ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La settima sezione penale nel programma di gestione della Corte di Cassazione per l’anno 2021
di Pierluigi Di Stefano
Sommario: 1. Esame preliminare dei ricorsi e settima sezione penale - 2. Conclusioni - 3. La durata dei procedimenti in settima sezione penale - 4. Ridurre i tempi.
1. Esame preliminare dei ricorsi e settima sezione penale
Il programma di gestione della Corte per la prima volta comprende il settore penale e, quindi, consente una valutazione dinamica dell’esistente e della previsione di gestione futura.
Qui si considera tale programma per la parte che riguarda la gestione dei fascicoli di manifesta inammissibilità, da decidere secondo le specifiche, e più snelle, procedure dell’art. 610, commi 1 e 5 bis, cod. proc. pen., con assegnazione alla settima sezione penale.
Si tratta di profili organizzativi della massima rilevanza perché, pur se si tratta del materiale “da scartare” a prima vista, senza alcun serio impegno delle professionalità della Corte, si discute di numeri che arrivano alla metà delle sopravvenienze e, per ciò solo, drenano rilevanti risorse; al di là della più facile gestione dei “contenuti” (è pacifico che la stragrande maggioranza di tali fascicoli occupi ben poco tempo per valutazione, decisione e successiva redazione della motivazione), comunque i singoli consiglieri del settore penale arrivano a svolgere una udienza su quattro udienze mensili medie per tali procedimenti[1]. Inoltre, la gestione burocratica differisce da quella dei fascicoli ordinari solo per le minori attività connesse alla differenziazione di rito, avendo per il resto un simile impatto sulle attività delle cancellerie.
Il complesso di tali fascicoli, quindi, incide in modo rilevante e non in termini positivi, sottraendo (costose) risorse che dovrebbero essere, invece, impegnate nei compiti propri del giudice di legittimità.
Interessano, quindi, le valutazioni programmatiche che riguardano gli uffici (“spoglio”) istituiti presso le singole sezioni per l’esame preliminare dei ricorsi su delega del Primo Presidente la cui prima attività è quella di individuare i fascicoli da assegnare alla “apposita sezione” istituita per la rapida definizione dei procedimenti inammissibili.
Come noto, la settima sezione penale costituisce la “apposita sezione” individuata dall’art. 610 cod. proc. pen., come modificato nel 2001, quale destinataria dei ricorsi per i quali sia evidente la inammissibilità, da dichiarare con ordinanza in udienza camerale non partecipata previa comunicazione alle parti di un avviso che enuncia la causa di inammissibilità rilevata in sede di primo esame.
La organizzazione, ormai stabile, della Corte di Cassazione è nel senso che alla settima sezione sono coassegnati magistrati delle sezioni ordinarie (attualmente tutti i consiglieri); ogni sezione ordinaria ha a disposizione delle udienze che verranno tenute in sede di settima sezione da propri magistrati con un ruolo di cause predisposto dal proprio ufficio “spoglio”.
Su tale organizzazione ha inciso la legge n.103/2017 che ha previsto (art. 610 comma 5-bis cod. proc. pen.) una procedura senza alcuna formalità (de plano) per la declaratoria di inammissibilità quando ricorrano cause sostanzialmente “automatiche” (ricorso non proposto da soggetto legittimato, ricorso tardivo, provvedimenti non impugnabili, ricorso avverso patteggiamento per motivi di motivazione, patteggiamento in appello). Per questi casi la norma non prevede l’assegnazione alla sezione del primo comma, ma la regola “tabellare” al riguardo ha previsto che anche tali fascicoli siano trattati dalla settima sezione che, quindi, utilizza due diverse discipline processuali.
Per valutare i contenuti del programma di gestione, si considera innanzitutto la organizzazione tabellare per quanto di interesse sia con riferimento alla tabella triennale 2017/2019 che alla tabella 2020/2022, ancora in itinere:
§ 50. — Esame preliminare dei ricorsi. 50.1. Presso ciascuna sezione è costituito l'ufficio esame preliminare dei ricorsi del quale fanno parte, di regola, non meno di quattro e non più di sei consiglieri delegati dal Primo Presidente ….
| § 57. — Esame preliminare dei ricorsi 57.1. come 50.1
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50.3. I consiglieri provvedono all'esame preliminare dei ricorsi trasmessi dalla cancelleria centrale penale alle rispettive sezioni e inoltrano alla Settima sezione i ricorsi per i quali rilevano una causa di inammissibilità.
| 57.4. I consiglieri provvedono, secondo le direttive emanate dal Primo Presidente a norma dell’art. 610, comma 1, cod. proc. pen., all'esame preliminare dei ricorsi trasmessi dalla cancelleria centrale penale alla sezione e inoltrano alla Settima sezione i ricorsi per i quali rilevano una causa di inammissibilità, attribuendo loro un valore ponderale di difficoltà da 1 a 3
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§ 52. — Coordinamento dell'attività dei magistrati dell'ufficio esame preliminare dei ricorsi. 52.1. Il Primo Presidente nomina con decreto motivato, tra i presidenti non titolari, il coordinatore dell'ufficio esame preliminare dei ricorsi il quale riveste anche la qualità di presidente coordinatore della Settima sezione e svolge altresì l'incarico di referente della cancelleria centrale penale.
| § 52. — Coordinamento dell'attività dei magistrati dell'ufficio esame preliminare dei ricorsi. Come 52.1
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Sezione settima § 56. — Competenza della Settima sezione. 56.1. La Settima sezione è competente per la definizione dei ricorsi per i quali il magistrato delegato all'esame preliminare dal Primo Presidente abbia rilevato una causa di inammissibilità. | § 63. — Competenza della Settima sezione. 63.1. La Settima sezione è competente per la definizione dei ricorsi per i quali il magistrato delegato dal Primo Presidente all'esame preliminare abbia rilevato una causa di inammissibilità, anche a norma dell’art. 610, comma 5-bis, cod. proc. pen., salvo che ricorrano ragioni di urgenza che impongono l’immediata trattazione de plano nella sezione ordinaria. |
56.2. La Sezione, oltre ad ordinanze di inammissibilità, può emettere sentenze di annullamento senza rinvio esclusivamente nei seguenti casi: improcedibilità o improseguibilità dell’azione penale; estinzione del reato per morte dell’imputato, per remissione di querela, per prescrizione quando manchi la costituzione di parte civile; fatto non previsto dalla legge come reato, anche per abolitio criminis o per dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice; possibilità di procedere alla determinazione della pena a norma dell’art. 620, comma 1 lett. l), c.p.p. | 63.2 Come 56.2
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56.3. Nei casi di mutamenti normativi o di pronunce della Corte costituzionale che incidono sulla pena, intervenuti dopo l’assegnazione alla Settima sezione, quest’ultima può emettere sentenze di annullamento con rinvio. Ove si tratti di ricorsi avverso sentenze emesse ai sensi dell’art. 444 c.p.p., la Sezione può pronunciare sentenze di annullamento senza rinvio, con trasmissione degli atti all’autorità giudiziaria di provenienza. | 63.3. Nei casi di mutamenti normativi o di pronunce della Corte costituzionale che incidono sulla pena, intervenuti dopo l’assegnazione alla Settima sezione, quest’ultima può emettere sentenze di annullamento con rinvio. Ove si tratti di ricorsi avverso sentenze emesse ai sensi dell’art. 444 e 599-bis cod. proc. pen., la sezione può pronunciare sentenze di annullamento senza rinvio, con trasmissione degli atti all’autorità giudiziaria di provenienza. |
56.4. La Sezione può adottare i provvedimenti correttivi previsti dall’art. 619 c.p.p. | 63.4 Come 56.4. |
56.5. Qualora il ricorso del pubblico ministero, pur in presenza di altri motivi inammissibili, contenga censure attinenti all’omessa statuizione sulla confisca obbligatoria o alla mancata applicazione di pene accessorie non discrezionali o di sanzioni amministrative obbligatorie, la Sezione può emettere pronunce definitorie di annullamento senza rinvio, limitatamente ai detti punti, adottando le conseguenti statuizioni.
| 63.5 Come 56.5. |
57.3. I componenti dei singoli collegi sono individuati sulla base di un assetto organizzativo che preveda: a) la coassegnazione alla Settima sezione dei magistrati delegati all'esame preliminare dei ricorsi delle singole sezioni e di un numero di ulteriori magistrati non inferiore a sei; b) la tendenziale partecipazione dei magistrati coassegnati che svolgano l’attività di spoglio ad almeno una udienza mensile, con corrispondente riduzione del numero delle udienze sezionali.
| 64.2. I componenti dei singoli collegi sono individuati sulla base di un assetto organizzativo che prevede la tendenziale co-assegnazione di tutti i magistrati di ciascuna sezione, per favorire il più ampio scambio di esperienze e di orientamenti e l’equa distribuzione dei carichi di lavoro. I magistrati che svolgono l’attività di spoglio tengono, di regola, una udienza mensile alla Settima sezione. In ogni caso, i magistrati che tengono udienza alla Settima sezione fruiscono della corrispondente riduzione del numero delle udienze sezionali |
57.4. Salvo deroghe specificamente motivate la composizione dei collegi deve prevedere la designazione di componenti provenienti da una medesima Sezione, due dei quali, di regola, addetti all'esame preliminare dei ricorsi. | 64.3. Salvo deroghe specificamente motivate, la composizione dei collegi deve prevedere la designazione di componenti provenienti da una medesima sezione, almeno uno dei quali, di regola, addetto all'esame preliminare dei ricorsi |
57.6. Nella Settima sezione i procedimenti vengono assegnati secondo l'anzianità di iscrizione nel ruolo, in numero di regola non inferiore a centottanta per udienza, egualmente distribuiti tra i componenti del collegio, escluso il presidente. Per ogni trimestre di riferimento il presidente coordinatore può variare il numero dei ricorsi da trattare in funzione della definizione delle pendenze.
| 64.5. I procedimenti vengono assegnati secondo l'anzianità di iscrizione nel ruolo, in numero di regola non inferiore a centosessanta per udienza, oltre ai procedimenti ex art. 610, comma 5-bis, cod. proc. pen., egualmente distribuiti tra i componenti del collegio, escluso il presidente, secondo l’ordine crescente di anzianità di ruolo. Per ogni trimestre, il presidente coordinatore può variare il numero dei ricorsi da trattare in funzione del numero delle pendenze di ogni singola sezione. |
57.7. Dei provvedimenti selezionati per l'udienza, vengono preliminarmente individuati quelli pertinenti a materie che secondo le disposizioni tabellari avrebbero dovuto essere trattate dalle sezioni di provenienza dei componenti del collegio, a ciascuno dei quali gli stessi vengono assegnati. 57.8. I ricorsi in materia cautelare personale vanno comunque trattati prioritariamente. | 64.6 e 64.7 come 57.7 e 57.8
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Si notano le modifiche principali apportata con il nuovo progetto tabellare, in corso di approvazione:
- si prevede che il Primo Presidente emani specifiche direttive riguardanti l’attività dei magistrati addetti agli uffici “spoglio” quanto alla selezione dei fascicoli da destinare alla settima sezione penale. È una previsione programmatica, evidentemente mirata a uniformare i criteri tra le varie sezioni, esigenza di cui si dirà dopo.
- Anche ai procedimenti destinati alla settima sezione penale deve essere attribuito un “valore ponderale di difficoltà”, da 1 a 3. Tale attribuzione è finalizzata a rendere possibili ulteriori disposizioni organizzative.
- Alla settima sezione penale è attribuita la competenza anche per la trattazione dei procedimenti de plano salvo “ragioni di urgenza”. Tale competenza, si ripete, è una scelta esclusivamente “tabellare” in quanto non è prevista dall’art. 610 cod. proc. pen.
- Di norma, va disposta la coassegnazione di tutti i magistrati delle sezioni penali ordinarie anche alla settima sezione. La previsione variabile lascia spazio ad una organizzazione più elastica, secondo le necessità del periodo. In conseguenza di tale partecipazione più ampia, si prevede che ogni collegio della settima sezione debba essere formato con almeno un magistrato “spogliatore” (non più due come da precedente tabella).
- il numero minimo di fascicoli da trattare in ogni udienza della settima sezione viene rimodulato (da 180 a 160), considerato vi è una quota aggiuntiva di procedimenti con trattazione de plano.
Come risulta dal programma di gestione e dal documento organizzativo generale per il triennio 2020-2022 che riportano i dati statistici degli ultimi anni, la funzione di filtro degli uffici spoglio con attribuzione alla settima sezione della numerosa massa dei ricorsi di evidente inammissibilità, ha sostanzialmente funzionato bene: il numero complessivo di ricorsi alla settima, difatti, è giunto al 43% del totale delle sopravvenienze del settore penale.
Tale dato percentuale è ancor più rilevante perché dal numero globale vanno esclusi i numerosi procedimenti in materia cautelare, personale e reale. Questi procedimenti, pur essendo possibile la loro assegnazione alla settima sezione ricorrendo le condizioni di evidente inammissibilità, sono trattati per prassi presso le sezioni ordinarie con l’ordinaria procedura camerale partecipata ex art. 127 cod. proc. pen. La ragione è che, in considerazione della materia che richiede una decisione immediata, risulta preferibile ricorrere alla procedura ordinaria che consente la trattazione in termini più rapidi: l’avviso alla parti, secondo il procedimento ordinario (artt. 311 e 324 cod. proc. pen.) deve essere dato 10 giorni prima dell’udienza e non 30 giorni prima come è previsto per il procedimento speciale ex art. 610, comma 1, cod. proc. pen.
Il programma di gestione, sulla scorta di tali risultati che offrono un quadro chiaro e sostanzialmente positivo della gestione dei fascicoli di manifesta inammissibilità, non segnala particolari obiettivi per la settima sezione.
I dati utilizzati, che possono essere valutati unitariamente perché i trend sono alquanto costanti negli ultimi anni, evidenziano come la sezione riceva, come detto, una rilevante parte dei procedimenti totali con percentuali che variano abbastanza da sezione a sezione. La ragione di tale diversità è individuata in un diverso approccio da parte degli uffici spoglio delle singole sezioni ma è presumibilmente conseguente anche alla tipologia di procedimenti trattati. È indubbio che in determinati settori la percentuale di ricorsi di immediata inammissibilità, proposti in via meramente strumentale, è certamente più elevata (es. stupefacenti, evasioni etc). Sul punto, invero, non risultano comunicati dati statistici.
Anche il risultato qualitativo della selezione fatta in sede di spoglio, sul piano numerico, è decisamente apprezzabile in quanto la quasi totalità dei procedimenti trasmessi alla settima sezione vengono definiti con la decisione di inammissibilità mentre solo una percentuale che non supera il 4% viene restituita alle sezioni per approfondimenti (da valutare, poi, quanti di questi non vengano comunque dichiarati inammissibili o rigettati).
Allo stesso tempo, tale quota di fascicoli trasmessi alle sezioni ordinarie è segno di come funzioni anche la garanzia che in sede di settima sezione vi sia una seria valutazione dei procedimenti e non un esame superficiale fidando solo sulla delibazione della fase di spoglio (si rammenta come una direttiva ormai risalente preveda che il magistrato spogliatore non assegni i fascicoli destinati alla settima sezione a sé stesso proprio per garantire una più ampia valutazione).
I risultati positivi hanno quindi giustificato il mantenimento della stessa organizzazione con minimi adattamenti. Ciò anche per le modalità di composizione dei collegi della settima sezione per i quali si è voluto garantire la partecipazione di almeno uno dei magistrati addetti all’esame preliminare dei fascicoli, scelta sicuramente opportuna per il dovuto confronto e approvazione delle scelte fatte dai magistrati spogliatori nella attività di selezione fascicoli da trasmettere per la declaratoria di inammissibilità.
Tali risultati, ovviamente, riguardano l’accuratezza della selezione in ingresso, ma non consente di valutare se l’attività di filtro degli uffici spoglio abbia raggiunto sempre una soglia adeguata.
Non sembra, difatti, impossibile incrementare ulteriormente la trasmissione dei fascicoli in alcuni casi poiché ad una prima approssimazione la forte diversità di percentuale tra le varie sezioni sembra non dovuta solo a diversità di materie, come già si è detto, ma anche ad filtraggio più accurato[2]. D’altro canto, va considerato che si discute di un ambito di valutazioni per cui non si può ragionare in termini semplicemente meccanicisti ed è comprensibile che non sia un settore sul quale si possa facilmente intervenire.
Certamente, appare opportuno che, per ragioni di omogeneità, vi sia un indirizzo da parte del coordinatore della settima sezione. Il programma di gestione , difatti, negli obiettivi qualitativi quanto all’esame preliminare dei ricorsi prevede che il coordinatore verifichi il rispetto dei parametri di esercizio dell’attività di “filtraggio”, attività che presumibilmente sarà ancora più accurata in ragione delle direttive che saranno adottate secondo la previsione del nuovo progetto tabellare, come sopra si è riportato.
Vi è comunque anche un limite al “filtro” dell’ufficio spoglio: al magistrato addetto all’esame preliminari dei fascicoli si affida una valutazione che, a parte profili sostanzialmente automatici di non impugnabilità (tardività, provvedimento non impugnabile etc.), prevede da parte sua una “constatazione” della presenza di motivi mirati alla rivalutazione del merito o generici etc. ma non una vera e propria delibazione sulla presumibile infondatezza. Questa è la ragione per la quale non va richiesto all’ufficio spoglio una selezione sulla scorta di un approfondimento dei contenuti; contrariamente a quanto è stato anche oggetto di qualche critica negli anni recenti, il “superamento” della selezione settima/sezione ordinaria e la fissazione del procedimento in udienza ordinaria non può essere ritenuto una sorta di garanzia della non manifesta infondatezza che giustifichi l’aspettativa di un risultato in termini quantomeno di “rigetto” del ricorso.
In ragione degli obiettivi generali di benessere organizzativo, nel programma di gestione anche in riferimento alla attività della settima sezione è stato determinato un concetto di “carico esigibile” individuale, computato in collegamento al dato analogo sviluppato per ciascuna sezione ordinaria, essendo tutti i magistrati coassegnati al 25%.
In realtà, pur a fronte dell’elaborazione di tale dato del carico esigibile nel programma (al punto “8.5 Carico esigibile”), vi è una previsione rigida nelle tabelle di un numero minimo di procedimenti da fissare per ciascuna udienza: il vecchio progetto prevedeva 180 fascicoli per udienza (quindi 45 per consigliere), il nuovo riduce i fascicoli ordinari a 160 cui vanno aggiunti i procedimenti de plano.
Quindi, allo stato, il carico di lavoro per la settima sezione penale risulta predeterminato nel minimo ad un livello abbastanza elevato senza l’elasticità del carico esigibile.
In concreto, per fare ad esempio il caso della sesta sezione penale, per le proprie udienze di settima sezione prevede 50 procedimenti per relatore, di cui tendenzialmente 10 de plano, con eventuali procedimenti urgenti (scadenze misura cautelare, richieste di remissione ex art. 45 cod. proc. pen.) in sovrannumero assegnati al presidente.
Quindi, in realtà, sulla scorta di un dato tendenziale di assegnazione di ciascun consigliere per il 25% del numero di udienze alla settima sezione, le tabelle, considerando una sostanziale equivalenza di difficoltà (o, in questo caso, semplicità) di ciascun affare trattato, hanno già predeterminato nel minimo il carico esigibile.
Si noti come il progetto tabellare in approvazione introduca per la prima volta la assegnazione di un valore ponderale (nella più limitata scala da 1 a 3 rispetto a quella in uso per gli altri fascicoli “ordinari”) anche per i procedimenti destinati alla settima sezione. A tale previsione, per ora, non sembra accompagnarsi alcuna conseguenza, il numero di fascicoli per udienza nel medesimo progetto tabellare non è determinato in base al relativo peso, né vi è altra differenza. Potrà essere utilizzato il dato nella futura organizzazione concreta per le direttive sulla gestione o, eventualmente, anche come base per introdurre modalità differenziate quanto alle motivazioni preconfezionate[3].
Nella individuazione degli obiettivi qualitativi invero la settima penale non è considerata in via diretta bensì risente degli obiettivi riferiti alle attività di esame preliminare dei ricorsi presso le sezioni ordinarie. Questa è la fase in cui si “filtrano” le sopravvenienze e si alimenta la settima sezione, con la già citata inevitabile parziale difformità di situazioni a seconda delle singole sezioni che trasmettono i procedimenti (e che poi li gestiscono con i propri magistrati).
Il programma segnala anche le prove, per ora limitate ad alcune sezioni, di “informatizzare possibili schermi logici di decisione in relazione alla diversa tipologia di questioni“, in parole povere di predisporre dei modelli preformati per i procedimenti di maggior semplicità. È questo un tema sul quale si tornerà.
