal guado, fissazione di coordinate capaci di rendere la giustizia adeguata alla società che cambia.
E non serve certo ricordare l’ormai celebre saggio del beato Rosario Livatino sul ruolo del giudice nella società che cambia per focalizzare l’idea che, oggi, il problema della Giustizia è non solo collegato al rapporto del giudice con la società ma, a monte, alla sua stessa funzione, al modo con il quale essa è esercitata e svolta.
La prima cosa che colpisce è il fatto che i due autori non abbiano deciso di occuparsi individualmente di alcuni dei temi ai quali sono dedicati i nove paragrafi.
Una scelta di campo precisa che mostra comunità di intenti e di obiettivi e, anche, piena e reciproca fiducia fra Canzio e Fiecconi.
Elemento sul quale occorre soffermarsi, essendo il primo già stato ai vertici della magistratura di legittimità e della Corte di appello di Milano e la seconda impegnata come consigliera addetta tanto presso la Corte di appello di Milano che in Cassazione. Due percorsi solo in parte paralleli che trovano, peraltro, una diversità strutturale nel fatto che Canzio è stato uno dei “penalisti” più autorevoli delle Corti – di legittimità e di merito oltre ad avere presieduto la Cassazione e la Corte di appello di Milano - mentre Fiecconi incarna la figura della “civilista” di lungo corso, impegnata negli osservatori della giustizia civile, con un’esperienza profonda maturata all’interno della rete europea e riversata sui temi dell’Innovazione e del multiculturalismo.
Insomma, esperienze professionali diverse che in Giustizia si fondono reciprocamente, evidentemente in ragione di una visione di insieme dei “mali” e dei “beni” della giustizia.
Ecco dunque che Giustizia propone una serie di ricette.
L’idea che sembra prevalere è che il malato possa essere curato solo attraverso uno sforzo congiunto di tutti i protagonisti che gravitano nel mondo giudiziario.
Inserire il ruolo e la funzione dell’Avvocato in Costituzione che il volume auspica e guarda con non celato favore assume un valore particolare e significativo - provenendo da due appartenenti all'ordine giudiziario –, sia in relazione al ruolo di vero e proprio garante della legalità e del giusto processo-pag.29- sia alla consapevolezza espressa sul fatto che l’avvocato, in quanto attore della giustizia, ha a suo carico responsabilità non secondarie per la corretta ed equa gestione del contenzioso, anche attraverso funzioni di ausilio all’apparato amministrativo degli uffici giudiziari. In questa prospettiva, si coglie l’auspicio che siano proprio gli avvocati a partecipare a processi virtuosi volti al contenimento equilibrato di cause innanzi alla Corte di Cassazione (pag.181) ed a alla semplificazione ed accelerazione del flusso dei ricorsi, manifestando scetticismo per l’idea di un ampliamento del numero dei consiglieri, da solo inidoneo a ridurre in maniera stabile i tempi di definizione dei ricorsi se questi numeri non deflettono.
Già questa prospettiva fa emergere il filo rosso che tiene uniti due autori, concordi nel ritenere che i tempi ed i modi di giustizia non sono soltanto quelli dei magistrati, ma anche di chi con quelli coopera.
Certo, nella visione di Canzio e Fiecconi è il giudice che deve mettersi completamente in gioco.
Un giudice in movimento che è tale a causa del movimento vorticoso in cui vive, per rispondere al quale egli è chiamato ad un protagonismo parzialmente creativo (pag.35) che lo pone in sinergica cooperazione con altri giudici con i quali egli è naturalmente chiamato ad operare.
Ma non basta essere dinamici, pronti a raccogliere le sfide che giungono dall’intelligenza artificiale e dalla digitalizzazione.
Gli aspetti robotici e telematici hanno, agli occhi dei due autori, un ruolo importante, ma la sostanza che viene richiesta al giudice per invertire la rotta, la vera riforma è ben diversa, potremmo dire “culturale”.
Dietro a questa accezione, in sé anodina, Giustizia non nasconde l’idea, per certi aspetti al contempo rivoluzionaria ed elitaria, di un giudice che sa essere interprete del diritto, valutatore del fatto ma anche “uomo di cultura a tutto tondo, non solo giuridica ma anche umanistica e scientifica”-pag.39-, ancora “abile nell’esercizio dell’arte del giudicare, esperto nella logica inferenziale e nella verifica degli schemi statistico-probabilistici, come pure nelle tecniche della scrittura argomentativa”.
Segmentando quest’affermazione si coglie già un primo aspetto fortemente innovativo.
L’europeismo dei due autori ha radici e percorsi diversi, ma giunge a risultati omogenei.
Il giudice nazionale non può non essere europeo e, per essere tale, deve maneggiare bene la materia e deve sapere confrontarsi e dialogare eticamente con altri giudici, altre giurisprudenze, altri diritti, districandosi, per dirla con Manes che pure i due autori ricordano, nel “labirinto” delle fonti e delle giurisprudenze. E ciò non per mero arricchimento o appagamento personale, ma perché nel nuovo modello professionale disegnato da Giustizia il magistrato o è europeo, o non è magistrato.
Per questo, secondo Giustizia, la fondamentalità delle forme di dialogo fra giudice nazionale e Corti sovranazionali rappresenta un valore da perseguire, a tutti i costi, anche rispetto al tema controverso della mancata ratifica del Protocollo n.16 annesso alla CEDU, che introduce lo strumento della richiesta di parere preventivo alla Corte europea dei diritti dell’uomo da parte delle Alte giurisdizioni nazionali recentemente entrato in vigore, ma non per l’Italia, in ragione dello stallo parlamentare nel quale in atto giace il ddl di ratifica dopo l’approvazione del Protocollo n.15.Stallo che Giustizia stigmatizza, opportunamente, definendolo incomprensibile -63-.
Ed è qui che si completa il paradigma del buon giudice riformato, non solo capace di conoscere il diritto nella multiforme dimensione che oggi esso assume, ma anche di esserne artefice attivo, al punto da mettere in discussione il “primato assoluto della legge statuale… a favore del primato dei diritti fondamentali e della persona”.
Un giudice dunque, intimamente “costituzionale”, nutrito dalla giurisprudenza delle Corti europee che spesso colma le lacune del diritto interno-pag.51- purché il giudice sappia dialogare con quelle giurisdizioni, senza perdere il senso del proprio ruolo ma senza nemmeno depotenziarne la forza. Un giudice che, in questo contesto, si troverà a confrontarsi con la babele dei linguaggi di ciascuna giurisdizione, alla quale dovrà far fronte con una chiarezza espositiva da modulare all’interno di percorsi motivazionali improntati al canone del “minimo costituzionale”, forgiato dalle Sezioni Unite civili nelle ormai storiche sentenze gemelle n.8053 e 8054 del 2014.
Il che varrà, soprattutto per il giudice di legittimità, quotidianamente a confronto con quella nozione di nomofilachia dinamica, circolare e aperta tanto cara a Gianni Canzio- qui richiamata a pag.174- che costituisce l’antidoto all’incertezza anche sul versante della c.d. tutela multilivello.
Tutto quello che si è qui scritto rappresenta una faccia della cultura richiesta al giudice che in Giustizia si arricchisce ulteriormente rispetto dell’altro verso della medaglia che il buon giudice deve possedere per essere autorevole e, con le parole di Livatino, soprattutto credibile.
Giustizia ci dice che il magistrato non è solo cultura giuridica, ma deve essere anche altro, molto altro. Un giudice capace di comprendere tanto il ruolo ed il peso della responsabilità che sullo stesso ricade quanto la centralità degli aspetti etici della funzione e delle limitazioni che da ciò conseguono rispetto all’esercizio di altre professioni.
Certo, a prendere alla lettera le affermazioni dei due autori, verrebbe da pensare che l’accesso al concorso in magistratura debba essere totalmente riformato e non solo per le prove di concorso, ancora impregnate di nozionismo ma anche, a monte, per la formazione universitaria. Basta volgere lo sguardo ai piani di studio di giurisprudenza per accorgersi quanto poco essi siano pronti alla prospettiva che appare per questo tanto avveniristica quanto ineludibile.
Anche l’esperienza di stampo pratico sulla quale il legislatore ha investito parecchio con le figure dei tirocinanti negli uffici giudiziari non sembra rispondere appieno a quel modello europeo al quale si rifanno i due autori, forse entrambi immaginando che una certa dose di qualità del buon giudice debbano comunque essere sviluppate e praticate singolarmente, in assenza di “formazione” generalizzata.
Un decisore di qualità non può che essere un intellettuale, un uomo di cultura a tutto tondo(184) capace al contempo di valutare in modo responsabile il fatto e di interpretare il diritto in modo da rendere decisioni di qualità.
Il tema è di estrema delicatezza e non potrà che costituire oggetto di ulteriore riflessione, anche per valutare quanto i tempi – id est, la crisi dei tempi - del sistema giustizia possano oggi in concreto consentire la realizzazione di questo progetto culturale ambizioso.
Resta l’attenzione di Giustizia al processo e all’audace stagione riformatrice, alla quale Giustizia intende partecipare, non solo elencando possibili modifiche ordinamentali tanto sul versante civile
- riduzione dei tempi del contenzioso previa selezione da parte del giudice di primo grado dei riti e strumenti esistenti ( ordinario e sommario, ordinanze anticipatorie) a seconda delle singole materie, apertura degli Uffici alle esigenze del cittadino, aumento organici, ufficio del processo a supporto di ciascun giudice, ampliamento delle ADR, impronta efficientistica all’organizzazione degli Uffici, oculato utilizzo dell’intelligenza artificiale nello studio del caso e nell’udienza telematica - che su quello penale, nel quale spicca l’idea di una giurisdizione sempre più attenta alle garanzie delle parti, soprattutto nella fase delle indagini, attraverso un più stretto raccordo fra P.M. e polizia giudiziaria e l’apertura di “finestre di giurisdizione”-.
Il tratto comune delle riforme dovrebbe tendere alla riacquisita “cultura della giurisdizione”, vero antidoto al populismo giudiziario ed al rito mediatico.
Ed in questo recupero della cultura della giurisdizione dovrebbe trovare posto, secondo Giustizia, anche il divieto di dichiarare la prescrizione del reato nel corso del processo se non decorsa anteriormente alla condanna in primo grado, a patto di garantire tempi celeri alle varie fasi del processo. Insomma una revisione complessiva del sistema che non potrebbe nemmeno tralasciare il settore delle misure cautelari, sul quale si incentra patologicamente l’attenzione mediatica ed a quelle carcerarie, per le quali il volume sembra volere aprire alla possibilitòà di rivedere i meccanismi premiali rispetto a figure delele quali molto si è parlato in questo periodo- art.4 bis ord.penitenziario-.
Insomma, nel cantiere delle plurime riforme che il Parlamento si avvia a varare in materia di Giustizia, Giustizia intende ritagliarsi uno spazio "culturale", offrendo ai suoi lettori - giuristi, operatori del diritto, Governo legislatore, società civile - idee, suggerimenti, prospettive.
Viene certo da chiedersi, a questo punto, chi siano i veri destinatari delle riflessioni e proposte di Canzio e Fiecconi.
Il messaggio sembra essere di estrema chiarezza. Gli interlocutori privilegiati sembrano essere quei, pochi o tanti che siano, che guardano alla Giustizia come servizio e sono pronti a mettersi in discussione, a ragionare, a dialogare soprattutto con i “non giudici” ai quali pure appartiene la Giustizia, condividendo una base etica e professionale comune che riconosce l’altro perché sa che senza quell’altro la giustizia è e sarà “mezza”.
Un’affermazione forte quale può sembrar quella che i veri signori del processo restano i difensori delle parti che in esso si affrontano e si confrontano-pag.76- è, invece, se intesa nel senso corretto, il segnale dell’idea di fondo che sembra stare dietro a Giustizia: quella della cooperazione e collaborazione fra tutti i protagonisti del processo.
Un’idea solo apparentemente scontata e banale, dietro alla quale c’è il recupero della funzione giudiziaria, povera e serva rispetto alle istanze di chi ad essa si rivolge.
Gli emendamenti in materia di esecuzione forzata al d.d.l. delega AS 1662/XVIII
di Alberto Tedoldi
Sommario: 1. Il “campo d’Agramante” dell’esecuzione forzata - 2. Abolizione della formula esecutiva (art. 8, lett. a, d.d.l. delega) - 3. Sospensione del termine di efficacia del precetto in caso di indagini telematiche ex art. 492 bis c.p.c. (art. 8, lett. b, d.d.l. delega) - 4. Deposito della documentazione o del certificato notarile attestante le risultanze delle visure catastali e dei registri immobiliari entro il medesimo termine fissato per il deposito dell’istanza di vendita (art. 8, lett. c, d.d.l. delega) - 5. Anticipazione della nomina del custode dell’immobile pignorato in luogo del debitore immediatamente dopo il deposito della certificazione notarile e contemporaneamente alla nomina dell’esperto stimatore (art. 8, lett. d, d.d.l. delega) - 6. L’ennesima riscrittura della disciplina sulla liberazione dell’immobile pignorato (art. 8, lett. e, d.d.l. delega) - 7. Il professionista delegato deve svolgere almeno tre esperimenti di vendita in un anno, a pena di sostituzione (art. 8, lett. f, d.d.l. delega) - 8. Il controllo sugli atti del professionista delegato ex art. 591 ter c.p.c.: reclamo al g.e. entro venti giorni e successiva opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c., in luogo del reclamo al collegio ex art. 669 terdecies c.p.c. (art. 8, lett. g, d.d.l. delega) - 9. Approvazione anche tacita del progetto distributivo, dichiarazione di esecutività e pagamenti demandati al professionista delegato, in assenza di contestazioni (art. 8, lett. h, d.d.l. delega) - 10. La vente privée, ovvero «l’inutile precauzione» (art. 8, lett. i, d.d.l. delega) - 11. Limiti quantitativi e temporali alle misure coercitive ex art. 614 bis c.p.c. e conferimento del potere di disporle anche al giudice dell’esecuzione (art. 8, lett. l, d.d.l. delega) - 12. Misure urgenti: la nuova competenza per l’espropriazione di crediti della P.A., in capo ai tribunali dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede (art. 15 ter, comma 4, d.d.l. delega, per la modifica dell’art. 26 bis, comma 1, c.p.c.) - 13. (segue): L’onere per il creditore pignorante di notificare e depositare avviso al debitore esecutato e al terzo pignorato dell’avvenuta iscrizione a ruolo del pignoramento presso terzi, a pena di inefficacia (art. 15 ter, comma 7, d.d.l. delega, che aggiunge tre periodi al comma 4 dell’art. 543 c.p.c.).
1. Il “campo d’Agramante” dell’esecuzione forzata
Nel maggio 2021 sono stati pubblicati corposi emendamenti governativi al d.d.l. delega AS 1662/XVIII, presentato dal precedente Governo al Senato il 9 gennaio 2020. A fine maggio del 2021 sono state rese pubbliche le proposte formulate dalla Commissione ministeriale presieduta da Francesco Paolo Luiso. Sia gli emendamenti varati dal Governo nella prima metà di maggio, sia le proposte della Commissione sono accompagnati da corpose relazioni illustrative, dal contenuto analogo.
Emendamenti e proposte sono stati rapidamente concepiti e forgiati onde ottenere i fondi europei previsti dal Recovery Plan, il c.d. Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR in acronimo). È questa la novità più saliente, dopo decenni di riforme processuali a costo zero mercé clausole di “invarianza finanziaria” per le esauste casse erariali, salvo trasferire e far pesare sugli utenti costi borsuali e formalismi, soprattutto telematici, sempre più onerosi e time consuming. Si pensi, exempli gratia, all’‘insostenibile leggerezza’ del PCT, che costringe non soltanto a depositare atti e documenti in forma telematica, ma a duplicarli mediante copie cartacee (analogiche si dice ora), entro più o meno eleganti ‘fascicoli di cortesia’, per consentire a chi non sia nativo digitale di studiare ed evidenziare «le sudate carte», come sempre è stato abituato a fare lungo il cursus studiorum et honorum. Ubiquità, non luoghi e ‘distanziamento sociale’ nella giurisdizione civile sono realtà da tempo endemiche e lo sono diventate viepiù con la pandemia, senza che possa sperarsi in alcuna sorta di resipiscenza, più che di “resilienza”, parola quest’ultima venuta ad nauseam, tanto diffusamente viene utilizzata fuor d’ogni pertinenza e contesto. Del che abbiamo scritto altrove, in un libro in corso di stampa e distribuzione, dedicato a «Il giusto processo (in)civile in tempo di pandemia».
Qui desideriamo soffermarci, a prima lettura, sulle ennesime novelle che si prospettano per la disciplina dell’esecuzione forzata, interessata quasi ogni anno che Domineddio manda in terra da ritocchi più o meno vasti che, lungi dall’accelerare le procedure, le hanno rese viepiù labirintiche e complicate, inesauribili fonti di questioni più o meno raffinate, che giungono sino al supremo consesso nomofilattico in progressione geometrica. Eppure, dovrebbe essere ormai noto che ogni novella delle forme processuali reca immancabilmente con sé nuovi problemi ermeneutici e applicativi, tant’è che l’inflazione di reiterate riforme cui si è assistito negli ultimi due lustri ha reso il libro III del c.p.c. un vero e proprio ‘campo d’Agramante’: si pensi, sol per far qualche esempio, ai ‘turbamenti’ (non del giovane Werther, ma) della giurisprudenza, a petto dell’art. 624, comma 3, c.p.c. sulla metamorfosi della sospensione dell’esecuzione forzata in estinzione; o alle continue modifiche al funestato art. 560 c.p.c. sulla liberazione dell’immobile pignorato, divenuto oggetto di contese e contrapposizioni ideologiche.
Al pessimismo della ragione deve, tuttavia, pur sottentrare l’ottimismo della volontà: armati di questo ci accingiamo, dunque, a esaminare gli emendamenti governativi al d.d.l. delega, non difformi in subiecta materia dalle proposte uscite dai lavori della Commissione Luiso. Emendamenti che intervengono non solo sull’art. 8 della delega, ma anche con l’aggiunta asistematica di un art. 15 ter (erroneamente numerato 15 bis, dopo altro art. 15 bis), che contiene «Misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata», in due commi (il 4 e il 7) dispersi in mezzo a molti altri e assai lunghi sui procedimenti in materia di persone e famiglia, tutti destinati a entrare in vigore già con l’approvazione dell’emananda legge, non a caso ex novo intitolata «Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata».
Questo è l’affannoso (non) metodo di legiferare del nostro tempo e non resta che farsene una ragione, stante l’urgenza di soddisfare i requisiti per ottenere gli ingenti fondi europei, sotto la stretta, occhiuta e surrogatoria vigilanza di banchieri e funzionari UE, del Tesoro e della Banca d’Italia.
2. Abolizione della formula esecutiva (art. 8, lett. a, d.d.l. delega)
Con l’art. 8, lett. a), si demanda al legislatore delegato di «prevedere che, per valere come titolo per l’esecuzione forzata, le sentenze e gli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria e gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale debbano essere formati in copia attestata conforme all’originale, abrogando le disposizioni del codice di procedura civile e di altre leggi che si riferiscono alla formula esecutiva e alla spedizione in forma esecutiva».
Nella Relazione illustrativa si legge quanto segue: «Di grande rilievo è certamente la disposizione di cui alla lettera a) con la quale si prevede che, per valere come titolo per l’esecuzione forzata, le sentenze e gli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria e gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale debbano essere formati in copia attestata conforme all’originale, abrogando le disposizioni del codice di procedura civile e di altre leggi che si riferiscono alla formula esecutiva e alla spedizione in forma esecutiva. Già da molto tempo la dottrina ha sottolineato che la formula esecutiva è un requisito formale la cui utilità è scarsamente comprensibile. E anche nella giurisprudenza di legittimità l’articolo 475 del codice di procedura civile è sempre stato interpretato in modo tale da escludere che la formula esecutiva costituisca elemento indefettibile per un titolo esecutivo, la cui identificazione avviene in base ad un approccio sostanziale fondato sulla sussistenza dei requisiti ex articolo 474 del codice di procedura civile (già Cass. 2830/1963, confermata nei decenni successivi, affermava che l’irregolarità della formula o la sua omissione devono essere denunciati con l’opposizione ex articolo 617 del codice di procedura civile). Da ultimo, la Corte di legittimità ha statuito, ulteriormente indebolendo la rilevanza della formula esecutiva, che “L’omessa spedizione in forma esecutiva della copia del titolo esecutivo rilasciata al creditore e da questi notificata al debitore determina una irregolarità formale del titolo medesimo, che deve essere denunciata nelle forme e nei termini di cui all’art. 617, comma 1, c.p.c., senza che la proposizione dell’opposizione determini l’automatica sanatoria del vizio per raggiungimento dello scopo, ai sensi dell’art. 156, comma 3, c.p.c.; tuttavia, in base ai principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e dell’interesse ad agire, il debitore opponente non può limitarsi, a pena di inammissibilità dell’opposizione, a dedurre l’irregolarità formale in sé considerata, senza indicare quale concreto pregiudizio ai diritti tutelati dal regolare svolgimento del processo esecutivo essa abbia cagionato” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 3967 del 12/02/2019). La disciplina legislativa sopravvenuta – riguardo all’iscrizione a ruolo dei processi di espropriazione mediante il deposito di una copia (formata dallo stesso difensore del creditore) del titolo rilasciato in forma esecutiva – rende vieppiù superflua la normativa codicistica che, nell’intento di evitare la formazione di vari duplicati del titolo e di arginare eventuali abusi (i quali possono essere azionati con altri strumenti; v., ad esempio, Cass. 7409/2021), dispone stringenti obblighi formali per il pubblico ufficiale deputato all’apposizione della formula. L’eliminazione della formula esecutiva (rectius, la possibilità di agire in executivis sulla scorta di una copia attestata conforme all’originale del titolo esecutivo) consente di eliminare adempimenti inutili per il personale amministrativo degli uffici giudiziari, per i notai (o per i conservatori degli archivi notarili) e anche per i legali (evitando l’incombente di dover richiedere l’apposizione della formula esecutiva e il rilascio della copia esecutiva, ben potendo gli stessi estrarre copia dei provvedimenti giudiziali dal PCT anche attestandone la conformità ai rispettivi originali)».
Identiche espressioni si trovano nella Relazione della Commissione Luiso (punto 4.1, pagg. 100 s.), salvo aggiungere richiami dottrinali a Satta, Carnacini, Redenti e Vellani.
Già altrove (cfr., si vis, Tedoldi, Esecuzione forzata, Pisa, 2020, 26 ss.) ricordavamo che, nel diritto romano classico, del titolo esecutivo non si sentiva il bisogno. Emessa la condemnatio, sempre pecuniaria, la successiva actio iudicati (il gaiano «post condemnationem iudicatum facere oportere») era in tutto modellata sulle legis actiones, con la particolarità di dar luogo alla poena dupli (cioè al raddoppio della pecunia dovuta dal condemnatus che non avesse adempiuto entro il tempus iudicati) e alla susseguente autorizzazione del creditore a procedere all’autotutela esecutiva mediante missio in bona, espressa nel duci iubere e nell’addictio pretorile, manifestazione non dello ius dicere, ma dell’imperium del magistrato, con il quale la sententia iudicis veniva integrata ab extra.
Fu per venire incontro alle esigenze dei commerci e per la certezza dei crediti pecuniari (soprattutto dei primi banchieri, in allora bollati come usurai o strozzini), che nel Medioevo videro la luce gli strumenti confessionati o guarentigiati, formati da notari, i quali ricevevano la dichiarazione dell’obbligato a guisa di confessio in iure, secondo la regola onde confessus pro iudicato habetur, che equiparava il confessus al condemnatus: «Confessio habet executionem parata… et propter hoc… instrumenta confessionata mandantur executioni sicut sententiae definitivae, quia per statutum, si sit confessio facta coram notario, videatur facta coram iudice», sanciva ex auctoritate Bartolo da Sassoferrato, riportando la communis opinio doctorum.