Nell’ambito degli obiettivi qualitativi, si individuano i compiti propri del coordinatore la settima sezione penale il quale deve assicurare il “rispetto dei parametri generali ed omogenei fissati in tabella alla cui stregua gli Uffici spoglio possano improntare il giudizio circa rispetto del requisito normativo della specificità dei motivi”. E’ un ruolo importante che, si ripete, potrà essere incrementato in collegamento con la nuova previsione tabellare delle direttive del Primo Presidente.
Infine, pur non essendovi indicazioni specifiche nel programma, la settima sezione, svolgendo attività “massiva”, è ovviamente particolarmente interessata alla informatica giudiziaria intesa quale modalità di velocizzazione delle operazioni. Tanto già è stato fatto con le comunicazioni e notificazioni telematiche, con il ruolo di udienza informatizzato che, per il lavoro su grandi numeri, ha ben semplificato il lavoro complessivo dei vari utenti interessati (pur se anche la sola arretratezza sull’uso della firma digitale costringe ancora i presidenti, in esito alle udienze, ad attività quali la firma manoscritta di oltre 180 dispositivi per volta.). I prossimi passaggi potranno riguardare la automazione della redazione delle decisioni, in un settore che ben si presta per il carattere ripetitivo e privo di contenuti giuridici rilevanti dei casi da trattare.
2. Conclusioni
In definitiva, il programma organizzativo giustamente rileva un andamento sostanzialmente virtuoso della gestione della assegnazione alla settima sezione penale e della successiva lavorazione dei procedimenti. La attività di “filtro” a monte funziona, con percentuali maggiori o minori che certamente rientrano in un ambito sostanzialmente fisiologico considerato che in tale contesto gioca molto il tipo di materia, l’esperienza, la sensibilità individuale che rendono difficile una misurazione meccanica.
La capacità di definizione è buona e il rapporto tra fascicoli in ingresso e in uscita è nel senso della piena capacità di smaltimento.
L’obiettivo di differenziare i procedimenti per i quali seguire il ponderoso procedimento ordinario, con l’intento di non appesantirlo, non sprecare risorse e nel contempo non pesare sulla qualità e quantità delle definizioni appare raggiunto.
3. La durata dei procedimenti in settima sezione penale
Invero, dalla lettura del programma di gestione e del progetto organizzativo, considerati i dati forniti, risultano situazioni rispetto alle quali si possono prospettare delle modifiche. In particolare, rilevano la tempistica di definizione dei procedimenti destinati alla settima sezione, sulla scorta dei dati utilizzati nel progetto tabellare e nel documento organizzativo, di quelli riportati nel programma di gestione e dei dati comunicati periodicamente.
I numeri globali dei fascicoli, come detto, sono sostanzialmente stabili, al netto delle variazioni riscontrate nel 2020 che trovano motivo nella fase del rallentamento delle attività per la pandemia. La ragionevole aspettativa è che tali numeri tornino ai precedenti livelli rispettandosi i medesimi trend degli ultimi anni.
Meritevole di valutazione sono, però, i giorni di durata dei procedimenti per quanto poi si dirà.
Ragioni ovvie rendono particolarmente importante il ridurre i tempi di gestione dei fascicoli di manifesta inammissibilità.
Il carico gestito dalla settima sezione penale è sostanzialmente tutto ciò che in Corte di cassazione non avrebbe neanche dovuto arrivare, e che invece arriva nella piena consapevolezza degli istanti che si tratta di materiale spurio: ricorsi di soggetti non legittimati, contro provvedimenti non impugnabili, motivi non proponibili o proposti in forma solo generica. La stragrande parte dei fascicoli trattati nella settima sezione rientra in quest’ambito, considerato che è in questione la selezione dei soli procedimenti per i quali la inammissibilità è evidente e sostanzialmente non opinabile.
Anche l’auspicio di una prassi di “filtro” a maglie più strette riguarda, comunque, solo i ricorsi che rientrano nell’ambito della evidenza della inammissibilità e non quelli per i quali possa esservi un ambito di valutabilità, sia in punto di diritto che di vizi della motivazione.
La principale ragione di tali numeri di ricorsi inconsistenti è ovvia e trova riscontro nel fatto che anche dopo la introduzione della procedura de pano non sono venute meno neanche i ricorsi contro le sentenze di patteggiamento per il vizio di motivazione (non più ammesso):
se la sentenza di condanna non è eseguita nel caso in cui si proponga ricorso, ancorchè inammissibile, vi sarà comunque un interesse fattuale al ricorso.
Si potrà discutere se riteniamo o meno accettabile una tale impostazione secondo i “nostri” parametri, ma i difensori semplicemente perseguono l’interesse dell’imputato ormai condannato.
Si rammenta, poi, che la decisione di inammissibilità preclude il pagamento delle relative prestazioni in caso di gratuito patrocinio e, quindi, non vi è neanche il sospetto che l’eccesso di contenzioso nasca dalla possibilità di ottenere la retribuzione anche per tali attività inutili.
È evidente che pressoché tutti coloro che presentano i ricorsi destinati naturalmente alla settima sezione penale sono consapevoli che non vi sia alcuna possibilità non tanto di accoglimento ma di effettiva trattazione in udienza partecipata nelle sezioni ordinarie. Del resto, una scelta come l’introduzione della procedura de plano dell’art. 610 comma 5-bis cod. proc. pen. è stata utile per semplificare la gestione da parte della Corte, ma, si ripete, non sembra avere indotto le parti a ridurre il numero di ricorsi presentati. L’importante, dal punto di vista del ricorrente, è posticipare l’eseguibilità della sentenza.
La conclusione evidente è che se si vuole seriamente privare di interesse la proposizione di ricorsi inutili, contro cui poco può una sanzione pecuniaria di fatto irrecuperabile nella maggior parte dei casi o una rigida interpretazione dei criteri di specificità dei motivi di ricorso (cosa importa a chi non ha alcun interesse a “vincere” perché sa già che è impossibile?), risulta della massima importanza ridurre al massimo i tempi di trattazione dei procedimenti in settima sezione penale.
Solo una decisione quantomai rapida (auspicando anche un miglioramento dei tempi nella fase di trasmissione della impugnazione) può essere un serio deterrente al ricorso strumentale. Non è certamente un deterrente la crescita esponenziale negli ultimi anni degli importi delle nostre condanne a sanzione pecuniaria per la inammissibilità in quanto, a fronte del dato formale dei 200 milioni di euro cumulati nell’ultimo anno (in sé superiore al complesso degli stipendi dei magistrati e del personale della Corte), andrebbe valutato quale sia stata la percentuale di incasso effettivo negli anni precedenti (detratti i costi di recupero).
Invece, proprio la settima sezione penale sembra avere qualche sofferenza in più sul piano della durata dei procedimenti che non aiuta a deflazionare il contenzioso inutile.
Colpisce guardando i dati presenti nel programma di gestione, che peraltro confermano anche quelli ulteriori e più analitici che risultano dalla trasmissione delle elaborazioni statistiche periodiche, il fatto che la sezione con il più consistente arretrato di procedimenti antecedenti al 2020 è proprio la settima sezione penale.
Si tratta di un dato grezzo (non è offerto un dato comparabile per gli anni precedenti e vi è la variabile “covid”), ma discretamente significativo che chi propone ricorso per ritardare il giudicato ha più chances se il suo procedimento inammissibile venga trasmesso alla settima sezione piuttosto che se resti in sezione ordinaria.
Il dato della maggiore permanenza del procedimento prima del suo esaurimento trova riscontro anche nella sintetica tabella sulla durata media in giorni dei processi:
Presso la settima sezione penale
Per tutto il settore penale
Facendo riferimento al dato luglio 2018/luglio 2019 (così evitando il condizionamento del periodo pandemia che ha pesato diversamente sui vari settori), a fronte della durata di 183 giorni presso la settima sezione penale, abbiamo numeri di durata dei processi presso le singole sezioni pari a 224, 191, 164, 133, 127e 119 giorni[4].
In tali numeri si annida il rischio della incentivazione del “ricorso inutile”: più lunghi sono i tempi di trattazione, più le parti avranno interesse a proporne.
Questa constatazione suggerisce una fase di accelerazione per portare a tempi più brevi le decisioni (una volta raggiunto l’obiettivo, non dovrebbe essere particolarmente impegnativo mantenerlo).
4. Ridurre i tempi
Al di là di una parziale spinta in aumento delle decisioni che, ovviamente, sconterebbe l’incidenza sulle altre attività a parità di risorse, possono cercarsi soluzioni utili ad una gestione più rapida.
Una prima soluzione riguarda i procedimenti de plano.
Potrebbe ragionevolmente ripensarsi sulla gestione di tali procedimenti per i quali attualmente è previsto che, salvo urgenza, debbano essere trasmessi alla settima sezione. Del resto è la stessa legge che, pur inserendo la nuova procedura ultrasemplificata nello stesso art. 610 cod. proc. pen., non ha previsto l’assegnazione alla apposita sezione, preferendo lasciare ogni scelta all’autonomia organizzativa della Corte.
La scelta normativa di azzerare la gestione burocratica di procedimenti per i quali non vi è alcun ambito di opinabilità sulla inammissibilità in teoria potrebbe portare, quanto meno per la parte di decisione del giudice, ad una decisione in tempo sostanzialmente reale, come consente il carattere del tutto informale della procedura.
Se, invece, i procedimenti de plano vengono fissati innanzi alla settima sezione insieme ai procedimenti di settima “ordinari”, i tempi sono ben più lunghi e sono sostanzialmente equiparabili a quelli degli altri procedimenti.
Eppure, non appare difficile ipotizzare una soluzione “sbrigativa” che, con l’esperienza dell’ufficio spoglio, può così immaginarsi:
il magistrato addetto allo spoglio, anche con l’aiuto della cancelleria, separa pacchi di 5-10 procedimenti de plano che, di solito, sono immediatamente individuati senza alcun “apprezzamento” (larga parte sono patteggiamenti, provenienti dal giudice di primo grado, per i quali basta un mero riscontro di copertina, o patteggiamenti in appello, dato immediatamente evidente dal dispositivo, o atti firmati dalla parte personalmente) e li consegna secondo un ordine ai colleghi di sezione che curano personalmente la redazione di un modulo di decisione il cui contenuto per quasi tutti i casi può essere ridotto all’osso (tipo “l’articolo 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. non consente il ricorso per ragioni di motivazione” o “l’articolo 613 cod. proc. pen. non consente il ricorso personale”, bastando fare uso di normale modulistica informatizzata, come quella standard di MS Word) e chiedono alla cancelleria la registrazione per la propria prima o seconda udienza utile; in tale udienza, attesa la materia, il confronto con presidente e colleghi per la decisione richiederebbe una manciata di secondi senza alcuna reale incidenza sulla restante attività.
Tra la consegna del fascicolo alla sezione e la adozione della decisione sarebbero sufficienti pochissimi giorni.
Ad una tale attività semplicissima si aggiunge, però, la gestione di cancelleria, considerando che i numeri non sono bassi e le attività post udienza non dissimili da quelle dei fascicoli ordinari. Ma, in questo caso, potrebbe certamente curarsi una successiva gestione materiale dei fascicoli da parte della medesima cancelleria della settima penale, in quanto organizzata per personale e modalità di lavoro alla gestione di grandi numeri.
In questo modo, si potrebbe ottenere, spostando un lavoro che a ben vedere è di minimo impegno, utilizzando ritagli di tempo nel corso di altre attività, una decisione quasi in tempo reale di quelle che sono arrivate ad una discreta percentuale sul totale dei fascicoli (particolarmente elevata per la “piccola” droga e i furti), sino al 12,5% come segnalato[5].
Ciò lascerebbe anche la possibilità di gestire più rapidamente i fascicoli ordinari della settima sezione. L’eliminazione dei fascicoli de plano, recuperati con una migliore organizzazione dei tempi, è in grado di portare a una riduzione dei tempi di fissazione delle udienze di settima sezione da parte delle sezioni ordinarie allo stato in sofferenza.
Anche per la settima sezione “ordinaria” va considerato che, se si vuole raggiungere un obiettivo di riduzione (anche se non nel breve periodo) delle sopravvenienze, si deve disincentivare il vantaggio pratico.
Qualsiasi soluzione che renda più complesso predisporre un ricorso ammissibile è di scarsa efficacia (come essere più rigidi sul requisito della specificità dei motivi, sulla autosufficienza etc): le impugnazioni vengono proposte nella piena consapevolezza che la destinazione “naturale” del procedimento è la settima sezione penale e ciò che può disincentivare è solo il rendere quanto più celere la decisione.
L’intervento possibile è tentare di allineare le sezioni con tempi più lunghi alle altre, redistribuendo temporaneamente i carichi. La organizzazione tabellare non limita la formazione dei collegi e l’assegnazione dei fascicoli e, ad es., potrebbe assegnarsi una quota di fascicoli delle sezioni più gravate ad altra con tempi inferiori o consentire in via provvisoria collegi “misti” in modo da offrire temporaneamente più possibilità di trattazione alle sezioni che devono ridurre i propri tempi di trattazione.
Il ragionevole obiettivo deve essere quantomeno di non avere tempi di trattazione per la settima sezione penale superiore a quelli per il procedimento ordinario.
Nell’ambito degli obiettivi individuati al programma si fa anche un accenno alla creazione di un sistema informatico di schemi di motivazione per velocizzare la redazione delle ordinanze (e il loro deposito)[6]. Questo è un obiettivo rilevante per ridurre al minimo anche la fase di redazione dei provvedimenti, evitando nel contempo che vengano redatte ordinanze dal contenuto eccessivo rispetto alle finalità dell’atto, contribuendo a quella che è la effettiva finalità della settima sezione penale (e della gestione dei procedimenti de plano), ovvero la rapida eliminazione dei procedimenti di manifesta inammissibilità per dedicare il tempo all’attività propria del giudice di legittimità.
[1] Il programma, al punto 8.5, dà atto che per tutti i consiglieri la coassegnazione alla settima sezione penale è stata disposta per il 25% della loro attività.
[2] Da dati statistici generali nel 2019, la percentuale tra le varie sezioni era tra il 31,2% e il 53%
[3] Es., disporsi che per i fascicoli di valore 1 il relatore possa limitarsi a dare atto della assenza ictu oculi di uno sviluppo di motivi che giustifichi un riferimento concreto al contenuto del ricorso.
[4] Si tenga però conto che la base da cui sono tratti i dati non è del tutto comparabile; per le sezioni ordinarie vi sono i procedimenti cautelari che hanno tempi più brevi.
[5] Ciò, ovviamente, non risolve il tema del tempo tra la adozione del provvedimento impugnato e il pervenimento degli atti alla Corte ma per gli uffici più grandi, che producono la gran parte dei patteggiamenti, i tempi sono abbastanza brevi.
[6] “Con specifico riguardo all’attività di esame preliminare dei ricorsi, merita di essere condivisa, nel prossimo triennio, l’esperienza, avviata presso la Settima sezione penale dai collegi di alcune sezioni penali, di concerto con il C.E.D., di informatizzare possibili schemi logici di decisione in relazione alla diversa tipologia di questioni poste dai ricorsi in modo da razionalizzare il lavoro dei consiglieri, facilitare la lettura dei provvedimenti, rendere più incisivo il messaggio nomofilattico in ordine a principi ormai consolidati non confutati criticamente e in maniera specifica dalla parte ricorrente”.
Corte di Cassazione, prima sezione penale, 16 febbraio 2021 nr. 6089 e il divieto di partecipare a pubbliche riunioni nella sorveglianza speciale di pubblica sicurezza: la regula iuris della pronuncia a Sezioni Unite nr. 46595 del 28 marzo 2019
di Giuseppe La Corte
Sommario: 1. Ordinanza di rimessione, sezione prima penale, nr. 2124 del 2019, Presidente Bonito, relatore Magi: profili problematici - 2. Le Sezioni Unite sulla nozione di “pubbliche riunioni”: una lettura “tassativizzante” della prescrizione di cui all’articolo 8, comma 4, in rapporto all’articolo 75 comma 2 del Codice Antimafia - 3. Possibili soluzioni interpretative: de jure condendo - 4. E dopo…Corte di Cassazione, prima sezione penale, 16 febbraio 2021 nr. 6089 presidente Casa, relatore Renoldi - 5. Breve conclusione rebus sic stantibus.
1. Ordinanza di rimessione, sezione prima penale, nr. 2124 del 2019, Presidente Bonito, relatore Magi: profili problematici
Con sentenza emessa il 7 febbraio 2017, la Corte di Appello confermava la penale responsabilità degli imputati in relazione al reato di cui all’art. 75, co. 2, D.lgs. 159/2011(Codice Antimafia). In particolare, gli stessi avrebbero frequentato soggetti pregiudicati e partecipato ad un torneo internazionale di tennis, così violando la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni. La principale doglianza contenuta nel gravame presentato dalla difesa ha ad oggetto la ritenuta punibilità della partecipazione del sorvegliato speciale alla suddetta manifestazione sportiva. Secondo il ricorrente, infatti, il divieto di partecipare a manifestazioni pubbliche riguardava celebrazioni di particolare rilievo in occasione delle quali l’animosità del pubblico fa sorgere liti e risse. Ciò che era impossibile si verificasse in un incontro di tennis ove il silenzio del pubblico è, invece, una prerogativa essenziale del gioco.
Con ordinanza del 19 dicembre 2018, la prima sezione penale della Corte di Cassazione rimetteva la trattazione del ricorso innanzi alle Sezioni Unite. Il divieto di partecipare a pubbliche riunioni rientra tra le prescrizioni che il Tribunale della prevenzione deve applicare “in ogni caso” ovvero senza alcun margine di discrezionalità sull’an, in ossequio a quanto previsto dal comma 4 dell’articolo 8[1], la cui violazione è sanzionata penalmente dall’art. 75. Disposizione che, al comma 1, qualifica come contravvenzione l’infrazione posta in essere da un soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale semplice e, al comma 2, come delitto, punito con la reclusione da 1 a 5 anni, la trasgressione realizzata da un soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno.
Il collegio remittente, riprendendo le argomentazioni della sentenza De Tommaso, critica la formulazione della norma in esame non solo perché la stessa violerebbe il principio di legalità - in quanto il precetto sarebbe formulato in maniera ampia e vaga - ma anche alcuni suoi corollari quali sono il principio di offensività e proporzionalità.[2] Da una parte, infatti, affinché sia meritevole la sanzione irrogata, deve trattarsi di condotte che esprimano una effettiva volontà di ribellione nonché manifestino una totale vanificazione della misura irrogata. Dall’altra, invece, si evidenzia che l’applicazione di una imposizione estesa a tutti “in ogni caso” non sia in grado di rappresentare un valido canone di controllo sulle limitazioni dei diritti fondamentali.[3] Punctum dolens: la definizione del concetto di pubbliche riunioni. Secondo un orientamento minoritario, il divieto in questione va inteso nel senso di non prendere parte a qualsiasi riunione di più persone in luogo pubblico o aperto al pubblico al quale abbiano accesso un numero non determinato di persone indipendentemente dal tipo di riunione. Un ulteriore indirizzo, invece, sostiene che il rinvio espresso dall’art. 75, co. 2, alle prescrizioni afferenti alla sorveglianza speciale non possa ricomprendere il divieto di partecipare a pubbliche riunioni, in virtù di una formulazione ampia e non univoca della suddetta nozione.
Il Collegio, sulla base delle suddette argomentazioni, ritiene di formulare il seguente quesito “se, ed in quali limiti la partecipazione del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ad una manifestazione sportiva tenuta in luogo aperto al pubblico risulti fatto punibile in riferimento al reato di violazione delle prescrizioni imposte al sorvegliato speciale di cui agli articoli 8 e 75 del codice Antimafia”.
2. Le Sezioni Unite sulla nozione di “pubbliche riunioni”: una lettura “tassativizzante” della prescrizione di cui all’ articolo 8, comma 4, in rapporto all’articolo 75 comma 2 del Codice Antimafia
Con informazione provvisoria pubblicata l’1 aprile 2019, il servizio novità della Suprema Corte comunica che, in esito alla pubblica udienza celebrata il 28 marzo 2019, le Sezioni Unite hanno risolto la questione in esame nei seguenti termini: “Negativa, in quanto l’articolo 8 Decreto Legislativo n. 159 del 2011 si riferisce esclusivamente alle riunioni in luogo pubblico”. La Corte di Cassazione, dopo aver, preliminarmente, richiamato le perplessità emerse in sede di rimessione, si interroga sulle tematiche affrontate dalla diverse pronunce che hanno trattato la materia de qua.