La cognizione e l’accertamento del credito non sono più necessari, come avveniva in passato, allorché dall’esecuzione non poteva mai principiarsi, giusta tradizionale brocardo («ab executione non est incohandum»). Con il sopravvento della mercanzia si appone al documento notarile una guarentigia, equivalente a una breve condanna giudiziale, in forza dei poteri giurisdizionali riconosciuti al notaro, iudex chartularius investito di una sorta di giurisdizione volontaria. L’equiparazione alla sentenza di tali documenti notarili confessionati o guarentigiati, «quae habent paratam executionem», si realizzava attraverso un procedimento sommario coram iudice, che metteva capo a un mandatum seu praeceptum de solvendo, cum vel sine clausola iustificativa, avo remoto del procedimento monitorio (v. gli artt. 633 ss. c.p.c.), in cui la cognitio causae era meramente summaria, perché parziale e limitata (o determinata, come pure soleva dirsi), riservando le eccezioni di lunga indagine «ad separatum iudicium», secondo lo schema della condanna con riserva, risalente al Liber de compensationibus delle Pandette giustinianee: «in executione instrumenti, sicut in executione sententiae, requiritur causae cognitio; sed in cognitione summaria exceptio quae requirit altiorem indaginem non admittitur».
Permaneva, insomma, la differenza qualitativa tra cognoscere et iudicare, schietta espressione di iurisdictio, e lo ius paratae executionis, il quale «imperii magis est quam iurisdictionis»: l’esecuzione forzata è propria dell’imperium, appartenente al potere esecutivo, assai più che dello ius dicere, esercitato dal potere giudiziario.
Con l’affermarsi dello Stato assoluto di Luigi XIV, le Roi Soleil, s’ebbe l’appropriazione della iurisdictio siccome pars summi imperii e, con quella, dell’esecuzione forzata e della formazione dei titoli esecutivi, la cui parcellizzazione e dispersione tra giurisdizioni locali e prerogative notarili ostacolava gli obiettivi di rafforzamento del potere centrale del sovrano e l’attuazione letterale e puntuale della sua volontà.
Così, le «lettres obligatoires, faites et passées sous Scel Royal» vennero imposte in tutto il regno di Francia, senza alcuna possibilità di sindacato giudiziale, in quanto scaturenti dall’autorità regia, anche quando il sigillo reale era apposto dal notaro o dal cancelliere per incarico del sovrano, cioè quale espressione del potere esecutivo che a lui soltanto poteva appartenere. Corollario di tale insindacabilità giudiziale fu l’affidamento dell’esecuzione forzata a funzionari amministrativi del potere centrale, i sergents du Roi, del cui modus operandi si ha vivida rappresentazione nel Tartuffe ou L’imposteur di Molière del 1667 (lo stesso anno dell’Ordonnance sur la réformation de la justice civile), al cui lieto fine, in luogo della versione precedente, contribuì lo stesso Luigi XIV, intervenendo qual deus ex machina a salvare Orgone dalle grinfie fameliche di Tartuffe, che aveva mandato un sergent du Roi per farsi rilasciare, entro il mattino successivo, la casa di Orgone con tutto quanto conteneva.
Soltanto l’apposizione del sigillo reale conferiva all’atto giudiziale o notarile l’efficacia esecutiva, legittimando il creditore a rivolgersi agli organi amministrativi dello Stato per l’esecuzione forzata del diritto consacrato nel titolo: «Qualunque sentenza sarà in tutta l’estensione del nostro regno in virtù d’un pareatis del gran suggello, senza che faccia d’uopo domandare il permesso alle nostre corti nella cui giurisdizione vorrassi far eseguire… Sarà nonpertanto permesso alle parti e agli esecutori dei giudicati, fuori l’ambito delle corti ove saranno stati resi, di prendere un pareatis nella cancelleria del parlamento ove dovranno eseguirsi, cui i guardasugelli saran tenuti a sugellare a pena d’interdizione, senza entrare in cognizione di causa» (così il Tit. XXVII, art. 6, dell’Ordonnance regia del 1667).
Di qui, attraverso il Code de procédure civile del 1806, testualmente riprodotto nel c.p.c. del 1865, la formula esecutiva giunse, per li rami dei secoli, sino ai giorni nostri, forgiata in analogia con quella in uso per la promulgazione degli atti aventi forza di legge, in modo da accordare ai provvedimenti giudiziari e agli atti notarili la stessa forza obbligatoria, quale espressione della volontà del sovrano manifestata dai suoi organi, cioè per bocca del magistrato o del funzionario pubblico: «Comandiamo a tutti gli ufficiali giudiziari che ne siano richiesti e a chiunque spetti, di mettere a esecuzione il presente titolo, al pubblico ministero di darvi assistenza, e a tutti gli ufficiali della forza pubblica di concorrervi quando ne siano legalmente richiesti» (art. 475, ult. comma, c.p.c.).
La forza esecutiva dell’atto proveniva, in allora, ab extra, dalla formula apposta dagli organi del potere esecutivo dello Stato, al quale è riservato l’imperium di comandare l’esecuzione coattiva dell’obbligo consacrato nel titolo e di produrlo ad consequentias. Con il riconoscimento alla cambiale degli effetti del titolo esecutivo, in grazia dell’art. 323 del codice di commercio del 1882, s’ebbe una sorta di rivoluzione copernicana, dacché s’infranse la necessaria correlazione tra forza esecutiva e natura pubblica dell’atto formato dall’organo statuale, cui il potere esecutivo apponeva il proprio suggello attraverso la formula. Un atto intrinsecamente ed estrinsecamente privato, un negozio giuridico concluso e sottoscritto da privati, veniva munito per legge di esecutorietà, senza bisogno di apporvi alcuna formula né alcun altro pubblico stigma.
Nasceva così la distinzione tra titoli esecutivi giudiziali e stragiudiziali e, con questa, attraverso gli svolgimenti successivi, si aveva una sorta di “interiorizzazione” dell’efficacia esecutiva del titolo, che derivava direttamente dalla legge e rendeva la formula esecutiva un relitto storico, appartenente all’estrinseco, cioè all’atto-documento, non alla sua efficacia esecutiva. La formula, nata in Francia per esprimere il passaggio dalla fase giurisdizionale a quella amministrativa e per simboleggiare il concorso degli organi della funzione sovrana governativa con la funzione giurisdizionale, in Italia fu la sintesi estrema del giudizio di autorizzazione all’esecuzione, che proveniva dalla tradizione romanistica e da quella del processo comune medievale: non dunque il passaggio da una ad altra funzione sovrana, da quella giurisdizionale a quella amministrativa, ma da uno ad altro modo di esercizio della medesima funzione giurisdizionale, mediato da una “fase preparatoria”, che si risolveva tout court nell’autorizzare documentalmente l’esecuzione coattiva. Con l’avvento della cambiale come titolo esecutivo quel nesso viene spezzato, perché la forza esecutiva deriva dalla legge, non dalla formula né dal suggello del sovrano: il fatto stesso che vi siano titoli esecutivi di formazione privata, per i quali non è prescritta la formula esecutiva, è prova inoppugnabile della superfluità di questa per l’efficacia esecutiva del titolo e segna il tramonto definitivo del crisma dell’autorità di governo quale elemento necessario per l’efficacia esecutiva del titolo.
Dalla dialettica, dianzi compendiata, tra (romanistica) esigenza di certezza sull’attuale esistenza del diritto sostanziale contenuto nel titolo e (germanica) tensione alla pronta realizzazione del credito nasce l’autonomia dell’azione esecutiva da ogni previa cognizione sul diritto, in forza di un titolo munito ex lege di efficacia esecutiva, che abilita il creditore a promuovere l’esecuzione forzata e onera il debitore a reagire alla stessa, proponendo l’incidente di cognizione mediante opposizione all’esecuzione. La cognizione viene in tal modo collocata all’esterno del procedimento esecutivo, nel quale non si giudica, non si conosce, si esegue soltanto e unicamente si esercita l’azione esecutiva in favore del creditore e a carico del debitore.
Il titolo esecutivo consiste, dunque, in un documento, che racchiude in sé un atto giuridico (pubblico, giudiziale o stragiudiziale, oppure privato), al quale la legge conferisce efficacia esecutiva.
Da questa breve definizione emerge la compresenza di tre elementi:
- l’elemento documentale, onde il titolo esecutivo si estrinseca sempre in un documento (anche informatico), che ha necessariamente forma scritta (anche digitale);
- l’elemento intrinseco, onde il titolo esecutivo contiene un atto giuridico, pubblico (giudiziale o stragiudiziale) o privato (come la scrittura privata autenticata o la cambiale), che attesta l’esistenza di un diritto sostanziale del creditore e del corrispondente obbligo del debitore;
- una espressa e specifica previsione di legge, che conferisce efficacia esecutiva all’atto giuridico, in ossequio al principio di tipicità e di tassatività dei titoli esecutivi.
Atto e documento sono un tutt’uno inscindibile. Agli organi esecutivi, per procedere nell’esecuzione forzata, è bastevole ciò che risulta dal titolo esecutivo come documento, formato secondo i crismi prescritti dalla legge. Ciò avviene proprio per esonerare l’ufficio esecutivo da ogni attività di cognizione e di accertamento circa l’esistenza o meno del diritto del creditore.
Quanto risulta dal titolo esecutivo come documento dà sufficiente ed estrinseca certezza dell’esistenza della fattispecie costitutiva del diritto di cui è chiesta la realizzazione in via esecutiva: è il documento ad autorizzare l’esercizio incondizionato dell’azione esecutiva in astratto, cioè quale diritto processuale a porre in moto l’ufficio esecutivo per ottenere la realizzazione del diritto consacrato nel titolo. Se vi sono divergenze tra ciò che emerge dal titolo e la situazione sostanziale che ne costituisce l’oggetto, il debitore potrà reagire opponendosi all’esecuzione per contestarne il fondamento. Spetta all’istituto della sospensione dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione il compito di impedire l’inizio o il corso dell’esecuzione forzata (artt. 615, comma 1, e 624 c.p.c.). Il possesso di un documento costituente titolo esecutivo rende legittima l’azione esecutiva, ma non corrisponde alla liceità della stessa, che riguarda l’esistenza effettiva del diritto di credito oggetto del titolo esecutivo. La legittimità processuale dell’azione esecutiva non corrisponde alla liceità sostanziale del risultato perseguito.
Anche dal punto di vista del titolo esecutivo e del suo contenuto è, così, confermata la distinzione tra diritto (processuale) alla tutela esecutiva, astrattamente previsto dal titolo esecutivo come documento, e diritto (sostanziale) del creditore da realizzare in sede esecutiva, che forma il contenuto del titolo esecutivo come atto giuridico, pubblico (giudiziale o stragiudiziale) o privato.
In tutto ciò la formula esecutiva, da apporre ai titoli giudiziali e agli atti pubblici ex art. 475 c.p.c., è residuo dell’ancien régime, con quel nos maiestatis («Comandiamo a tutti gli ufficiali giudiziari che ne siano richiesti e a chiunque spetti…»), verso il quale ironizzava Salvatore Satta (Commentario al c.p.c., III, Milano, 1965, 93: «L’origine di questa formula la rende del tutto estranea ai moderni ordinamenti, né si riesce a capire la sua singolare vitalità. Basti pensare al ridicolo di un cancelliere che comanda, sia pure in nome della legge, e col nos maiestatis, ai giudici dell’esecuzione e al pubblico ministero»), facendone seguire puntute critiche sulla sua pratica inutilità.
Abrogare la formula – già oltremodo svalutata dalla giurisprudenza, che non fa discendere dalla sua mancanza nullità alcuna, se l’opponente agli atti esecutivi non indichi specificamente quale concreto pregiudizio ai diritti tutelati dal regolare svolgimento del processo esecutivo abbia patito, giusta il principio «pas de nullité sans grief» (Cass. 12 febbraio 2019, n. 3967, in Rass. esec. forz., 2019, 385, con note di S. Rusciano, F. Auletta, M. Farina, B. Capponi, A più voci sui principi di diritto pronunciati d'ufficio in tema di spedizione in forma esecutiva e interesse all'opposizione) – significa semplicemente rinunciare a un relitto storico: la forza esecutiva viene soltanto dalla legge, non dalla formula.
Eventuali abusi del creditore e del suo difensore, che eccedano nell’esercizio di plurime o sproporzionate azioni esecutive, ben potranno essere repressi, immediatamente dopo la notifica del precetto, con la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo, ai sensi dell’art. 615, comma 1, c.p.c.; una volta intraprese le azioni esecutive, mediante lo strumento della sospensione dell’esecuzione (art. 624 c.p.c.) e quello della riduzione del pignoramento (art. 496 c.p.c.).
Potranno esservi abusi e inconvenienti relativamente ad alcune regole che presuppongono la formula esecutiva (si pensi all’art. 663 c.p.c. sulla convalida di sfratto, onde, in mancanza di opposizione, «il giudice convalida la licenza o lo sfratto e dispone con ordinanza in calce alla citazione l’apposizione su di essa della formula esecutiva») e a talune prassi invalse ab immemorabili tempore: ma, si sa, «adducere inconveniens non est solvere argumentum».
3. Sospensione del termine di efficacia del precetto in caso di indagini telematiche ex art. 492 bis c.p.c. (art. 8, lett. b, d.d.l. delega)
L’art. 8, lett. b), del d.d.l. delega demanda al Governo di «prevedere che se il creditore presenta l’istanza di cui all’articolo 492-bis del codice di procedura civile, il termine di cui all’articolo 481, primo comma, del codice di procedura civile, rimanga sospeso e riprenda a decorrere dalla conclusione delle operazioni previste dal comma 2, dell’articolo 492-bis», sì da evitare «il paradosso di una perdita di efficacia del precetto indipendente dalla condotta inerte del creditore», come si legge nella Relazione illustrativa dell’emendamento.
Non v’è granché da osservare sulla sospensione del termine di efficacia del precetto di cui all’art. 481 c.p.c. – novanta giorni, non soggetti a sospensione feriale, trattandosi di atto stragiudiziale prodromico all’esecuzione forzata – in conseguenza della presentazione dell’istanza al presidente della sezione esecuzioni del tribunale, affinché autorizzi la ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare. La prassi si è tuttavia orientata nel senso di autorizzare tali indagini prima che il precetto sia stato notificato, sia per sfruttare un minimo di ‘effetto sorpresa’, senza mettere il debitore sull’avviso dell’imminente inizio dell’azione esecutiva, sia soprattutto perché le strutture tecnologiche, necessarie a consentire l’accesso diretto da parte dell’ufficiale giudiziario alle banche dati, non sono ancor funzionanti (dal 2014, anno di introduzione dell’art. 492 bis c.p.c.): talché è il creditore medesimo a doversi adoprare per accedervi, previamente munito dell’autorizzazione presidenziale, a mente dell’art. 155 quinquies disp. att. c.p.c., il quale conferma l’aforisma per cui «nulla è più definitivo del provvisorio» o, alla francese, «il n’y a que le provisoire qui dure». Tutto ciò dovrebbe pur far riflettere su quali siano i problemi concreti degli uffici giudiziari e, più ancora, i bisogni effettivi di chi quotidianamente con essi abbia la (s)ventura di avere a che fare.
4. Deposito della documentazione o del certificato notarile attestante le risultanze delle visure catastali e dei registri immobiliari entro il medesimo termine fissato per il deposito dell’istanza di vendita (art. 8, lett. c, d.d.l. delega)
Con l’art. 8, lett. c), si demanda al legislatore delegato di «prevedere che il termine prescritto dal secondo comma dell’articolo 567 del codice di procedura civile per il deposito dell’estratto del catasto e dei certificati delle iscrizioni e trascrizioni ovvero del certificato notarile sostitutivo coincida con quello previsto dal combinato disposto degli articoli 497 e 501 del medesimo codice per il deposito dell’istanza di vendita, prevedendo che il predetto termine possa essere prorogato di ulteriori 45 giorni, nei casi previsti dal terzo comma dell’articolo 567».
Nella Relazione illustrativa degli emendamenti si legge quanto segue: «Al fine di contenere la durata del processo di esecuzione immobiliare si propone di eliminare il termine – attualmente di 60 giorni, con decorrenza dall’istanza di vendita – per il deposito della documentazione ipotecaria e catastale ex articolo 567, secondo comma, del codice di procedura civile, disponendo che anche tale documentazione debba essere depositata entro 45 giorni dal pignoramento. La modifica proposta non rende più gravosa l’attività dei creditori, i quali sono consapevoli dell’esigenza di produrre la documentazione volta a fornire al giudice dell’esecuzione la prova della titolarità del bene staggito in capo all’esecutato (Cass. 11638/2014; Cass. 15597/2019) sin dall’inizio del processo; inoltre, l’ampio ricorso, nella prassi giudiziaria, alla certificazione notarile sostitutiva (spesso formata con consultazione telematica dei pubblici registri) non giustifica più un lungo lasso temporale per reperire le certificazioni rilasciate dai pubblici uffici, ferma restando, peraltro, la possibilità di prorogare il termine – per un identico periodo di 45 giorni – negli stessi casi già previsti dall’articolo 567, terzo comma, del codice di procedura civile».
La novella pare, francamente, di scarso momento: non è abbreviando i termini ai creditori (adempimenti sempre più onerosi e stringenti preclusioni vengon fatti sempre ricadere sugli utenti, mai sugli uffici, nell’incessante perpetuum mobile delle riforme processuali) o risparmiando sessanta giorni (ammesso che il creditore li utilizzi tutti) che si otterranno chissà quali accelerazioni delle procedure e risparmi di tempo. Di ciò si trae probatio probata dall’inutile e dannosa dimidiazione di vari termini cui si ricorse nel 2009 (tra cui quello lungo ad impugnandum ex art. 327 c.p.c., portato da un anno a sei mesi, con non lievi problemi di coordinamento con altre disposizioni che presupponevano la durata annuale del termine, come l’art. 328, ult. co., c.p.c.) e dall’ancor più inutile e giugulatoria riduzione della sospensione feriale dei termini cui si assistette nel 2014.
5. Anticipazione della nomina del custode dell’immobile pignorato in luogo del debitore immediatamente dopo il deposito della certificazione notarile e contemporaneamente alla nomina dell’esperto stimatore (art. 8, lett. d, d.d.l. delega)
L’art. 8, lett. d), demanda al Governo di «prevedere che il giudice dell’esecuzione provveda alla sostituzione del debitore nella custodia nominando il custode giudiziario entro quindici giorni dal deposito della documentazione di cui al secondo comma dell’articolo 567 del codice di procedura civile, contemporaneamente alla nomina dell’esperto di cui all’articolo 569 del medesimo codice, salvo che la custodia non abbia alcuna utilità ai fini della conservazione o amministrazione del bene ovvero per la vendita».
Nella Relazione illustrativa degli emendamenti si legge quanto segue: «La sostituzione del debitore nella custodia assegnatagli ex lege (articolo 559, primo comma, del codice di procedura civile) può essere disposta A) su istanza del creditore pignorante o di un creditore intervenuto, B) quando l’immobile non sia occupato dal debitore, C) in caso di inosservanza degli obblighi incombenti sul custode. La stessa deve, invece, essere disposta – se custode dei beni pignorati è (ancora) il debitore e salvo che per la particolare natura degli stessi la sostituzione non abbia alcuna utilità – al più tardi nel momento in cui il giudice pronuncia l’ordinanza con cui è autorizzata la vendita o sono delegate le relative operazioni. La prassi della nomina anticipata del custode (coeva alla designazione dell’esperto stimatore) è largamente diffusa negli uffici giudiziari ed è stata annoverata tra le “Buone prassi” (individuate dal C.S.M. con propria delibera del 2017), perché essa consente di acquisire informazioni da soggetto qualificato già nella fase anteriore alla messa in vendita del cespite, nonché di assicurare alla procedura i frutti (naturali e civili) che sono oggetto di pignoramento ex articolo 2912 del codice civile. Solo in via residuale, quando nessuna delle funzioni custodiali appaia utile per la procedura, si deve invece prevedere che il giudice possa soprassedere alla designazione di un custode professionale».
Ben nota è la centralità del custode nelle best practices invalse anche prima delle varie riforme delle espropriazioni immobiliari, intervenute a far tempo dal 2005-2006. È personaggio in continua «ricerca d’autore»: un privato, ausiliario occasionale di giustizia (art. 65 c.p.c.), che ha visto ampliare a dismisura i compiti assegnatigli, sino a far le veci dell’ufficiale giudiziario nel dare esecuzione all’ordine di liberazione dell’immobile pignorato, senza neppure essere tenuto a osservare le forme dell’esecuzione in forma specifica per rilascio di immobile (artt. 605 ss. c.p.c.), come subito vedremo a proposito dell’ennesima novella che si prospetta per l’art. 560 c.p.c.
Il progressivo e crescente utilizzo di ausiliari privati nelle procedure esecutive non contraddice la riserva statuale dei poteri di esecuzione forzata, sebbene codesta forma di ‘esternalizzazione’ e di larvata privatizzazione si sia spinta forse un po’ troppo al di là delle colonne d’Ercole che segnano, a garanzia di tutti i concives, la suddetta riserva statuale, là dove, ad esempio, sistematicamente si delegano le vendite forzate a liberi professionisti o si affida la liberazione degli immobili staggiti al custode giudiziario, cui il giudice dell’esecuzione conferisce il potere di valersi direttamente della forza pubblica senza necessità di rivolgersi all’ufficiale giudiziario, che è l’organo istituzionalmente preposto all’uso legittimo della forza in sede esecutiva. Per non parlare della crescita esponenziale e della moltiplicazione delle spese inerenti alle procedure esecutive in tal modo ‘privatizzate’ attraverso l’apporto degli ausiliari: spese che, trovando collocazione ed essendo soddisfatte prima di qualsiasi altro credito azionato in executivis, riducono le somme distribuibili ai creditori e finiscono per danneggiare loro e il debitore medesimo, al quale ben difficilmente potrà essere attribuito il residuo della liquidazione dei suoi beni e sul quale, anzi, graverà la differenza dei crediti che non abbiano trovato integrale soddisfazione sul ricavato, non giovandosi di alcuna esdebitazione in grazia dell’espropriazione patita, se non quando acceda alle procedure concorsuali regolate dalla legge fallimentare e, in futuro, dal codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, approvato con d.lgs. n. 14 del 2019, ma ancora in attesa di entrare in vigore.
I variegati compiti affidati al custode, minuziosamente elencati nel d.m. 80/2009 in materia di compensi liquidabili, fanno di lui il «factotum della città», «pronto a far tutto, la notte e il giorno – Sempre d’intorno in giro sta», e così controllore, riscossore, agente immobiliare, accompagnatore nelle visite ai beni immobili subastati, esecutore degli ordini del giudice, ufficiale giudiziario, e chi più ne ha più ne metta.
Di fronte a eccessi privatistici conviene ricordare che l’esecuzione forzata attinge alle radici originarie del diritto: al potere che si costituisce con un’iniziale, pura violenza (reine Gewalt) e poi, una volta costituito, continua a vigere, a trarre da quell’originario atto di forza la propria legittimità e a essere applicato onde assicurare la pace sociale. Soltanto la violenza legittima è ammessa, nel campo civile non meno che in quello penale. Il titolare della situazione soggettiva, che tenti motu proprio di conformare la realtà materiale a quella giuridica, pur acclarata in pronuncia autoritativa trascorsa in rem iudicatam, commette il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (artt. 392 e 393 cod. pen.) e, a seconda dei casi, anche altri reati (violenza privata, violazione di domicilio, furto, appropriazione indebita, sequestro di persona, ecc.).
L’attività di esecuzione forzata appartiene, perciò, soltanto allo Stato e a funzionari statali, incardinati nell’ordine giudiziario e distinti in base alle funzioni assegnate loro per legge. Privati cittadini possono fungere solo da ausiliari, scelti e controllati dagli organi statali: può trattarsi di periti, stimatori, consulenti, commissionari, custodi, delegati alle vendite, e via dicendo, nei casi previsti dalla legge e, specialmente, dal c.p.c. Tutti gli ausiliari rispondono del loro operato agli organi statali, nell’ambito delle procedure nelle quali è richiesto il loro ausilio.
Occorrerebbe semmai intervenire con decisione sulle assai gravi insufficienze e inefficienze degli uffici giudiziari e degli UNEP (Uffici Notifiche Esecuzioni e Protesti), che accorpano personale e strumenti inadeguati per quantità e qualità. Una riforma sul modello francese degli huissiers de justice, liberi professionisti stabilmente esercenti una pubblica funzione, venne tentata molti anni or sono (sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso), ma s’infranse sulle elevate scogliere della P.A., tetragona nel difendere i privilegi del pubblico impiego. Il Recovery Plan e l’esprit (persino eccessivamente) privatistico che informa oramai l’esecuzione forzata e il processo civile in genere dovrebbero dare occasione per ripensare funditus la posizione e il ruolo dell’ufficiale giudiziario e dei cancellieri nel processo civile e, più in generale, nell’ordinamento giudiziario, fermi come sono a concezioni ottocentesche, largamente obsolete e divenute del tutto incompatibili con la nostra postmodernità “liquida”, tecnologica e digitale.
6. L’ennesima riscrittura della disciplina sulla liberazione dell’immobile pignorato (art. 8, lett. e, d.d.l. delega)
L’art. 8, lett. e), d.d.l. delega propone di intervenire nuovamente sull’art. 560 c.p.c., prevedendo che «il giudice dell’esecuzione debba ordinare la liberazione dell’immobile pignorato non abitato dall’esecutato e dal suo nucleo familiare ovvero occupato da soggetto privo di titolo opponibile alla procedura al più tardi nel momento in cui pronuncia l’ordinanza con cui è autorizzata la vendita o sono delegate le relative operazioni e che debba ordinare la liberazione dell’immobile abitato dall’esecutato convivente col nucleo familiare al momento dell’aggiudicazione, ferma restando comunque la possibilità di disporre anticipatamente la liberazione nei casi di impedimento alle attività degli ausiliari del giudice, di ostacolo del diritto di visita di potenziali acquirenti, di omessa manutenzione del cespite in uno stato di buona conservazione o di violazione degli altri obblighi che la legge pone a carico dell’esecutato o degli occupanti».
Nella Relazione illustrativa al d.d.l. si legge quanto segue: «La proposta modifica è volta ad ottenere la liberazione anticipata degli immobili occupati sine titulo o da soggetti diversi dal debitore convivente col nucleo familiare, conformemente a quanto già ritenuto, sulla base del previgente articolo 560 del codice di procedura civile, dalle “Buone prassi” (delibera CSM 2017). Una maggiore tutela è data all’esecutato che abiti l’immobile staggito con la propria famiglia, prevedendo che la liberazione possa essere disposta soltanto in esito all’aggiudicazione del bene, sempre che l’esecutato non ostacoli lo svolgimento della procedura o non arrechi danni all’immobile o pregiudizio agli interessi del futuro aggiudicatario».
L’art. 560 c.p.c., rubricato «Modo della custodia», è state malgré soi oggetto di continue, ondivaghe e contraddittorie novelle nel giro di pochissimi anni, alle quali faceva da sfondo una contrapposizione ideologica tra chi si schierava ex parte creditoris (soprattutto banche, società veicolo e servicers nelle cartolarizzazioni dei crediti deteriorati, gestite da fondi di private equity e da grandi istituti di credito internazionali) e chi volgeva, invece, ex parte debitoris, incline a riconoscere a ognuno la possibilità di permanere sino all’ultimo nell’immobile pignorato od anche – ricorrendo a una procedura di composizione delle crisi da sovraindebitamento ex lege n. 3/2012 (e, a venire, ai sensi del CCI), della quale dare avviso sin dal precetto, a mente dell’art. 480, comma 2, ultima frase, c.p.c. – una second chance e una fresh start, esdebitandosi una volta per tutte, recuperando il “merito creditizio” mercé cancellazione del nominativo dalla Centrale rischi e rientrando così nel circuito economico, consumistico e finanziario che si assume oggidì come virtuoso e che manda innanzi il mondo nel secolo XXI.
Così, l’art. 560 c.p.c., ch’era nel testo originario disposizione neutra e, tutto sommato, anodina, è divenuto campo di scaramucce tra i due schieramenti ideologici, «l’un contro l’altro armati». Era parso al conditor legum utile e opportuno, per favorire le vendite, anticipare congruamente la liberazione dell’immobile staggito, in modo da trasmettere all’aggiudicatario (o all’assegnatario) non soltanto la proprietà del bene con il decreto di trasferimento, ma contestualmente anche la detenzione materiale, come usa avvenire nelle vendite volontarie mediante la consegna delle chiavi e la traditio ficta contestuale al rogito notarile, sì da garantire piena corrispondenza temporale tra acquisto del diritto e possesso del bene.
In tale ottica e con queste finalità il testo dell’art. 560 c.p.c., dedicato alla custodia del bene immobile pignorato, era stato novellato pro creditoribus nel 2014 e poi ancora nel 2016. Successivamente, con novella vigente dal 2019, l’art. 560 c.p.c. è stato nuovamente modificato, invertendone l’ispirazione ed il segno pro debitore, salvo ancora intervenire nel 2020, in parziale rettifica, al fine di assicurare all’aggiudicatario la sollecita liberazione dell’immobile acquistato sine strepitu ac figura executionis (si fa ovviamente per dire…).
Il non breve testo che ne è sortito, neppure diviso in separati commi bensì unicamente in periodi secondo attuale malvezzo, prevede che il debitore e i familiari che con lui convivono non perdano la detenzione dell’immobile e delle sue pertinenze sino al decreto di trasferimento, a meno che ostacolino le visite da parte di potenziali acquirenti interessati a partecipare alla vendita o l’immobile non sia adeguatamente tutelato e mantenuto in uno stato di buona conservazione, per colpa o dolo del debitore e dei membri del suo nucleo familiare oppure il debitore violi altri obblighi che la legge pone a suo carico o, ancora, l’immobile non sia abitato dal debitore e dal suo nucleo familiare.
Qualora l’immobile pignorato sia abitato dal debitore e dai suoi familiari, salvi i casi di violazione degli obblighi dianzi indicati, il giudice dell’esecuzione non può mai disporne la liberazione prima del decreto di trasferimento di cui all’art. 586 c.p.c., che peraltro costituisce titolo esecutivo per il rilascio a favore dell’assegnatario o dell’aggiudicatario. Dopo la notifica o la comunicazione del decreto di trasferimento il custode, su istanza dell’aggiudicatario o dell’assegnatario e in mancanza di spontaneo adempimento da parte degli occupanti, provvede all’attuazione dell’ordine di rilascio contenuto nel decreto di trasferimento, decorsi sessanta giorni e non oltre centoventi giorni dall’istanza, senza l’osservanza delle formalità di cui agli artt. 605 ss. c.p.c. e con autorizzazione a valersi della forza pubblica e a nominare ausiliari ai sensi dell'art. 68 c.p.c. In mancanza di istanza dell’aggiudicatario o dell’assegnatario, saranno questi a dover procedere nell’esecuzione forzata per rilascio di immobile, avvalendosi del decreto di trasferimento quale titolo esecutivo, previe l’intimazione del precetto e la notifica dell’avviso di sloggio, seguendo le forme di cui all’art. 608 c.p.c. con l’intervento dell’ufficiale giudiziario. Quando invece sia stata ordinata la liberazione dell’immobile prima del decreto di trasferimento per violazioni ascrivibili al debitore o ai suoi familiari, sarà il custode a curarne l’attuazione coattiva (ex littera su istanza dell’aggiudicatario, quindi dopo che l’aggiudicazione sia avvenuta: il che non pare compatibile con la ratio della novella del 2020, ma tant’è), sempre secondo le disposizioni del giudice dell’esecuzione e senza l’osservanza delle formalità dettate dagli artt. 605 ss. c.p.c. per l’esecuzione in forma specifica per rilascio di immobile.
Ora l’emendamento in esame, contenuto nella lett. e) dell’art. 8 d.d.l. delega, si propone di far liberare l’immobile non abitato dal debitore e dai suoi familiari ovvero occupato da soggetto privo di titolo opponibile alla procedura sin dal momento in cui il g.e. abbia disposto la vendita, delegandone le operazioni. Quando invece l’immobile sia abitato dal debitore e dai suoi familiari, salve le ipotesi di ostruzionismo o di violazioni, la liberazione dovrà essere disposta non appena sia avvenuta l’aggiudicazione, prima cioè del decreto di trasferimento a seguito del quale si produce l’effetto traslativo della vendita forzata. Qualora l’aggiudicazione provvisoria venga meno (ad es., per inadempienza dell’aggiudicatario), cesserà ovviamente la necessità di procedere alla liberazione dell’immobile, sino a una nuova aggiudicazione, con il rischio insomma di qualche possibile andirivieni.
Come ben vedesi, i vari estensori e suggeritori dei testi dell’art. 560 c.p.c. imbandiscono ossessivamente una satura lanx, affetta da ‘analitico furore’, che riuscirebbe indigesta anche a Pantagruel.
7. Il professionista delegato deve svolgere almeno tre esperimenti di vendita in un anno, a pena di sostituzione (art. 8, lett. f, d.d.l. delega)
L’art. 8, lett. f), del d.d.l. in esame prevede che «la delega delle operazioni di vendita nell’espropriazione immobiliare abbia durata annuale, con incarico rinnovabile da parte del giudice dell’esecuzione, e che in tale periodo il professionista delegato debba svolgere almeno tre esperimenti di vendita con l’obbligo di una tempestiva relazione al giudice sull’esito di ciascuno di essi, nonché prevedere che il giudice dell’esecuzione debba esercitare una diligente vigilanza sull’esecuzione delle attività delegate e sul rispetto dei tempi per quelle stabiliti con l’obbligo di provvedere immediatamente alla sostituzione del professionista in caso di mancato o tardivo adempimento».
Nella Relazione illustrativa al d.d.l. delega si legge: «Per un sollecito svolgimento delle operazioni di vendita delegate ai professionisti è necessario fissare un termine entro il quale le attività devono essere svolte, nonché determinare un numero minimo di esperimenti di vendita da svolgere nell’arco di un anno. Occorre poi stabilire esplicitamente l’obbligo del giudice dell’esecuzione di vigilare sulle attività dei professionisti e sul rispetto dei tempi concessi per gli adempimenti delegati, al fine di evitare che eventuali inerzie o ritardi vengano scoperti ad anni di distanza dalla delega e che solo con grave ritardo il professionista negligente venga sostituito».
Nulla v’è da aggiungere: al professionista delegato spetta il compito di esperire tempestivamente almeno tre tentativi di vendita l’anno, con eventuali ribassi predeterminati nell’ordinanza di conferimento della delega, entro il limite di un quarto del valore dell’immobile, ai sensi dell’art. 591, comma 2, c.p.c.; al giudice dell’esecuzione spetta di vigilare diligentemente, affinché i tempi siano rispettati e le procedure delegate di vendita siano esperite con regolarità e sollecitudine, sotto comminatoria di sostituzione del delegato, previa audizione delle ragioni del ritardo (ancorché l’emendamento taccia sul punto). Il quale professionista delegato, ove contesti il provvedimento di sostituzione, potrà chiederne sommessamente la revoca allo stesso giudice dell’esecuzione, le cui ordinanze sono sempre modificabili e revocabili finché non abbiano avuto esecuzione ai sensi dell’art. 487 c.p.c., e potrà spingersi sino a interporre opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c. entro venti giorni dalla conoscenza legale del provvedimento: ma in questo caso, come è evidente, si alienerà comunque le simpatie di chi ebbe a nominarlo, pescandolo dall’elenco dei professionisti di cui all’art. 179 ter disp. att. c.p.c.
Basti poi ricordare che, quando l’immobile resta invenduto e non vi sono domande di assegnazione, il giudice dell’esecuzione (recte, il professionista delegato, sulla scorta dell’ordinanza di vendita che, come d’uso, già lo preveda) fissa una nuova vendita, sempre con procedura senza incanto, stabilendo eventualmente diverse condizioni e diverse forme di pubblicità, per un prezzo base inferiore al precedente fino al limite di un quarto e, dopo il quarto tentativo di vendita andato deserto, fino al limite della metà del valore dell’immobile, quale stimato con la perizia. Vi sarà, ovviamente, un nuovo termine (che la legge ottativamente indica in misura non inferiore a sessanta giorni e non superiore a novanta) entro il quale possono essere formulate le offerte d’acquisto (cfr. l’art. 591, comma 2, c.p.c.).
L’incanto potrà essere disposto soltanto qualora il giudice dell’esecuzione ritenga che la vendita con tale modalità possa aver luogo a un prezzo superiore della metà rispetto al valore del bene, quale determinato nella perizia (art. 591, comma 1, ultima parte, c.p.c.): cioè, in pratica, mai.
Se anche dopo il quarto esperimento di vendita, con prezzo ridotto sino al limite della metà del valore di perizia, l’immobile resta invenduto, il giudice dell’esecuzione, previa audizione delle parti, potrà chiudere la procedura per infruttuosità, a norma dell’art. 164 bis disp. att. c.p.c. Misura questa che andrà adottata cum grano salis, quando risulti che non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori, anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo. Le ingenti spese della procedura esecutiva immobiliare resterebbero, in caso di chiusura anticipata, a carico dei creditori che le hanno anticipate, i quali non solo non ottengono soddisfazione dei loro crediti, ma subirebbero in tal modo un pregiudizio assai grave. Perciò, la chiusura anticipata per infruttuosità presuppone l’estrema esiguità del realizzo, da stimare non soltanto in termini relativi, avendo riguardo alla percentuale del credito soddisfatto rispetto a quello azionato, ma anche in termini assoluti, avuto riguardo all’importo in concreto recuperabile, quantomeno a copertura delle spese affrontate per l’espropriazione.
8. Il controllo sugli atti del professionista delegato ex art. 591 ter c.p.c.: reclamo al g.e. entro venti giorni e successiva opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c., in luogo del reclamo al collegio ex art. 669 terdecies c.p.c. (art. 8, lett. g, d.d.l. delega)
L’art. 8, lett. g), del d.d.l. delega demanda al legislatore delegato di «prevedere un termine di 20 giorni per la proposizione del reclamo al giudice dell’esecuzione avverso l’atto del professionista delegato ai sensi dell’articolo 591-ter del codice di procedura civile e prevedere che l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione decide il reclamo possa essere impugnata con l’opposizione di cui all’articolo 617 dello stesso codice».
Nella Relazione illustrativa dell’emendamento si legge: «La proposta modifica è volta a rafforzare la stabilità del decreto di trasferimento. Infatti, in base al vigente articolo 591-ter del codice di procedura civile (così come interpretato da Cass. 12238/2019), il reclamo avverso l’atto del delegato (i cui atti non sono suscettibili di opposizione ex articolo 617 del codice di procedura civile) non costituisce un mezzo di impugnazione da esperire entro un certo lasso di tempo, decorso il quale l’atto si stabilizza; al contrario, eventuali vizi nell’attività del delegato possono essere fatti valere proponendo opposizione avverso l’atto esecutivo conclusivo della fase liquidativa e, cioè, avverso il decreto di trasferimento. Ciò determina una nociva instabilità del provvedimento traslativo della proprietà del cespite staggito, la quale può essere eliminata stabilendo un termine entro il quale dolersi degli atti del delegato (e decorso il quale eventuali vizi antecedenti non potrebbero più essere denunciati) innanzi al giudice dell’esecuzione, la cui ordinanza potrebbe essere impugnata entro il termine decadenziale ex articolo 617 del codice di procedura civile, evitando qualsivoglia ripercussione dei vizi sul decreto ex articolo 586 del codice di procedura civile».
In iure quo utimur e a norma dell’art. 591 ter c.p.c., quando, nel corso delle operazioni di vendita, insorgono difficoltà, il professionista delegato può rivolgersi al giudice dell'esecuzione, il quale provvede con decreto. Le parti e gli interessati possono proporre reclamo avverso il decreto nonché avverso gli atti del professionista delegato, con ricorso allo stesso giudice dell’esecuzione, il quale provvede con ordinanza: il ricorso non sospende le operazioni di vendita, salvo che il giudice dell’esecuzione, concorrendo gravi motivi, disponga la sospensione. Contro l’ordinanza del giudice è ammesso reclamo al collegio entro quindici giorni dalla conoscenza legale dell’ordinanza, ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c.: del collegio non può far parte il giudice dell’esecuzione.
Il soggetto interessato ha l’onere di proporre il reclamo previsto dall’art. 591 ter c.p.c. avverso il provvedimento con il quale il giudice dell’esecuzione abbia impartito istruzioni al professionista delegato, prima che le istruzioni reputate erronee o inopportune siano eseguite: in mancanza, è inammissibile il reclamo al giudice dell’esecuzione avverso l’atto del delegato, una volta che le istruzioni abbiano esaurito la loro funzione, restando tuttavia impregiudicata la facoltà di qualunque interessato di proporre reclamo avverso gli atti successivi del delegato affetti da illegittimità derivata ovvero opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c. avverso il primo atto del giudice dell’esecuzione conclusivo della relativa fase, ivi incluso il decreto di trasferimento, per vizi proprî o derivati da precedenti difetti della sequenza procedurale, compresi quelli già fatti valere mediante i reclami di cui all’art. 591 ter c.p.c., ancorché rigettati dal giudice dell’esecuzione e dal collegio.
Pertanto, secondo il sistema ricostruito da Cass. 9 maggio 2019, n. 12238 (in Rass. esec. forz., 2019, 1179, con nota di Guarnieri; ivi, 2020, 917, con nota di Santagada):
- tutti gli atti del professionista delegato sono reclamabili dinanzi al giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 591 ter c.p.c.;
- gli atti con i quali il giudice dell’esecuzione dia istruzioni al professionista delegato o decida sul reclamo avverso i di lui atti hanno contenuto meramente ordinatorio e non vincolano il giudice dell’esecuzione nell’adozione dei successivi provvedimenti della procedura;
- il reclamo al collegio avverso gli atti suddetti del giudice dell’esecuzione mette capo a un provvedimento che non ha natura decisoria e non è suscettibile di passare in giudicato e, come tale, non è soggetto a ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost.;
- eventuali nullità verificatesi nel corso delle operazioni delegate al professionista e non rilevate nel procedimento di reclamo ex art. 591 ter c.p.c. potranno essere fatte valere impugnando, ai sensi dell’art. 617, comma 2, c.p.c., il primo provvedimento successivo adottato dal giudice dell’esecuzione.
Un sistema assai articolato, per non dir labirintico, sul quale è certo d’uopo intervenire: l’emendamento opportunamente lo fa, imponendo un termine di venti giorni per proporre reclamo al giudice dell’esecuzione avverso l’atto del delegato, eliminando la superfetazione del reclamo al collegio ex art. 669 terdecies c.p.c. e assoggettando l’ordinanza del giudice dell’esecuzione sul reclamo avverso atti del delegato all’usuale rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c., da proporre mediante ricorso depositato entro il termine di venti giorni dalla conoscenza legale dell’ordinanza. Si scandiscono, insomma, i rimedî relativi alla sottofase di vendita gestita dal delegato imponendo termini perentori, sì da evitare che i vizî che la inficino possano propagarsi per derivazione sino al decreto di trasferimento, caducando la vendita forzata in pregiudizio del terzo aggiudicatario e dei creditori, che rischierebbero di veder dilazionati ad kalendas graecas i tempi di soddisfazione dei loro crediti.
9. Approvazione anche tacita del progetto distributivo, dichiarazione di esecutività e pagamenti demandati al professionista delegato, in assenza di contestazioni (art. 8, lett. h, d.d.l. delega)
L’art. 8, lett. h), del d.d.l. in esame demanda al Governo di «prevedere che il professionista delegato proceda alla predisposizione del progetto di distribuzione del ricavato in base alle preventive istruzioni del giudice dell’esecuzione, sottoponendolo alle parti e convocandole innanzi a sé per l’audizione, nel rispetto del termine di cui all’articolo 596 del codice di procedura civile; nell’ipotesi prevista dall’articolo 597 del codice di procedura civile o qualora non siano avanzate contestazioni al progetto, prevedere che il professionista lo dichiari esecutivo e provveda entro sette giorni al pagamento delle singole quote agli aventi diritto secondo le istruzioni del giudice dell’esecuzione; prevedere che in caso di contestazioni il professionista rimetta le parti innanzi al giudice dell’esecuzione».
Nella Relazione illustrativa si legge quanto segue: «La proposta, in conformità a quanto già previsto dalle buone prassi in materia esecutiva, estende il perimetro della delega al professionista. L’idea è quella di liberare il g.e. da incombenti meccanici, che gravano essenzialmente sulle cancellerie e che posso essere svolti dal delegato».
In effetti, l’emendamento intende ratificare ex lege le buone prassi già invalse nelle esecuzioni forzate immobiliari.
De iure condito il progetto distributivo del ricavato, dopo che il professionista delegato ha raccolto le osservazioni dei creditori concorrenti e del debitore e lo ha trasmesso al giudice dell’esecuzione, apportate da quest’ultimo eventuali variazioni, è depositato in cancelleria nel fascicolo telematico, affinché possa essere consultato da tutte le parti, in vista dell’udienza fissata dal giudice dell’esecuzione dinanzi a sé per la loro audizione, con la partecipazione anche del delegato. Tra la comunicazione dell’invito e l’udienza così fissata debbono intercorrere almeno dieci giorni (art. 596 c.p.c.). L’udienza per l’approvazione del progetto distributivo segna il termine ultimo per l’intervento dei creditori, anche se muniti di titoli di prelazione (artt. 565 e 566 c.p.c.).
La mancata comparizione all’udienza e in quella ulteriormente fissata dal giudice dell’esecuzione e comunicata alla parte non comparsa, se risulta o appare probabile che sia dipesa da cause non imputabili, importa approvazione tacita del progetto (art. 597 c.p.c.). Se all’udienza il progetto è approvato espressamente o tacitamente o si raggiunge l’accordo tra tutte le parti, se ne dà atto nel processo verbale e il giudice dell’esecuzione ordina il pagamento delle singole quote, disponendo che il cancelliere emetta i mandati di pagamento in favore dei creditori concorrenti, restituendo l’eventuale residuo all’esecutato (art. 598 c.p.c.).
Come detto, per consolidato usus fori, l’ordinanza di delega al professionista prevede già che le parti compaiano dinanzi a questo per l’approvazione del progetto e che il giudice dell’esecuzione intervenga solo quando sorgano contestazioni: dal (pur contraddittorio) combinarsi degli artt. 591 bis, n. 12, e 598 c.p.c. risulta che, se il progetto è approvato o si raggiunge l’accordo tra tutte le parti, può essere lo stesso professionista delegato a darne atto nel processo verbale e a disporre il pagamento delle singole quote ai creditori concorrenti, dietro ordine del giudice dell’esecuzione e una volta che siano decorsi venti giorni dalla data di approvazione del progetto senza che siano state proposte opposizioni. Se l’accordo sul progetto di distribuzione non è raggiunto e insorge controversia distributiva, il fascicolo verrà rimesso al giudice dell’esecuzione, che risolverà la controversia distributiva ai sensi dell’art. 512 c.p.c., con ordinanza soggetta al consueto rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c. e a sospensione ex art. 624 c.p.c.
Va da sé che questa ulteriore attività “privatizzata” ed “esternalizzata” al delegato, ivi inclusi i pagamenti da effettuare ai creditori ad instar di un curatore fallimentare, dovrà essere controllata dal giudice dell’esecuzione con occhio assai vigile e pronto.
10. La vente privée, ovvero «l’inutile precauzione» (art. 8, lett. i, d.d.l. delega)
L’art. 8, lett. i), del d.d.l. delega contiene la novità più eclatante delle proposte di novella, dopo quella contenuta nella lett. a) sull’abolizione della formula esecutiva. Si tratta della c.d. ‘ vendita privata’, dichiaratamente ispirata al modello francese della vente privée, ma strutturata in modo assai articolato e complesso.