La prima afferisce al rispetto del principio di offensività e proporzionalità. Il richiamo è alla sentenza “Sinigaglia” che ha evidenziato come “possano essere punite soltanto quei comportamenti che costituiscano indice di una persistente pericolosità e non qualsiasi défaillance comportamentale”.[4]
Altra problematica riguarda la legittimità delle prescrizioni previste per il sorvegliato speciale alla luce della necessità di tutelate diritti costituzionalmente garantiti. Questione già affrontata dai Giudici di Strasburgo, nella nota sentenza De Tommaso, che hanno espresso preoccupazione per il fatto che “misure previste dalla legge comprendano l’assoluto divieto di partecipare a pubbliche riunioni”.[5] Dapprima viene richiamata la sentenza “Pellegrini” che ha ritenuto che il rinvio espresso nella disposizione di cui all’art. 75, co. 2, non potesse ricomprendere il divieto di partecipare a pubbliche riunioni, stante l’indeterminatezza della suddetta formulazione e la conseguente mancanza di tassatività della fattispecie.[6]
Un ulteriore orientamento, espresso nella sentenza “Lo Giudice”, ha, invece, ribadito che il divieto, di cui all’art. 8, co. 2, riguardasse qualsiasi riunione di più persone in luogo pubblico o aperto al pubblico.[7]
Altro indirizzo ancora, invece, contenuto nella sentenza “Sassano”, ha affermato che il Giudice avesse l’obbligo di indicare le ragioni per cui la prescrizione de qua si renda necessaria in funzione di controllo della pericolosità sociale del prevenuto al fine di evitare compressioni generalizzate di una libertà costituzionale.[8]
Nessuna delle tre soluzioni viene integralmente accolta dalle Sezioni Unite. La Suprema Corte non ritiene convincenti le motivazioni espresse dalla pronuncia “Pellegrini”. La sentenza, infatti, non verifica la possibilità di individuare una nozione di pubblica riunione valida per tutte le norme che la contengano. La pronuncia suddetta disapplica un norma interna in contrasto con la CEDU. In questi casi, invece, avrebbe dovuto rivolgersi alla Consulta, organo giurisdizionale deputato alla dichiarazione di illegittimità della disposizione interna in contrasto con l’art. 117 della Costituzione di cui la CEDU costituisce parametro interposto. In altre parole, punto debole della soluzione “Pellegrini” è quello di aver adottato la medesima operazione tassativizzante sperimentata dalle Sezioni Unite Paternò in relazione ad una prescrizione del tutto diversa e fatta oggetto di una differente censura da parte della Corte Europea.[9] Mentre, infatti, gli obblighi di “vivere onestamente” e “di rispettare le leggi” non possono considerarsi vere e proprie prescrizioni aventi contenuto precettivo, non imponendo comportamenti specifici ma ammonimenti morali, valevoli per qualsiasi consociato; il divieto de quo rappresenta un comando specifico, rivolto solo a particolare tipi di individui, che è connesso alle finalità di prevenzione, in quanto la partecipazione alle pubbliche riunioni rende più difficile il controllo del prevenuto. Neppure convincente appare la soluzione espressa nella sentenza “Lo Giudice”. Il risultato di tale linea interpretativa, infatti, è una nozione ampia e non delimitata della prescrizione che lascia spazio alla discrezionalità del Giudice e, si legge, “si disinteressa del tema della conoscibilità della norma penale da parte del destinatario e della conseguente prevedibilità delle conseguenze della sua azione”.[10] Quanto all’orientamento formulato dalla sentenza “Sassano”, la Suprema Corte ritiene si tratti di una “soluzione forzata, non necessaria e superflua”.[11] Appare ragionevole, infatti, l’impiego della sanzione penale, in caso di violazione di quelle prescrizioni che, in quanto significative, siano applicate in ragione della pericolosità del Sorvegliato. Altresì, l’individuazione di una nozione condivisa di pubbliche riunioni permette di colpire, in ossequio al principio di offensività, solamente quelle condotte che possano elidere la sorveglianza del prevenuto.
Le Sezioni Unite accolgono una soluzione interpretativa che precisa gli spazi applicativi della prescrizione esaminanda. La norma cui fare riferimento è contenuta nell’art. 17 della Costituzione, come interpretato dalla Corte Costituzionale nella sentenza numero 27 del 5 maggio del 1959. In quell’occasione, la Consulta aveva affermato che l’art.17 Cost. consente il divieto delle pubbliche riunioni per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica, in questo modo riconducendo la nozione di pubbliche riunioni all’ipotesi prevista dal terzo comma che fa riferimento alle riunioni in luogo pubblico.[12] L’assolutezza di questa affermazione, tuttavia, viene mitigata da quelle ipotesi “estreme”[13] in cui il precetto penale non possa ritenersi integrato, nonostante la partecipazione del prevenuto ad una pubblica riunione.[14]
Il sorvegliato, infatti, ben potrà chiedere al Tribunale l’autorizzazione a partecipare ad una riunione pubblica e, se chiamato a rispondere della sua violazione, avrà l’onere di dimostrare che la sua condotta sia stata inoffensiva. Non si tratta, si badi, di una probatio diabolica perché il tribunale potrà valutare i motivi giustificativi con gli accertamenti effettuati dalla Polizia giudiziaria all’uopo delegata. In mancanza di allegazioni e prove concrete, non sembra vi sia spazio per il Giudice della prevenzione di ritenere la relativa condotta inoffensiva. La valutazione di quel comportamento, infatti, è stata già effettuata, ex ante, dal legislatore che ha ritenuto necessaria quella prescrizione al fine di limitare la pericolosità sociale del prevenuto. Tuttavia, l’Autorità Giudiziaria potrà ritenere giustificata quella stessa partecipazione se dall’analisi del caso concreto emerga la non offensività della violazione e la non meritevolezza della sanzione penale. Tale interpretazione, pur riducendo l’ambito applicativo della prescrizione esaminanda, escludendo, infatti, le riunioni in luogo aperto al pubblico, non indebolisce la misura di prevenzione irrogata. Sulla base di quanto previsto dall’articolo 8, comma 5, del Codice Antimafia, infatti, il Tribunale potrà imporre tutte “le prescrizioni che riterrà necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale, sulla base di una motivazione adeguata che tenga conto delle esigenze del caso concreto”. Ben potrebbe, ad esempio, il Giudice vietare al prevenuto la partecipazione a qualsiasi riunioni o manifestazioni. In questo si sarebbe fatto entrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta.
Tale supposizione è, tuttavia, erronea.[15] Per prima cosa, non tiene in considerazione il fatto che, in ossequio al principio di tassatività e precisione, il Giudice non potrà utilizzare formule vaghe e indeterminate che riproporrebbero tutte le problematiche che la giurisprudenza ha, di volta in volta, risolto.[16] L’Autorità Giudiziaria, altresì, dovrà individuare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che impongono al soggetto controllato ulteriori obblighi o divieti al fine di contenere le pulsioni antisociali del prevenuto. Tali prescrizioni, infatti, dovendo essere adottate in contraddittorio tra le parti, dovranno garantire non solo una scelta equilibrata del Tribunale chiamato a pronunciarsi ma anche l’imposizione di obblighi o divieti “personalizzati” e “individualizzati” alla pericolosità del proposto.
In definitiva, il principio di diritto che deve essere affermato è il seguente “la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, che deve essere in ogni caso dettata in sede di applicazione della misura di prevenzione della Sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi dell’articolo 8, comma 4, Decreto Legislativo nr. 159 del 2011, si riferisce esclusivamente alle riunioni in luogo pubblico”.
3. Possibili soluzioni interpretative: de jure condendo
Dalla pronuncia in commento possono farsi alcune considerazioni che avrebbero suggerito ai Giudici una soluzione diversa sul piano metodologico.[17] Per un verso, se la disposizione controversa fosse stata rispondente ai canoni di precisione e determinatezza ma foriera di interpretazioni tra loro contrastanti, sarebbe stato più corretto rivolgersi ai Giudici della nomofilachia per dipanare il contrasto. Dall’altra, invece, nel caso in cui gli Ermellini avessero dubitato del rispetto della norma ai parametri di precisione, offensività e proporzionalità sarebbe stato utile rivolgersi alla Corte Costituzionale affinché ne dichiarasse la illegittimità per contrasto al principio di legalità.[18]
L’ordinanza di rimessione, pur evidenziando delle criticità sulla formulazione della disposizione esaminanda, sceglie di adire il Supremo Consesso della Cassazione piuttosto che la Consulta. La via della questione di legittimità costituzionale, invece, sarebbe stata preferibile in ragione della vicenda, del tutto sovrapponibile, che ha riguardato le prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare la legge”. In quel caso, le Sezioni Unite[19] avevano optato per una interpretazione convenzionalmente conforme alla CEDU attraverso l’eliminazione, in via ermeneutica, dall’area del penalmente rilevante, delle due ipotesi che, nonostante fossero ricomprese nel tenore letterale della disposizione di cui all’art. 75, co. 2, risultavano estranee ai principi immanenti al diritto penale. Il precetto penale, ex art. 75 co. 2, risultava, pertanto, essere stato abrogato parzialmente, seppur in via interpretativa, nella parte in cui prevedeva potesse costituire reato la violazione delle prescrizioni suddette.[20] Il 26 ottobre 2017, tuttavia, la seconda sezione penale ha sollevato questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la normativa che era stata già esaminata, pochi mesi addietro, dalle Sezioni Unite.[21] La scelta della rimessione della eadem quaestio alla Consulta risulta giustificata dal fatto che solo una pronuncia di illegittimità potesse assicurare una adeguata garanzia sia nei confronti di coloro che sono stati già condannati in ragione della violazione dei suddetti obblighi sia per orientare, in funzione generalpreventiva, le condotte dei consociati senza timore di doversi difendere da un ulteriore revirement giurisprudenziale.
L’orientamento espresso dalla Suprema Corte rappresenta pur sempre una interpretazione giurisprudenziale che è estranea ai meccanismi che regolano la successione delle leggi penali del tempo, di cui all’articolo 2 cod. pen.[22] Una pronuncia di illegittimità, invece, non solo avrebbe effetti erga omnes ma anche eliminerebbe una disposizione che, in contrasto con i principi della nostra Carta fondamentale, non potrebbe essere più applicata. In altre parole, un conto è una sentenza che riforma quella impugnata per un sopravvenuto ius supervenies suscettibile però di mutare nel corso del tempo con effetti inter partes; altro è una pronuncia del Giudice delle leggi che, in virtù di quanto specificato dall’articolo 136 della Costituzione, cancella dal nostro ordinamento una disposizione affetta da invalidità genetica.
Nel caso di specie, le Sezioni Unite, ma ancora prima i giudici remittenti, avrebbero potuto sollevare questione di illegittimità costituzionale dell’art. 75, co. 2, in combinato disposto con l’art. 8 comma 4, per violazione degli artt. 25 e 117 alla luce dell’art. 2 del relativo Protocollo numero 4.[23]
Sulla scia della pronuncia Paternò, in alternativa, il Collegio avrebbe potuto formulare una interpretazione “abrogante” (la cosiddetta interpretatio abrogans) il comma 2 dell’art. 75 nella parte in cui punisce il sorvegliato speciale che violi la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni. Il precetto de quo, infatti, viziato da eccessiva genericità, non potrebbe essere preso in considerazione dall’Autorità Giudiziaria per una eventuale condanna.[24] La strada intrapresa, invece, è stata quella di formulare una interpretazione “tassativizzante”, id est, mantenere salva l’applicazione del divieto ma precisarlo al fine di renderlo compatibile con il principio di conoscibilità del precetto penale.
È compito ineludibile del giudice, infatti, quello di interpretare le locuzioni ampie e polisenso alla luce del contesto normativo in cui sono inserite. L’utilizzo di tali espressioni generali, infatti, “non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante l’ordinario compito a lui affidato”[25]. La norma così applicata dal giudice, infatti, non è destinata, semplicemente, a fornire il criterio di giudizio per il caso concreto sottoposto alla sua attenzione ma si candida ad operare come possibile parametro di decisione per analoghi casi futuri. Molto efficacemente, “ogni giudice (…) non ricerca soltanto la soluzione avvertita come “giusta” nel caso concreto, ma è ben cosciente della necessità di fondare la decisione su un criterio –una regola– pensata già in origine come generalizzabile a tutti i casi futuri che presenteranno analoghe caratteristiche.[26]
Secondo diversa dottrina invece, l’opzione preferibile sarebbe stata quella di interrogare la Consulta e ciò per due ragioni.[27] In primo luogo perché il legislatore costituente, nel collegare la disciplina della libertà delle riunioni al luogo del loro svolgimento, avrebbe esplicitamente scartato la dicotomia “riunioni pubbliche-riunioni private”, in quanto non sufficientemente univoca (sulla base di tale distinzione, infatti, potrebbe considerarsi pubblica, ad es., anche una riunione in luogo privato composta da un gran numero di partecipanti, ovvero una riunione avente per oggetto tematiche di interesse pubblico); dall’altro, la stessa Corte di Strasburgo sembra aver posto l’accento, nel passo della sentenza De Tommaso poco sopra riportato, sul difetto di determinatezza e, dunque, sulla scarsa prevedibilità della prescrizione e della norma incriminatrice, più che sull’ampiezza dell’orizzonte semantico della locuzione in discorso: il che comporta una problematica compatibilità della prescrizione in parola con il principio di legalità convenzionale.
4. E dopo…Corte di Cassazione, sezione prima penale, 16 febbraio 2021 nr. 6089, Presidente Casa, relatore Renoldi
L’indirizzo ermeneutico scelto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, come fino ad ora esposto, è stato seguito da una più recente pronuncia. Il ricorrente era stato tratto a giudizio davanti al Tribunale di Bergamo, per rispondere del reato di cui al D. lgs. 159/11, art. 75, co. 1, per avere partecipato ad una presentazione della sua squadra di calcio, violando il divieto di presenziare a pubbliche riunioni impostogli con il provvedimento applicativo della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, emesso dallo stesso Tribunale in data 11/2/2016, per la durata di un anno e sei mesi. Con sentenza del Tribunale di Bergamo in data 11/1/2019, fu però assolto da tale imputazione, con la formula “perché’ il fatto non sussiste”.
Avverso la sentenza di appello proponeva ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica deducendo, al contrario che he la nozione di partecipazione a pubbliche riunioni risultasse chiara tanto nel riferimento al contesto (“pubbliche”) quanto nell’oggetto (“riunioni”), facendo essa rinvio a qualsiasi situazione in cui possa intervenire un numero elevato e indeterminato di persone, tale da rendere più difficile il controllo dei presenti e più agevole la commissione di reati. La Corte di Cassazione ritiene il ricorso infondato e richiama le argomentazioni contenute dal supremo consesso della corte di legittimità. “Le Sezioni unite hanno precisato che la suddetta prescrizione si riferisce esclusivamente alle riunioni “in luogo pubblico”, con la conseguente esclusione delle riunioni in luoghi “aperti al pubblico”, come, ad esempio, le manifestazioni sportive in luoghi come gli stadi o i palasport, rispetto alle quali, come è stato nel frangente osservato, vige la autonoma normativa dettata dalla L. 13 dicembre 1989, n. 401, che contempla anche la misura di prevenzione del divieto di accesso alle manifestazioni sportive”.[28] Nel caso qui in rilievo lo stadio nel quale si svolgeva l’incontro di presentazione della squadra di calcio doveva essere qualificato come “luogo aperto al pubblico” e, pertanto, non si realizzavano gli elementi oggettivi della violazione di cui all’art.75 del Codice Antimafia.
5. Breve conclusione rebus sic stantibus
In conclusione, si può affermare che le Sezioni Unite abbiano dipanato un contrasto giurisprudenziale tra le corti e che tale impostazione sia stata, al momento, seguita dalle pronunce successive.
È indubbio che la soluzione accolta dalle Sezioni Unite garantisca maggiormente la posizione del sorvegliato speciale in ordine a eventuali ingiustificate limitazioni della sua libertà di movimento poco chiare e prevedibili. In questo senso, il proposto non potrà mai prendere parte a riunioni in luogo pubblico, salvo in quelle ipotesi estreme già viste, mentre potrà partecipare a quelle aperte al pubblico, a meno che il giudice lo vieti espressamente in ragione della pericolosità e delle caratteristiche personologiche del proposto.
[1] Cfr. “In ogni caso, (il Tribunale) prescrive di vivere onestamente, di rispettare le leggi, e di non allontanarsi dalla dimora senza preventivo avviso all'autorità locale di pubblica sicurezza; prescrive, altresì, di non associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza, di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina più presto di una data ora e senza comprovata necessità e, comunque, senza averne data tempestiva notizia all'autorità locale di pubblica sicurezza, di non detenere e non portare armi, di non partecipare a pubbliche riunioni”.
[2] Cfr. La sentenza De Tommaso vs Italia emessa dalla Corte EDU il 23 febbraio 2017 ha duramente criticato la formulazione delle disposizioni contenute nel Codice Antimafia I Giudici di Strasburgo affermano che “la loi n. 1423/1956 -la cui disciplina è stata trasposta nel D. lgs 159/2011- ètait libellèe des termes vagues et excessivement gènèraux (…) ni le contenu de certaines de ces mesures n’ètaient dèfinis avec une prècision et une clartè suffisantes, §104-105.
[3] La prescrizione del divieto di partecipare a pubbliche riunioni è stata più volte oggetto di attenzione della Corte Costituzionale. In particolare, con sentenza 27 del 18 febbraio 1959, la Consulta ne ha affermato la compatibilità con gli artt.2 e 17 della Costituzione dalla quale sarebbe ricavabile un principio di prevenzione e sicurezza sociale. Con sentenza 126 del 21 aprile 1983, ancora, si è ritenuto insussistente il contrasto tra l’imposizione de qua e gli articoli 21 e 49 della Costituzione in quanto, seppur vero che il divieto suddetto possa comportare un’ ingiustificata ingerenza su diritti costituzionalmente garantiti al prevenuto, tale limitazione sarebbe addebitale non già alla previsione legale nella sua astratta formulazione ma alla sua concreta applicazione. Spetterebbe al Giudice, infatti, determinare i concreti elementi di fatto che concorrono, di volta in volta, a realizzare la fattispecie penale di trasgressione agli obblighi della sorveglianza speciale.
[4] Corte di Cassazione, Sezioni Unite penali, numero 32923 del 2014. La vicenda riguardava la violazione della prescrizione di cui all’articolo 8 comma 7 da parte del sorvegliato speciale di portare con sé la carta di permanenza, p. 15. Più approfonditamente, si rinvia a M.C. UBIALI, Le sezioni unite sulla violazione dell’obbligo, per il sorvegliato speciale, di esibire la carta di permanenza, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 18 settembre 2014.
[5] Cfr. § 123 e 124. La Corte EDU, si legge, altresì, “è anche preoccupata (…) che la legge non specifica alcun limite temporale o spaziale di questa libertà fondamentale, la cui restrizione è lasciata interamente alla discrezionalità del Giudice”. Come indicato, tuttavia, dalla sentenza in commento, si tratta di un accenno poco chiaro. Il Tribunale, infatti, né ha la discrezionalità di modulare il divieto di partecipare a pubbliche riunione né sono necessari ulteriori specificazioni per l’applicazione della prescrizioni suddetta da parte del Giudice, p.8.
[6] Cfr. Corte di Cassazione, sezione Prima penale, numero 31322 del 09 aprile 2018.
[7] Cfr. Corte di Cassazione, Sezione Prima penale, numero 28261 del 08 maggio 2018.
[8] Cfr. Corte di Cassazione, Sezione Prima Penale, numero 49731 del 06 giugno 2018.
[9] Così S. FINOCCHIARO, Le Sezioni Unite sul reato di trasgressione al divieto di partecipare a pubbliche riunioni imposto con la misura di prevenzione della Sorveglianza speciale (art. 75 codice antimafia), in www.sistemapenale.it, p.5
[10] §16, p.18.
[11] §17, p.19.
[12] L’articolo 17 della Costituzione prevede che “I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz'armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”. Per riunione in luogo privato si deve intendere quella che si svolge in uno spazio fisico delimitato, fra persone determinate che vi accedano in forza della loro ammissione da parte di chi legalmente dispone del luogo; Per riunione in luogo aperto al pubblico deve intendersi quella che si svolge in uno spazio delimitato cui possa accedere chiunque, liberamente o condizionatamente, secondo la volontà del soggetto che legalmente dispone del luogo; riunione in luogo pubblico, ovvero quella che si svolge in uno spazio accessibile da chiunque e destinato, di diritto o di fatto, al pubblico uso.