Nella Relazione illustrativa si legge: «L’introduzione di un meccanismo di vente privée può favorire una liquidazione ‘virtuosa’ e rapida attraverso la collaborazione del debitore o, al contrario, costituire mezzo per allungare infruttuosamente i tempi processuali o volto a perpetrare frodi in danno dei creditori. La correzione del testo originario dell’articolo 8 d.d.l. S-1662 è necessaria al fine di:
- evitare che lo strumento ivi previsto si ripercuota in danno della ragionevole durata del processo, divenendo strumento dilatorio o fonte di opposizioni esecutive;
- impedire che lo stesso debitore possa impiegare lo strumento per liquidare il cespite pignorato senza una corretta individuazione del suo valore di mercato o, peggio, che l’esecutato possa diventare vittima di malversazioni di soggetti che utilizzino il meccanismo della vendita privata come un patto commissorio o, comunque, per approfittarsi della sua situazione;
- assimilare il trattamento della proposta di vendita portata dal debitore a quello previsto nel concordato con proposte concorrenti;
- rendere favorevole per l’acquirente l’acquisto del bene, in ragione della verifica giudiziale dei presupposti e, soprattutto, dell’assunzione dei costi del trasferimento e della cancellazione dei gravami a carico della procedura (come già avviene col provvedimento ex articolo 586 del codice di procedura civile).
Per perseguire tali scopi, si è pensato a un sistema che ricalca, a grandi linee, la vendita senza incanto praticata in numerosi uffici giudiziari prima della riforma entrata in vigore l’1/3/2006, quando, una volta messo in vendita il bene, alla ricezione di una prima offerta di acquisto si provvedeva sollecitamente a darne pubblicità al fine di stimolare eventuali altri interessati, per poi effettuare, entro breve tempo, un’udienza nella quale provvedere all’aggiudicazione, previa gara in caso di pluralità di offerte
Più in dettaglio, la proposta di modifica prevede che:
- il valore minimo per il quale può essere avanzata la proposta deve essere quello del prezzo base individuato dall’esperto stimatore nell’elaborato peritale: in tal modo si evitano sia accertamenti ulteriori (incongrui rispetto alla struttura del processo esecutivo), potenzialmente dilatori, sia un pregiudizio per il creditore (che potrebbe avanzare istanza di assegnazione, anche a favore di terzi, per il medesimo valore);
- l’esecutato che introduca una seria proposta di acquisto (ovviamente irrevocabile) garantita da cauzione deve altresì rilasciare l’immobile in un ragionevole lasso temporale, posto che la prosecuzione dell’occupazione costituisce di per sé indice di un’offerta “di comodo” e, inoltre, riduce l’appetibilità del bene sul mercato; fa eccezione il caso di immobile occupato con titolo di godimento opponibile alla procedura (al quale dovrebbe comunque soggiacere anche l’aggiudicatario);
- il giudice dell’esecuzione adotta con decreto (evitando, così, l’aggravio di un’udienza) i provvedimenti conseguenti alla presentazione dell’istanza: oltre alla verifica dell’ammissibilità dell’istanza e al controllo sullo stato di occupazione (ai fini della consequenziale liberazione spontanea da parte del debitore), l’offerta pervenuta deve essere adeguatamente pubblicizzata (sito internet autorizzato dal Ministero, PVP, eventuale pubblicità straordinaria) e posta in competizione con eventuali altre, solo così potendosi conseguire un prezzo di mercato (lasciar determinare al perito il valore di mercato sarebbe in contrasto con la giurisprudenza che esclude l’opposizione agli atti esecutivi avverso la perizia in quanto il valore ivi indicato è suscettibile di “correzione” nella gara; allo stesso modo, una determinazione giudiziale del valore attirerebbe defatiganti opposizioni ex articolo 617 del codice di procedura civile);
- l’aggiudicazione può essere pronunciata all’esito di una eventuale gara tra plurimi offerenti o, in alternativa, all’unico originario offerente nel corso di un’udienza fissata subito dopo la scadenza del termine per la pubblicità; un provvedimento di formale aggiudicazione (anziché una mera individuazione dell’acquirente) è vantaggioso per l’offerente, stante il disposto dell’articolo 187-bis disp. att. del codice di procedura civile (come interpretato, peraltro, da Cass. S.U. 21110/2012);
- la predeterminazione legislativa di un periodo temporale per il versamento del prezzo garantisce uniformità tra tutti gli interessati ed evita l’adozione di provvedimento discrezionali suscettibili di impugnazione;
- in caso di mancato versamento del prezzo deve trovare applicazione l’articolo 587 del codice di procedura civile;
- la vendita de qua non è soggetta al consenso dei creditori, né a provvedimenti del giudice dell’esecuzione volti a superare il loro dissenso: attribuire al giudicante valutazioni discrezionali, infatti, potrebbe attirare opposizioni ex articolo 617 del codice di procedura civile, sia da parte dei creditori, sia (prevalentemente) da parte dei debitori che potrebbero sindacare il provvedimento di rigetto per non avere il giudice ritenuto superabile il dissenso dei creditori;
- nell’interesse del debitore e dell’acquirente, il trasferimento deve essere compiuto dal giudice dell’esecuzione col provvedimento ex articolo 586 del codice di procedura civile, col quale può disporsi la cancellazione dei gravami a spese della procedura (lo stesso onere deriverebbe in esito allo svolgimento della procedura ordinaria, ma in tal caso in tempi assai più lunghi); prevedere, al contrario, che i costi di trasferimento e cancellazione siano a carico dell’acquirente renderebbe meno vantaggiosa la partecipazione e incerta la spesa da sostenere, posto che non sarebbe anteriormente identificato il costo per l’eliminazione di eventuali gravami medio tempore iscritti o trascritti;
- la facoltà di delegare a un professionista le operazioni garantisce il rispetto della tempistica individuata, non risentendo degli altri impegni gravanti sul giudicante».
Ben poco v’è da aggiungere all’esauriente e dettagliata esposizione delle ragioni della novella contenute nella Relazione illustrativa, che fa proprî e mira a rendere ius positum i suggerimenti e le esperienze dei pratici, come avviene ormai da più di tre lustri a questa parte in materia di esecuzione forzata.
Vien solo fatto di osservare che il ‘furore analitico’ nella stesura delle disposizioni normative, qui persino dei principii e dei criterî direttivi del d.d.l. delega, già apparecchiati per i decreti delegati e scritti a guisa di istruzioni per l’uso o di protocolli applicativi, non giova alla chiarezza delle idee e alla sicurezza delle soluzioni, recando inevitabilmente seco questioni esegetiche e problemi ermeneutici che rampollano abbondanti da ogni eccesso di scrittura, dando sfogo a contestazioni, opposizioni, impugnazioni, reclami, e via dicendo, dei quali il genio italico è sempre stato maestro in ogni tempo all’orbe intero, sin dalle scuole dei sofisti che fiorirono nell’antica Magna Grecia. Sovviene la raccomandazione che Socrate dava a Fedro, nell’omonimo dialogo di Platone, evocando il mito del dio egizio Theuth sull’invenzione della scrittura, la quale impedisce agli uomini di trovare dentro di sé la risposta ai quesiti fondamentali e la vera sapienza, cercando risposta sempre e solo ab extra, con il richiamare alla memoria attraverso la frenetica consultazione di scritti che non appartengono loro, conoscitori di molte cose, ma dotati unicamente di soggettive opinioni anziché di vera epistème, e con i quali non sarà neppure possibile intavolare un confronto dialogico [cfr., si vis, Tedoldi, Il giusto processo (in)civile in tempo di pandemia, Pisa, 2021, 88 ss.].
V’è, peraltro, da dubitare che sia necessario introdurre una disciplina (tantomeno così analitica) della vendita dell’immobile pignorato procurata a miglior prezzo dal medesimo debitore esecutato, ché in questo si risolve la vente privée, senza che il francesismo possa aduggiare sulla vera essenza dell’istituto. Accade spesso che, onde mitigare gli ingenti costi della procedura e i ribassi nel prezzo, sia il debitore ad attivarsi per collocare sul mercato l’immobile, anziché lasciare che venga subastato forzosamente. I creditori di buona fede accolgono di buon grado la proposta, lieti che i crediti possano soddisfarsi in maggior misura e minor tempo. Quelli in malafede, che volessero trarre illecito profitto dal decremento di valore del bene immobile staggito, possono essere già oggi ostacolati mercé strumenti di composizione delle crisi da sovraindebitamento (l. 3/2012 e, poi, CCI di cui al d.lgs. 14/2019), che sospendono le procedure esecutive e, con il buon esito, le estinguono, trasferendo il tradizionale conflitto tra ragioni del credito e ragioni della proprietà dall’esecuzione forzata al piano negoziale, con l’ausilio di esperti e sotto il controllo del tribunale.
Insomma, non vorremmo che la disciplina della ‘vendita privata’ – o vente privée che dir si voglia – fosse «inutil precauzione», fonte soltanto di ulteriori complicazioni: ve ne sono già abbastanza nel processo civile, e in quello esecutivo in specie, che affliggono i tribunali con questioni sempre nuove, giungendo sino al grado di legittimità con gran dovizia di ripetuti interventi nomofilattici, al punto che par quasi che si tragga intellettuale divertissement da codesta sorta di giuochi procedurali, nello scriver le regole dapprima e nel darne poi l’esegesi e l’ermeneutica, scordando che il processo è unicamente mezzo allo scopo, non già fine a sé stesso e dovrebbe essere, come scriveva Giuseppe Chiovenda sulle orme di Franz Klein, «semplice, rapido e poco costoso».
11. Limiti quantitativi e temporali alle misure coercitive ex art. 614 bis c.p.c. e conferimento del potere di disporle anche al giudice dell’esecuzione (art. 8, lett. l, d.d.l. delega)
L’art. 8, lett. l), del d.d.l. delega demanda al Governo di «prevedere criteri per la determinazione dell’ammontare, nonché del termine di durata delle misure di coercizione indiretta di cui all’articolo 614-bis del codice di procedura civile; prevedere altresì l’attribuzione al G.E. del potere di disporre dette misure quando il titolo esecutivo sia diverso da un provvedimento di condanna oppure la misura non sia stata richiesta al giudice che ha pronunciato tale provvedimento».
Nella Relazione illustrativa si legge: «La proposta interviene sull’istituto delle misure di coercizione indiretta disciplinato dall’articolo 614-bis del codice di procedura civile, attribuendo al legislatore delegato il compito di individuare dei criteri per la determinazione del quantum e del limite temporale della misura, di modo che la stessa non possa avere durata illimitata determinando l’insorgenza di obbligazioni sanzionatorie del tutto sproporzionate rispetto all’originaria obbligazione inadempiuta. La proposta, inoltre, attribuisce anche al G.E. il potere di imporre l’astreinte, misura particolarmente utile ove vengano in rilievo titoli esecutivi diversi da un provvedimento di condanna o nel caso in cui la misura di coercizione indiretta non sia stata richiesta al giudice della cognizione».
Quando la prestazione dovuta dal debitore sia infungibile, a causa del contenuto – in tutto o in parte – personale della stessa, o quando si tratti di obblighi di non facere, cioè di astenersi dal compimento di futuri atti lesivi, la sostituzione del debitore con l’attività dell’apparato giurisdizionale esecutivo non è possibile. In questi casi, per far conseguire al creditore l’utilità che gli è dovuta, occorre premere sulla volontà del debitore, affinché questi sia indotto ad adempiere per evitare di patire un pregiudizio superiore allo svantaggio che gli procura l’adempimento. L’esecuzione forzata è, dunque, indiretta, in quanto non si traduce in atti dell’ufficio esecutivo compiuti in sostituzione del debitore inadempiente, in modo da far ottenere al creditore la prestazione dovutagli, ma in misure coercitive idonee a premere sul debitore per spingerlo ad adempiere: «coactus voluit, sed voluit», come suol dirsi [si vis v. amplius Tedoldi, Esecuzione forzata, Pacini, 2020, 9 ss. e spec. 330 ss.].
Il legislatore italiano, nell’art. 614 bis c.p.c., ha adottato come generale il modello delle misure coercitive civili mediante pagamento di somme di denaro a favore del creditore, secondo l’esperienza francese delle astreintes. Con la differenza, però, che mentre le astreintes francesi sono comminate nel provvedimento di condanna alla prestazione principale in via provvisoria e vengono poi irrogate in via definitiva soltanto dopo un sommario accertamento delle inadempienze all’ordine esecutivo commesse dal debitore, le misure coercitive ex art. 614 bis c.p.c. vengono quantificate unilateralmente dal creditore, salvo contestazione del debitore mediante opposizione a precetto o all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. Sistema quello francese preferibile rispetto a quello adottato uno actu nel nostro art. 614 bis c.p.c., con riferimento ai soli provvedimenti di condanna e, dunque, in sede di cognizione e di dichiarazione dell’obbligo cui la misura coercitiva accede, anziché in sede esecutiva, per il caso in cui l’obbligo primario sia stato violato. Il che è dipeso da un equivoco sistematico di fondo del nostro legislatore: quello di riferire l’esecuzione forzata, anche indiretta, al provvedimento, anziché al diritto che ne forma l’oggetto e il contenuto. Con l’ulteriore deleterio effetto di impedire l’utilizzo delle misure coercitive in relazione ai titoli esecutivi stragiudiziali o, comunque, non decisori, come i verbali di conciliazione, che non contengono condanne di sorta.
Per rafforzare l’efficacia esecutiva dei provvedimenti di condanna l’art. 614 bis c.p.c., introdotto nel 2009 e novellato nel 2015, ha esteso le misure coercitive a tutti i provvedimenti di condanna a prestazioni diverse dal pagamento di somme di denaro, indipendentemente dal carattere fungibile o infungibile di tali prestazioni. Perciò, quando le misure coercitive assistono prestazioni fungibili (di consegna di beni mobili, di rilascio di beni immobili, di fare fungibile o di distruggere), il creditore può procedere sia con l’esecuzione diretta (in forma specifica, a seconda dell’utilità perseguita), sia con la c.d. esecuzione indiretta, esigendo la somma di denaro complessivamente dovuta per i giorni di ritardo del debitore nell’adempiere alla prestazione (fungibile) cui è stato condannato in via principale.
In iure condito le misure coercitive sono autorizzate dal giudice della cognizione o della cautela, su istanza di parte, nello stesso provvedimento di condanna, salvo che ciò non risulti manifestamente iniquo, ad es. per la natura strettamente personale della prestazione principale dovuta dall’obbligato (si pensi a una prestazione artistica o di ricerca scientifica o di scrittura di un libro o di un articolo, ecc.). L’imposizione di misure coercitive non può risolversi nella creazione di corvées irredimibili, degne della servitù della gleba di matrice feudale, dovendosi comunque salvaguardare il fondamentale principium libertatis insito nel brocardo del «nemo ad factum praecise cogi potest».
Stranamente e per evidente scelta politica, le misure coercitive non si applicano nel campo dei rapporti di lavoro, privato e pubblico, subordinato e parasubordinato di cui all’art. 409 c.p.c. Scelta questa che appare del tutto irragionevole e affetta da evidente incostituzionalità, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., avuto riguardo ai principii di ragionevolezza e di effettività delle tutele. Un’esclusione tanto più paradossale alla luce del dibattito che a suo tempo sorse intorno all’obbligo, parzialmente infungibile, del datore di lavoro di reintegrare nel posto e nelle mansioni il lavoratore illegittimamente licenziato, nel cui contesto si propose di rinvenire nell’ordinamento o, comunque, di introdurre misure coercitive affinché tale obbligo fosse integralmente e puntualmente adempiuto.
La misura coercitiva è stabilita nel suo ammontare discrezionalmente dal giudice della cognizione o della cautela, tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile, senza alcuna predeterminazione legislativa di un massimo edittale, suscitando per questo seri dubbi di legittimità costituzionale. Il problema si è posto anche per la condanna al risarcimento dei ‘danni punitivi’ per abuso del processo, ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., che parimenti non predetermina l’entità della sanzione: tuttavia, la Corte costituzionale ha ritenuto che ciò non violasse l’art. 23 Cost. sul divieto di imporre prestazioni personali o patrimoniali, può essere imposta se non in base alla legge [Corte cost., 6 giugno 2019, n. 139, in Foro it., 2019, I, 2644 e in Giur. it., 2020, 578 (m), con nota di Ghirga].
Ed infatti, il d.d.l. delega interviene per porre un limite all’entità delle misure coercitive e alla loro durata, affinché non divengano strumento di “speculazione finanziaria” del creditore, mediante accumulazione di crediti pecuniari verso il debitore.
Oltre a ciò – producendo anche in questo ad consequentias le critiche sollevate in dottrina, proprio dal presidente della commissione ministeriale, Francesco Paolo Luiso – l’adozione delle misure coercitive viene attribuita anche al giudice dell’esecuzione, quando si tratti di titoli esecutivi stragiudiziali che contengano prestazioni diverse dal pagamento di somme di denaro. Si tratterà, dunque, di atti pubblici per obblighi di consegna o rilascio (le scritture private autenticate valgono quali titoli esecutivi solo per crediti pecuniari), di verbali di conciliazione in esito a procedure di mediazione o di accordi raggiunti a seguito di negoziazione assistita da avvocati, sempre per le prestazioni diverse da quelle di pagamento di somme di denaro, alle quali sole si applicano le misure coercitive ex art. 614 bis c.p.c.
L’emendamento consente anche di sopperire alla mancata richiesta della misura al giudice della cognizione, chiedendola ex novo al giudice dell’esecuzione: in attesa di verificare quale sarà la disciplina che verrà introdotta nel testo dell’art. 614 bis c.p.c. dal decreto delegato, per le prestazioni di consegnare beni mobili, rilasciare beni immobili, di fare fungibile o di disfare par d’uopo che sia lo stesso giudice dell’esecuzione adìto per l’esecuzione in forma specifica, sì da compulsare il debitore renitente ad adempiere, onde evitare maggiori esborsi. Per le prestazioni di fare infungibile e di non fare, un giudice dell’esecuzione manca in apicibus, anche se pare difficile che le misure coercitive non siano state chieste al giudice della cognizione o della cautela, pena la pratica inutilità del provvedimento di condanna a un facere infungibile o a un non facere.
12. Misure urgenti: la nuova competenza per l’espropriazione di crediti della P.A., in capo ai tribunali dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede (art. 15 ter, comma 4, d.d.l. delega, per la modifica dell’art. 26 bis, comma 1, c.p.c.)
In un art. 15 ter rubricato «Misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata», nel quale si mescolano le disposizioni più varie, fanno capolino due circoscritte modifiche, quasi ‘chirurgiche’.
La prima, introdotta con il comma 4 dell’art. 15 ter del d.d.l. in esame, riscrive l’art. 26 bis, comma 1, c.p.c. sul «Foro relativo all’espropriazione forzata di crediti» nel seguente modo: «Quando il debitore è una delle pubbliche amministrazioni indicate dall'art. 413, quinto comma, per l’espropriazione forzata di crediti è competente, salvo quanto disposto dalle leggi speciali, il giudice del luogo dove il terzo debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede il giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede».
Nella Relazione illustrativa si spiegano le ragioni dell’intervento, imposte dai nuovi criteri di finanza pubblica che, soprattutto in vista degli ingenti fondi europei del Recovery Plan, accentrano in Roma il servizio di tesoreria e così, sperabilmente, il controllo della spesa pubblica, che aggrava viepiù il nostro debito pubblico e il rapporto debito/PIL, il quale veleggia verso il 160%, come ben sappiamo e ci viene ripetuto ogni dì, tanto da dover rivolgere a Domineddio evangelica supplica: «Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori».
«Con un primo intervento viene modificata la competenza per territorio nei procedimenti di espropriazione forzata di crediti nei confronti della P.A.», si legge nella Relazione. «In particolare, per effetto del prossimo accentramento della funzione di tesoreria statale, il mantenimento del criterio di cui al vigente articolo 26-bis del codice di procedura civile comporterebbe la concentrazione di tutte le procedure esecutive di cui sopra presso il Tribunale di Roma, con conseguente insostenibilità del relativo carico. La modifica introdotta, conciliando il nuovo criterio del foro del creditore con il principio del foro erariale, radica la competenza nel foro dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede, consentendo così una ragionevole distribuzione delle controversie tra diversi tribunali distrettuali».
La modifica della competenza – per la quale varrà ovviamente la regola della perpetuatio competentiae di cui all’art. 5 c.p.c., nel senso che il nuovo criterio si applicherà soltanto alle procedure esecutive promosse successivamente all’entrata in vigore della nuova disposizione – non è di lieve momento, atteso che:
- sostituisce al foro del terzo debitor debitoris il foro del creditore verso la P.A.;
- concentra le procedure sul tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello in cui risiede o ha domicilio o, in caso di persona giuridica, ha sede il creditore: talché, per esemplificare, quando il creditore verso la P.A. risieda o abbia domicilio o (se persona giuridica o altro ente) sede a Viterbo, competente per l’espropriazione del credito sarà il Tribunale di Roma; quando il creditore verso la P.A. risieda o abbia domicilio o sede a Como, competente per l’espropriazione del credito sarà il Tribunale di Milano.
Frutto di iterativo lapsus calami appare il richiamo alla «dimora» del creditore, in alternativa alla residenza o al domicilio: per le persone fisiche il criterio della dimora è solo sussidiario, essendo invocabile solo quando residenza o domicilio siano ignoti (cfr. l’art. 18 c.p.c.); ritenere che il creditore possa procedere in executivis in qualunque luogo abbia una dimora, magari una seconda casa di vacanza, significa consegnare il criterio di competenza al più assoluto arbitrio e ripetere le gravi incertezze che abbiamo conosciuto in questo periodo di limitazioni pandemiche, avuto riguardo ai trasferimenti da e verso le seconde case.
All’emendamento è sottesa la peculiare disciplina dell’espropriazione di crediti a carico della P.A. che, per dovere di completezza, par d’uopo compendiare di seguito, traendola da altro lavoro [Tedoldi, Esecuzione forzata, Pisa, 2020, 211 ss.].
Invero, stante la demanialità e, dunque, l’impignorabilità di gran parte dei beni della P.A., il pignoramento delle somme della stessa P.A. è il modo più efficace e, dove possibile, rapido per conseguire il pagamento dei crediti vantati verso la stessa, in forza di titoli esecutivi che vanno notificati centoventi giorni prima di poter intimare il precetto, secondo quanto prevede l’art. 14, comma 1, d.l. n. 669 del 1996 e successive modificazioni, a pena di nullità del precetto e di inammissibilità dell’azione esecutiva, rilevabile anche d’ufficio dal giudice dell’esecuzione. Scaduto tale spatium deliberandi et adimplendi, concesso alla P.A. per dare corso all’adempimento secondo le procedure burocratiche interne, il creditore potrà intimare il precetto e, decorso il termine dilatorio di dieci giorni, chiedere il pignoramento oppure potrà proporre dinanzi al TAR il giudizio per l’ottemperanza ai sensi degli artt. 112 ss. cod. proc. amm., mediante nomina di un commissario ad acta, che compia in luogo della P.A. gli atti amministrativi necessari ad adempiere.
La l. n. 720 del 1984 ha istituito il sistema di tesoreria unica, imponendo a enti e organismi pubblici in genere l’obbligo di mantenere le proprie disponibilità liquide o le eccedenze di cassa esclusivamente in contabilità speciali o conti correnti infruttiferi presso le sezioni di tesoreria provinciale dello Stato. A istituti di credito convenzionati sono affidate le funzioni di tesorieri o cassieri degli enti e degli organismi pubblici soggetti al sistema della tesoreria unica. Gli istituti di credito convenzionati effettuano, nella qualità di organi di esecuzione degli enti e degli organismi suddetti, le operazioni di incasso e di pagamento a valere sulle contabilità speciali aperte presso le sezioni di tesoreria provinciale dello Stato.
La disciplina sulla tesoreria unica si basa sul principio che il denaro pubblico deve uscire esclusivamente dalla tesoreria dello Stato solo al momento della effettiva spesa da parte degli enti destinatari: questo sistema accentua il ruolo della Banca d’Italia, quale affidataria del servizio unico di tesoreria e gestore dell’intero sistema dei flussi finanziari connessi con gli incassi e i pagamenti di pertinenza del bilancio dello Stato e degli altri enti ricompresi nel settore pubblico.
Ai sensi dell’art. 14, comma 1 bis, d.l. n. 669 del 1996, decorso il termine dilatorio di centoventi giorni dal perfezionarsi della notificazione del titolo esecutivo, l’atto di precetto e il successivo pignoramento vanno notificati, a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio dal giudice dell’esecuzione, presso la struttura territoriale dell’ente pubblico debitore, nella cui circoscrizione risiedono o hanno sede i soggetti privati interessati.
Ai sensi dell’art. 1 bis dell’anzidetta l. n. 720 del 1984 sul sistema di tesoreria unica, i pignoramenti a carico di enti e organismi pubblici delle somme affluite nelle contabilità speciali intestate agli stessi si eseguono esclusivamente secondo le forme del pignoramento presso terzi, con atto di pignoramento ex art. 543 c.p.c. notificato all’azienda o istituto cassiere o tesoriere dell’ente od organismo contro il quale si procede, nonché al medesimo ente od organismo debitore. Il cassiere o tesoriere assume la veste del terzo pignorato, ai fini della dichiarazione di cui all’art. 547 c.p.c. e di ogni altro obbligo e responsabilità ex art. 546 c.p.c., essendo tenuto a vincolare l’ammontare per cui si procede nelle contabilità speciali con annotazione nelle proprie scritture contabili.
In base al Regolamento per l’amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato, r.d. n. 827 del 1924 (artt. 498 e 502), le amministrazioni, enti, uffici o funzionari ai quali siano notificati pignoramenti relativi a somme dovute dalla P.A., sospendono l’ordine di pagamento delle somme ai quali i suddetti atti si riferiscono, dandone notizia alla Corte dei conti e all’amministrazione centrale. Quando gli atti contengano citazione a comparire davanti all’autorità giudiziaria, ne è subito avvertita l’Avvocatura dello Stato per i provvedimenti di sua competenza, comunicando gli elementi necessari perché possa essere resa la dichiarazione delle somme dovute, secondo le norme del codice di rito. Se gli atti non siano nulli o inefficaci per disposizione esplicita di legge o per vizio di forma, l’amministrazione centrale, sentita l’Avvocatura dello Stato, dispone che il pagamento venga effettuato. In caso contrario, non si dà corso al pagamento, fino a che non sia notificata sentenza dell’autorità giudiziaria passata in giudicato sulla validità degli atti o sull’assegnazione delle somme, salvo che il creditore pignorante non rinunzi formalmente al pignoramento notificato.
La normativa sulla tesoreria unica prevede dunque, quale unica forma di pignoramento del denaro della P.A., quella del pignoramento presso il tesoriere. In ragione di ciò, non sono ammessi pignoramenti presso le sezioni di tesoreria dello Stato e presso le sezioni decentrate del bancoposta anziché presso l’azienda o l’istituto cassiere o tesoriere dell’ente debitore, a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio. Gli atti di pignoramento eventualmente notificati non determinano obbligo di accantonamento da parte delle sezioni di tesoreria dello Stato e presso le sezioni decentrate del bancoposta e non sospendono l’accreditamento di somme nelle contabilità intestate agli enti ed organismi pubblici.
Il tesoriere convenzionato con la P.A. non agisce in forza di un mandato o per effetto di delegazione di pagamento, bensì quale adiectus solutionis causa necessario, non potendo i pagamenti in denaro della P.A. aver luogo, se non, appunto, mediante il tesoriere, in forza della normativa applicabile al rapporto di concessione del servizio di tesoreria e per la natura pubblicistica del servizio svolto per conto della P.A. Il servizio convenzionato di tesoreria è, dunque, strumento necessario per il pagamento dei debiti dell’ente pubblico e veicolo per la corresponsione della liquidità necessaria a estinguere i debiti di questo.
Nel testo oggi vigente dell’art. 26 bis, comma 1, c.p.c., la competenza funzionale è attribuita, in deroga al comma 2 del medesimo art. 26 bis c.p.c., all’ufficio giudiziario del luogo dove il terzo debitor debitoris ha la residenza, il domicilio, la dimora (in via puramente sussidiaria) o la sede, cioè segnatamente all’ufficio giudiziario del luogo dove si trova l’articolazione territoriale dell’azienda o istituto cassiere o tesoriere dell’ente od organismo pubblico debitore, che provvede in concreto all’espletamento del servizio di tesoreria, secondo le convenzioni fra P.A. e il cassiere o tesoriere incaricato, cioè segnatamente all’ufficio giudiziario del luogo in cui opera la filiale, la succursale o l'agenzia che ha in carico il rapporto che forma oggetto della dichiarazione da parte del terzo tesoriere convenzionato.
Tuttavia, sempre ai sensi del suddetto art. 14, comma 1 bis, d.l. n. 669 del 1996 e in deroga all’art. 26 bis, comma 1, c.p.c., per l’espropriazione di crediti a carico di enti o istituti esercenti forme di previdenza e assistenza obbligatorie e organizzati su base territoriale (come l’INPS e l’INAIL), la competenza funzionale appartiene non già al tribunale del luogo in cui ha residenza, domicilio, dimora o sede il terzo debitor debitoris, bensì al tribunale del circondario in cui è stato emesso il provvedimento giurisdizionale in forza del quale la procedura esecutiva è promossa, a pena di improcedibilità rilevabile (recte di declinatoria di competenza rilevabile e pronunciabile) anche d’ufficio.
Il pignoramento presso terzi a carico della P.A. perde ipso iure efficacia, quando dal suo compimento è trascorso un anno senza che sia stata disposta l’assegnazione. L’ordinanza che dispone l’assegnazione dei crediti ai sensi dell’articolo 553 c.p.c. perde ipso iure efficacia, se il creditore procedente, entro il termine di un anno dalla data in cui è stata emessa, non provvede ad agire per l’esazione delle somme assegnate. Norme queste dettate dall’art. 14, comma 1 bis, d.l. n. 669 del 1996 allo scopo di evitare che il vincolo pignoratizio si protragga per un tempo eccessivamente lungo nella contabilità dell’ente pubblico.
Accentrando in Roma il sistema di tesoreria unica, il criterio del debitor debitoris nell’oggi vigente art. 26 bis, comma 1, c.p.c. finirebbe per concentrare tutte le procedure presso terzi a carico della P.A. negli uffici giudiziari della capitale. Di qui l’idea – stante il controllo demandato all’Avvocatura dello Stato sulle procedure di espropriazione di crediti a carico della P.A. ai sensi della su descritta disciplina – di affidare la competenza al foro dove essa ha sede, cioè presso i tribunali del capoluogo del distretto di corte d’appello in cui risiede o ha domicilio o ha sede il creditore, anziché il terzo debitor debitoris, cioè il cassiere o tesoriere esercente il servizio per la P.A. in sede decentrata.
13. (segue): L’onere per il creditore pignorante di notificare e depositare avviso al debitore esecutato e al terzo pignorato dell’avvenuta iscrizione a ruolo del pignoramento presso terzi, a pena di inefficacia (art. 15 ter, comma 7, d.d.l. delega, che aggiunge tre periodi al comma 4 dell’art. 543 c.p.c.)
L’art. 15 ter, comma 7, del d.d.l. in esame così recita: «All’articolo 543, comma 4, del codice di procedura civile, sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: “Il creditore, entro la data dell’udienza di citazione indicata nell’atto di pignoramento, notifica al debitore e al terzo l’avviso di avvenuta iscrizione a ruolo con indicazione del numero di ruolo della procedura e deposita l’avviso notificato nel fascicolo dell’esecuzione. La mancata notifica dell’avviso di cui al precedente comma o il suo mancato deposito nel fascicolo della esecuzione determina l’inefficacia del pignoramento. Qualora il pignoramento sia eseguito nei confronti di più terzi, l’inefficacia si produce solo nei confronti dei terzi rispetto ai quali non è notificato o depositato l’avviso. In ogni caso, ove la notifica dell’avviso di cui al presente comma non è effettuata, gli obblighi del debitore e del terzo cessano alla data dell’udienza indicata nell’atto di pignoramento”».
La Relazione illustrativa osserva quel che segue: «La previsione mira a completare il disposto dell’articolo 164-ter disp. att. del codice di procedura civile che, al primo comma, stabilisce che il creditore – entro cinque giorni dal termine prescritto per il deposito della nota di iscrizione a ruolo della procedura (nell’espropriazione presso terzi, 30 giorni ex articolo 543 del codice di procedura civile) – provveda a dichiarare al debitore e all’eventuale terzo, “mediante atto notificato”, la sopravvenuta inefficacia del pignoramento derivante dal tardivo o mancato deposito. La disposizione vigente mira a consentire una rapida liberazione dei beni (soprattutto, dei crediti pignorati presso debitores debitorum pubblici, come INPS) già sottoposti a pignoramento, evitando il ricorso al giudice dell’esecuzione per sbloccare somme o cespiti non più vincolati alla soddisfazione del creditore in ragione dell’automatica cessazione degli obblighi di custodia in capo al terzo. Tuttavia, la disposizione non prevede alcuna sanzione (salvo, presumibilmente, una responsabilità aquiliana del creditore nei confronti dell’esecutato) e la mancata informazione al terzo non consente a quest’ultimo di avvedersi della già verificatasi liberazione dei beni. Occorre conseguentemente prevedere che anche dell’avvenuta iscrizione a ruolo – e, dunque, della permanenza del vincolo di pignoramento – sia reso edotto il terzo pignorato, stabilendo altresì che l’inottemperanza all’obbligo di avviso del terzo comporti il venir meno degli obblighi ex articolo 546 del codice di procedura civile in capo a quest’ultimo a far data dall’udienza indicata nell’atto di pignoramento».
Formuliamo alcuni brevi rilievi, essenzialmente di metodo.
Le nuove disposizioni introdotte in un articolo di legge e specialmente nei codici dovrebbero essere separate in brevi commi, senza accumulare periodi in un solo comma, trasformandolo in un ‘macrocomma’, poco o punto leggibile e intelligibile. È questo il frutto di un dissesto linguistico-burocratico, intimamente connesso a un’inarrestabile deriva, a un tempo entropica e autoritaria in questa nostra postmodernità liquida, che prende forma di dirigismo economico-finanziario, ora anche sanitario e, in una parola, tecnocratico, che non fa che accrescere asimmetrie e diseguaglianze, inficiando le faticose e sofferte conquiste delle moderne democrazie rappresentative [per ulteriori cenni sia consentito rinviare, scilicet, a Tedoldi, Il giusto processo (in)civile in tempo di pandemia, Pisa, 2021, passim; Id., «Come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori». Debito e responsabilità in tempo di crisi, Bologna, 2021, in corso di pubblicazione].
Oltre a ciò, i periodi aggiunti e cumulati nel comma 4 dell’art. 543 c.p.c. pongono a carico del creditore pignorante ulteriori adempimenti formali, dopo che era già stato onerato a depositare telematicamente copie attestate conformi del titolo esecutivo, del precetto e del pignoramento, iscrivendo a ruolo la procedura esecutiva presso terzi, entro un termine perentorio di trenta giorni dalla restituzione del pignoramento da parte dell’ufficiale giudiziario, innovando rispetto al sistema precedente, che prevedeva tout court la trasmissione del pignoramento direttamente dall’ufficiale giudiziario alla cancelleria, per la formazione del fascicolo d’ufficio, inserendo poi titolo esecutivo e precetto al momento della costituzione del creditore. Ed infatti, i primi periodi dell’art. 543, comma 4, che il d.d.l. propone di integrare illico et immediate con ulteriori periodi, erano stati introdotti con d.l. 132/2014 e così recitano: «Eseguita l’ultima notificazione, l’ufficiale giudiziario consegna senza ritardo al creditore l’originale dell’atto di pignoramento, con il titolo esecutivo ed il precetto. Il creditore deve depositare telematicamente nella cancelleria dell’ufficio giudiziario competente per l’esecuzione la nota di iscrizione a ruolo, con copie conformi dell’atto di pignoramento, del titolo esecutivo e del precetto, entro il termine perentorio di trenta giorni dalla restituzione effettuata dall’ufficiale giudiziario. La conformità di tali copie è attestata dall’avvocato del creditore. Il cancelliere al momento del deposito forma il fascicolo telematico dell’esecuzione. Il pignoramento perde efficacia ipso iure, quando la nota di iscrizione a ruolo e le copie degli atti sono depositate oltre il termine di trenta giorni dalla consegna al creditore».
L’outsourcing del servizio giustizia, che procede e s’incrementa pari passu con «le magnifiche sorti e progressive» della digitalizzazione e del PCT, or si preoccupa di porre il creditore a servizio del debitore esecutato e del terzo pignorato, onerandolo a notificare loro, entro la data dell’udienza di citazione indicata nell’atto di pignoramento, l’avviso di avvenuta iscrizione a ruolo con indicazione del numero di ruolo della procedura, per poi depositarlo nel fascicolo dell’esecuzione: il tutto a pena – udite udite – di inefficacia ipso iure del pignoramento, onde scongiurare il rischio (peraltro ben tollerabile dal sistema) che il creditore che non abbia iscritto a ruolo la procedura nel termine di trenta giorni dalla restituzione del pignoramento (usualmente perché non sono pervenute medio tempore dichiarazioni dei terzi o queste sono negative e il creditore non saprebbe come altrimenti accertare l’esistenza di debiti del terzo verso l’esecutato) ometta di darne avviso al debitore e ai terzi pignorati, affinché questi possano togliere il vincolo apposto, a norma dell’art. 164 ter disp. att. c.p.c., introdotto anch’esso con il d.l. 132/2014, rubricato (con evidente metonimia) «Inefficacia del pignoramento per mancato deposito della nota di iscrizione a ruolo» e che così recita nel suo primo comma: «Quando il pignoramento è divenuto inefficace per mancato deposito della nota di iscrizione a ruolo nel termine stabilito, il creditore entro cinque giorni dalla scadenza del termine ne fa dichiarazione al debitore e all’eventuale terzo, mediante atto notificato. In ogni caso ogni obbligo del debitore e del terzo cessa quando la nota di iscrizione a ruolo non è stata depositata nei termini di legge».
Par di trovarsi nel ‘mondo alla rovescia’ di cui favellava Hegel: l’esecuzione forzata dovrebbe servire a realizzare i crediti e dovrebbe porre la tutela dei creditori al centro dei proprî scopi, facendosi strumento perché essi ottengano «tutto quello e proprio quello cui hanno diritto» in base al titolo esecutivo. Continuare ad affliggerli con adempimenti pro debitoribus et tertiis, onerandoli di notificazioni che potrebbero essere assai difficoltose, significa solo generare artificiosi ostacoli al concreto esercizio dell’azione esecutiva e far sorgere ulteriori questioni che, non dubitiamo, giungeranno a bussare alle venuste ed esauste aule della Suprema Corte di cassazione.
Si confida che almeno per l’avviso da notificare al debitore basti il deposito telematico in cancelleria, quando questi abbia omesso di dichiarare la residenza o di eleggere domicilio nel circondario del giudice adito, giusta l’invito contenuto nell’atto di pignoramento, ai sensi dell’art. 492, comma 2, c.p.c. Quanto al terzo si dovrà reiterare la notificazione negli stessi modi seguiti per l’atto di pignoramento.
Peraltro, «esta selva selvaggia e aspra e forte» di adempimenti formalistici a carico del creditore pare assai poco compatibile con la celerità che dovrebbe esser propria dell’espropriazione presso terzi, la quale prevede un termine a comparire di soli dieci giorni tra il perfezionarsi della notificazione dell’atto di pignoramento e l’udienza fissata per la comparizione del debitore (v. lo stesso art. 543 c.p.c., che al comma 2 richiama il termine dilatorio del pignoramento, di cui all’art. 501 c.p.c.).
Bisanzio e il bizantinismo non cessano di esercitare il loro millenario influsso sul diritto italiano nel secolo XXI, in postmoderne fogge burocratico-digitali.
Considerazioni critiche sulla proposta di abrogazione della spedizione del titolo in forma esecutiva
di Ernesto Fabiani
Sommario: 1. Premessa - 2. Le argomentazioni addotte a fondamento della proposta di abrogazione della spedizione del titolo in forma esecutiva - 3. Il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sull’istituto della spedizione del titolo in forma esecutiva - 4. Pluralità di funzioni della spedizione del titolo in forma esecutiva e controllo preliminare all’instaurazione del processo esecutivo - 5. La spedizione in forma esecutiva quale sede di un controllo sostanziale (e non meramente formale) del notaio sul titolo esecutivo - 6. Conclusioni.
1. Premessa
Dopo tanti anni di studi dedicati al processo esecutivo mi ha molto colpito trovare indicato al primo punto degli interventi sulla riforma del processo civile aventi ad oggetto il processo esecutivo della “Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti alternativi” funzionali all’elaborazione degli “emendamenti governativi” al “disegno di legge AS 1662” recante “delega al governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata” l’abrogazione della spedizione del titolo in forma esecutiva [1], a fronte della totale pretermissione di altri interventi che, a mio sommesso avviso, sarebbero ben più importanti ed urgenti per rendere il nostro processo esecutivo più rapido e maggiormente funzionale al perseguimento degli obiettivi cui è istituzionalmente preposto.
Penso, per tutti, alla vendita forzata telematica cui, in modo per me inspiegabile, non è stata dedicata la minima attenzione, pur trattandosi di un istituto di indubbia centralità per un rapido ed efficace funzionamento del processo esecutivo che necessita già da tempo di significativi interventi legislativi a fronte di una normativa deficitaria sia sul piano delle fonti che dei contenuti (come spero di aver dimostrato nei plurimi scritti dedicati a questo tema), interventi resi ancor più necessari e impellenti a fronte della crisi pandemica in atto (che ha accelerato, in tutti i contesti, il ricorso allo strumento telematico e, nel caso di specie, il ricorso alla vendita telematica “pura” rispetto alla cd. vendita telematica “mista” – preferita da molti tribunali in una prima fase di applicazione dell’istituto quanto meno anche per attenuare le criticità della disciplina vigente -).
Mi ha colpito ancor di più trovare indicata l’abrogazione della spedizione del titolo esecutivo, quale primo intervento di riforma del processo esecutivo, addirittura nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza a firma di Mario Draghi (trasmesso ufficialmente al Parlamento italiano in data 25 aprile 2021 ed alla Commissione europea in data 30 aprile 2021), ove si legge che: «si abrogano le disposizioni del codice di procedura civile e di altre leggi che si riferiscono alla formula esecutiva e alla spedizione in forma esecutiva, per rendere più semplice l’avvio dell’esecuzione mediante una semplice copia attestata conforme all’originale».
Al di là del ritenuto carattere prioritario di un intervento riformatore di questo tipo rispetto ad altri possibili interventi di riforma del processo esecutivo, nutro grosse perplessità anche nel merito della proposta effettuata per i motivi che cercherò brevemente di seguito di evidenziare, nella (mai vana) speranza che contributi come questo possano stimolare, se non anche agevolare, un attento percorso di riflessione che dovrebbe precedere ogni intervento legislativo in tema di processo civile, onde evitare, non solo scelte che peggiorino (anziché migliorare) la situazione della giustizia civile (e, nella specie, del processo esecutivo), ma anche ripetuti e repentini interventi legislativi correttivi/modificativi del medesimo istituto cui ci ha purtroppo ormai abituato il nostro legislatore e che, lungi dall’agevolare l’attività degli operatori del diritto chiamati a darvi applicazione, non fanno che renderla più complessa e meno funzionale rispetto al conseguimento degli obiettivi cui è preordinata.
2. Le argomentazioni addotte a fondamento della proposta di abrogazione della spedizione del titolo in forma esecutiva
Nelle suddette “proposte normative e note illustrative” della “Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti alternativi” si invocano, a fondamento della proposta di abrogazione della spedizione del titolo in forma esecutiva:
- la dottrina secondo la quale “la formula esecutiva è un requisito la cui utilità è scarsamente comprensibile”;
- la giurisprudenza di legittimità che interpreta l’art. 475 c.p.c. nel senso di “escludere che la formula esecutiva costituisca elemento indefettibile per un titolo esecutivo” e che ha di recente ulteriormente indebolito la rilevanza della formula esecutiva ritenendo: da un lato, che “l’omessa spedizione in forma esecutiva della copia del titolo esecutivo rilasciata al creditore e da questi notificata al debitore determina un’irregolarità formale del titolo medesimo, che deve essere denunciata nelle forme e nei termini di cui all’art. 617 c.p.c.”; dall’altro lato, che il debitore non può limitarsi, a pena di inammissibilità dell’opposizione, a dedurre l’irregolarità formale in sé considerata, senza indicare quale concreto pregiudizio ai diritti tutelati dal regolare svolgimento del processo esecutivo essa abbia cagionato”;
- la disciplina legislativa sopravvenuta – riguardo all’iscrizione a ruolo dei processi di espropriazione mediante il deposito di una copia (formata dallo stesso difensore del creditore) del titolo rilasciato in forma esecutiva – che renderebbe “vieppiù superflua la normativa codicistica”.
Giova a tal proposito altresì evidenziare come, taluna dottrina, a fronte dell’intervento legislativo (di cui al comma 9 bis dell’art. 23 del d.l. 137/2020) transitoriamente volto a consentire – a fronte dell’emergenza pandemica – la possibilità per il cancelliere di rilasciare la copia esecutiva delle sentenze e degli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria di cui all’art. 475 c.p.c. in forma di documento informatico, ha ritenuto superata la disciplina codicistica in tema di spedizione del titolo in forma esecutiva in quanto sostanzialmente incompatibile con l’avvento del documento informatico.
Altre volte, nella più recente dottrina, si è più genericamente e sbrigativamente liquidato il suddetto istituto come un inutile “relitto storico”.
3. Il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sull’istituto della spedizione del titolo in forma esecutiva
Non è certamente questa la sede per soffermarsi in modo analitico sulle suddette affermazioni e/o per ripercorrere il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sulla spedizione del titolo in forma esecutiva.
Basti a tal proposito evidenziare, in questa sede, come in realtà, a differenza di quanto potrebbe sembrare dalla lettura delle suddette affermazioni, il quadro dottrinale e giurisprudenziale in materia non è per null’affatto univoco sotto svariati profili (funzione, rilevanza, confini e tipologia del controllo che compete al pubblico ufficiale in detta sede), e non siamo comunque di fronte ad un istituto che può essere sbrigativamente liquidato come un inutile relitto storico.