[13] Cfr. § 17, p. 19
[14] Così S. FINOCCHIARO, Le Sezioni Unite sul reato di trasgressione al divieto di partecipare a pubbliche riunioni imposto con la misura di prevenzione della Sorveglianza speciale (art. 75 codice antimafia), cit., p. 7.
[15] Alcuni autori hanno rilevato un profilo di contraddizione laddove le Sezioni Unite, dopo aver limitato il concetto di pubbliche riunioni alle sole riunioni in luogo pubblico, ammettono che il giudice, attraverso la clausola di cui all’art.8, co. 5, possa vietare al sorvegliato speciale, alla luce delle circostanze del caso concreto, di prendere parte ad assembramenti che si svolgono in luogo aperto al pubblico. Delle due l’una: o l’art.17 Cost. consente di comprimere in via preventiva la libertà di riunione solo qualora essa sia esercitata in luogo pubblico e allora non sembra possibile utilizzare lo strumento delle prescrizioni discrezionali per limitare tale diritto quando le riunioni si tengano in luoghi diversi, oppure dalla suddetta norma costituzionale non è possibile ricavare una tutela così intensa del diritto di riunione, ed allora limitazioni ulteriori rispetto a quelle costituzionalmente previste-ad esempio attraverso l’art.8, co.5, Cod. Ant.- sono ammissibili in E. ZUFFADA, Per le sezioni unite il divieto di partecipare a pubbliche riunioni imposto al sorvegliato speciale è da considerarsi limitato alle sole riunioni “in luogo pubblico”, 05.12.2021, in www.dirittopenaleuomo.it, p.7
[16] Il Giudice non potrebbe vietare al sorvegliato speciale la partecipazione alle riunione in luogo pubblico e ad “altre manifestazioni”. Quest’ultima risulterebbe una espressione vuota che accentuerebbe la discrezionalità del Giudice nel valutare la violazione del divieto nel caso concreto, in barba ai principi di tassatività e legalità.
[17] E. ZUFFADA, Alle Sezioni Unite un nuova questione relativa alla configurabilità del reato di cui all’ art.75 Cod. Antimafia, questa volta in caso di trasgressione del divieto di partecipare a pubbliche riunione, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 6 marzo 2019, pp. 5 ss.
[18] In virtù di quanto previsto dall’articolo 25, infatti, le pene devono essere irrogate sulla base di criteri che devono tenere conto non solo della riserva di legge ma anche della tassatività e determinatezza delle fattispecie criminose. La volontà del legislatore, pertanto, deve esprimersi in maniera chiara e univoca al fine di permettere non solo ai singoli di comprendere quali siano le condotte lecite da quelle non ammesse ma anche di evitare che l’Autorità Giurisdizionale possa utilizzare la sua attività discrezionale nell’interpretare, in modo arbitrario, la legge penale.
[19] Cfr. Cassazione Sezioni Unite 40076 del 27 aprile 2017 “Paternò”
[20] Per un approfondimento della questione si rinvia a G. BIONDI, Le Sezioni Unite Paternò e le ricadute della sentenza Corte EDU De Tommaso c. Italia sul delitto ex art.75, comma 2, D. Lgs n. 159/2011: luci ed ombre di una sentenza attesa, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 10/2017, pp.165 ss. e F. VIGANO’, Le Sezioni Unite ridisegnano i confini del delitto di violazione delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione alla luce della sentenza De Tommaso: un rimarchevole esempio di interpretazione conforme alla CEDU di una fattispecie di reato, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, settembre 2017, pp. 146 ss.
[21] F. VIGANÒ, Ancora sull’indeterminatezza delle prescrizioni inerenti alle misure di prevenzione: la seconda sezione della Cassazione chiama in causa la Corte Costituzionale, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 10/2017, pp. 272 ss.
[22] È bene precisare, per completezza che, negli ordinamenti di civil law, come il nostro, non vige la regola dello stare decisis, in forza del quale l’Autorità Giudicante è obbligata a conformarsi alla decisione adottata in una precedente pronuncia, nel caso in cui la fattispecie portata al suo esame sia identica a quella già trattata nel caso in essa deciso. Ciò comporta che, i Giudici, essendo soggetti solo alla legge ed essendo liberi nella valutazione delle prove e degli argomenti di prova prodotti dalle parti in corso di causa, possano discostarsi da un precedente orientamento interpretativo. Un caso, invero, in cui sarebbero obbligati ad aderire al principio di diritto sotteso è previsto dall’articolo 627 cod. proc. pen., così formulato “Il giudice di rinvio si uniforma alla sentenza della Corte di Cassazione per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa.”
[23] Paradossalmente sarebbe questo il suggerimento offerto dal collegio della prima sezione penale in sede di rimessione. Questi, infatti, affermano che “il raggiungimento di un assetto applicativo rispettoso di determinati canoni, più in particolare di correlazione individualizzata tra la prescrizione imposta e la pericolosità manifestata dal soggetto nel rispetto del canone di proporzionalità delle limitazioni delle facoltà costituzionalmente protette, potrebbe essere estraneo ai contenuti di una mera operazione nomofilattica ma ciò non toglie che simile opzione vada rimessa alle valutazioni dell’organo di risoluzione del conflitto interpretativo”, p. 7. In altre parole, Il Collegio rimettente avverte una ipotesi di legittimità costituzionale ma lascia alle Sezioni Unite decidere se sia o meno opportuno interpellare la Corte Costituzionale.
[24] Va precisato che le Sezioni Unite Paternò avevano escluso che la violazione delle prescrizioni sottoposte alla loro attenzione potessero integrare il precetto penale ma le stesse, però, potevano rilevare in sede di aggravamento della misura, ex art. 11 comma 2 Codice Antimafia.
[25] Così Corte Cost., sent. 7-23 luglio 2010, n. 282, in Giur. cost., 2010, pp. 3535 ss., con nota di A. TESAURO, Corte costituzionale e sorveglianza speciale: una breve analisi filosofico-giuridica tra uguaglianza e ragionevolezza.
[26] F. VIGANÒ, Il diritto giurisprudenziale nella prospettiva della Corte costituzionale, in Sistema penale, 19 gennaio 2021, p. 2.
[27] E. ZUFFADA, Per le sezioni unite il divieto di partecipare a pubbliche riunioni imposto al sorvegliato speciale è da considerarsi limitato alle sole riunioni “in luogo pubblico”, cit., p. 7
[28] § 4.
La tutela risarcitoria negata: quando la colpa lievissima supera l’errata motivazione (nota a Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia Sezione Giurisdizionale, 7 aprile 2021, n. 295)
di Emanuela Concilio
Sommario: 1. La vicenda alla base dell’istanza risarcitoria – 2. Tutela risarcitoria da esercizio illegittimo della funzione e da ritardo provvedimentale. – 3. La decisione del C.G.A. – 4. Dalla dequotazione al depotenziamento della motivazione del provvedimento amministrativo. – 5. Considerazioni conclusive.
1. La vicenda
Con la pronuncia in esame il C.G.A. si è espresso sulla istanza risarcitoria avanzata da una società per i danni subiti come conseguenza di altro giudizio, a seguito del quale era stato annullato il provvedimento con cui la Commissione straordinaria del Comune di Bagheria aveva revocato alcuni Piani di lottizzazione precedentemente adottati.
La vicenda, sfociata nel giudizio di annullamento, principiava dalla approvazione da parte del Comune di Bagheria di alcuni Piani di lottizzazione - e delle relative convenzioni - conformi alle previsioni del PRG all’epoca vigente, ma che sarebbero poi risultate in contrasto con il nuovo piano regolatore adottato dallo stesso Comune due mesi dopo. Tale strumento urbanistico, infatti, prevedeva la inedificabilità dell’area oggetto della lottizzazione convenzionata in quanto destinata ad attrezzatura pubblica “F/2”, Aree sottostanti “parcheggi”.
A poca distanza temporale dalla adozione del nuovo piano regolatore, il Comune di Bagheria veniva sciolto per infiltrazioni mafiose e la Commissione straordinaria insediatasi disponeva la revoca in autotutela della deliberazione del Consiglio Comunale che aveva approvato contestualmente dieci piani di lottizzazione – unitamente ai relativi atti di convenzionamento – tra cui quello della società ricorrente. Il provvedimento di revoca teneva conto delle osservazioni contenute nella relazione del Ministero dell’Interno, pubblicata in G.U. in occasione dello scioglimento del Comune, ove si evidenziava la stretta “convergenza tra gli interessi delle organizzazioni criminali e l’amministrazione comunale di Bagheria”, evincibile peraltro nella circostanza che nonostante il nuovo piano fosse già in itinere fossero state rilasciate molte concessioni edilizie a soggetti risultanti direttamente o indirettamente legati alla malavita organizzata.
Avverso la delibera n. 268/1999, con la quale la Commissione straordinaria disponeva la revoca in autotutela dei piani di lottizzazione approvati, i destinatari di uno dei dieci piani di lottizzazione approvati proponevano ricorso con il quale lamentavano la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della L. n. 241/1990 per la mancata comunicazione di avvio del procedimento, nonché il vizio di eccesso di potere per difetto di motivazione ex art. 3 L. n. 241/1990.
Entrambe le censure venivano respinte dal Tar Palermo, Sez. III, che - con la sentenza n. 3022 del 15 maggio 2006 - precisava, in primo luogo, la non applicabilità agli atti pianificatori dell’art. 7 della L. n. 241/1990, in virtù di quanto disposto dall’art. 13 della medesima legge; e in secondo luogo, l’infondatezza dell’eccezione relativa al difetto di motivazione, sulla base del convincimento che “la repentina adozione di un rilevante numero di lottizzazioni proprio a ridosso del nuovo PRG fosse indice di comportamenti contrari a legge (in termini di eccesso di potere) posti in essere dell’amministrazione comunale”.
Avverso la sentenza del Tar Palermo, gli aventi causa a titolo particolare dai ricorrenti originari (in forza di contratto preliminare di vendita e acquirenti dell’immobile), proponevano appello dinanzi al C.G.A., il quale con pronuncia del 28 settembre 2007, n. 890, accoglieva l’appello e, per effetto ed in riforma della sentenza impugnata, annullava i provvedimenti di revoca delle lottizzazioni.
Alla base della decisione il convincimento (condiviso dagli stessi giudici anche in altra pronuncia avente ad oggetto una fattispecie analoga a quella esaminata) secondo cui il piano di lottizzazione era da considerarsi legittimo al momento della sua approvazione in quanto conforme al P.R.G. vigente all’epoca; infatti, il nuovo piano non era stato ancora nemmeno adottato. In particolare, il Consiglio di Giustizia Amministrativa precisava che fino alla approvazione del nuovo piano regolatore, il Comune non avrebbe potuto agire in autotutela su un PDL già approvato ed originariamente legittimo. Sul punto rilevava che gli “effetti anticipati” del PRG, ossia le misure di salvaguardia, potessero produrre effetti (quali ad esempio il diniego di concessioni difformi) solo dopo l’adozione del nuovo piano regolatore: prima di tale momento nessun effetto prodromico sarebbe stato ammissibile. Sicché solo dopo l’adozione del nuovo PRG il Comune avrebbe potuto applicare le misure di salvaguardia e non rilasciare ulteriori concessioni, sebbene conformi all’originaria pianificazione (al momento ancora vigente). Peraltro, secondo i giudici il decreto comunale di adozione del nuovo PRG risultava illegittimo in quanto sprovvisto di qualsiasi motivazione in ordine alle ragioni del cambio di destinazione dell’area, in spregio al principio di certezza del diritto e all’affidamento medio tempore ingenerato. Di qui, la piena soddisfazione degli interessi della ricorrente.
A distanza di quattro anni dalla suddetta pronuncia, la società ricorrente agiva in giudizio per chiedere la condanna dell’Amministrazione al risarcimento dei danni provocati dalla illegittima revoca del piano di lottizzazione. Il Tar Palermo, Sez. III, con sentenza 3 giugno 2017, n. 1474, respingeva il ricorso sulla base di due profili: la carenza della prova del danno subito dalla ricorrente dall’adozione del suddetto provvedimento poi ritenuto illegittimo e annullato in sede giurisdizionale; l’assenza dell’elemento soggettivo della colpa in capo all’Amministrazione Straordinaria del Comune di Bagheria al momento dell’adozione del provvedimento di revoca della concessione.
In particolare, quanto alla omessa prova del danno, il Tar precisava che la società ricorrente, acquistando una res controversa – con riguardo alla destinazione ed utilizzabilità ai fini edificatori del terreno acquistato – fosse ben consapevole dell’aleatorietà dell’investimento. Quanto poi alla prova dell’elemento soggettivo, gli stessi giudici ritenevano che, benché l’adozione di un atto illegittimo costituisca fattispecie astrattamente idonea ad integrare l’elemento oggettivo di un illecito aquiliano, ai fini dell’integrazione degli estremi del risarcimento dei danni, fosse necessario individuare l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, “che è evidentemente cosa diversa, ed ulteriore, rispetto all’illegittimità dell’atto, giudizialmente accertata”.
Avverso tale sentenza di rigetto, la società soccombente, proponeva appello dinanzi al C.G.A. al fine di chiedere la riforma della sentenza di primo grado adducendo la violazione degli artt. 1223 e 2043 c.c., nonché dell’art. 2-bis L. n. 241/1990, ritenendo che il giudice di prime cure avesse errato nel ritenere non provato il danno subito dall’adozione di un provvedimento illegittimo e non configurabile la colpa in capo alla Commissione straordinaria.
Il C.G.A.R.S. con la sentenza in commento rigettava le istanze della ricorrente ritenendo il ricorso infondato e non meritevole di accoglimento, per carenza degli elementi costitutivi della responsabilità da fatto illecito della P.A. In particolare, concordando con il giudice di primo grado, riteneva non provato il danno lamentato dalla società ricorrente e non configurabile la colpa dell’Amministrazione commissariale nella adozione degli atti di revoca delle convenzioni di lottizzazione, se non sotto il mero profilo della colpa lievissima - rintracciabile nella erronea motivazione del non giuridicamente rilevante.
2. Tutela risarcitoria da esercizio illegittimo della funzione e da ritardo provvedimentale
Come noto, l’acquisizione della risarcibilità degli interessi legittimi si deve alla sentenza delle SS.UU. della Cassazione 22 luglio 1999, n. 500 [1], ma già in precedenza la tutela risarcitoria veniva ammessa nei confronti del potere pubblico: in un primo momento solo in relazione a normative di carattere settoriale [2], successivamente con disposizioni a carattere generale, contenute nel decreto legislativo n. 80 del 1998 e nella legge n. 205 del 2000 [3].
Con l’avvento del codice del processo amministrativo, è stata definitivamente riconosciuta la possibilità di esperire una pluralità di azioni dinanzi al giudice amministrativo (che si emancipa dall’essere “figlio di un dio minore”) potendo affiancare alla classica azione caducatoria di annullamento, anche l’azione risarcitoria da illegittimo esercizio della azione, così accogliendo quanto già affermato della Corte costituzionale: in una logica eminentemente “rimediale”, l’azione di risarcimento del danno viene a costituire “strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione”, in quanto tale attribuito al “giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica”.[4]
La lettura del combinato disposto degli artt. 7 e 30 c.p.a. consente di ritenere attuata quella tutela piena ed effettiva che l’art. 1 del medesimo codice proclama, grazie alla concentrazione presso il giudice amministrativo di “ogni forma di tutela degli interessi legittimi” (art. 7, comma 7), e la devoluzione ad esso delle controversie “relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma” (art. 7, comma 4).
Viene quindi riconosciuta la possibilità di domandare “la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria” (art. 30, comma 2, c.p.a.), ammettendo tanto il “risarcimento per lesione di interessi legittimi” o “risarcimento di danni per lesioni di interessi legittimi” (art. 30, commi 3 e 6, c.p.a.), quanto il “risarcimento dell’eventuale danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento” (art. 30,comma 4, c.p.a.).
Pertanto, dalla formulazione letterale dell’art. 30 c.p.a. emerge in maniera chiara la volontà del legislatore di ammettere l’azione di condanna al risarcimento sia del danno da illegittimo esercizio dell’azione amministrativa, sia del cd. danno da ritardo, subordinandola tuttavia alla prova degli elementi costitutivi del danno ingiusto.
Benché la norma sia chiara nel configurare l’onere probatorio in capo al soggetto che si dichiara danneggiato, in passato si è ritenuto che la determinazione dell’ampiezza di tale onere dovesse dipendere direttamente dalla esatta qualificazione della responsabilità della p.a. nell’esercizio della funzione, ossia dalla tipologia di responsabilità da assumere come modello paradigmatico.
Per molto tempo, la questione ha visto contrapporsi diversi orientamenti: quello della responsabilità contrattuale, da contatto sociale qualificato, nonché quello della responsabilità extra contrattuale. In base ai prime due, ai fini probatori sarebbe stata sufficiente la dimostrazione dell’inadempimento (contrattuale o alle regole procedurali di correttezza e buona fede) e la prova della esistenza della situazione giuridica soggettiva (credito o interesse legittimo); quanto all’elemento soggettivo, essa avrebbe richiesto la semplice allegazione della illegittimità del provvedimento amministrativo, idoneo ad integrare una presunzione semplice in ordine alla colpa dell’amministrazione ex artt. 2727 e 2729 c.c., o del comportamento procedimentale tenuto dalla P.A., rilevante ai sensi dell’art. 1173 c.c. e degli artt. 1337 e 1338 c.c. [5]
Diversamente, l’orientamento volto ad accedere alla ricostruzione della responsabilità extra contrattuale richiedeva che fossero provati dal danneggiato tutti gli elementi costitutivi dell’art. 2043 c.c., soprattutto il danno e il nesso psicologico quanto meno della colpa. [6]
La tematica è stata recentemente approfondita dalla sentenza del C.G.A., Sez. giur., 15/12/2020, n. 1136, che ha rimesso al vaglio della Adunanza Plenaria proprio la questione della natura giuridica e del regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione. In particolare, il C.G.A., nel qualificare la responsabilità della p.a. come responsabilità contrattuale ha ritenuto che la violazione di una norma procedimentale (regola di condotta) sia di per sé lesiva dell’interesse legittimo e sufficiente a determinare la responsabilità dell’amministrazione (così discostandosi dall’orientamento fornito dalle SS.UU. Cassazione con la sentenza n. 500/1999). Con la conseguenza che, secondo i giudici remittenti, gli effetti dell’inquadramento della responsabilità della p.a. nel paradigma contrattuale debbano apprezzarsi “in relazione al rapporto di diritto pubblico sotteso alla nascita della obbligazione risarcitoria”. [7]
Il contrasto giurisprudenziale può dirsi ormai superato con la sentenza della Adunanza Plenaria 23/4/2021, n. 7, la quale – aderendo all’orientamento maggioritario – ha considerato maturi i tempi per qualificare la responsabilità della p.a. per l’esercizio delle sue funzioni come responsabilità da illecito extracontrattuale secondo il modello dell’art. 2043 c.c.,“sia pure con gli inevitabili adattamenti richiesti dalla sua collocazione ordinamentale nei rapporti intersoggettivi”.
Come evidenziato in quella sede, la responsabilità contrattuale di cui all’art. 1218 c.c., fondandosi sull’inadempimento della prestazione derivante da contratto, mal si attaglia alla P.A. che nell’esercizio delle sue funzioni persegue l’interesse pubblico individuato dalla norma. Norma che costituisce fonte di attribuzione di quel potere, rispetto al quale il contrapposto interesse legittimo del privato non è idoneo a configurare in capo all’amministrazione un obbligo giuridico rapportabile a quello che caratterizza le relazioni giuridiche di diritto privato, trattandosi piuttosto di “un potere attribuito dalla legge, che va esercitato in conformità alla stessa e ai canoni di corretto uso del potere individuati dalla giurisprudenza”.
Parimenti, alla luce del rapporto non esattamente paritario tra p.a. e privato, è da escludersi l’ammissibilità dell’indirizzo volto a configurare la responsabilità della amministrazione come da “contatto sociale” qualificato, in quanto il rapporto amministrativo sarebbe in ogni caso da configurarsi in termini di “supremazia”, caratterizzato “da un’asimmetria che mal si concilia con le teorie sul “contatto sociale” che si fondano sulla relazione paritaria”.