Si consideri, a titolo meramente esemplificativo, come:
- a fronte della suddetta dottrina che tende a negare ogni rilevanza della spedizione del titolo in forma esecutiva, v’è altra dottrina che, all’opposto, gli riconosce un ruolo particolarmente pregnante, tanto da arrivare a ritenere che “prima che sia apposta la formula esecutiva, il diritto a procedere ad esecuzione forzata è soggetto ad una condizione impropria (condicio iuris) il cui avveramento soltanto ne consente l’esercizio” (Grasso), nonché altri autori che, pur non riconoscendo alla spedizione in forma esecutiva siffatto rilievo, ritengono comunque che la stessa rivesta “tuttora importanti funzioni” (Capponi);
- le critiche della dottrina più risalente a questo istituto sono state talvolta incentrate, non sull’istituto in sé, ma sulle modalità di attuazione dello stesso e, segnatamente, sul contenuto (ormai superato) della formula di cui all’art. 475 c.p.c. (soprattutto nella parte in cui esordisce con “comandiamo”), così come talvolta il ritenerlo istituto storicamente superato (per i titoli giudiziali, notarili e amministrativi) è affermazione che trova la sua ragion d’essere nell’evoluzione storica dei titoli esecutivi stragiudiziali (e segnatamente dell’evento rivoluzionario, per la dottrina dell’epoca, di cui sono espressione le leggi speciali sulla cambiale e sull’assegno, e cioè l’interiorizzazione della forza esecutiva da parte dei titoli privati - storicamente più recenti -);
- la suddetta recente pronuncia della Corte di Cassazione invocata a fondamento dell’abrogazione dell’istituto, se è vero che sminuisce la rilevanza della spedizione del titolo in forma esecutiva sotto il profilo della sua eventuale omissione e della tipologia del vizio deducibile in sede di opposizione (e delle condizioni cui sarebbe subordinata detta deducibilità), per altro verso, ne valorizza al massimo la portata, sul piano sistematico, tanto da evocare quell’impostazione dottrinale che attribuisce alla spedizione del titolo in forma esecutiva la rilevanza di condicio iuris per l’esercizio dell’azione esecutiva;
- non sussiste uniformità di vedute, in dottrina e giurisprudenza, neanche in ordine alla tipologia e ai confini del controllo esercitabile da parte del pubblico ufficiale in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva, posto che: la giurisprudenza oscilla fra l’affermazione di principio nel senso che si tratti di un mero “controllo formale” e pronunce che invece, sulla falsariga di quanto ritenuto anche dalla giurisprudenza amministrativa, gli attribuiscono una portata ben più pregnante (comprensiva, per intendersi, della verifica in ordine alla sussistenza della liquidità ed esigibilità del diritto consacrato nel titolo); la dottrina tende per lo più ad escludere che il pubblico ufficiale debba verificare la sussistenza della cd. esecutività in concreto (ossia la sussistenza, già al momento della spedizione del titolo in forma esecutiva, della certezza, liquidità ed esigibilità del diritto consacrato nel titolo, che dovrebbero invece sussistere solo al momento dell’esercizio dell’azione esecutiva) e a ritenere che, al momento della spedizione del titolo, debba essere verificata la sola cd. esecutività in astratto, che è però una formula estremamente generica e ben poco risolutiva una volta che si sia escluso, come mi pare difficilmente contestabile, che il controllo del pubblico ufficiale non possa essere circoscritto alla sola forma dell’atto (ossia a verificare se il titolo abbia la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata) ma si estenda, invece, anche al contenuto dell’atto;
- non sussiste alcuna incompatibilità di fondo fra la disciplina del codice di rito civile nella parte in cui mira ad evitare la proliferazione delle copie del titolo esecutivo e la natura informatica (e non cartacea) del titolo e delle copie dello stesso, posto che detta esigenza può essere comunque salvaguardata, anche in quest’ultima ipotesi, attraverso l’individuazione di differenti modalità operative di rilascio delle copie, rispetto a quelle tradizionalmente disciplinate dal codice, tali da scongiurare il suddetto rischio (così come si è tentato di fare in sede di riforma della legge notarile, con l’art. 68 bis, in relazione al possibile rilascio in via telematica della copia esecutiva da parte del notaio); una cosa è, in altri termini, l’esigenza innegabile di rivedere l’attuale disciplina codicistica in tema di spedizione del titolo in forma esecutiva ove questo non sia più rappresentato dal tradizionale documento cartaceo, altra cosa è ritenere che, in ragione delle differenti caratteristiche del documento informatico rispetto a quello cartaceo, l’istituto della spedizione in forma esecutiva sia stato sostanzialmente abrogato o debba essere comunque necessariamente abrogato.
4. Pluralità di funzioni della spedizione del titolo in forma esecutiva e controllo preliminare all’instaurazione del processo esecutivo
Secondo l’impostazione largamente prevalente, la funzione (ancor oggi rilevante nel nostro ordinamento) della spedizione del titolo in forma esecutiva, non è quella di attribuire forza esecutiva al titolo attraverso il ricorso ad una formula solenne (che spesso la dottrina qualifica come un “residuo” o “relitto” storico), ma piuttosto quella di contraddistinguere la prima ed unica copia autentica del documento rilasciata dal cancelliere o dal notaio (a seconda della differente tipologia di titolo – giudiziale o stragiudiziale – che venga in rilievo) che, non a caso, si ritiene “incorpori” l’azione esecutiva e sia utilizzabile per l’instaurazione del processo di esecuzione forzata mediante l’esibizione/consegna della stessa all’ufficiale giudiziario (richiesto di procedere, per l’appunto, all’esecuzione forzata).
L’unicità del documento, così contrassegnato attraverso la spedizione dello stesso in forma esecutiva (che vale, dunque, ad identificare l’unica copia del titolo idonea a fondare l’esecuzione forzata), mira al contempo ad evitare la possibile instaurazione di una pluralità di processi esecutivi nei confronti del medesimo debitore in forza del medesimo titolo, così che risulta del tutto evidente anche lo stretto legame esistente fra la spedizione in forma esecutiva di cui all’art. 475 c.p.c. ed il divieto di spedizione senza giusto motivo di altre copie in forma esecutiva alla stessa parte di cui all’art. 476 c.p.c.
Tutto ciò è indubbiamente vero, ma sarebbe riduttivo cogliere la funzione della spedizione del titolo in forma esecutiva esclusivamente in questo, posto che detto istituto rappresenta anche la sede deputata allo svolgimento di un controllo preliminare rispetto all’instaurazione del processo di esecuzione forzata.
A livello di disciplina codicistica è pacifico che il nostro processo esecutivo, a differenza di quanto accade in altri ordinamenti, si caratterizza per la scelta di fondo, effettuata dal nostro legislatore, di non subordinare l’instaurazione dello stesso ad un controllo giurisdizionale preventivo sulla idoneità del titolo esecutivo a dare luogo ad una legittima esecuzione forzata, essendo, invece, previsto solo un controllo rimesso al cancelliere o al notaio (a seconda che a fondamento della pretesa esecutiva sia posto un titolo giudiziale o stragiudiziale) alla stregua di quanto disposto, in particolare, dagli artt. 475 c.p.c. e 153 disp. att. c.p.c, cui si affianca un ulteriore controllo attribuito all’ufficiale giudiziario, che, in forza del combinato disposto degli artt. 60, n. 1, c.p.c. e 108, 2° co., d.p.r. 15 dicembre 1959, n. 1229 (t.u. sull’ordinamento degli ufficiali giudiziari), può legittimamente rifiutare l’esecuzione forzata richiestagli.
Se così è, non appare dunque dubitabile che la rilevanza dell’istituto della spedizione in forma esecutiva nell’ambito nel nostro ordinamento dipende inevitabilmente anche dalla suddetta funzione di controllo che è tenuto ad assolvere, nonché come, ai fini di stabilire se, nonostante quest’ulteriore funzione, ci troviamo comunque di fronte ad un inutile “relitto storico”, occorre preliminarmente stabilire se detto controllo si atteggi effettivamente in termini di mero controllo formale. Posto che, se così non dovesse essere, l’eventuale abrogazione dell’istituto di cui si discute, lungi dal poter essere sbrigativamente liquidata come una semplificazione dell’iter di accesso alla tutela esecutiva, dovrebbe essere attentamente meditata in quanto equivarrebbe, in realtà, a rinunciare ad un controllo (non meramente formale ma) sostanziale di accesso alla tutela esecutiva, con conseguente evidente accrescersi del rischio di contestazioni del diritto consacrato nel titolo.
5. La spedizione in forma esecutiva quale sede di un controllo sostanziale (e non meramente formale) del notaio sul titolo esecutivo
Come già evidenziato, non sussiste uniformità di vedute, in dottrina e giurisprudenza, in ordine alla natura e all’entità del controllo esercitabile dal pubblico ufficiale in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva, posto che si oscilla dal mero controllo formale al ben più pregnante controllo sulla liquidità ed esigibilità del diritto consacrato nel titolo (come pure di recente affermato dalla giurisprudenza della Suprema corte di legittimità, oltre che dalla giurisprudenza amministrativa).
Al contempo, non sussiste neanche uniformità di vedute, in dottrina e in giurisprudenza, neanche in ordine al se il controllo esercitabile dal cancelliere sui titoli giudiziali sia uguale, o meno, al controllo esercitabile dal notaio con riferimento a taluni titoli stragiudiziali.
Nei circoscritti confini del presente contributo, basti evidenziare quanto segue.
Sotto il profilo soggettivo del diritto consacrato nel titolo appare difficilmente contestabile che il controllo di cui si discute:
- per un verso, non sia un mero controllo formale, essendosi da più parti evidenziato come ci troviamo di fronte ad un controllo penetrante, o che non si può comunque esaurire in un mero controllo cartolare nell’ipotesi in cui la spedizione del titolo venga effettuata in favore (non della parte ma) del successore, specie laddove si ritenga necessario fornire la prova della successione;
- per altro verso, elevi la certezza del diritto consacrato nel titolo (dal punto di vista soggettivo) in quanto, in tal caso, con l’apposizione della formula si integrano i riferimenti del titolo, attraverso l’individuazione di un diverso soggetto avente diritto di procedere all’esecuzione a seguito di un evento che determina una successione nel diritto e nel titolo, così che “il profilo soggettivo si integra nella definizione di certezza del diritto che deve essere realizzato coattivamente” (Capponi).
Sotto il profilo oggettivo del diritto consacrato nel titolo, quanto meno con riferimento al controllo esercitato da parte del notaio, appare agevole evidenziare come detto controllo non si sia mai esaurito in un mero controllo formale, circoscritto cioè alla sola forma dell’atto.
Si è, invece, sempre trattato di un controllo esteso anche al contenuto dell’atto.
Più in dettaglio, pur escludendosi dai più che detto controllo debba spingersi sino a verificare la sussistenza di un diritto certo, liquido ed esigibile (cd. esecutività in concreto), è stato comunque sempre effettuato un penetrante controllo sulla conformazione dell’obbligazione e/o in ipotesi particolarmente controverse si è elevata la certezza del diritto consacrato nel titolo ricorrendo al cd. titolo esecutivo complesso.
In estrema sintesi, non appare dubitabile che la spedizione del titolo in forma esecutiva non svolge nel nostro ordinamento la sola funzione di identificare l’unica copia del titolo idonea a fondare l’esecuzione forzata, e dunque di evitare la possibile instaurazione di una pluralità di processi esecutivi in forza del medesimo titolo nei confronti del medesimo debitore, rappresentando anche la sede istituzionalmente deputata a consentire l’effettuazione di un controllo preliminare rispetto all’instaurazione del processo esecutivo. Un controllo che, a ben vedere, non si esaurisce in un mero controllo formale, non solo dal punto di vista soggettivo ma, quanto meno con riferimento ai titoli stragiudiziali di provenienza notarile, neanche dal punto di vista oggettivo. Un controllo che, per l’effetto, contribuisce ad elevare la certezza del diritto consacrato nel titolo nell’ambito di un contesto contraddistinto, peraltro, dall’accresciuta importanza nel corso del tempo dei titoli esecutivi stragiudiziali (e nella specie notarili), oltre che dalla complessità delle relazioni economiche e del controllo richiesto in sede di spedizione di questi titoli in forma esecutiva (sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo).
6. Conclusioni
Il nostro ordinamento considera come fisiologica la possibilità che il diritto di procedere ad esecuzione forzata non sussista al momento dell’instaurazione del processo esecutivo e che ciò possa essere accertato in sede giurisdizionale solo a fronte di un’apposita iniziativa in tal senso del soggetto a ciò interessato nelle forme dell’opposizione (all’esecuzione o agli atti esecutivi).
Non a caso è pacifico che certezza del diritto consacrato nel titolo non equivalga a incontrovertibilità del diritto.
La certezza viene riferita dalla dottrina: talvolta, al diritto consacrato nel titolo, conseguentemente rimarcando la natura altamente discrezionale della scelta effettuata dal legislatore nell’individuare di volta in volta il punto di equilibrio tra le esigenze perennemente in contrasto di rapidità per il creditore e di certezza per il debitore; talaltra, all’esatta e compiuta indicazione del diritto nel relativo provvedimento giudiziale o atto stragiudiziale.
Sia che ci si muova nell’una che nell’altra delle due suddette differenti prospettive di fondo, è comunque agevole comprendere come detta certezza venga elevata per effetto del controllo esercitato dal notaio in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva, trattandosi di un controllo che, come già evidenziato, non ha ad oggetto la sola forma dell’atto ma si estende anche al suo contenuto e, segnatamente: alla conformazione dell’obbligazione, sotto il profilo oggettivo; alle modificazioni di ordine soggettivo, a fronte del verificarsi di fenomeni successori (nel diritto e nel titolo), sotto il profilo soggettivo.
Appare, dunque, assai singolare che venga avanzata l’idea di abrogare l’istituto della spedizione del titolo in forma esecutiva adducendo a fondamento di questa scelta le suddette argomentazioni e pretermettendo, invece, ogni considerazione di sorta in ordine al controllo di cui detto istituto costituisce espressione nel nostro ordinamento, oltre che in ordine allo stretto legame esistente con la tematica di carattere più generale attinente allo spazio che ogni ordinamento riserva al controllo preventivo rispetto all’instaurazione del processo esecutivo. Un controllo che, quanto meno con riferimento ai titoli di provenienza notarile, si atteggia peraltro nei termini di cui sopra.
Questo modo di procedere desta ancora maggiori perplessità ove si consideri che il nostro ordinamento prevede già attualmente un controllo preventivo rispetto all’instaurazione del processo esecutivo meno penetrante rispetto a quello previsto da altri ordinamenti.
Più precisamente, il nostro ordinamento, a differenza di altri – che pur fondano l’esecuzione sulla presenza di un titolo -, è attualmente privo, non solo di una fase preliminare di autorizzazione all’esecuzione concessa dal giudice (come accade, ad esempio, in Spagna e in Austria), ma anche di uno specifico procedimento, latamente cognitivo, volto alla concessione della formula esecutiva, destinato a trovare applicazione in tutti quei casi in cui si tratti di superare la letteralità del titolo (come accade, ad esempio, in Germania con riferimento al rilascio della formula esecutiva a favore e contro i successori dei soggetti indicati nel titolo esecutivo, come creditore e debitore, ovvero nell’ipotesi in cui, dal titolo, l’esecuzione risulti subordinata all’avverarsi di una determinata condizione).
Il rischio evidente di una scelta che, al fine di semplificare l’iter che precede l’instaurazione del processo esecutivo, mira ad abrogare l’istituto della spedizione in forma esecutiva è, dunque, quello di pagare un prezzo molto alto in termini di aumento dei giudizi oppositivi, posto che detto controllo, quanto meno con riferimento ai titoli di formazione stragiudiziale - e, segnatamente, con riferimento a quelli di formazione notarile -, non è stato mai inteso come un mero controllo formale circoscritto alla sola forma dell’atto, ma bensì come un controllo ben più penetrante che, seppur incentrato sul contenuto dell’atto, ha sempre contribuito ad accrescere la certezza del diritto consacrato nel titolo. Né si può immaginare che il controllo attualmente effettuato dal notaio in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva possa essere effettuato dall’ufficiale giudiziario in sede di legittimo rifiuto a procedere all’esecuzione forzata richiestagli, ossia l’unico controllo antecedente rispetto all’instaurazione del processo esecutivo che sopravviverebbe all’esito della suddetta riforma.
In altri termini, per evitare qualche opposizione “formale” legata alle modalità di spedizione del titolo in forma esecutiva, si corre il rischio di determinare un significativo aumento delle opposizioni “sostanziali” dirette a contestare il diritto consacrato nel titolo.
In ragione di ciò, non appare azzardato ritenere che, de iure condendo, la direzione da imboccare non sarebbe quella di eliminare la spedizione del titolo in forma esecutiva, ma bensì quella di valorizzare detto istituto facendolo divenire la sede per un controllo più penetrante sul titolo esecutivo, così eliminando, per un verso, i dubbi attualmente esistenti in ordine alla delimitazione dei confini del controllo esercitabile in detta sede e così accrescendo, per altro verso, la certezza del diritto consacrato nel titolo, con evidenti effetti in termini di deflazione del contenzioso (sub specie di instaurazione di giudizi oppositivi volti a contestare il diritto consacrato nel titolo).
Si tratta di un’esigenza ancor più evidente con riferimento ai titoli di formazione stragiudiziale cui ha sinora fatto fronte, nei limiti della disciplina vigente, il notaio e che, de iure condendo, potrebbe essere anche soddisfatta in modo ancor più efficace, sciogliendo al contempo anche tutti i dubbi che attualmente involgono la delimitazione dei confini del controllo esercitabile dal notaio in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva: per un verso, facendo leva sulle peculiarità della figura del notaio nell’ambito del nostro ordinamento, pubblico ufficiale istituzionalmente terzo cui, sul piano processuale, è riconosciuto il ruolo di possibile sostituto del giudice (art. 68, 2° comma, c.p.c.); per altro verso, prendendo spunto dalla disciplina già prevista in altri ordinamenti (come quello tedesco) che valorizzano la prospettiva del controllo preliminare sul titolo esecutivo nelle ipotesi in cui, al fine di intraprendere l’esecuzione, occorre discostarsi, sul piano soggettivo e/o oggettivo, dalla letteralità del titolo.
Si potrebbe immaginare, più in particolare, che in ipotesi di questo tipo detto controllo possa essere svolto proprio dal notaio, non solo con riferimento al profilo soggettivo del titolo (si pensi, per tutti, al verificarsi di un fenomeno successorio) – come in buona parte già accade attualmente secondo quanto ritenuto da una parte della dottrina e della giurisprudenza -, ma anche con riferimento al profilo oggettivo del titolo (si pensi, a titolo meramente esemplificativo, alle ipotesi in cui l’esecuzione risulti subordinata all’avverarsi di una determinata condizione).
Ciò anche in considerazione del fatto che il notaio, a differenza del cancelliere, è il soggetto istituzionalmente preposto alla formazione del titolo, cui compete, pertanto, già in questa sede, di effettuare valutazioni funzionali anche sotto il profilo dei requisiti richiesti dall’art. 474 c.p.c.
Più precisamente, il notaio svolge un ruolo del tutto peculiare rispetto al titolo esecutivo, posto che detto ruolo si snoda in differenti momenti: quello della formazione del titolo, quello del controllo in sede di spedizione in forma esecutiva e quello dell’eventuale intervento successivo sullo stesso attraverso la formazione del cd. titolo esecutivo complesso.
Dovrebbe trattarsi comunque di ipotesi in cui l’accertamento richiesto al notaio sia di tipo cartolare o non richieda comunque la necessità di effettuare un’istruttoria in senso proprio e, comunque, non si tratterebbe di un accertamento tale da precludere la possibilità per la parte interessata di provocare un accertamento giurisdizionale dinanzi al giudice attraverso l’instaurazione di un giudizio di opposizione. Che è quanto, a ben vedere, già taluna dottrina ritiene con riferimento alle ipotesi di successione ammettendo che il pubblico ufficiale possa richiedere la prova (da fornirsi con ogni mezzo) dell’avvenuta successione, specie se a titolo particolare.
Conformemente a quanto già evidenziato, lo scopo dell’immaginato potenziamento del controllo sul titolo, in una fase antecedente rispetto all’instaurazione del processo esecutivo, dovrebbe essere quello di elevare il livello della certezza del diritto consacrato nel titolo, riducendo la probabilità che detto diritto sia contestato attraverso l’instaurazione di un giudizio di opposizione, e non già quello di precludere in radice la possibilità di un accertamento a cognizione piena dinanzi al giudice in ordine all’esistenza o meno del diritto consacrato nel titolo.
Così procedendo, non solo si supererebbero definitivamente tutti i dubbi legati all’utilità di un istituto ormai segnato dal tempo, ma si potrebbero anche superare i dubbi che attualmente circondano la delimitazione dei confini del controllo esercitabile dal notaio in sede di spedizione del tiolo in forma esecutiva, posto che, l’attuale quadro normativo, dottrinale e giurisprudenziale non restituisce certamente indicazioni univoche sul punto.
In definitiva, l’istituto della spedizione del titolo in forma esecutiva, proprio in quanto strettamente connesso al controllo preventivo esercitabile rispetto all’instaurazione del processo esecutivo, non può essere semplicisticamente archiviato come un relitto storico, così come non si può ritenere che si tratti di un istituto superato in quanto inscindibilmente legato alla natura cartacea del titolo o della copia, essendo ben compatibile anche con un documento non avente consistenza cartacea.
In realtà, ci troviamo di fronte ad un istituto che, attualmente, per come è disciplinato, necessita di un intervento legislativo, ma, per i motivi appena più sopra evidenziati, non è per null’affatto scontato che la scelta più funzionale a rendere più rapido ed efficace il processo esecutivo sia quella dell’eliminazione della spedizione in forma esecutiva, così rinunciando ad ogni tipo di controllo preventivo rispetto all’instaurazione del processo esecutivo (salvo quanto già evidenziato con riferimento al controllo rimesso all’ufficiale giudiziario), a differenza di quanto fanno altri ordinamenti che prevedono già un controllo più penetrante della nostra attuale spedizione del titolo in forma esecutiva.
[1] Per un più approfondito esame di questo istituto e per ampi riferimenti dottrinali e giurisprudenziali su tutti i profili affrontati nel corso del presente scritto rinvio a: E. FABIANI-L. PICCOLO, La spedizione in forma esecutiva dei titoli esecutivi giudiziali in via telematica fra prassi giudiziarie, interventi legislativi volti a fronteggiare l’emergenza epidemiologica e prospettive di riforma in corso di pubblicazione in Rassegna dell’esecuzione forzata, n. 2/2021; E- FABIANI-L. PICCOLO, Il controllo del notaio in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva con particolare riguardo all’oggetto del diritto in corso di pubblicazione sul sito istituzionale del Consiglio Nazionale nel Notariato.
È opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di Cassazione?
di Bruno Capponi
Sulle pagine “telematiche” di questa Rivista si è già parlato delle proposte di modifica del procedimento civile di legittimità, attualmente all’esame del Senato dopo la “bollinatura” degli emendamenti governativi, confluiti nel fascicolo unico della Commissione Giustizia (17 giugno 2021). L’emendamento sul c.d. rinvio pregiudiziale è quello che già conoscevamo, ma forse è il caso di riprodurlo per comodità di lettura:
Art. 6-bis, lett. g): introdurre la possibilità per il giudice di merito, quando deve decidere una questione di diritto sulla quale ha preventivamente provocato il contraddittorio tra le parti, di sottoporre direttamente la questione alla Corte di cassazione per la risoluzione del quesito posto, prevedendo che:
1) l’esercizio del potere di rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione sia subordinato alla sussistenza dei seguenti presupposti:
a) la questione sia esclusivamente di diritto, nuova, non ancora affrontata dalla Corte di cassazione e di particolare importanza;
b) presenti gravi difficoltà interpretative;
c) sia suscettibile di porsi in numerose controversie;
2) ricevuta l’ordinanza con la quale il giudice sottopone la questione, il primo presidente, entro novanta giorni, possa dichiarare inammissibile la richiesta qualora risultino insussistenti i presupposti di cui alla lettera precedente;
3) nel caso in cui non provveda a dichiarare la inammissibilità, il primo presidente assegni la questione alle sezioni unite o alla sezione semplice tabellarmente competente;
4) la Corte di cassazione decida enunciando il principio di diritto in esito ad un procedimento da svolgersi mediante pubblica udienza, con la requisitoria scritta del pubblico ministero e con facoltà per le parti di depositare brevi memorie entro un termine assegnato dalla Corte stessa;
5) il rinvio pregiudiziale in cassazione sospenda il giudizio di merito ove è sorta la questione oggetto di rinvio;
6) il provvedimento con il quale la Cassazione decide sulla questione sia vincolante nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione e conservi tale effetto, ove il processo si estingua, anche nel nuovo processo che sia instaurato con la riproposizione della medesima domanda nei confronti delle medesime parti.
La Relazione illustrativa, redatta dall’Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia evidentemente ispirato dalla proposta della Commissione Luiso, parla dell’articolato come di una novità assoluta per il nostro ordinamento: si legge che «l’istituto che si propone, denominato “rinvio pregiudiziale in cassazione” e ispirato a felici esperienze straniere (e segnatamente della saisine pour avis propria dell’ordinamento francese), consente al giudice, in presenza di una questione di diritto nuova, che evidenzi una seria difficoltà interpretativa e che appaia probabile che si verrà a riproporre in numerose controversie, di chiedere alla Corte di legittimità l’enunciazione di un principio di diritto».