Conseguentemente, l’Adunanza Plenaria ha qualificato la responsabilità nascente dall’esercizio illegittimo della funzione come da fatto illecito ex art. 2043 c.c., che si compone di: elemento oggettivo (il fatto illecito e danno ingiusto); elemento soggettivo (il dolo o la colpa); nesso eziologico. Requisiti che, a seguito del superamento della concezione della responsabilità della p.a. come culpa in re ipsa [8], abbisognano di essere adeguatamente provati dal soggetto danneggiato, venendo in rilievo non il mero danno-evento, bensì il danno-conseguenza idoneo ad incidere negativamente sulla sfera giuridica del titolare di un interesse legittimo. Prova che necessita di essere fornita ai fini della stessa determinazione dell’ammontare del risarcimento - nelle due voci di danno di cui si compone l’art. 1223 c.c., ossia il danno emergente ed il lucro cessante – ad opera del giudice, anche attraverso una pronuncia in via equitativa.[9]
Pertanto, elemento centrale nella fattispecie di responsabilità ex art. 2043 c.c. è l’ingiustizia del danno, da dimostrare in giudizio. [10] Applicando tale principio al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, di cui al sopra citato art. 7, comma 4, c.p.a, il requisito dell’ingiustizia del danno implica che il risarcimento potrà essere riconosciuto nelle ipotesi in cui l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita che il privato avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere, secondo la dicotomia interessi legittimi oppositivi e pretensivi. “Infatti, il rapporto amministrativo si caratterizza per l’esercizio unilaterale del potere nell’interesse pubblico, idoneo, se difforme dal paradigma legale e in presenza degli altri elementi costitutivi dell’illecito, a ingenerare la responsabilità aquiliana dell’amministrazione”. [11]
Ciò opera non solo in relazione al danno per illegittimo esercizio della funzione, ma anche in relazione al danno da ritardo, rispetto al quale l’ingiustizia del danno esige la dimostrazione che il superamento del termine di legge abbia impedito al privato di ottenere il provvedimento ampliativo favorevole, per il quale aveva presentato istanza. [12]
Peraltro, qualificare la responsabilità della p.a. come da illecito extra-contrattuale implica anche la possibilità di valutare, nell’esame della domanda di risarcimento dei danni da illegittimo o mancato esercizio della funzione pubblica, la condotta del privato ai sensi dell’art. 2056 c.c., espressione di un onere di cooperazione riconducibile all’art. 1227 c.c. In particolare, secondo lo schema della causalità giuridica ex art. 1227, co. 2 c.c., il risarcimento “non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”. [13]
Tale possibilità può essere letta alla luce della evoluzione che nel tempo hanno assunto i rapporti tra amministrazione e privato, “in termini di partecipazione per quest’ultimo e di attenuazione della posizione di supremazia dell’amministrazione nell’esercizio della funzione”. [14]
3. La decisione del C.G.A.
La decisione del Consiglio di Giustizia Amministrativa in commento aderisce all’orientamento giurisprudenziale che ricostruisce il risarcimento del danno invocato nei confronti della P.A. sulla base del modello della responsabilità aquiliana, la quale richiede - oltre alla prova della colpevolezza del soggetto che si ritiene abbia prodotto il danno ingiusto - anche la prova del danno e della buona fede e dell’uso dell’ordinaria diligenza da parte del soggetto che ritiene di aver subito un torto.
Con riguardo a tale ultimo aspetto, i Giudici amministrativi hanno escluso che la società ricorrente avesse agito in buona fede e con l’uso dell’ordinaria diligenza in virtù della consapevolezza della aleatorietà della operazione edificatoria derivante dall’acquisto di una res litigiosa dalle incerte proprietà edificatorie. Invero, il C.G.A. ha evidenziato come la società ricorrente fosse subentrata nei diritti e nelle facoltà concernenti il diritto di proprietà sul fondo destinato a realizzare il progetto edificatorio, in virtù di un contratto preliminare di acquisto stipulato in epoca successiva all’atto di revoca del piano di lottizzazione e della relativa convenzione (e probabilmente tali circostanze - per i Giudici - hanno inciso anche sulla definizione del prezzo pattuito per la compravendita). Sicché, essendo la società ben a conoscenza della assenza di un titolo edificatorio valido e della presenza di una controversia pendente concernente proprio le potenzialità edificatorie del fondo, non poteva seriamente ritenersi che l’acquirente vantasse un incolpevole affidamento in ordine alla possibilità di realizzare il progetto, nonché in relazione ai tempi di realizzazione dello stesso.
In particolare, sotto questo ultimo profilo, il Collegio ha ritenuto infondata l’imputazione del ritardo nell’esercizio delle facoltà edificatorie in capo alla P.A., laddove la sequenza procedimentale – post sentenza del C.G.A.R.S. n. 890/2007, che dichiarava illegittimi i provvedimenti di revoca dei piani e relative convenzioni di lottizzazione – evidenziava la tempestività con la quale il Comune di Bagheria: a) adottava e approvava la variante urbanistica richiesta dalla società ricorrente per consentire il ripristino del diritto edificatorio dell’area secondo il progetto di lottizzazione (con definitiva conversione dell’area da zona F2 a zona B4); b) autorizzava la ditta, in virtù della convenzione di lottizzazione stipulata, ad eseguire le opere di urbanizzazione primaria, alle quali faceva seguito, senza alcun ritardo o inerzia, la stipula dell’atto di cessione al Comune di Bagheria, con conseguente rilascio delle concessione.
Conseguentemente i Giudici hanno rilevato che, superate le individuate criticità, il Comune non fosse stato inerte né avesse accumulato ingiustificabili ritardi, con la relativa inconfigurabilità del danno, la cui prova peraltro avrebbe richiesto di essere puntuale e rigorosa. Infatti, come precisato dallo stesso C.G.A.R.S., Sez. Giur., con sentenza 15/10/2020, n. 914, l’esistenza del danno ingiusto lamentato in giudizio “forma oggetto di un puntuale onere probatorio in capo al soggetto che ne richieda il risarcimento, non costituendo quest’ultimo una conseguenza automatica dell’annullamento giurisdizionale dell’atto amministrativo illegittimo. In proposito non soccorre, infatti, il metodo acquisitivo; né l’esistenza del danno stesso potrebbe essere presunta quale conseguenza dell’illegittimità provvedimentale in cui l’Amministrazione è incorsa”.
Nel caso in esame, il suddetto onere probatorio non sarebbe stato soddisfatto. Infatti, il C.G.A. ha evidenziato come le due perizie giurate depositate dalla ricorrente (l’una volta a calcolare il danno asseritamente subito per effetto della illegittima revoca del piano di lottizzazione e l’altra volta a calcolare il mancato guadagno da reinvestimento della somma) fossero in realtà prive di una base documentale idonea a supportare le istanze risarcitorie della ricorrente. La prima, mancando finanche dell’indicazione del prezzo di acquisto del terreno, non avrebbe consentito di stabilire se il danno fosse derivato dal maggior costo sostenuto dalla società per la realizzazione del progetto, oppure fosse conseguenza del calo dei prezzi di vendita dovuto alla crisi del mercato immobiliare. La seconda, in quanto strettamente connessa alla prima – essendo destinata a calcolare l’ulteriore perdita commisurata alla mancata percezione degli interessi sulle somme precedentemente indicate – veniva ritenuta inutilizzabile.
Per tali ragioni, il Collegio giudicante ha escluso anche di poter valutare il lamentato danno in via equitativa, mancando dati certi sui quali fondare la valutazione.
Individuati i motivi di fatto e di diritto alla base della pronuncia di rigetto delle istanze risarcitorie avanzate dalla ricorrente – attinenti alla mancata prova del danno e della buona fede e diligenza del “danneggiato” – il Consiglio di Giustizia si è soffermato sull’ulteriore elemento costitutivo della responsabilità, l’elemento soggettivo della colpa.
In particolare, il C.G.A.R.S. ha ritenuto di doversi pronunciare sulla questione della colpa eventualmente attribuibile al Comune per l’illegittima revoca del piano di lottizzazione, sulla base di una considerazione: consapevole della circostanza che la sentenza del C.G.A. n. 890 del 28/9/2007 avesse affermato in via definitiva la illegittimità del provvedimento di revoca richiamato e del fatto che lo stesso Collegio giudicante, in esito ad altre identiche controversie scaturenti dalla medesima delibera commissariale n. 268/1999, avesse riconosciuto il risarcimento dei danni in favore delle parti che lamentavano la illegittima revoca del piano di lottizzazione (cfr. C.G.A. 17 luglio 2015, nn. 557, 558, 559, 560, 561) [15], affermava che né la prima sentenza, né le seconde potessero precludere “una differente pronunzia di merito in ordine alla colpevolezza della Amministrazione”.
In altri termini, quelle pronunce, pur affermando (implicitamente o presuntivamente) la colpa della P.A. per avere questa illegittimamente revocato i piani di lottizzazione, non avrebbero precluso al giudice di analizzare la “questione dell’elemento soggettivo” ed emettere un diverso pronunciamento in quanto, da un lato, le sentenze che avevano definito precedenti analoghi riguardavano parti diverse dalla appellante; dall’altro lato, la sentenza n. 890/2007 non aveva specificamente affrontato la questione delle colpa della Amministrazione trattandosi di un giudizio di annullamento “per violazione di legge” afferente l’illegittimità della delibera commissariale di revoca, in quanto tale non implicante alcun esame della colpa della P.A. (in altri termini, in quel giudizio, i giudici si erano limitati ad accertare un uso errato delle norme regionali e nazionali in tema di “misure di salvaguardia”, laddove l’amministrazione avrebbe preteso di applicarle anche prima della formale adozione dello strumento urbanistico).
Si trattava pertanto di una questione non assorbita nel giudicato, non operando in sede di giurisdizione generale di legittimità la regola secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile.
Ma spingendosi anche oltre, i Giudici hanno affermato che dalla richiamata sentenza n. 890/2017 non sarebbe neanche stato possibile desumere elementi relativi alla legittimità/illegittimità dei piani di lottizzazione oggetto di contestazione, nella misura in cui affermare la illegittimità di un provvedimento di revoca di un atto amministrativo non implicherebbe affatto affermare automaticamente (o implicitamente) la legittimità dell’atto revocato (ossia della delibera di approvazione del piano di lottizzazione), né tantomeno equivarrebbe ad affermare la colpevolezza del Commissario straordinario che abbia proceduto a revocare la suddetta delibera.
Fatte tali precisazioni, il C.G.A. – nel ripercorrere i fatti di causa – ha ritenuto di non poter configurare elementi di colpevolezza in capo al Commissario, il quale – durante le attività di verifica dell’azione amministrativa compiuta dal Comune ante scioglimento – aveva appreso che l’ordine di discussione dell’adozione del nuovo PRG e dell’approvazione dei piani di lottizzazione era stato appositamente invertito al fine di far precedere l’approvazione di questi ultimi. Pertanto, essendo la condotta del Commissario straordinario volta esclusivamente a ripristinare una situazione di legalità violata, i Giudici hanno ritenuto di poter parlare di una colpa per così dire lievissima, in quanto tale giuridicamente irrilevante, consistente nell’avere l’amministrazione erroneamente motivato il provvedimento di revoca: invero, non avrebbe dovuto “giustificare” quel provvedimento sulla base della applicazione delle misure di salvaguardia, quanto piuttosto sulla base del vizio di eccesso di potere, evidente nell’uso deviato del potere pubblico finalizzato alla tutela di interessi persino illeciti.
Pertanto, secondo i Giudici, pur essendo legittima la decisione giurisdizionale del C.G.A. di annullare il provvedimento di revoca perché viziato, il difetto di motivazione non sarebbe stato tale da incidere sulla “correttezza” dell’operato della Commissione straordinaria, mossa dalla necessità di ripristinare una situazione di legalità violata. Ripristino di una situazione di legalità idonea, quindi, a depotenziare il vizio di motivazione e, conseguentemente, a svilire il diritto della ricorrente al risarcimento del danno.
4. Dalla dequotazione al depotenziamento della motivazione del provvedimento amministrativo
Alla luce delle conclusioni appena richiamate, appare utile soffermarsi brevemente sul ruolo assunto dalla motivazione del provvedimento, dato che è dato talvolta assistere ad un processo di svuotamento dell’obbligo generalizzato di motivazione, facendosi strada l’idea che “ciò che conta è la decisione, mentre tutto il resto è sacrificabile sull’altare delle istanze efficientiste”. Si parla in tal caso di un processo di “depotenziamento” della motivazione, che si contrappone alla teoria della “dequotazione” dei vizi formali del provvedimento. [16]
Invero, la teoria della dequotazione della motivazione del provvedimento nasceva in epoca storica anteriore alla l. n. 241/1990, quando, in totale assenza di direttive legislative, dottrina e giurisprudenza, mosse da ragioni garantiste, ponevano la propria attenzione sul provvedimento finale piuttosto che sull’intero iter procedimentale nel corso del quale era stata esercitata la funzione pubblica. Il depotenziamento della motivazione, invece, esprime un fenomeno di svuotamento del dettato normativo dell’art. 3 della l. n. 241/1990, con importanti ripercussioni sul piano delle garanzie e con il rischio di un ritorno ad un passato di scarsa trasparenza decisionale. [17]
Come noto, l’art. 3, l. n. 241/90, oltre a stabilire l’obbligo generalizzato di motivazione dei provvedimenti amministrativi, ne precisa anche il contenuto prevedendo che la motivazione debba contenere i “presupposti di fatto” e le “ragioni giuridiche” [18] fondanti la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria procedimentale (comma 2). La norma, pertanto, richiede che vengano indicate le “ragioni sostanziali” che, nella prospettiva del rapporto tra fatto e diritto, sorreggono la scelta dell'amministrazione. Con la conseguenza che, in caso di omissione di tale elemento, è ipotizzabile una violazione dell'art. 3, l. n. 241/1990 per vizio di eccesso di potere sotto il profilo del difetto di motivazione o dei presupposti.
Ne consegue che la motivazione non costituisce un adempimento di validità solo formale, dato che attraverso di essa emergono “le diverse facce della giustiziabilità, della trasparenza, della democraticità, della efficienza, della economicità etc. nell'esercizio del potere”. [19] Infatti la motivazione del provvedimento assolve molteplici funzioni: quella di rendere più “trasparente” l'attività amministrativa; quella di facilitare l'interpretazione del provvedimento ed il controllo del medesimo sia in sede amministrativa che giurisdizionale; quella di rendere più efficace la tutela del privato avente titolo ad ottenere un corretto esercizio del potere amministrativo.
Prima dell’entrata in vigore della legge n. 241/1990 [20], l’elaborazione dottrinale nel corso del tempo aveva cercato di sopperire alla lacuna normativa principiando da una concezione formale fino ad approdare ad una sostanziale, con conseguenze del tutto diverse in ordine al requisito di sufficienza della medesima. Mentre per la prima teoria poteva ritenersi sufficiente la motivazione espressa attraverso un’articolata enunciazione idonea ad illustrare compiutamente l'intero iter logico seguito dall'amministrazione, con conseguente inammissibilità di un’integrazione postuma, per la seconda, la sufficienza della motivazione era data dalla presenza di tutto il materiale giustificativo sul quale poggiava la soluzione accolta, con la possibilità anche di integrazione postuma. [21]
Tuttavia, già nella fase originaria di maggiore formalismo [22], dottrina e giurisprudenza avevano ritenuto che la motivazione costituisse un limite alla conoscenza dell'atto da parte del giudice, sostenendosi che “ciò che non fosse in motivazione non fosse nel provvedimento”. Ne derivava che, annullato l'atto per motivazione insufficiente o viziata in una sua parte, l'amministrazione potesse riadottare l'atto con motivazione formalmente sufficiente o corretta, con ciò determinando spesso un sostanziale diniego di giustizia. [23]
Sulla base di queste criticità, prese piede una corrente tesa a ricondurre la tematica della motivazione a caratteri più propriamente sostanziali. Conseguentemente non si richiedeva più che la enunciazione dei motivi corrispondesse alle intenzioni dell'agente, quanto piuttosto che sussistessero effettivamente ragioni sufficienti a legittimare il provvedimento, pervenendosi così ad una dequotazione della motivazione formale. Tuttavia, anche la teoria favorevole alla dequotazione della motivazione formale o enunciativa non mancava di evidenziare le conseguenze negative di tale tendenza nei confronti del privato che, posto in condizione di inferiorità nel rapporto con l'amministrazione, si sarebbe trovato nella difficoltà di accedere ai reali motivi fondanti la decisione. [24]
Del resto, recentemente è stata segnalata un'opera sistematica di “ridimensionamento della motivazione” da parte del giudice amministrativo [25] e tale tendenza sarebbe riscontrabile anche nella giurisprudenza della Corte costituzionale che se, da un lato, ha affermato che la motivazione del provvedimento amministrativo costituisce “il presupposto, il fondamento, il baricentro e l'essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo (…) e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile” [26], dall’altro, ha ritenuto necessario coordinare l'art. 3 l. n. 241/1990 con i criteri d'economicità e d'efficacia, sembrando in tal modo ridurre il contenuto dispositivo della norma citata, nella misura in cui ne ammette il bilanciamento. [27]
5. Considerazioni conclusive
La decisione del Consiglio di Giustizia Amministrativa in commento si caratterizza per l’originalità delle conclusioni cui giunge in ordine alla configurabilità della colpa della P.A. in presenza di un provvedimento giuridicamente illegittimo, ma necessario per ripristinare lo stato di legalità violata.
Nel qualificare la responsabilità amministrativa come da fatto illecito, i Giudici si soffermano, in particolare, sull’analisi degli elementi costitutivi la responsabilità extracontrattuale.
Quanto all’elemento del danno, essi evidenziano la sostanziale mancanza di prova fornita a supporto dal danneggiato, stante la inidoneità della documentazione tecnica a provare sia il danno emergente che il lucro cessante, nonché a consentire al giudice di giungere ad una valutazione equitativa. Ed inoltre essi sottolineano la presenza di rilevanti profili di assenza di diligenza nella condotta del danneggiato, resosi consapevolmente protagonista di una vicenda dalle palesi criticità.
Quanto all’elemento della colpevolezza, il ragionamento del Collegio è piuttosto peculiare, nella misura in cui vengono fatti salvi gli effetti del provvedimento e viene ritenuto giuridicamente irrilevante l’accertato “errore” del Commissario straordinario nel motivare l’atto di revoca, considerando i due aspetti del tutto autonomi ed indipendenti tra loro. In altri termini, il C.G.A. sminuisce il vizio dell’erronea motivazione ai fini della configurabilità della responsabilità in capo alla amministrazione, così depotenziando la rilevanza della motivazione.
In particolare, i Giudici individuano la ragione – in punto di diritto – che ha portato la commissione straordinaria ad annullare i piani di lottizzazione già approvati (da parte di un organo che sarebbe stato a breve ritenuto permeato da infiltrazioni mafiose) non nella dichiarata inapplicabilità delle misure di salvaguardia (applicabili solo a seguito dell’adozione di un p.r.g. che al momento dell’approvazione delle lottizzazioni il p.r.g. non era ancora stato adottato), ma nel rilievo della contraddittorietà complessiva del comportamento del consiglio comunale che, poche settimane prima di adottare il nuovo p.r.g., (di cui allora esisteva già uno schema ben definito), aveva approvato una serie di strumenti urbanistici attuativi del precedente p.r.g., che di fatto vanificavano le nuove adottande prescrizioni urbanistiche, dato che la zona di territorio interessata sarebbe diventata inedificabile. Comportamento che, pur astrattamente idoneo ad essere valutato in termini di eccesso di potere, non ha impedito ai Giudici di rinvenire nelle determinazioni adottate un fondamento, “quanto meno logico”, rispetto al contesto ordinamentale nel quale si inserivano, tale da escludere che le stesse siano state adottate con imperizia o superficialità, e quindi che, in ultima analisi, il comportamento di chi le ha adottate integri gli estremi della colpa.
Una colpa giuridicamente rilevante, pertanto, viene esclusa in quanto - pur ritenendo legittimo l’annullamento dell’atto di revoca per i motivi evidenziati - si considera “giustificabile” l’operato della Commissione Straordinaria in quanto volta a ripristinare lo stato di legalità violata.
In tal modo, il difetto di una congrua motivazione perde quota e la razionalità del diritto cede il passo a superiori esigenze di legalità, sembrando accedere quasi ad una “motivazione” basata sui soli presupposti di fatto, ossia sulla realtà fattuale caratterizzata dalla sovversione delle regole giuridiche.