Viene aggiunto che «in tal caso, non si tratta di un mezzo di impugnazione e, dunque, non sussiste un “obbligo” per la Corte di rendere il principio di diritto richiesto»; anche per questa ragione «è previsto un “filtro” affidato al Primo Presidente della Corte di cassazione, il quale potrà, qualora appaiano insussistenti i presupposti di (diritto) indicati, dichiarare inammissibile la richiesta e restituire gli atti al giudice remittente. Ciò consentirà, soprattutto nel primo periodo successivo all’introduzione nell’ordinamento dell’istituto in esame, di evitare che la Corte di cassazione sia gravata da un carico eccessivo e da remissioni non giustificate dalla novità e dalla complessità delle questioni da parte dei giudici di merito».
La Corte immagina, evidentemente, di poter essere investita da richieste pregiudiziali in tale misura, da doversi garantire la presenza di un dispositivo di selezione delle questioni per difetto dei presupposti che, a quanto è dato capire, debbono tutti concorrere congiuntamente. Taluni di questi presupposti emergono ex actis, ma altri presuppongono un’attività valutativa-predittiva del rimettente e, quindi, della Corte, estesa a elementi estranei al processo in cui il dubbio interpretativo è sorto (che la questione “pregiudiziale” possa porsi in un numero imprecisato ma rilevante di controversie, è evidentemente un dato che il giudice rimettente non può dedurre dagli atti di causa, e d’altra parte è valutazione che la Corte potrebbe non condividere).
Conclude la Relazione: «è evidente l’obiettivo dell’istituto del rinvio pregiudiziale in cassazione: permettere che la Cassazione affermi celermente, prevenendo un probabile contenzioso su una normativa nuova o sulla quale non si è ancora pronunziata la giurisprudenza di legittimità, una regola ermeneutica chiara, capace di fornire indirizzi per il futuro ai tribunali di merito. La finalità deflattiva è evidentemente apprezzabile, in particolare in presenza di un quadro giuridico nel quale numerosi istituti, nella materia civile, sono sottoposti a stress e richiedono rinnovate riflessioni o aggiustamenti. D’altra parte, l’istituto è anche coerente con il ruolo di jus dicere proprio del giudice di legittimità. In questo modo, infatti, la Corte di legittimità assolve compiutamente al proprio compito di sommo organo regolatore, proteso all’armonico sviluppo del diritto nell’ordinamento».
È curioso che nell’illustrare la proposta si parli di novità assoluta e si faccia riferimento soltanto all’esperienza d’oltralpe; forse sarebbe stato utile – sottolineando le differenze – far capo a istituti che nel nostro ordinamento si conoscono e si praticano, quali l’accertamento pregiudiziale di cui all’art. 420-bis c.p.c., la questione incidentale di costituzionalità, il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Strumenti tra loro molto diversi, va riconosciuto, e che tuttavia potrebbero giocare un utile ruolo nella individuazione dei confini e dei limiti del nuovo istituto (si pensi soltanto ai requisiti di rilevanza e non manifesta infondatezza della q.l.c., e ai controlli che su di essi opera la Consulta: anche la Cassazione, investita del rinvio pregiudiziale, potrebbe rimettere gli atti al giudice a quo per un nuovo esame?).
È anche curioso che, facendo riferimento all’esperienza francese, si paventi un uso scriteriato e gravatorio dell’istituto da parte dei giudici di merito (forse attirati dalla connessa sospensione del giudizio?). Basta infatti una visita veloce al sito della Cour de cassation (https://www.courdecassation.fr/jurisprudence_2/avis_15/presentation_saisine_avis_8018/saisine_avis_quelques_mots..._36051.html) per prendere atto che l’istituto viene utilizzato, tra settore penale e settore civile, in non più di una decina di casi all’anno. Gli avis sono tutti consultabili per esteso sul sito della Corte, ma la loro lettura potrebbe seriamente perplimere il giurista italico: si tratta di pareri esposti in poche scarne proposizioni, che spesso dichiarano la richiesta irrecevable per difetto delle condizioni (les questions posées ne conditionnent pas la solution du litige), e in ogni caso si limitano a trattare chirurgicamente la questione di diritto sollevata dopo cenni più che sintetici sull’oggetto del giudizio in cui la questione “pregiudiziale” è sorta. A stampa, gli avis non prendono mai più di tre cartelle.
Premesso quindi che sarebbe buona regola, prima di importare istituti processuali, allargare lo sguardo nel tentativo di percepire il quadro d’insieme in cui l’istituto è destinato a operare, sta di fatto che la tecnica redazionale utilizzata in Francia dai conseillers de cassation è esattamente opposta a quella vigente in Italia. È sufficiente guardare a recenti decisioni della nostra Corte ispirate dall’art. 363 c.p.c. (nelle due applicazioni della richiesta del P.G. e della pronuncia d’ufficio su ricorso dichiarato inammissibile) per comprendere che l’applicazione dell’istituto francese presuppone una vera e propria riconversione culturale dei nostri consiglieri. Un esempio su tutti: la Cass., sez. III, 17 ottobre 2019, n. 26285, dopo aver pronunciato due principi di diritto nell’interesse della legge su ricorso dichiarato inammissibile perché tardivamente proposto (§ 7), essendosi spinta a svolgere «un’ulteriore riflessione» (oramai del tutto fuori quadro rispetto all’oggetto del giudizio), ha poi pronunciato altri sei principi di diritto (dipendenti dai due già pronunciati d’ufficio) che, di fatto, hanno riscritto o integrato norme del c.p.c. (§ 10). La sentenza-trattato palesa un legame molto labile col caso che avrebbe dovuto essere deciso, svelando l’intenzione della Corte di imporre (non interpretazioni bensì) regole cui dovrebbero uniformarsi i giudici di merito del tutto prescindendo dall’esame e dalle caratteristiche del caso (è forse utile rammentare che, nell’ipotesi normale, la Corte pronuncia il principio di diritto quando decide il ricorso – art. 384, comma 1, c.p.c. – cioè quando opera come giudice, sia pure di legittimità).
Ci si può chiedere: perché, in presenza di condizioni culturali tanto diverse, si guarda con tanto interesse all’esperienza francese?
La risposta, a me sembra, debba essere nel senso che la saisine pur avis è istituto che esalta la funzione nomofilattica e il c.d. jus constitutionis; è cioè istituto che risponde all’attuale preoccupazione (in vari modi espressa) della Corte di porsi, ben più che in passato, non quale giudice che risolve conflitti (sia pure in sede di legittimità) bensì quale autorità che dialoga direttamente con la legge, cioè che affina, integra o impone regole. La saisine è istituto ideale per questo scopo, perché la questione di diritto viene drasticamente isolata dal caso per essere proposta alla Corte nella sua purezza ed essenzialità: ma è evidente che un simile presupposto presuppone una Corte in grado di fornire una risposta precisa, tendenzialmente definitiva e soprattutto sintetica. Una risposta chiara, sulla quale non dovrebbero potersi affacciare plurime interpretazioni, interpolazioni, ripensamenti. Sono i nostri Collegi in grado di somministrare risposte simili? I dubbi sorgono leggendo, ad esempio, le due sentenze delle Sezioni Unite n. 4485/2018 e n. 4247/2020, in tema di procedimenti di liquidazione dei compensi professionali spettanti agli avvocati. E già non è fisiologico che sulla stessa questione le Sezioni Unite siano chiamate a pronunciarsi più di una volta a distanza di meno di due anni.
Per altro verso, è sorprendente dover prendere atto che la Corte, da sempre sotto l’assedio dei ricorsi (ora si tende a guardare con sospetto anche l’esperienza del ricorso straordinario, che per lungo tempo è stata un vero fiore all’occhiello), non cessa di acquisire nuove competenze, che è quanto dire l’impatto di nuovi ricorsi.
Prendiamo qualche esempio dalla storia recente. Della bozza Brancaccio-Sgroi (1988) ciò che recepì il legislatore del 1990, modificando l’art. 384 c.p.c., fu la possibilità per la Corte, attinta col n. 3) dell’art. 360 c.p.c., di decidere nel merito quando non fossero necessari ulteriori accertamenti di fatto; nel 2006, questa tecnica di decisione è stata generalizzata. La Corte non ne ha fatto un uso esagerato (sbagliato sì, quando ha deciso nel merito domande o questioni e poi comunque rimesso al giudice di rinvio), ma forse non si è attentamente valutato che la possibilità stessa della decisione di merito trascinava con sé gli strumenti di controllo conseguenti (artt. 391 bis e ter c.p.c.), con l’inevitabile connesso aggravamento di carico per la Corte.
Altra competenza che la Corte ha nel tempo acquisito (ritenendo i più che il legislatore, a fronte dell’art. 111, comma 7, Cost., non abbia la possibilità di intervenire a monte sulla selezione dei ricorsi) è stata quella di scremare il proprio contenzioso: ma l’esperienza (art. 366 bis c.p.c., ora abrogato) dei quesiti di diritto (2006) è stata fallimentare, e subito abbandonata (2009; direi, anzi, una pagina buia nell’esperienza della nostra Corte, sulla quale non si è abbastanza riflettuto); non migliore quella relativa all’art. 360 bis c.p.c., perché in tre lustri di applicazione delle nuove regole la Corte non è stata in grado di fornire chiare indicazioni su come interpretare il merito travestito da inammissibilità (o viceversa). Intendiamoci, la colpa qui non è tutta dell’interprete: ma non dimentichiamo che, come avviene oggi per il “rinvio pregiudiziale”, le novità normative sono sempre fortemente ispirate dall’interno della Corte. Sta di fatto che, mettendo di lato le norme, le selezioni si continuano a fare con i veri cavalli di battaglia di origine pretoria: l’autosufficienza del ricorso e la specificità dei motivi. Nel che è il più evidentemente fallimento della via “legale”, mentre anche qui emerge l’insopprimibile bisogno, che la Corte ha, di fabbricarsi da sola norme ad hoc.
Altra competenza di recente “rilanciata” è stata quella dell’art. 363 c.p.c.; ma, anche in questo caso, la Corte ha dimostrato di non saper fare un uso discreto, selettivo e soprattutto utile dello strumento, forse per via di quella umana componente che un grande magistrato, Renato Rordorf, proprio su questa Rivista ha definito «narcisismo» dell’estensore: aggiungendo molto opportunamente che «le cosiddette sentenze-trattato, pur se ispirate da intenti lodevoli, nella maggior parte dei casi non rendono un buon servizio alla giurisprudenza, che ha una funzione diversa dalla dottrina».
Torniamo dunque al “rinvio pregiudiziale”: può essere utile?
Lasciamo da parte l’esperienza francese, che opera in condizioni assai diverse dalle nostre. Se proprio volessimo fare qualcosa di utile, dovremmo interrogarci – pur prendendo atto delle sensibili diversità – sull’applicazione dell’art. 420 bis c.p.c., che in fondo è nato per rispondere alla medesima esigenza di “interrogazione anticipata” della Corte su questioni di rilevanza non meramente individuale. Non mi sembra che l’esperienza applicativa di questa norma sia stata notevole.
Calata nel nostro sistema, la domanda circa l’utilità dell’istituto pone il tema delicato del rapporto tra le giurisdizioni di merito e quella di legittimità, e del vincolo che ai “principi di diritto” va riconosciuto all’infuori del caso che ha dato origine al rinvio. Pone anche il problema dei possibili vincoli all’interno della Corte, perché nel nostro sistema il “rinvio pregiudiziale” non potrebbe che essere rimesso alle sezioni unite (mentre la proposta prevede l’impegno anche delle sezioni semplici). Vogliamo forse aprire il doloroso repertorio dei contrasti (anche su questioni processuali: per tutte, i limiti dell’impugnazione incidentale tardiva) tra sezioni, all’interno della stessa sezione e addirittura tra sezione semplice e sezioni unite?
Ho l’impressione che, davanti alla questione di diritto nuova, ben difficilmente il giudice di merito – superiorem non recognoscens – potrebbe decidere di interrogare la Corte (il compito di jus dicere, che la Relazione ministeriale sembra attribuire in esclusiva alla Corte, non può certo essere negato ai giudici di merito!). L’uso dello strumento presupporrebbe quantomeno l’esistenza di diversi orientamenti dei giudici di merito e dunque (quantomeno) un dubbio del rimettente, derivante proprio dalla pluralità degli orientamenti; il che confligge con l’immediatezza dell’intervento della Corte, che sarebbe verosimilmente chiamata a dirimere contrasti già manifestati (come è successo, ad es., per la Sezioni Unite 23 luglio 2019, n. 19889, a proposito della reclamabilità del provvedimento ex art. 615, comma 1, c.p.c.), non già a prevenirli. Sempre ammesso che i destinatari accettino di buon grado soluzioni interpretative che calano dall’alto.
Andrebbero poi chiariti i rapporti tra il nuovo istituto e l’art. 363 c.p.c., quanto al profilo dell’iniziativa del P.G.; allo stato, mi sembrerebbe da escludere il potere della parte pubblica di interrogare la Corte in rinvio pregiudiziale.
Per altro verso, non credo vada incoraggiata l’attuale tendenza della Corte ad allontanarsi dall’esame dei casi, per porsi di fronte alle regole come un Titano del diritto sempre più protetto, ma anche sempre più chiuso, nella sua Torre: la Cassazione è un giudice, sui casi è chiamata a giudicare e sarebbe un vero guaio se ponesse in secondo piano questa sua attitudine istituzionale.
Laicità innominata. La giurisprudenza sui rapporti tra nullità e divorzio
di Nicola Colaianni
Sommario: 1. La separazione tra le giurisdizioni ecclesiastica e civile sul matrimonio - 2. La separazione tra atto e rapporto matrimoniale - 3. La separazione come laicità.
1. La separazione tra le giurisdizioni ecclesiastica e civile sul matrimonio
Le ripercussioni della giurisdizione ecclesiastica in materia di nullità matrimoniali sulla giurisdizione civile si vanno sempre più attutendo e ormai sono prossime ai minimi termini. Erano state massime, e devastanti, per oltre cinquant’anni dal concordato del 1929 quando secondo l’interpretazione datane dalla giurisprudenza, così sintetizzata con la solita brillantezza da Jemolo, “ciò che fa la Chiesa è ben fatto; i vincoli ch’essa riconosce valgono per lo Stato, quelli ch’essa dichiara venuti meno, vengono meno per lo Stato”[1] . Ma erano entrate in crisi irreversibile con la legge n. 898/1970 istitutiva del divorzio, che all’art. 2 prevede la cessazione degli effetti civili del matrimonio canonico trascritto. Alla Chiesa sembrò, e lo denunciò anche per le vie diplomatiche[2], un vulnus all’art. 34 del Concordato, con cui secondo la sua interpretazione lo Stato avrebbe inteso recepire nel proprio ordinamento il matrimonio canonico, comprensivo di tutte le sue componenti essenziali, fra cui l'indissolubilità. Ma a questa tesi della riconduzione ad unità del regime matrimoniale, il canonico recepito tal quale dallo Stato, la Corte costituzionale oppose quella della “separazione dei due ordinamenti”, da cui “deriva che nell'ordinamento statale il vincolo matrimoniale, con le sue caratteristiche di dissolubilità od indissolubilità, nasce dalla legge civile ed é da questa regolato”[3]. Ne consegue il diritto di ottenere, ricorrendo le condizioni previste nella legge, la cessazione ex nunc degli effetti civili del matrimonio concordatario con apposita “azione per farlo valere”[4] , avente petitum e causa petendi diversi rispetto a quella canonistica.
L’affermata separazione dei due ordinamenti, tuttavia, pur sancendo l’autonomia della nuova disciplina civilistica, lasciava sul piano dommatico una primazia all’ordinamento canonico, in quanto unico legittimato, grazie alla riserva di giurisdizione attribuitagli, a pronunciarsi in punto di validità o nullità dell’atto di matrimonio: che, operando ex tunc, è questione assorbente quella dell’efficacia civile di competenza dell’ordinamento statale. Questa primazia del giudizio canonico neppure risentì particolarmente della rivisitazione dell’efficacia civile della iurisdictio nullitatum operata dalla Corte costituzionale nel 1982, che impose alla delibazione i limiti del rispetto del diritto di difesa, sia pure nel nucleo ristretto, nel processo canonico e dell’inefficacia di statuizioni contrarie all’ordine pubblico interno[5]. Infatti, la Cassazione a sezioni unite limitò l’impedimento alla delibazione alle sole differenze tra le cause di nullità previste dai due ordinamenti che superino “quel livello di maggiore disponibilità tipico dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica”[6].
Un cambio di registro avverrà solo con la fondamentale sentenza con cui – dopo aver glissato sulla questione in varie pronunce confermative dell’orientamento assunto prima della revisione concordataria - la Cassazione diede atto che l’art. 8 dell’accordo di revisione non riproduceva più il comma dell’art. 34 del concordato lateranense relativo alla riserva di giurisdizione a favore dei tribunali ecclesiastici: e, poiché “le disposizioni del Concordato stesso non riprodotte nel presente testo sono abrogate” (art. 13, n. 1, l. 121/1985), la riserva di giurisdizione era da ritenersi caducata con il conseguente concorso di giurisdizioni addirittura sulla nullità dell’atto di matrimonio canonico[7]. Nonostante uno strumentale obiter dictum inserito dalla Corte costituzionale in una sentenza d’inammissibilità della questione di costituzionalità[8], sulla caduta della riserva e sul conseguente concorso di giurisdizioni la Cassazione ha tenuto la barra dritta nelle successive decisioni[9] costituenti ormai –come noteranno le sentenze “gemelle” del 2014[10] - "diritto vivente".
Il concorso di giurisdizioni è di grande rilievo sul piano sistematico in quanto rovescia l’assetto dei rapporti precedente la legge sul divorzio e attribuisce allo Stato l’intera giurisdizione sul matrimonio, inteso come atto e come rapporto. Il che presuppone l’autonomia della giurisdizione statale e quindi fa venir meno la primazia della giurisdizione canonica. La primazia diventa fattuale e dipende dal criterio estrinseco della prevenzione cronologica: più forte è la giurisdizione adita per prima. Ciò vale innanzitutto nel caso che si tratti di giudizi con identico petitum di nullità, che era il caso risolto dalle Sezioni unite ma verosimilmente di infrequente ricorrenza, stante il breve termine di un anno previsto dagli artt. 120 cpv., 121 co. 3 e 123 cpv. c.c. per proporre l’azione di nullità. Ma soprattutto il concorso di giurisdizioni rafforza, se conclusosi prima, il giudizio di cessazione degli effetti civili, ovvero di divorzio, del matrimonio canonico trascritto, rendendolo meno permeabile agli effetti della giurisdizione canonica sulle nullità. Invero, il procedimento di divorzio ha, come s’è detto, petitum e causa petendi diversi rispetto al procedimento di nullità del matrimonio-atto, riguardando infatti il matrimonio-rapporto e cioè l'impossibilità di mantenere o ricostituire la comunione spirituale e materiale tra i coniugi. Di conseguenza, il giudicato civile sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio e sulle connesse questioni economiche non è ostativo alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, ma questa – capace ordinariamente di far cessare la materia del contendere che abbia come presupposto l’esistenza e la validità del vincolo matrimoniale, ormai invece venuto meno[11] - non potrà travolgere le statuizioni economiche passate in giudicato in virtù degli effetti sostanziali stabiliti dall'art. 2909 c.c.[12].
L’inidoneità della delibazione ad impedire che la causa prosegua dovrebbe valere anche nel caso in cui si sia formato il giudicato sulla cessazione degli effetti civili ma la causa stia proseguendo sulle statuizioni economiche: il giudizio civile dovrebbe continuare nonostante il riconoscimento civile della nullità del matrimonio canonico trascritto, intervenuto però dopo la sentenza di divorzio. Questa conclusione è sembrata, tuttavia, revocabile in dubbio riproponendosi anche in questo caso la cessazione della materia del contendere in quanto il giudizio sull’assegno divorzile presuppone la validità dell'atto matrimoniale, nella specie riconosciuta inesistente.
Questa la divergenza di interpretazione manifestatasi all’interno della prima sezione[13] e risolta dalle Sezioni unite nel primo senso[14] con ragionamento assolutamente persuasivo. Risponde, invero, solo apparentemente ai canoni della logica formale che la cessazione degli effetti civili del matrimonio canonico ne presupponga la validità, di tal che la successiva pronuncia di nullità – inidonea, beninteso, ad incidere sul giudizio divorzile passato in giudicato - provochi la cessazione della materia del contendere almeno nel caso in cui esso sia ancora pendente pur se sotto un profilo particolare come la spettanza e la determinazione dell’assegno. Ma tale logica relativizza e minimizza il presupposto dell’autonomia dei due giudizi, che consiste nella ricordata separazione dei due ordinamenti per cui essi hanno natura ed effetti differenti. Precisamente, il giudizio divorzile implica (non la validità dell’atto, certamente presupposta ma estranea al giudizio, bensì) la “constatazione dell’intervenuta dissoluzione della comunione spirituale e materiale dei coniugi e dell’impossibilità di ricostituirla, nonché della necessità di un riequilibrio tra le condizioni economico-patrimoniali dei coniugi, da realizzarsi attraverso il riconoscimento di un contributo a favore di uno di essi”. È questo presupposto, una volta accertato e passato in giudicato, che giustifica la continuazione del procedimento per la spettanza e la quantificazione dell’assegno divorzile ancorchè medio tempore sia intervenuta l’efficacia civile della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio canonico a suo tempo trascritto. Infatti, l’accertamento dell’impossibilità di mantenimento o ricostituzione della comunione spirituale e materiale dei coniugi è oggetto diverso, separato da quello della validità del matrimonio–atto e perciò, se definitivo, resta insensibile al riconoscimento della nullità di quell’atto, che quindi non preclude la continuazione del giudizio per la determinazione dell’assegno.
Viene così esplicata un’ulteriore limitazione degli effetti della delibazione, che non è in contrasto con gli impegni concordatari. Questi, infatti, erano stati già ridotti dalla Cassazione a quelli rivenienti in senso stretto dall’art. 8 dell’accordo di revisione, che rimette ogni statuizione sul venir meno degli effetti civili “esplicitamente alla giurisdizione e implicitamente alla normativa dello Stato italiano”[15]. Il giudizio sulla determinazione dell’assegno attiene al venir meno di questi effetti e, invero, trova titolo proprio nell’accertamento di quell’impossibilità, ormai incontestabile. Rievocare il diverso presupposto della nullità dell’atto significherebbe riproporre la tesi dell’unità della giurisdizione, in capo al diritto canonico, e negare la separazione dei due ordinamenti.
2. La separazione tra atto e rapporto matrimoniale
Il principio di diritto posto dalle Sezioni unite costituisce in fondo un semplice corollario del già riconosciuto principio di autonomia dei due giudizi canonico e civile, rispettivamente di nullità e di divorzio. Ma, al di là della sua incidenza pratica, limitata ai non molti casi simili a quelli esaminati nelle sentenze citate, esso, limitando ulteriormente la portata della delibazione della sentenza ecclesiastica, segna al momento la massima presa di distanza o di indifferenza dell’ordinamento dall’atto del matrimonio, da cui nasce il rapporto coniugale, per far posto alla sua preoccupazione per le conseguenze della fine della “comunione spirituale e materiale tra i coniugi”, quale che sia l’atto matrimoniale, civile o religioso (rispettivamente art. 1 e 2 l. 898/1970), dal quale essa tragga origine.
Può sembrare paradossale che questa definizione del matrimonio sia stata introdotta dal legislatore civile nella legge sul divorzio. In precedenza, infatti, non esisteva una definizione del matrimonio non solo nel codice civile ma nella stessa Costituzione, che pure lo evoca come fondamento della famiglia e, a sua volta, ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. D'altro canto, una definizione di simile pregnanza era stata accolta dalla stessa Chiesa solo cinque anni prima, quando il Concilio scrisse della “intima communitas vitae et amoris coniugalis”, che “conducit totamque vitam eorum pervadit” [16], ma, espressa com’era in una costituzione pastorale sia pure del livello più alto, non ha riscosso grande fortuna sul piano giuridico. Invero, nel nuovo codice di diritto canonico, riformato nel 1983, se ne avverte un’eco nel sintagma “matrimoniale foedus”, che al can. 1055 §1 c.i.c. sostituisce nella definizione quello “matrimonialis contractus” del vecchio codice: dunque, un patto, un’alleanza, non un qualsiasi contratto. Ma con esso i coniugi costituiscono una comunità di tutta la vita (totius vitae consortium”) e non anche, come nella riportata definizione conciliare, di amore. Un’amputazione voluta della nuova definizione in favore dell’antico “matrimonialis contractus”, che ricompare infatti già al § 2 dello stesso canone, seguito nei canoni successivi dalle tradizionali conseguenze in termini di validità e di nullità, solo rivisitate dalla giurisprudenza.
Per vero, nella recente riforma del processo matrimoniale canonico realizzata dall’attuale pontefice si coglie un’apertura al (fallimento del) rapporto nel rilievo dato ad alcuni cosiddetti “casi di nullità notoria” già introdotti dalla giurisprudenza, come la “brevità della convivenza” o la “ostinata permanenza in una relazione extraconiugale al tempo delle nozze o in tempo immediatamente successivo”, che, pur evidentemente non attenendo all’atto, sono assunti come presumptions of fact o indici sintomatici di vizi di nullità dello stesso[17] . Ma l’apertura non è tale, ovviamente, da condurre a superare il difetto di tutela del coniuge più debole in caso di nullità dell’atto, limitandosi il can. 1691 c.i.c. a stabilire che nella sentenza di nullità sia contenuto un ammonimento alle parti sulle obbligazioni morali di sostentamento reciproco e verso i loro figli e anche su quelle civili, cui eventualmente siano tenute (nel nostro ordinamento, l’assegno per un periodo non superiore a tre anni, previsto dall’art. 129 c.c.). Dal punto di vista della Chiesa, cioè, il sostentamento è un’obbligazione naturale, di adempimento spontaneo, senza alcuna coazione da parte del creditore naturale o di terzi (tra i quali si annovera proprio l’autorità ecclesiastica, che magari nel frattempo avrà assistito con un suo ministro alla celebrazione delle nuove nozze dell’obbligato naturale) [18].
Tutt’altra la posizione dello Stato, per cui nel caso si tratta, conformemente alla Costituzione, di un “dovere inderogabile di solidarietà” e anzi il contributo da versare all’ex coniuge economicamente pù debole per effetto dell’art. 5, co. 6, della legge 898/1970, secondo la più recente giurisprudenza, ha funzione non meramente assistenziale ma anche perequativo-compensativa rispetto alla vita coniugale svolta ed alle aspettative eventualmente sacrificate e non più compensate, come in costanza di matrimonio, dal disgregarsi della comunione morale e spirituale[19].
Al momento della stipulazione dell’accordo di revisione del concordato nel 1984 era, comunque, evidente questa posizione statale, causa ed effetto della separazione dei due ordinamenti sul matrimonio, avvenuta per effetto di una legge, che anche per il suo spiccato orientamento costituzionale, è idonea a contribuire alla formazione dell’ordine pubblico dello Stato in materia. Non sorprende, quindi, che nel procedimento di delibazione assumesse particolare importanza, per il contrasto con l’ordinamento italiano, la esclusiva rilevanza attribuita dall’ordinamento canonico all’atto del matrimonio, in quanto sacramento costitutivo del vincolo matrimoniale, con totale disinteresse per l’effettività del rapporto coniugale che ne seguiva, di modo che la prima sezione della Cassazione cominciò a sostenere coerentemente l’ostatività della prolungata convivenza [20] alla delibazione delle sentenze di nullità. Ma a rimettere le cose a posto, pur in mancanza di un contrasto sincronico, intervennero di nuovo le sezioni unite stabilendo che "la convivenza tra coniugi successiva alla celebrazione del matrimonio non è espressiva delle norme fondamentali che disciplinano l'istituto" data la “inesistenza nelle norme costituzionali di un principio chiaramente evincibile circa la prevalenza del matrimonio-rapporto sul matrimonio-atto, anche se viziato”, sicchè “la stabilità del vincolo comunque realizzatasi e quindi anche attraverso la convivenza dopo la celebrazione” non rappresenta “la dimensione normativa dell’effettività dell’unione che impedisce di dare rilievo al difetto genetico dell’atto costitutivo”[21].
Non solo, anzi, secondo la Cassazione non era ricavabile espressamente un principio di ordine pubblico del genere ma addirittura un atteggiamento dell’ordinamento civile benevolentior verso le sentenze ecclesiastiche al confronto di quelle straniere era positivamente deducibile dall’obbligo concordatario del giudice della delibazione di tener conto della “specificità dell’ordinamento canonico” e, quindi, della rilevanza esclusiva da esso attribuita al matrimonio-atto rispetto al rapporto. Che questo fosse il significato da attribuire al richiamo della specificità era piuttosto dubbio ed in effetti, come fu precisato qualche anno dopo da Cass. 1824/1993, cit., la clausola grazie alla sua elasticità “ha il solo scopo di attenuare la equiparazione, ai fini della delibazione, della sentenza ecclesiastica alla sentenza straniera”. Ma non rispondeva al criterio di ragionevolezza dell’interpretazione, salvo che in una interpretazione confermativa dello status quo ante[22], spingere l’attenuazione fino al punto di continuare ad accogliere nell’ordinamento civile in tutta la sua portata una peculiarità dell’ordinamento canonico tale da integrarne quel proprium irriducibile, nel suo nucleo forte, alla dimensione del diritto statale e, quindi, da risultare incompatibile con l’area di tutela dell’affidamento e, in generale, con l’ordine pubblico: è questo il caso, in cui tocca alle parti “pagare” la specificità dell’ordinamento canonico, rimanendo private dell’efficacia civile della sentenza ecclesiastica di nullità.
Cionondimeno, il principio dell’irrilevanza della effettiva convivenza rispetto al difetto genetico dell’atto matrimonio frenò la presa d’atto dell’avvenuta separazione dei due ordinamenti per oltre un quarto di secolo fino alle citate “sentenze gemelle” del 2014, che diedero rilievo come motivo ostativo alla convivenza prolungatasi oltre (non l’anno, ma) il triennio[23]. A dissodare il terreno erano intervenute qualche anno prima le stesse sezioni unite quando avevano esteso l’ostatività alle incompatibilità assolute, in nessun modo conformabili ai “valori o principi essenziali della coscienza sociale, desunti dalle fonti normative costituzionali e dalle norme inderogabili, anche ordinarie, nella materia matrimoniale”: quali appunto le “pronunce di annullamento canonico intervenute dopo molti anni di convivenza o coabitazione dei coniugi, dato il rilievo del matrimonio rapporto, “riconosciuto in precedenza ma assunto ora a valore cogente, per lo stretto nesso tra esso e il matrimonio atto, sancito nella Costituzione (art. 29)” [24].
Alla Costituzione (non solo l’art. 29 ma anche gli artt. 2, 3, 30 e 31) le citate sentenze del 2014 aggiungeranno le Carte europee dei diritti (art. 8, par. 1, e 12 CEDU, art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea), come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, l'art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, espressamente richiamata nel Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, il codice civile. E, anche dall’esame della convergente giurisprudenza formatasi su tali disposizioni, stabiliranno che la convivenza dei coniugi o "come coniugi" — cioè, la consuetudine di vita comune, il ”vivere insieme” stabilmente e con continuità nel corso del tempo o per un tempo significativo tale da costituire ”legami familiari” — integra in questa “complessità fattuale” un aspetto essenziale e costitutivo del ”matrimonio-rapporto”, caratterizzandosi al pari di questo, secondo il paradigma dell'art. 2 Cost., come il "contenitore", per così dire, di una pluralità di “diritti inviolabili”, di ”doveri inderogabili”, di ”responsabilità” anche genitoriali in presenza di figli, di "aspettative legittime" e di "legittimi affidamenti" degli stessi coniugi e dei figli, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari”.
3. La separazione come laicità
La laicità è il filo rosso che ha reso possibile separare l’uno dall’altro i due ordinamenti aggrovigliati sul matrimonio. La separazione viene riconosciuta così non solo sotto l’aspetto processuale ma anche su quello sostanziale della tutela attribuita in ciascuno di essi al rapporto di convivenza al fine di impedire che si possa porre nel nulla, con relativa rapidità un rapporto durato anche decenni, con la nascita, il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli (art. 30 cost.) e l’instaurazione di rapporti familiari anche con i parenti dei genitori, che almeno sotto l’aspetto successorio verrebbero travolti dalla dichiarazione di nullità. Si tratta di rapporti che l'ordinamento non può non garantire a tutti, senza distinzione di religione: e nell’escluderne chi, avendo a suo tempo scelto il matrimonio canonico trascritto, si trovi a subire anche la trascrizione della sentenza di nullità di quell’atto con la conseguenza di vederli travolti formalmente fin dall’origine si potrebbero cogliere elementi di una discriminazione per motivi di religione, vietata dall’art. 3 Cost.[25].
È il principio di laicità, a monte, che determina una separazione sempre più marcata tra matrimonio-atto e matrimonio-rapporto, per cui non c’è più necessariamente connessione e per lo Stato, in definitiva, ciò che più rileva, ed è meritevole di tutela, è l’instaurazione o il venir meno della convivenza. Un’espressione flessibile, questa, capace di designare ogni forma di effettiva comunione spirituale e materiale, indipendentemente non solo da un atto, civile o religioso trascritto, da cui sia originata, ma dalla stessa esistenza di un atto matrimoniale come si può dedurre dall’osservazione ai “legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale” di cui all’art. 1, co. 36, l. 20 maggio 2016, n. 769 (che ricalca l’art. 143 c.c. estendendolo così alla disciplina delle convivenze, come la legge è intitolata a sottolinearne la grande varietà).
Il pendolo della tutela statuale si è andato così gradualmente spostando dalla varietà degli atti giuridici pubblicamente certificati alla medesimezza del fatto risultante dalla relazione concretamente instaurata tra due soggetti, da ciò che è formale a ciò che è sostanziale, dalla condotta obbligatoria per le parti a quella discrezionale da esse tenuta. Questo risultato unificante è stato ottenuto, come s’è visto, attraverso la separazione: anzi, “l’arte della separazione”, com’è stato definito[26] questo tratto del liberalismo politico di cui il jeffersoniano “muro” che separa la Chiesa dallo Stato è la narrazione retorica più celebre ma che in realtà ha una storia più complessa, risalente all’antica distinzione evangelica tra “quel che è di Cesare e quel che è di Dio” ed espressa da quella moderna tra peccato e reato[27]. Nello stato costituzionale di diritto questo dualismo è alla base del principio supremo di laicità, che infatti si declina come “distinzione degli ordini distinti” in modo da tematizzarne la finitezza ed evitarne sconfinamenti e strumentalizzazioni reciproche[28].
Questo intimo nesso, quasi una sinonimia, tra separazione e laicità consente di gettare uno sguardo più comprensivo sulla effettiva ricezione del principio di laicità, che altrimenti potrebbe sembrare minimale e dare l’impressione che la viva vox Constitutionis sia poco percepita. La giurisprudenza di legittimità sta cominciando a fare più frequentemente applicazioni espresse del principio di laicità: solo nell’ultimo anno si possono ricordare le due importanti sentenze sul diritto alla propaganda ateistica per non incorrere nel divieto di discriminazioni e sul diritto all'autodeterminazione in materia di rifiuto (del testimone di Geova) del trattamento sanitario e libertà di professione della fede[29]. E in precedenza anche al principio di laicità la Cassazione fece ricorso nel sollevare la questione di costituzionalità sull’obbligo governativo di avviare trattative d’intesa, salva la discrezionalità di stipularle, con le confessioni religiose diverse dalla cattolica[30].
Ma la ricezione del principio di laicità nella giurisprudenza va valutata anche con riguardo ai casi in cui, pur la laicità non essendo espressamente nominata, viene applicato il principio di separazione degli ordini, di cui la laicità è fonte e culmine. Della separazione la giurisprudenza della Cassazione ha fatto uso ovviamente nelle controversie in cui assumeva rilievo principale l’interpretazione dell’art. 7 Cost. rispetto ai patti lateranensi - come per esempio quella sui limiti del divieto di “non ingerenza” dello Stato sui rapporti degli “enti centrali” della Chiesa cattolica - ma anche in “materie miste” tra etiche e diritto, caratterizzate da “eccessi di culture”[31] specie confessionali, come quella del diritto alla cura e dalla cura[32]. Ma la separazione ha trovato, come s’è visto, terreno fecondo anche nella delicata materia della delibazione delle sentenze ecclesiastiche, e quindi della distinzione tra atto e rapporto matrimoniale, consentendo al giudice di districarsi tra le intersecazioni di discipline canoniche e statali: dalle sentenze del 2014 (preparate da quella sulle incompatibilità assolute e relative del 2008) a questa del 2021. La presa d’atto della coesistenza tra la pronuncia di cessazione degli effetti civili e quella di nullità del matrimonio, con la possibilità di un contrasto di giudicati (quanto meno, in quest’ultimo caso, sotto il profilo pratico della potenziale sovrapposizione tra gli effetti economici del divorzio e della pronuncia di nullità), muove dalla raggiunta consapevolezza di una separazione dei due ordinamenti, con cui si è superata, sia pur lentamente, una giurisprudenza a lungo impastata di concezioni mutuate dal matrimonio-atto proprie del diritto canonico.
Si tratta di una laicità innominata, cioè di una interpretazione costituzionalmente (nel caso, per la precisione, laicamente) orientata di norme di collegamento, che ha consentito di tener conto della realtà della vita comune condotta dagli ex coniugi prima del disgregarsi della loro comunione materiale e spirituale e almeno delle conseguenze economiche di tale disgregazione per ciascuno di essi. E proprio il principio, non solo direttivo ma anche regolativo, di laicità consente che quest’attenzione alle conseguenze dell’efficacia civile della dichiarazione di nullità non si traduca in un “utilitarismo dell’atto” giurisdizionale[33], incompatibile con un sistema di giustizia legale.
Certo, ci si può, e anzi sul piano della politica del diritto ci si dovrebbe, chiedere se la tutela della vita familiare rivolta esclusivamente alla convivenza non renda ormai priva di valore, un orpello retorico da cerimoniale, l’impegno matrimoniale – nella celebrazione canonica così solenne e basata su una Parola al massimo grado eteronoma – a sostenersi nella “buona o cattiva sorte” [34]; e se, quindi, nell’ormai acquisito relativismo delle forme non si dia più spazio per norme stimolanti la scelta dell’atto formale del matrimonio, una sua resilienza costituzionale di fronte al declino di fatto. Domande non facili, meritevoli di una risposta meditata e non disinvolta, che difficilmente può dare un agire politico privo di una causa finale e improntato, come l’attuale, piuttosto al presentismo quando non proprio all’emergenzialismo. L’attuale stato legislativo e giurisprudenziale mostra, tuttavia, che la tendenza alla privatizzazione del matrimonio ha portato, comunque, a tutelare non un individualismo incurante dei doveri di solidarietà ma, all’opposto e in applicazione proprio dell’art. 2 Cost., la relazione con l’altro, cioè il rapporto anziché l’atto, anche quando il rapporto nasca dall’atto.
[1] A.C. Jemolo, Chiesa e Stato negli ultimi cento anni, Einaudi, Torino, 1971, p. 513.
[2] Cfr. Dieci documenti diplomatici sulla interpretazione dell’art. 34 del Concordato tra l’Italia e la Santa Sede, in Rivista di Studi Politici Internazionali, Vol. 37, 1970, III, pp. 461 ss.
[3] Corte cost. 8 luglio 1971, n. 169.
[4] Corte cost. 11 dicembre 1973, n. 176.
[5] Corte cost. 2 febbraio1982, n. 18.
[6] Cass. sez. un. 1 ottobre 1982, n. 5026.
[7] Cass. sez. un. 13 febbraio 1993, n. 1824.
[8] Corte cost. 29 novembre 1993, n. 421.
[9] Conf. ad es. Cass. sez. un. 6 luglio 2011, n. 14839.
[10] Cass. 17 luglio 2014, n. 16379 e 16380.
[11] Cass. 7 ottobre 2019, n. 24933, e altre precedenti ivi citt.
[12] Cass. 18 settembre 2013, 21331, ed altre precedenti ivi citt.
[13] Rispettivamente Cass. 23 gennaio 2019, n. 1882, e Cass. 25 febbraio 2020, n. 5078.
[14] Cass. sez. un. 31 marzo 2021, n. 9004: "In tema di divorzio, il riconoscimento dell'efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, intervenuto dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili ma prima che sia divenuta definitiva la decisione in ordine alle relative conseguenze economiche, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio civile avente ad oggetto lo scioglimento del vincolo coniugale, il quale può dunque proseguire ai fini dell'accertamento della spettanza e della liquidazione dell'assegno divorzile". Prime note alla sentenza di J. Pasquali Cerioli, Le Sezioni unite e l''indifferenza' del giudizio sull'assegno divorzile al riconoscimento delle nullità canoniche: la tutela del "coniuge debole" nell'ordine matrimoniale dello Stato, in Statoechiese.it, 2021, n. 7; A. Cesarini, Libertà e responsabilità nella convivenza coniugale: la stabilità dell’assegno divorzile a seguito di ‘delibazione’ della nullità canonica, ibid., n. 11.
[15] Cass. 23 marzo 2001, n. 4202.
[16] Concilio Vaticano II, cost. Gaudium et spes, 1965, n. 48 s. Un’apertura sul piano pastorale, priva di conseguenze su quello giuridico, alla positività del rapporto coniugale si rinviene ora in papa Francesco (J.M. Bergoglio), esortazione Amoris laetitia, 2016, n. 293, secondo cui anche “una semplice convivenza, quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico, è connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di superare le prove, può essere vista come un’occasione da accompagnare nello sviluppo verso il sacramento del matrimonio”.
[17] Di “sconfinamento della nullità verso lo scioglimento” aveva scritto P. Moneta, Nullità e scioglimento del matrimonio, in Id., Communitas vitae et amoris. Scritti di diritto matrimoniale canonico, Pisa University Press, Pisa, 2013, p. 412. Sulla dubbia delibabilità della sentenza contenente simili statuizioni e/o emanata all’esito del processus brevior, introdotto dal motu proprio di papa Francesco Mitis iudex dominus Jesus del 15 agosto 2015, si può vedere il mio Il giusto processo di delibazione delle sentenze ecclesiastiche, in Rivista di diritto privato, 2016, n. 1, p. 131 ss., ora anche in N. Colaianni, La lotta per la laicità. Stato e Chiesa nell’età dei diritti, Cacucci, Bari, 2017, pp. 275 ss. Per un’ampia critica del motu proprio, anche in direzione dell’efficacia civile delle sentenze, v. invece G. Boni, L’efficacia civile in Italia delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale dopo il Motu Proprio Mitis iudex (parte seconda) , in Statoechiese.it, 2017, pp. 61 ss.
[18] Questo esito normativo è scaturito – come magistralmente osservò G. Dossetti, La famiglia, in Rivista internazionale di scienze sociali, 1943, ripubblicato in Id., “Grandezza e miseria” del diritto della Chiesa, a cura di F. Margiotta Broglio, Il Mulino, Bologna, 1996, pp. 197 e 202. – da un “isolamento sistematico dei problemi relativi al matrimonio, studiato (… ancor più dopo il XIII secolo, in conseguenza dell’esplicito inquadramento nel numero settenario dei sacramenti) sempre avulso dal restante complesso dei problemi familiari: quindi mancata costruzione di una dottrina, non solo sostanzialmente ma anche formalmente unitaria, della società coniugale e parentale, (…) mancanza di una determinazione in tutto precisa ed esauriente dei rapporti di solidarietà e dei doveri vicendevoli tra persona società coniugale e parentale e società superiori”.
[19] Cass. sez. un. 11 luglio 2018, n. 18287, e Cass., I, 28 febbraio 2020, richiamate da Cass. 9004/2021, cit.
[20] Cass, 18 giugno 1987, nn. 5354 e 5358; 3 luglio 1987, n. 5823.
[21] Cass. sez. un. 20 luglio 1988, n. 4700.
[22] V. per tutti in questo senso G. Dalla Torre, “Specificità dell’ordinamento canonico” e delibazione delle sentenze matrimoniali ecclesiastiche, in Statoechiese.it, 2013, e in senso contrario G. Casuscelli, Delibazione e ordine pubblico: le violazioni dell’Accordo “che apporta modificazioni al Concordato lateranense”, ibid., 2014.
[23] Questo, insieme alla privatizzazione dell’ordine pubblico a motivo della rilevabilità della convivenza solo su eccezione dell’opponente alla delibazione, il punto criticabile delle sentenze: si può vedere al riguardo il mio Convivenza 'come coniugi' e ordine pubblico: incontro ravvicinato ma non troppo, in Giurisprudenza italiana, 2014, n. 10, pp. 2119 ss., ora anche in Colaianni, La lotta per la laicità, cit., pp. 260 ss. Per la critica, invece, della restrizione dei margini della delibazione “da regola a eccezione, in evidente contrasto con gli impegni concordatari a suo tempo assunti dallo Stato italiano” v., anche per altre citazioni di letteratura, P. Cavana, L’evoluzione del concetto di ordine pubblico nel giudizio di delibazione, in Statoechiese.it, 2020, n.10, p. 44.
[24] Cass. 18 luglio 2008, n. 19809, che ha “negato il riconoscimento della efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio nel caso, nel quale la rilevanza della ignoranza di uno dei nubendi sull’infedeltà dell’altro prima del matrimonio è certa in attuazione delle istanze etiche che sottostanno al matrimonio religioso e alla specificità del diritto canonico, ma non è assolutamente compatibile con l’ordine pubblico italiano”. F. Alicino, L’altra “faccia” della specificità del matrimonio canonico (A proposito di Cassazione, Sez. Un., 18 luglio 2008, n. 19809), in Statoechiese.it, 2009, vi rileva “il maggior risalto attribuito agli elementi che separano lo Stato – laico – italiano da un contesto ordinamentale esterno e, comprensibilmente ossia legittimamente, pervaso da una visione sacramentale del diritto”.
[25] Cfr. V. Carbone, Ombre e luci della giurisprudenza sui rapporti tra giurisdizione ecclesiastica e quella italiana in ordine alla rilevanza del matrimonio-rapporto, in Corriere giuridico, 2012, p. 1044.
[26] M. Walzer, Il liberalismo e l’arte della separazione, in Id., Pensare politicamente. Saggi teorici, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 38.
[27] P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Il Mulino, Bologna, 2000, specialmente pp. 480 ss.
[28] La distinzione degli ordini distinti, interpretati nella dimensione della , significa, infatti, che «la religione e gli obblighi morali che ne derivano non possono essere imposti come mezzo al fine dello Stato” e comporta “il divieto di ricorrere a obbligazioni di ordine religioso per rafforzare l’efficacia dei propri precetti” (Corte cost. 334/96, cit.). Comporta reciprocamente il divieto per le confessioni religiose di ricorrere ad obbligazioni di ordine civile per rafforzare l’efficacia di precetti essenzialmente religiosi.
[29] Rispettivamente Cass. 17 aprile 2020, n. 7893, e Cass. 23 dicembre 2020, n. 29469.
[30] Cass. 28 giugno 2013, n. 16305. La questione fu rigettata dalla Corte costituzionale con sentenza 10 marzo 2016, n. 52, molto discussa (v. almeno i contributi raccolti nel volume Bilateralità pattizia e diritto comune dei culti. A proposito della sentenza n. 52/2016, a cura di M. Parisi, Editoriale scientifica, Napoli, 2017).
[31] Espressione di M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino, 2004.
[32] Rispettivamente Cass. 18 settembre 2017, n. 21541, e Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748.
[33] Per riprendere l’espressione di L. Mengoni, L’argomentazione orientata alle conseguenze, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1994, pp. 1 ss.
[34] Pur con occhio disincantato sul futuro, M. Tamponi, Del convivere. La società postfamiliare, La nave di Teseo, Milano, 2019, p. 256, vede, tuttavia, oltre al declino “anche rinnovata emersione della forza e della necessità dell’istituzione”.
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