É come se le ragioni pratiche di un particolare modo di intendere il principio di buon andamento e il principio di efficienza (anche della giustizia) avessero la meglio sulle molteplici istanze alla base dell'obbligo di motivazione, prima tra tutte la funzione di garanzia e di trasparenza. [28]
La sentenza in commento impone pertanto, una riflessione, venendosi a delineare la figura di un giudice che si sostituisce alla pubblica amministrazione, che fornisce egli stesso la motivazione del provvedimento, in tal modo sovvertendo il principio di legalità in vista di ragioni di “giustizia sociale”.
Il depotenziamento della motivazione finisce così con il tradursi in un ampliamento dei poteri del giudice di sindacare l'azione amministrativa; un giudice che afferma sempre più la propria intenzione di non dare spazio a censure “che appaiano ininfluenti sia rispetto al risultato sostanziale che si intende raggiungere, sia rispetto alla messa in discussione del risultato che si vuole eliminare”. [28]
Note
[1] La letteratura a commento della sentenza n. 500/1999 è vastissima. Tra i tanti si ricordano gli scritti di: F.G. Scoca, Risarcibilità e interesse legittimo, in Dir. Pubbl., 2000, fasc. 1; F. G. Scoca, Divagazioni su giurisdizione e azione risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 2008, 6 ss. secondo il quale la sentenza n. 500 del 1999 finisce in realtà per negare ciò che afferma, ovvero la risarcibilità dell’interesse legittimo, in quanto ammettere il risarcimento del danno solo quando la violazione della regola di condotta comporta il pregiudizio al c.d. bene della vita, significa considerare risarcibile non l’interesse legittimo in sé, bensì il diritto estinto dal provvedimento negativo, ed eventualmente riemerso dopo l’annullamento o la aspettativa del cittadino preesistente al provvedimento di diniego; F. G. Scoca, L’interesse legittimo, Storia e teoria, Torino, 2017, 301; G. Soricelli, Appunti su una svolta epocale in merito ad un’interpretazione costituzionalmente orientata sulla pari dignità tra diritto soggettivo ed interesse legittimo: una decisione a futura memoria, in Il Foro Amm., 2000, fasc. 2, I; E. Vincenti, La sentenza n.500/99 fra vecchie e nuove categorie nella materia risarcitoria, pubblicato il 23 dicembre del 2019, rispetto alla relazione svolta al Convegno organizzato dall’Ufficio studi e massimario della Giustizia amministrativa “A 20 anni dalla sentenza n. 500/1999: attività amministrativa e risarcimento del danno”, tenutosi a Roma, 16 dicembre 2019. Da ultimo, sul punto cfr. F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in questa rivista.
[2] In particolare, nelle procedure di affidamento di contratti pubblici (art. 13 della legge 19 febbraio 1992, n. 142) e in materia edilizia, per il danno da ritardato rilascio del titolo a costruire (art. 4 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 398, convertito in legge 4 dicembre 1993, n. 493, come successivamente modificato).
[3] Cfr. Corte costituzionale, ordinanza n.165 del 1998, e più in generale, l’art. 35, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, con il quale è stata introdotta la regola per cui, nelle materie dell’urbanistica, dell’edilizia e dei servizi pubblici -in cui ha giurisdizione esclusiva- il giudice amministrativo “dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto”. L’articolo 7, comma 4, della legge n. 205 del 2000 ha poi previsto la risarcibilità del danno in ogni caso di lesione arrecata all’interesse legittimo.
[4] Corte costituzionale, 26 luglio 2004, n. 204; Corte costituzionale, 11 maggio 2006, n. 191.
[5] Cfr. Corte di Cassazione, 12 luglio 2016, n. 14188, secondo la quale la responsabilità precontrattuale della P.A, non avrebbe natura extracontrattuale ma dovrebbe correttamente inquadrarsi nella responsabilità di tipo contrattuale da "contatto sociale qualificato", inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ai sensi dell'art. 1173 c.c.; Cons. St., Sez. VI, 633/2013, secondo il quale la responsabilità precontrattuale è una responsabilità da comportamento, non da provvedimento, che incide non sull’interesse legittimo pretensivo all’aggiudicazione, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza.
[6] Già Cassazione, SS.UU. 22 luglio 1999, n. 500.
[7] Sul punto, cfr. M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’adunanza plenaria (nota a Consiglio di giustizia amministrativa, sez. giur., 15 dicembre 2020, n. 1136), in questa rivista.
[8] Già Cass., Sez. Un., 22 maggio 1984, n. 5361: “la colpa della P.A. sussiste in re ipsa nella stessa illegittimità processualmente accertata dell’atto amministrativo, essendo già di per sé ravvisabile con l’adozione (necessariamente volontaria) del provvedimento illegittimo e con la sua esecuzione, indipendentemente dalla natura del vizio che invalida il provvedimento”.
[9] Il danno emergente consiste in un decremento patrimoniale avvenuto; il lucro cessante invece esprime un possibile (rectius: probabile) incremento patrimoniale, assumendo pertanto natura ipotetica richiedente un giudizio di verosimiglianza (rectius: di probabilità): occorre stabilire se, in assenza del fatto ingiusto altrui, il guadagno futuro e solo ipoteticamente prevedibile si sarebbe concretizzato con ragionevole grado di probabilità.
[10] Diversamente da quanto avviene per la responsabilità da inadempimento contrattuale, in cui, la valutazione sull’ingiustizia del danno è assorbita dalla violazione della regola contrattuale.
[11] Cfr. Ad Plenaria n. 7/2021.
[12] Secondo la recente giurisprudenza in tema di danno da ritardo, il bene “tempo” è risarcibile solo se e nella misura in cui tale lesione abbia determinato un “danno ingiusto”. Cfr. Cons. Stato, II, 21 dicembre 2020, n. 8199, 25 maggio 2020, n. 3318; III, 2novembre 2020, n. 6755; IV, 8 marzo 2021, nn. 1921 e 1923, 1 dicembre2020, n. 7622, 20 ottobre 2020, n. 6351, 22 luglio 2020, n. 4669; V, 2 aprile2020, n. 2210; VI, 15 febbraio 2021, n. 1354, 26 marzo 2020, n. 2121.
[13] L’art. 1227, comma 2, cod. civ. rileva nella determinazione del danno, in combinato disposto con l’art. 1223 c.c. che costituisce uno dei criteri in base al quale “selezionare” le conseguenze risarcibili, dopo che si sia positivamente accertata la ingiusta lesione di un interesse giuridico meritevole di tutela in termini di conseguenza immediata e diretta della condotta (l’Ad. Pl. n. 7/2021 evidenzia la differenza con la responsabilità contrattuale, nella quale il requisito dell’ingiustizia risulta conseguenza in re ipsa dell’inadempimento, mentre costituisce co-elemento di struttura dell’illecito nella responsabilità aquiliana).
[14] In termini Ad. Pl. n. 7/2021. Peraltro in linea con le recenti acquisizioni legislative e giurisprudenziali in tema di accesso generalizzato ai documenti e alle informazioni detenute dalla p.a. Il riferimento, in particolare, è alla Ad. Pl. n. 10/2020 che, proprio in virtù dell’evoluzione del pensiero sui rapporti tra p.a. e privato e sulla base di una interpretazione estensiva dell’art. 5-bis, d. lgs. 50/2016, ammette l’operatività dell’accesso civico generalizzato anche nella materia degli appalti.
[15] Anche se nelle altre controversie costituenti precedenti analoghi in quanto scaturenti dalla medesima delibera commissariale n. 268/1999, le decisioni del Consiglio di Giustizia Amministrativa si fondavano sulla base della consulenza tecnica di ufficio che convertiva il risarcimento del danno in danno da ritardo.
[16] Sull'importanza della motivazione del provvedimento amministrativo e per una lettura critica delle recenti tendenze nel senso della dequotazione dell'istituto, cfr M. Ramajoli, Il declino della decisione motivata, in Diritto processuale amministrativo, 2017, 894 ss.
[17] Cfr. F. Cammeo, Gli atti amministrativi e l'obbligo di motivazione, cit. secondo il quale l’obbligo di motivazione “Importerebbe difficoltà, impacci, lentezze insormontabili, le quali sarebbero ben più disastrose per il pubblico, per l'inconveniente di qualche provvedimento non motivato”.
[18] G. Corso, Motivazione dell'atto amministrativo, in Enc. dir., Agg., Milano, Giuffrè, 2001, 774 ss. ritiene le ragioni giuridiche sono quelle che “il diritto richiede di, o autorizza a, porre a fondamento della decisione amministrativa”; G. Bergonzini, Difetto di motivazione del provvedimento amministrativo ed eccesso di potere (a dieci anni dalla legge n. 241 del 1990), in Dir. amm., 2000, 187; T. Tessaro, Profili evolutivi (o involutivi?) nella tematica della motivazione degli atti amministrativi, in Riv. amm., 1996, 357, ritiene che esse consistano nella “sintetica enunciazione delle norme che contemplano il potere stesso”; A. Romano Tassone, Legge sul procedimento e motivazione del provvedimento amministrativo. Prime osservazioni, in Scritti in onore di Pietro Virga, II, Milano, 1994, 1600, afferma, invece, che le ragioni giuridiche consistono “nell’indicazione delle norme che la p.a. procedente ritiene applicabili al caso e comprendono anche l'interpretazione dottrinale e giurisprudenziale delle norme applicate di specie, e quindi nella qualificazione giuridica che, per il loro tramite, si dà al fatto, c.d. ragioni giuridiche in senso stretto”.
[19] A. Andreani, Idee per un saggio sulla motivazione obbligatoria dei provvedimenti amministrativi, in Dir. proc. amm., 1/1993, 19.
[20] Il principio dell'obbligo di motivazione non è mai stato costituzionalizzato con riguardo ai provvedimenti amministrativi (a differenza di quanto sancito dall’ all’art. 111, co. 1 della Costituzione per le sentenze), né - prima della legge n. 241/1990 - è mai esistita nel nostro ordinamento, una prescrizione legislativa di carattere generale che imponesse per questi tale obbligo.
[21] Cfr. M.S. Giannini, Motivazione dell'atto amministrativo, in Enc. dir., XXVII, Milano 1977, 267; L. Cimellaro, La motivazione del provvedimento amministrativo. Una rassegna della dottrina e della giurisprudenza di ieri e di oggi, inDir. amm., fasc.3, 1995, 441, la quale evidenzia che: “Mentre dunque la tendenza formalistica aveva identificato la motivazione in un discorso, ossia in un complesso organico di segni linguistici dotato di un significato proprio, le dottrine di ispirazione sostanzialista dimostravano l'intento di svalutare l'elemento discorsivo per porre l'accento sul valore di un materiale motivante di carattere eterogeneo, potendo essere costituito da discorsi, fatti, norme e quant'altro potesse dar ragione della decisione assunta, in sede di sindacato giurisdizionale”.
[22] Cfr. F. Cammeo, Gli atti amministrativi e l'obbligo di motivazione, in Giur. it., 1908, III, 253 ss. dove i motivi dell'atto vengono considerati risultato dell'intuito dei buoni funzionari. La concezione formale concepiva la motivazione come tratto discorsivo volto ad enunciare i motivi che determinano l'agente, intesi come le immediate fonti psicologico-subiettive della volontà provvedimentale. In base a tale concezione dell'attività amministrativa, si distingueva – nell’ambito dei fattori determinanti la volontà dell'autorità agente – tra i presupposti e i motivi: gli uni, elementi immanenti alla natura dell'atto e da esso inseparabili «tanto che il tipo giuridico a cui l'atto corrisponde non si potrebbe concepire senza la presupposizione loro»; i secondi, moventi soggettivi del provvedimento.
[23] L. Cimellaro, La motivazione del provvedimento amministrativo. Una rassegna della dottrina e della giurisprudenza di ieri e di oggi, cit.
[24] M.S. Giannini, Motivazione dell'atto amministrativo, in Enc. dir., XXVII, Milano 1977, 265.
[25] M. Del Donno, Riflessioni sulla «motivazione in diritto» del provvedimento amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., fasc.3, 2013, 629.
[26] Corte cost., 26 maggio 2015, n. 92. L'espressione era già stata impiegata da Cons. Stato, Sez. III, 30 aprile 2004, n. 2247.
[27] Corte cost., 8 giugno 2011, n. 175. Cfr. M. Ramajoli, Il declino della decisione motivata, cit.
[28] M. Ramajoli, Il declino della decisione motivata, cit.
[29] L. Iannotta, La considerazione del risultato nel giudizio amministrativo: dall'interesse legittimo al buon diritto, in Dir. proc. amm., 1998, 299 ss.
Autorizzazione paesaggistica e silenzio assenso tra P.A.: un connubio (im)possibile? competenze procedimentali e portata applicativa dell’art. 17 bis l. n. 241/1990 (nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, 29 marzo 2021, n. 2640)
di Gianluigi Delle Cave
Sommario: 1. La vicenda – 2. La disciplina di dettaglio: l’autorizzazione paesaggistica – 2.1. (segue) In particolare sull’intervento della Soprintendenza – 3. Analisi critica delle motivazioni della sentenza del Consiglio di Stato: sul ruolo del parere della Soprintendenza – 3.1. (segue) Sull’applicabilità del silenzio assenso ex art. 17 bis l. n. 241/1990 – 3.2. (segue) Sul perimetro applicativo dell’art. 14 ter della l. n. 241/1990 – 4. Conclusioni.
1. La vicenda
Con un’articolata e densa pronuncia[1], il Consiglio di Stato ha evidenziato e ulteriormente chiarito alcuni delicati aspetti relativi al procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004 (“Codice dei beni culturali e del paesaggio”), all’annosa questione della natura del parere della Soprintendenza e alla possibile applicazione dell’istituto del c.d. “silenzio assenso” tra amministrazioni chiamate alla valutazione ed al rilascio del provvedimento de quo.[2]
Il Collegio[3], in particolare, ha affrontato ed evidenziato diversi punti nodali in materia di tutela del paesaggio, di competenze ai fini del rilascio dell’autorizzazione paesaggistica e, soprattutto, di silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni.
Fermo restando quanto meglio si dirà nel seguito, i giudici di Palazzo Spada, nel rigettare le doglianze dell’appellante, hanno rilevato come, ai sensi del disposto di cui all’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, nel procedimento di autorizzazione paesaggistica a detenere il potere autorizzatorio è in primis la Regione e solo in un secondo momento compete alla Soprintendenza la pronuncia di un parere, vincolante in via ordinaria, sulla presentazione del provvedimento sottopostole dalla stessa Amministrazione regionale; in taluni casi, in deroga a tale ordine di competenze, l’autorizzazione deve essere espressa dalla conferenza di servizi, al fine di semplificare l’iter procedimentale per l’acquisizione dei diversi atti di assenso richiesti in ragione di uno specifico intervento. Orbene, il meccanismo del silenzio assenso tra amministrazioni – di cui all’art. 17 bis della l. n. 241/1990 – si inserisce all’interno del procedimento di “co-gestione” dell’istruttoria ed è applicabile esclusivamente nei rapporti che intercorrono tra amministrazione “procedente” all’adozione di un provvedimento definitivo e quelle competenti a rendere “assensi, concerti o nulla osta” al fine dell’adozione di provvedimenti normativi o amministrativi nei confronti di una terza amministrazione, come l’atto di autorizzazione paesaggistica rilasciato dalla Regione e dalla Soprintendenza di cui al succitato art. 146.
2. La disciplina di dettaglio: l’autorizzazione paesaggistica
La disciplina dell’autorizzazione paesaggistica[4] presenta una propria coerenza con il sistema complessivo attraverso il quale viene attuata la tutela del paesaggio in ambito nazionale[5].
In particolare, l’art. 146 d. lgs. n. 42/2004[6] disciplina il procedimento di autorizzazione relativo ad interventi di trasformazione del territorio per loro natura capaci di incidere permanentemente sulla percezione dei valori paesaggistici, che assumono una valenza ben superiore a quella meramente estetica. Rispetto al sistema delineato nell'art. 7 della l. n. 1497 del 1939, il legislatore ha immaginato, con l’art. 146 cit., una forma di protezione più ampia, non riferibile ai soli singoli immobili dotati di particolare pregio o valore estetico ma ha inteso salvaguardare quel complesso di valori che sono considerati manifestazione dell’identità di un territorio, derivanti da interventi antropici, naturali, nonché della loro interazione, ai quali non si deve arrecare pregiudizio[7]. L’oggetto della tutela coincide con il valore paesaggistico, che si identifica con il portato anche culturale di un luogo, in quanto sito proprio in un determinato luogo[8]. A tal proposito, la disciplina dell'autorizzazione paesaggistica rappresenta lo strumento indispensabile per la tutela dei beni paesaggistici, riconosciuti come parti del paesaggio di notevole interesse pubblico e perciò facenti parte del patrimonio culturale. Il tema dell’interesse paesaggistico, poi, ha spesso portato la dottrina a riflettere sul modo in cui il bene tutelato viene “gestito” dallo strumento autorizzatorio rispetto alle finalità di interesse pubblico generale perseguite tramite tale istituto[9]. Come noto, infatti, il rapporto tra l’interesse paesaggistico e i procedimenti di autorizzazione si inserisce nella linea di confine tra autorità e libertà, tra l’agere licere del privato e i limiti e le condizioni imposte dalla legge a tutela dell'interesse generale[10]. Il limite di proporzionalità alla funzione di controllo preventivo si traduce, con riferimento ai procedimenti di autorizzazione paesaggistica, nella subordinazione di tale funzione alla condizione generale di rilevanza paesaggistica della trasformazione. Attraverso il regime autorizzatorio[11], in buona sostanza, vengono assoggettate a previo controllo tutte le attività su immobili o su aree vincolate, il cui risultato sia idoneo a produrre «un’alterazione dello stato dei luoghi o dei beni tale da pregiudicare quei valori, naturali ed estetici e storico-culturali, che rappresentano percepibili manifestazioni di identità del paesaggio»[12].
Più nel dettaglio, l’art. 146, comma 1, stabilisce che i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge, non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione. Il successivo comma 2, poi, dispone che i soggetti di cui al comma 1 hanno l’obbligo di presentare alle amministrazioni competenti il progetto degli interventi che intendano intraprendere, corredato della prescritta documentazione, ed astenersi dall'avviare i lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta l’autorizzazione[13]. La previsione della documentazione posta a corredo dell'istanza è preordinata proprio alla verifica della compatibilità fra interesse paesaggistico tutelato ed intervento progettato (art. 146, comma 3)[14]. Sull’istanza di autorizzazione paesaggistica è competente la Regione, che deve previamente acquisire il parere vincolante del Soprintendente, che deve rendere il proprio parere sulla compatibilità paesaggistica entro il termine indicato dalla norma[15]. L’amministrazione competente al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, successivamente alle verifiche di cui all’art. 146, comma 7, entro quaranta giorni dalla ricezione dell’istanza, effettua quindi gli accertamenti circa la conformità dell'intervento proposto con le prescrizioni contenute nei provvedimenti di dichiarazione di interesse pubblico e nei piani paesaggistici e trasmette al Soprintendente la documentazione presentata dall’interessato, accompagnandola con una relazione tecnica illustrativa nonché con una proposta di provvedimento, e dà comunicazione all'interessato dell'inizio del procedimento e dell’avvenuta trasmissione degli atti al Soprintendente.
Ai sensi del comma 8 dell’art. 146 cit., il Soprintendente rende il parere limitatamente alla compatibilità paesaggistica dell'intervento progettato e alla conformità dello stesso alle disposizioni contenute nel piano paesaggistico entro il termine di quarantacinque giorni dalla ricezione degli atti. Entro venti giorni dalla ricezione del parere, l’amministrazione provvede in conformità[16].
In virtù del disposto di cui al successivo comma 9, decorsi inutilmente sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del Soprintendente senza che questi abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione[17].
2.1. (segue) In particolare sull’intervento della Soprintendenza
L’attuale formulazione dell’art. 146 cit. rende centrale il ruolo della Soprintendenza, muovendo dalla considerazione della “supremazia” del paesaggio, in particolar modo qualora venga in conflitto con altri valori. In particolare, l’oggetto e l’ampiezza dell’intervento del Soprintendente si deduce dal tenore del comma 8 dell'art. 146: si tratta di un atto a contenuto decisorio e di un giudizio di merito tecnico-discrezionale[18]. Il Soprintendente si esprime circa la compatibilità paesaggistica del progettato intervento nel suo insieme nonché sulla conformità di tale intervento con le previsioni del piano paesaggistico e/o con quelle dell’art. 140 del codice, entro il termine di 45 giorni decorrente dalla ricezione degli atti. Più nel dettaglio, nell’ipotesi di cui al comma 8, il parere del Soprintendente assume la natura di atto decisorio o meglio di “atto di codecisione”[19] e ha natura vincolante, pertanto l’amministrazione procedente non potrà disattenderlo, salva l’ipotesi in cui risulti che il parere sia stato reso sulla base di atti o fatti palesemente erronei o travisati[20]. Nonostante i plurimi interventi del legislatore sulla normativa de qua – con il decreto c.d. “Sblocca Italia” e con la c.d. “legge Madia” – restano, tutt’oggi, irrisolte alcune questioni fondamentali relative alle funzioni della Soprintendenza, vale a dire (i) l’effetto dell’inerzia del Soprintendente e (ii) la possibilità di prescindere dal relativo parere[21].
In base ad una prima ricostruzione interpretativa, la Soprintendenza conserverebbe il potere consultivo, pertanto il parere tardivo avrebbe comunque natura vincolante, se intervenuto prima della conclusione del procedimento (risultando altrimenti legittimo ma inutiliter dato). L’inerzia della Soprintendenza, quindi, avrebbe il solo effetto di consentire all’amministrazione competente di concludere il procedimento senza dover attendere il parere[22].
In base ad un secondo orientamento, il parere tardivo perderebbe il carattere vincolante, diventando autonomamente valutabile tra i materiali istruttori dall’amministrazione competente sull’autorizzazione; il silenzio avrebbe quindi un effetto devolutivo, comportando l’assunzione del pieno potere decisorio sulla istanza di autorizzazione in capo alla regione o all'ente delegato[23].
Infine, in base ad una terza opzione, il decorso dei 45 giorni determinerebbe la consumazione del potere consultivo e l’eventuale parere tardivo sarebbe nullo per carenza di potere[24].
L’opinione prevalente in giurisprudenza è la seconda[25], in base alla quale, scaduto il termine previsto dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza, è da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante, statuendosi peraltro che la decorrenza del termine non ne impedisce comunque tout courtl’espressione. Sul punto, pare opportuno rilevare, però, che l’art. 16 della l. n. 241/1990 – nel dettare una disciplina generale di semplificazione dei pareri e nel prevedere una forma di semplificazione, in caso di pareri obbligatori non resi nel termine previsto[26] – esclude espressamente dal proprio ambito di applicazione quelli resi da amministrazioni preposte, tra l’altro, alla tutela paesaggistica[27]. La ratio dell’eccezione alla regola generale della “prescindibilità” risiede nel fatto che si tratta di valori di assoluta preminenza, la cui tutela costituisce un limite alla piena applicazione degli istituti di semplificazione amministrativa[28].
In tale contesto, dunque, si inserisce la disposizione di cui all’art. 17 bis della l. n. 241/1990. Il dibattito si sposta, quindi, sulla portata generale della previsione del silenzio assenso tra amministrazioni, sancito dalla norma sopra richiamata, che coinvolgerebbe, altresì, il parere della Soprintendenza nell’ambito del procedimento di autorizzazione paesaggistica[29]. Applicabilità, si badi, comunque in controtendenza rispetto: (i) alla giurisprudenza della Corte costituzionale[30], che ha ripetutamente affermato che per il profilo paesaggistico opera il principio fondamentale della necessità di pronuncia esplicita, non potendo avere il silenzio della P.A. valore di assenso; (ii) del Consiglio di Stato, che ha rilevato più volte l’«indeclinabilità della funzione pubblica di tutela del paesaggio per la particolare dignità data dall’essere iscritta dall’art. 9 Cost. tra i principi fondamentali della repubblica, il che comporta che la sua cura faccia eccezione, se in conflitto con gli obiettivi di semplificazione e accelerazione amministrative»[31].
3. Analisi critica delle motivazioni della sentenza del Consiglio di Stato: sul ruolo del parere della Soprintendenza
Fermo restando il quadro normativo sopra brevemente riassunto con riferimento all’autorizzazione paesaggistica, i giudici di Palazzo Spada, con la sentenza in commento, hanno chiarito che la preservazione giuridica del paesaggio, esercitata dal Ministero dei beni culturali rendendo pareri obbligatori nel procedimento di compatibilità ambientale, non gode di alcun regime di attenuazione anche qualora si consideri un confronto o un bilanciamento con atri interessi, quantunque pubblici, in ragione della natura strettamente discrezionale dell’atto in esame.
Con riguardo al procedimento di autorizzazione de quo, ai sensi dell’art. 146 cit., il potere autorizzatorio appartiene in prima battuta alla Regione, spettando alla Soprintendenza un parere sulla proposta di provvedimento sottopostale dall’Amministrazione competente.
All’interno di detto meccanismo di “co-gestione” del potere pubblicistico tra Soprintendenza e Regione, alla stregua di un’interpretazione sistematica di tale disposizione normativa, a seguito del decorso del termine per l’espressione del parere vincolante da parte della Soprintendenza, l’organo statale non resta in assoluto privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio valore vincolante e dovrà essere autonomamente e motivatamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo. In buona sostanza, secondo i giudici amministrativi, il decorso del termine per l’espressione del parere vincolante della Soprintendenza, non comporta un vuoto nella risposta dell’organo statale, ma in tal caso il parere così espresso non avrà più forza vincolante, richiedendo una valutazione autonoma e motivata dall’amministrazione preposta, appunto, al rilascio del titolo. Ne consegue, pertanto, che, se nel corso di una prima fase (che si esaurisce con il decorso del termine di legge), l’organo statale può, nella pienezza dei suoi poteri di “co-gestione” del vincolo, emanare un parere vincolante dal quale l’amministrazione deputata all’adozione dell’autorizzazione finale non potrà discostarsi (comma 8), successivamente l’amministrazione procedente “provvede sulla domanda di autorizzazione” (comma 9), essendo pertanto legittimata all’adozione dell’autorizzazione prescindendo in radice dal parere della Soprintendenza, in ragione di un diritto legittimo all’adozione dell’atto di autorizzazione prescindendo dal parere della stessa Soprintendenza.
Tale riparto di competenze, quindi, non subisce modifiche né nella fattispecie in cui l’autorizzazione paesaggistica debba essere acquisita in seno a una conferenza di servizi, né in quella in cui si inneschi il meccanismo del silenzio assenso tra amministrazioni ai sensi dell’art. 17 bis della l. n. 241 del 1990.
Nel confermare la sentenza del giudice di prime cure, il Consiglio di Stato ha infatti chiarito, preliminarmente, che ai sensi dell’art. 146, comma 9, cit., qualora la Soprintendenza non rilasci proprio parere entro 60 giorni dalla ricezione degli atti da parte dell’autorità regionale, quest’ultima provvede comunque sull’autorizzazione paesaggistica. Infatti, «tale parere, sebbene vincolante, in via ordinaria cessa di esserlo se reso tardivamente e per di più può essere pretermesso in caso di sua mancata espressione». In altri termini, il parere è vincolante solo se espresso nel termine previsto dalla normativa (60 giorni), ma, come affermato dalla sentenza in commento, cessa di esserlo «se reso tardivamente e per di più può essere pretermesso in caso di sua mancata espressione, secondo quanto previsto dal comma 9 dell’art. 146». Ciò in quanto la legge, pur in un processo di collaborazione fra ente statale e regionale, ha assegnato il potere decisionale sul rilascio dell’autorizzazione alla Regione. Il decorso del termine, tuttavia, non elimina la possibilità per la Soprintendenza di esprimersi tardivamente o addirittura dopo il rilascio del provvedimento autorizzatorio da parte della Regione, ciò anche nell’ambito dei lavori di una Conferenza di servizi; in tale ipotesi, però, «il parere in tal modo espresso perderà il proprio valore vincolante e dovrà essere autonomamente e motivatamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo»[32]. Con la conseguenza che, nel caso di parere espresso tardivamente, l’amministrazione chiamata a decidere sull’autorizzazione finale potrà anche prescindere dal parere della Soprintendenza. Anche perché, come evidenziato dai giudici amministrativi, se così non fosse, si finirebbe per provocare «l’effetto di “espropriare” delle proprie prerogative l’amministrazione (la Regione) che è normativamente competente a provvedere in ordine alla richiesta di autorizzazione paesaggistica».
Tale interpretazione, peraltro, sembrerebbe coerente con le intenzioni del legislatore, il quale, nel prevedere tale formula di co-gestione del vincolo, ha inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra: (i) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante a un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del paesaggio attraverso il riconoscimento all’organo statale di poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito della fattispecie autorizzatoria e (ii) l’esigenza – parimenti di rilievo costituzionale – di garantire in massimo grado la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo che i richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non superabile[33]. Pertanto, in caso di superamento dei termini fissati dall’art. 146 cit. per l’espressione del parere, non si determina né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo[34]. Il suddetto parere può essere emesso tardivamente, anche in considerazione della rilevanza dei valori alla cui tutela la Soprintendenza è preposta. L’effetto che, in siffatta ipotesi, si produce è quello della prescindibilità dello stesso parere, con la conseguenza che la decisione viene rimessa alla esclusiva responsabilità dell’Ente territoriale[35]. L’amministrazione è, dunque, tenuta in ogni caso a concludere in proprio il procedimento se la Soprintendenza non si è espressa, poiché la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, bensì l’obbligo, appunto, di concludere il procedimento[36].
3.1. (segue) Sull’applicabilità del silenzio assenso ex art. 17 bis l. n. 241/1990
Secondo i giudici di Palazzo Spada, nell’emarginata sentenza, non può ritenersi mai formato il silenzio assenso ex art. 17 bis, comma 2, della l. n. 241/1990 da parte della Soprintendenza, poiché tale meccanismo «vale esclusivamente nei rapporti fra l’amministrazione “procedente” e quelle chiamate a rendere “assensi, concerti o nulla osta”, e non anche nel rapporto “interno” fra le amministrazioni chiamate a co-gestire l’istruttoria e la decisione in ordine al rilascio di tali assensi (nel caso di specie, Regione e Soprintendenza)». Ed infatti – specifica il Consiglio di Stato – l’istituto del silenzio assenso di cui sopra «non riguarda la fase istruttoria del procedimento amministrativo, che rimane regolata dalla pertinente disciplina positiva, influendo soltanto sulla fase decisoria, attraverso la formazione di un atto di assenso per silentium», con la conseguenza che l’amministrazione procedente è, comunque, tenuta a condurre un’istruttoria completa e, all’esito, ad elaborare uno schema di provvedimento da sottoporre all’assenso dell’amministrazione co-decidente.
In merito, pare doveroso premettere che l’art. 17 bis l. n. 241/90, inserito nella legge generale sul procedimento amministrativo dalla l. n. 7 agosto 2015 n. 124 (c.d. “legge Madia”), ha generalizzato il silenzio assenso[37] tra amministrazioni pubbliche nei procedimenti diretti all’adozione di provvedimenti normativi ed amministrativi che prevedano atti di assenso, concerto o nulla osta comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche. La disposizione prevede che tali atti di assenso debbano intendersi implicitamente acquisiti qualora siano decorsi vanamente trenta giorni dal ricevimento dello schema di provvedimento, corredato dalla relativa documentazione da parte dell’amministrazione procedente[38]. Il previsto termine è suscettibile di una unica interruzione nei casi in cui vengano rappresentate nel termine stesso esigenze istruttorie o motivate e puntuali richieste di modifica. In caso di mancato accordo tra le amministrazioni statali coinvolte nel procedimento, la decisione sulle modifiche da apportare allo schema di provvedimento è assunto dal Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri. Ai sensi del comma 3, dell’art 17 bis cit., detto silenzio trova espressa applicazione anche nel caso in cui l’atto di assenso sia richiesto ad una amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini[39]. In tali casi l'unica mitigazione è rappresentata dalla previsione di un termine maggiore, pari a novanta giorni, salvi i termini diversi previsti da disposizioni di legge o dai provvedimenti di cui all'art. 2 della l. n. 241/1990.
L’articolo in esame, nella sostanza, stabilisce che, se una pubblica amministrazione deve acquisire “assensi, concerti o nulla osta” da parte di altra amministrazione, quest’ultima dispone di un termine di trenta giorni per formulare la propria risposta, decorso il quale la richiesta viene considerata accolta (e quindi “assensi, concerti o nulla osta” considerati acquisiti). Il tenore letterale della norma induce a ritenere che essa si applichi esclusivamente alle ipotesi in cui tali “assensi, concerti o nulla osta” siano prescritti per legge o regolamento; in altri termini, la disposizione è certamente rivolta ai procedimenti finalizzati all'adozione di provvedimenti c.d. “pluristrutturati”, intendendo con questa espressione tutti quei provvedimenti che sono espressione di più volontà espresse da diverse amministrazioni.
L’articolo in commento attiene, poi, esclusivamente al silenzio assenso tra P.A. mentre il silenzio dell’amministrazione procedente nei procedimenti ad istanza di parte continua ad essere regolato dall'art. 20 della l. n. 241/1990, il cui comma 4, come noto, esclude dalla generalizzazione del silenzio significativo gli atti ed i procedimenti riguardanti, tra gli altri interessi sensibili menzionati, il patrimonio culturale e l’ambiente[40].
Una delle questioni più discusse, connesse con tale istituto, concerne l’operatività del meccanismo di silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni nei casi in cui vengano in rilievo proprio interessi pubblici primari[41].
Sul tema si sono confrontate in dottrina due posizioni opposte[42]: da un lato vi è chi ha denunciato i gravi rischi connessi alla disciplina dell'art. 17 bis che avrebbe gravemente indebolito la tutela di beni ed interessi primari (quali, l'ambiente, i beni culturali, la salute) senza peraltro prevedere alcun adeguato intervento compensativo[43]; dall'altro lato, vi è chi ha invece salutato con favore la disciplina ed escluso i paventati rischi per la tutela effettiva degli interessi sensibili[44].
In merito, la giurisprudenza costituzionale ed europea si è più volte espressa sulla necessità che, qualora vengano in gioco interessi pubblici primari, l’Amministrazione preposta all'emanazione del provvedimento finale, compia una completa istruttoria, al fine di garantire la tutela dell'interesse pubblico sotteso al provvedimento[45]. In particolare, in ambito paesaggistico, muovendo proprio dalla considerazione che la tutela dell’ambiente e della salute trovino un esplicito riferimento nel testo costituzionale e che questo implichi che «sono indispensabili per il rilascio dell'autorizzazione accurate indagini ed accertamenti tecnici, nonché controlli specifici per la determinazione delle misure e degli accorgimenti da osservarsi e per evitare danni facilmente possibili per la natura tossica e nociva dei rifiuti accumulati»[46], la Corte ha costantemente affermato che «opera il principio fondamentale, risultante da una serie di norme in materia ambientale, della necessità di pronuncia esplicita, mentre il silenzio dell'Amministrazione non può avere valore di assenso»[47].
Diversamente da tale indirizzo, con riferimento all’applicabilità del silenzio de quo anche in materie sensibili, si è espresso il Consiglio di Stato[48]. Innanzitutto, secondo i giudici di Palazzo Spada, il silenzio assenso in esame introduce un “nuovo paradigma” nei rapporti tra amministrazioni pubbliche, operando in una duplice prospettiva di semplificazione[49]. Da un lato, la norma incide sui tempi del procedimento amministrativo (fissando il termine in trenta giorni, salva l’ipotesi degli interessi primari); dall'altro, equipara l’inerzia ad un atto di assenso, che consente all’amministrazione procedente di assumere la decisione finale. Tale istituto si basa su di una contrarietà di fondo del legislatore nei confronti dell’inerzia amministrativa, che viene stigmatizza «al punto tale da ricollegare al silenzio dell'amministrazione il più efficace dei rimedi, che si traduce, nell'equiparazione del silenzio della P.A. ad un provvedimento di accoglimento»[50]. In ragion di ciò, il silenzio assenso si sostanzia, per le pubbliche amministrazioni, nella perdita del potere di dissentire e di impedire la conclusione del procedimento.
Sull’ambito applicativo (soggettivo e oggettivo) di tale silenzio, il Consiglio di Stato, con il parere sopra richiamato, ha poi affermato: (i) con riferimento al piano soggettivo, l’applicabilità del nuovo istituto anche a Regioni ed enti locali, oltre che agli organi politici sia quando essi adottano atti amministrativi o normativi, sia quando sono chiamati ad esprimere concerti, assensi o nulla osta comunque denominati nell’ambito di procedimenti per l’adozione di atti amministrativi o normativi di competenza di altre Amministrazioni, rilevando, in buona sostanza, la natura dell’atto da adottare (amministrativo o normativo), non la natura dell’organo (amministrativo o politico) titolare della competenza “interna” nell’ambito della pubblica Amministrazione che di volta in volta viene in considerazione; (ii) con riferimento all’ambito applicativo oggettivo della norma, esso sarebbe applicabile a ogni procedimento (anche eventualmente a impulso d’ufficio) che preveda una fase co-decisoria necessaria di competenza di altra Amministrazione, senza che rilevi la natura del provvedimento finale nei rapporti verticali con il privato destinatario degli effetti dello stesso. Ed infatti, «il silenzio assenso “orizzontale” previsto dall’art. 17-bis opera, nei rapporti tra Amministrazioni co-decidenti, quale che sia la natura del provvedimento finale che conclude il procedimento, non potendosi sotto tale profilo accogliere la tesi che, prospettando un parallelismo con l’ambito applicativo dell’art. 20 concernente il silenzio assenso nei rapporti tra privati, circoscrive l’operatività del nuovo istituto agli atti che appartengono alla categoria dell’autorizzazione, ovvero che rimuovono un limite all’esercizio di un preesistente diritto»[51]. Con riferimento all’applicazione della norma agli atti di tutela degli interessi sensibili, secondo i giudici amministrativi, dovrà quindi essere esclusa laddove la relativa richiesta non provenga dall’Amministrazione procedente, ma dal privato destinatario finale dell’atto, in tal caso, venendo in rilievo un rapporto verticale per cui troverà applicazione l’art. 20 della legge n. 241 del 1990 (che esclude dal suo campo di applicazione gli interessi sensibili).
In sintesi, il silenzio assenso “inter-amministrativo” si inserisce in una fase procedimentale anteriore rispetto a quella tipica del silenzio assenso ex art. 20: l’istituto dell’art. 17 bis inerisce, infatti, alla fase finale dell’istruttoria procedimentale e, per questo, rappresenta una forma di silenzio endoprocedimentale non destinato a produrre effetti esteriori diretti. Gli interessi sensibili, quindi, restano pienamente tutelati nella fase istruttoria, non potendo la decisione finale essere assunta senza che tali interessi siano stati ritualmente acquisiti al procedimento, tramite l’obbligatorio parere o l’obbligatoria valutazione tecnica di competenza dell’Amministrazione preposta alla loro cura. Quanto alla successiva fase decisoria, anche nei casi in cui opera il silenzio-assenso, l’interesse sensibile dovrà comunque essere oggetto di valutazione, comparazione e bilanciamento da parte dell’amministrazione procedente.
Ebbene, con riferimento all’effettiva applicabilità dell’istituto sopra descritto all’autorizzazione paesaggistica, quest’ultima, giova ribadirlo, è il frutto di quella che viene definita dalla dottrina in termini di “cogestione del vincolo paesaggistico”, affidata ai poteri concorrenti di Stato e Regioni (e, per esse, alle amministrazioni eventualmente delegate), il cui esercizio porta ad una fattispecie co-decisoria che, sulla base di una proposta motivata di accoglimento, viene in essere con il concorso di due atti distinti, il parere vincolante della Soprintendenza ed il consenso espresso dall’autorità competente al rilascio del provvedimento. A tal proposito, si ribadisce ancora una volta come, ab origine, non sia stata accolta con favore l’operatività del silenzio ex art. 17 bis cit. nel caso in cui l’atto di assenso fosse richiesto ad un’amministrazione preposta alla tutela ambientale e paesaggistico-territoriale; ciò con particolare riferimento al silenzio serbato dalla Soprintendenza chiamata a rendere il parere sulla proposta di provvedimento predisposta dalla Regione (o dall’ente da questa delegato). Come rilevato dalla dottrina, infatti, l’applicabilità dell’istituto in esame «appare sicuramente più proporzionata e ragionevole se rapportata alle fattispecie di lieve entità individuate dal regolamento [il riferimento è al d.P.R. n. 31/2017[52]], piuttosto che con riguardo alle fattispecie assoggettate ad autorizzazione paesaggistica c.d. ordinaria»[53].
Ebbene, muovendo dalle conclusioni del Consiglio di Stato rese nell’emarginata sentenza, vale la pena evidenziare come l’art. 146, ai commi 8, 9 e 10, stabilisce che se la Soprintendenza non rende entro sessanta giorni il proprio parere, può prescindersi dallo stesso e l’autorità procedente è tenuta ugualmente a concludere il procedimento nei successivi venti giorni, decorsi inutilmente i quali l’interessato può richiedere alla Regione o ad altro ente competente il rilascio dell'autorizzazione in via sostitutiva. Pertanto, rispetto
al meccanismo di superamento degli arresti procedimentali, l’attribuzione del valore di assenso all’inerzia della Soprintendenza, ex se non ostativa alla conclusione del procedimento, non presenta alcuna attitudine acceleratoria ulteriore. Nel sistema delineato dall’art. 146, in buona sostanza, l’inadempimento della Soprintendenza non possiede alcun significato sostanziale ma, al più, un effetto procedimentale-devolutivo: ed infatti, «da un lato, l’onere istruttorio ricade interamente sull’autorità procedente, chiamata ad adottare, con congrua motivazione, il provvedimento conclusivo; dall'altro, il parere tardivamente rilasciato non è privo di rilevanza giuridica, potendosi al più discutere sul carattere vincolante o meno dello stesso»[54]. Con l'applicazione dell’art. 17 bis, invece, il silenzio della Soprintendenza sarebbe assimilato tout court a un parere favorevole sulla proposta di provvedimento, sganciato quindi da una effettiva istruttoria o valutazione dell’impatto paesaggistico del progetto[55] e rimovibile solo in autotutela, ove ne ricorrano i presupposti e nel rispetto dei limiti evidenziati dal Consiglio di Stato nel parere n. 1640/2016[56].
Inoltre, l’attribuzione di un valore legale tipico di assenso a un evento di per sé neutro, quale il decorso di un intervallo di tempo, «rischia di causare una indebita commistione tra durata del procedimento e contenuto del provvedimento»[57]. Infatti, più che l’interesse alla certezza e celerità dei tempi, le conseguenze applicative dell’istituto appaiono volte a soddisfare l’interesse sostanziale del richiedente all’ottenimento del titolo autorizzatorio, con conseguenze faticosamente ammissibili sul piano della tutela paesaggistica: se da un lato, alla luce delle diverse complessità organizzative, la probabilità che diversi sub-procedimenti di competenza ministeriale si definiscano per silenzio non è remota, dall’altro, il favor per l’assenso diminuisce considerevolmente il livello di “restrittività” della tutela, ponendosi in netto contrasto con la logica precauzionale a essa sottesa.
Ebbene, il Consiglio di Stato, nella sentenza in commento, pur non smentendo in maniera tranchant l’orientamento secondo cui il meccanismo del silenzio assenso operi anche nel caso di rilascio di autorizzazione paesaggistica ex art. 146 del d.lgs. n. 42/2004[58], ne specifica e delimita la portata: il silenzio assenso di cui all’articolo 17 bis influisce, quindi, solo sulla fase decisoria del procedimento, attraverso la formazione di un atto di assenso per silentium a seguito del quale l’amministrazione procedente è, comunque, tenuta a condurre un’istruttoria completa e, all’esito di detta istruttoria, a elaborare uno schema di provvedimento da sottoporre all’assenso dell’amministrazione co-decidente. Le esigenze di completezza dell’istruttoria, dunque, in quanto non incise dalla formazione del silenzio assenso ex art. 17 bis cit., non potrebbero essere invocate per limitare l’applicazione del relativo istituto.
In sostanza, il silenzio assenso ex art. 17 bis della l. n. 241/90:
(i) non riguarderebbe la fase istruttoria del procedimento amministrativo (che resta regolata dalla pertinente disciplina positiva), influendo soltanto sulla fase decisoria, attraverso la formazione di un atto di assenso per silentium;
(ii) non potrebbe comunque essere inteso come un sacrificio (necessitato, in ragione delle esigenze di tempestivo esercizio del pubblico potere) in danno dell’interesse pubblico affidato alla cura dell’Amministrazione silente.
In altri termini, il silenzio assenso nei rapporti tra pubbliche amministrazioni, proprio perché ispirato ai principi di efficienza e, quindi, di buon andamento amministrativo, solleciterebbe una migliore organizzazione delle risorse amministrative, garantendo al contempo l’effettiva protezione di tutti gli interessi pubblici coinvolti in sede procedimentale. In particolare, una volta conclusa l’istruttoria e definito lo schema di provvedimento da porre a base della successiva fase decisoria, occorre che: da un lato, l’Amministrazione interpellata agisca tempestivamente, manifestando prontamente le proprie perplessità sullo schema di provvedimento ricevuto, rappresentando eventuali esigenze istruttorie o adottando espressamente il proprio avviso su quanto richiesto;
dall’altro, l’Amministrazione procedente valuti comunque l’interesse pubblico affidato alla cura dell’Amministrazione interpellata in ipotesi rimasta inerte, assumendo, all’esito della formazione del silenzio assenso ex art. 17 bis, una decisione conclusiva del procedimento (comunque necessaria) che tenga in debita considerazione anche l’interesse pubblico sotteso all’atto di assenso implicitamente acquisito.
In tale maniera si assicura non soltanto la tempestiva adozione della decisione finale, ma anche un’adeguata protezione di tutti gli interessi pubblici coinvolti nell’esercizio del potere, pure in assenza di una determinazione espressa dell’Amministrazione interpellata.
3.2. (segue) Sul perimetro applicativo dell’art. 14 ter della l. n. 241/1990
Il Consiglio di Stato, infine, nella sentenza in commento, esclude altresì la possibilità di applicazione del disposto normativo di cui all’art. 14 ter della l. n. 241/1990, affermando che quest’ultima norma «laddove considera acquisito senza condizioni l’assenso delle amministrazioni (ivi comprese quelle preposte alla tutela di interessi “sensibili” quale quello paesaggistico), si riferisce sempre agli “assensi” da rendere direttamente all’amministrazione procedente, laddove in questo caso la Soprintendenza era chiamata a esprimersi sulla proposta della Regione».
A tal proposito, giova evidenziare che l’articolo in oggetto disciplina la conferenza di servizi svolta in modalità sincrona o simultanea, secondo il modello procedimentale che prevede la partecipazione contestuale di tutte le amministrazioni coinvolte nel procedimento. Un elemento di novità rispetto al modello passato è rappresentato dalla possibilità che a seguito della conferenza l’amministrazione procedente adotti la determina conclusiva sulla base della prevalenza delle posizioni espresse, nonostante il dissenso manifestato dalle amministrazioni preposte alla cura di interessi “sensibili”[59], che non determina più la devoluzione obbligatoria della decisione all’organo politico bensì la facoltà di proporre (in via successiva) in sede governativa opposizione alla decisione amministrativa adottata nonostante il dissenso.
Il criterio della prevalenza si differenza da quello dell’unanimità delle posizioni ma anche da quello, simile ma non corrispondente, della maggioranza (numerica) delle posizioni espresse. Esso, infatti, rappresenta un criterio elastico e di particolare flessibilità perché consente all’amministrazione procedente di “soppesare” le posizioni espresse non da un punto di vista numerico ma in base alla rilevanza degli interessi rappresentati, ivi inclusi quelli di cui è istituzionalmente portatrice l’amministrazione procedente. La valutazione “ponderata” delle singole determinazioni espresse comprende attualmente a pieno titolo anche quelle relative agli interessi “sensibili”, dal momento che eventuali dissensi e/o opposizioni manifestati in tali ambiti di competenza non importano più l’automatica rimessione della decisione amministrativa al livello governativo, bensì la facoltà dell’amministrazione dissenziente di opporsi alla determinazione conclusiva ai sensi dell’art. 14 quinquies.
Per quanto, poi, di precipuo interesse, il comma 7, ultimo periodo, dell’art. 14 ter cit. prevede l’applicabilità della regola del silenzio assenso[60], a prescindere dalla tipologia di interesse rappresentato (sensibile o meno), in caso di manca espressione nei termini della propria posizione da parte dell’amministrazione partecipante. In buona sostanza, le posizioni di assenso o dissenso devono essere necessariamente acquisite all’interno della conferenza sincrona[61] e non sono, quindi, ammissibili decisioni ottenute ab externo o a posteriori, posto che ciò contrasterebbe con la logica stessa e con la funzione della conferenza simultanea, in quanto volta al dialogo e al confronto preventivo tra le amministrazioni partecipanti in funzione del miglior contemperamento tra gli interessi pubblici rappresentati[62]. L’assenso si considera acquisito, quindi, senza condizioni nel caso in cui: (a) il rappresentante non abbia preso parte alle riunioni della conferenza; (b) non abbia espresso in modo univoco e definitivo la propria determinazione nonostante la partecipazione alla conferenza, oppure (c) abbia espresso un dissenso privo di motivazione o riferito ad aspetti estranei all’oggetto del procedimento. Si evidenzia, comunque, come l’applicazione del criterio decisionale della prevalenza non possa ricondursi unicamente ad un calcolo “soppesato” delle diverse posizioni espresse ma presupponga altresì «un ruolo (pro)attivo dell’amministrazione procedente nell’effettuare un vero e proprio giudizio di bilanciamento tra gli interessi in gioco»[63], giudicando soggettivamente e su base casistica quali siano nel caso di specie gli interessi “prevalenti”, in assenza di gerarchie valoriali precostituite.
Ciò brevemente detto, si evidenzia come – con riferimento alla sentenza in commento – nel procedimento di autorizzazione paesaggistica disciplinato dall’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, il potere autorizzatorio appartiene alla Regione, spettando alla Soprintendenza l’adozione del parere sulla proposta di provvedimento (parere che, sebbene vincolante in via ordinaria, cessa di esserlo se reso tardivamente, potendo altresì essere pretermesso in caso di sua mancata espressione). Tale assetto non viene alterato per il solo fatto che, in determinati casi, l’autorizzazione paesaggistica debba essere acquisita in seno ad una conferenza di servizi, che costituisce, come sopra brevemente esposto, soltanto un modulo procedimentale semplificatorio per l’acquisizione dei diversi atti di assenso richiesti in ordine ad un intervento.
Tale considerazione, ovviamente, non elimina il fatto che uno dei principali problemi della conferenza di servizi, nata per garantire un unico luogo di confronto “interpubblicistico” alle posizioni e agli interessi riguardanti un dato procedimento amministrativo, è quello di aver dovuto spesso supplire alla impossibilità (o talvolta alla incapacità) del regolatore di definire gerarchie di finalità e di interessi, tentando di rimediare a tale mancanza con meccanismi procedimentali. Dal punto di vista pratico, in assenza di indicazioni legislative in merito alla graduazione degli interessi pubblici, è stato affidato alla capacità (se non alla mera buona volontà) dei soggetti presenti in conferenza la composizione dei valori in gioco. Come evidenziato dalla giurisprudenza amministrativa[64], appare, pertanto, opportuno che alla semplificazione procedimentale della conferenza si accompagni un’attività di semplificazione sostanziale, che si concretizzi in politiche pubbliche capaci di regolare e graduare i diversi interessi, allo scopo di rendere più agevole la loro composizione.
4. Conclusioni
Alla luce di quanto sopra esposto, è doveroso evidenziare, in primissima battuta, come le esigenze di accelerazione dell’azione amministrativa (favorite e incentivate anche attraverso l’applicazione di istituti come quello del silenzio assenso tra P.A.) non possono frustrare, tout court, alcune garanzie minime a tutela di interessi particolarmente sensibili, come quelli inerenti alla salvaguardia del paesaggio. Proprio con riferimento a questi ultimi, poi, è lo stesso legislatore ad aver individuato un equo punto di stabilità fra la tutela di un valore di rilievo costituzionale (la tutela del paesaggio) e l’esigenza – ugualmente rilevante anche ai fini costituzionali – di assicurare la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo che i poteri della Soprintendenza debbano essere esercitati entro un termine sicuramente congruo ma allo stesso tempo certo e non superabile. Profilo, peraltro, rimarcato con forza anche nella sentenza in commento, all’interno della quale si ribadisce proprio che, scaduto il termine previsto dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza ex art. 146 cit. deve essere considerato privo di valenza “obbligatoria e vincolante” (fermo restando che detta decorrenza del termine non ne impedisce tout court l’espressione, ma dovrà essere reso nei confronti dell’amministrazione procedente, che provvederà alla sua “adeguata” valutazione).
Con riferimento, poi, all’applicabilità degli strumenti di semplificazione amministrativa – tra cui certamente rientra l’istituto del silenzio tra amministrazioni ex art. 17 bis della l. n. 241/1990 – alla fattispecie qui esaminata pare doveroso evidenziare come il concetto stesso di “semplificazione” implica ex se lo snellimento e l’alleggerimento delle forme di esercizio del potere, eliminando superflue duplicazioni o sovrapposizioni delle fasi procedimentali attribuite a sfere di competenza differenti (o ad amministrazioni diverse) per la soluzione del c.d. “problema amministrativo” . Se è vero, quindi, che la semplificazione si traduce in uno strumento atto alla realizzazione di quel cristallino principio di buon andamento della P.A. (ai sensi dell’art. 97 Cost.) e dei connessi valori di efficacia ed efficienza dell’azione pubblica, ciò non implica, tuttavia, che sia possibile prevedere aprioristicamente tutti i casi in cui detta semplificazione possa ritenersi adeguata e soddisfacente[65]. Nella prospettiva dell’art. 17 bis cit., il ragionamento da applicarsi deve contemperare due considerazioni di natura divergente: da un lato, la generale estensione del silenzio assenso alle P.A. anche nelle materie sensibili (come il paesaggio) rappresenta certamente un passaggio necessario, dal momento che è proprio in tali settori che l’inerzia amministrativa sembrerebbe avere un maggiore impatto (nonostante la palese delicatezza degli interessi in gioco); dall’altro, la supremazia di alcuni interessi pubblici rende quantomeno doveroso un effettivo bilanciamento e una certosina ponderazione con altri interessi rilevanti[66]. In particolare, sul procedimento exart. 146 del d.lgs. n. 42/2004, l’istituto del silenzio assenso ex art. 17 bis non sembrerebbe, prima facie, particolarmente incisivo ai fini della contrazione delle già esigue tempistiche stabilite dalla disciplina speciale.
Una possibile soluzione al problema applicativo (e interpretativo) dell’istituto in esame al procedimento di autorizzazione paesaggistica potrebbe essere quella di riaffermare il valore di “inadempimento” collegato al silenzio della Soprintendenza, superando l’infelice coordinamento con le previsioni di cui all’art. 17 bis cit. Ciò in aggiunta ad una più puntuale definizione del perimetro di efficacia del parere tardivamente rilasciato, attraverso il riconoscimento esplicito allo stesso di una – certamente circoscritta e delimitata – valenza, così sottraendolo, peraltro, all’applicazione della scure dell’inefficacia sancita dal neo comma 8 bis dell’art. 2 della l. n. 241/1990[67]. In tal caso, de facto, il silenzio assumerebbe un carattere quasi “devolutivo”, con conseguente responsabilizzazione dell’autorità procedente nell’assunzione della decisione finale e incentivazione della stessa all’utilizzo del parere adottato tardivamente, soprattutto se di segno contrario al progetto autorizzando o recante prescrizioni[68].
Soluzione, quest’ultima, che sembrerebbe tutelare sia le esigenze di accelerazione procedimentale che di tutela del bene paesaggistico, sia la certezza del diritto e la sua uniforme applicazione.
[1] La vicenda trae origine dal deposito, da parte di una società attiva nel settore turistico-alberghiero, di una dichiarazione unica di autocertificazione, resa ai sensi dell’art. 4 della l. r. n. 4/2009, tesa ad ottenere i necessari titoli abilitativi relativi ad un progetto di ampliamento, adeguamento e riqualificazione dal punto di vista energetico e paesaggistico di detta struttura ricettiva turistica extralberghiera sita nella fascia dei 150 metri dal mare nell’isola di La Maddalena. In vista della conferenza di servizi, il settore urbanistica e edilizia privata del Comune esprimeva parere favorevole all’intervento, giudicandolo conforme alle previsioni vigenti. Si pronunciavano favorevolmente sull’intervento di ampliamento anche l’Ente Parco, la Regione Sardegna, nonché il Corpo Forestale di Vigilanza Ambientale. Il Ministero per i Beni Culturali non si pronunciava espressamente sulla questione. Il Servizio Tutela del Paesaggio regionale, de contrario, riteneva l’intervento inammissibile, da un lato, per alcuni controversi aspetti relativi all’interpretazione della normativa urbanistico-edilizia e paesaggistica regionale e, dall’altro, sotto il profilo dell’impatto paesaggistico delle opere. Alla luce di tali rilievi, veniva quindi adottato il provvedimento unico di diniego, ritenendo prevalente ed ostativo tali assunti. La società impugnava, quindi, il parere negativo espresso dal Servizio Tutela del Paesaggio di Sassari e Olbia, lamentando, ex plurimis e per quanto qui di interesse, la violazione dell’art. 146 del d.lgs. 42/2004 nonché degli artt. 14 ter e 17 bis della l. n. 241/1990, in quanto il parere espresso per silentium – ai sensi dell’art. 14 ter, comma 7, cit. – dalla Soprintendenza avrebbe natura vincolante e prevalente su quello difforme espresso dalla Regione sul medesimo intervento.
[2] Sul punto, in primo grado, il T.A.R. Sardegna, Cagliari, Sez. II, 22 ottobre 2018, n. 893, in Foro amm.-T.A.R., 2018, 4, 323 ss., ha specificato che il quadro normativo vigente (art. 146, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004) affida all’amministrazione regionale «la competenza al rilascio dell’autorizzazione in relazione agli interventi da eseguirsi su immobili ed aree sottoposti a tutela, previa acquisizione del parere vincolante della Soprintendenza, in tal modo delineando una forma di “cogestione” regionale e statale della tutela paesaggistica delle aree soggetta a tutela, nel caso in cui la Soprintendenza, nel rendere in sede procedimentale il suo parere, non si pronuncia nei termini consentiti resta fermo il potere della Regione di decidere in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’intervento proposto, come del resto confermato dall’art. 146, comma 9, d.lgs. n. 42/2004».
[3] Cons. Stato, Sez. IV, 29 marzo 2021, n. 2640, in giustizia-amministrativa.it. La sentenza, al di là dei profili di diritto che si affronteranno nella presente nota, ha altresì evidenziato – con riferimento alla possibilità per una normativa edilizia regionale quale il c.d. “Piano Casa” (l. r. n. 4/2009) di derogare in via straordinaria al Piano Paesaggistico Regionale (PPR) – che la giurisprudenza amministrativa «ha marcato una netta distinzione fra pianificazione urbanistica e paesaggistica e ha previsto la derogabilità soltanto della prima da parte della legislazione regionale in materia di c.d. “piano casa”»; ciò in quanto «in ragione della gerarchia esistente fra pianificazione paesaggistica e pianificazione urbanistica, l’intervento del piano-casa può in generale limitatamente incidere sul solo profilo urbanistico e non anche su quello paesaggistico».
[4] La previsione, nella Costituzione, della tutela del paesaggio (art. 9, comma 2) ha rappresentato uno stimolo alla riflessione sulla definizione giuridica di tale espressione, nel nostro ordinamento. L’interpretazione dell’esatta portata dell’espressione “paesaggio”, infatti, è stata per lungo tempo condizionata dalla preferenza per una concezione statica della funzione di tutela. Successivamente, attraverso una progressiva apertura verso un’interpretazione unitaria dei due commi dell’art. 9, si è giunti all’affermazione di una nozione più ampia di paesaggio, coincidente con la «forma del territorio, o dell’ambiente, creata dalla comunità umana che vi è insediata, con una continua interazione della natura e dell’uomo». Secondo tale visione dinamica, il paesaggio non può essere ridotto ai valori paesistici sotto il profilo dei quadri naturali che essi realizzano, ma è anche e soprattutto l’espressione di un rapporto “vivo” tra forze naturali e umane, «fatto fisico, oggettivo, ma al tempo stesso un farsi, un processo creativo continuo, incapace di essere configurato come realtà o dato immobile; è il modo di essere del territorio nella sua percezione visibile».
In dottrina, sulla nozione di paesaggio e sulle autorizzazioni a tutela, si veda, ex plurimis, S. Amorosino, Dalla disciplina (statica) alla regolazione (dinamica) del paesaggio: una riflessione d'insieme, in Riv. giur. urb., 2006, 4, 420 ss.; Id., I poteri legislativi ed amministrativi di stato e regioni in tema di tutela e valorizzazione del paesaggio, in Riv. giur. ed., 2007, 4-5, 135 ss.; Id., Il diritto del paesaggio e le categorie generali del diritto amministrativo, in Riv. giur. urb., 201, 4, 399 ss.; P. Marzaro, La “cura” ovvero “l’Amministrazione del paesaggio”: livelli, poteri e rapporti tra Enti nella riforma del 2008 del Codice Urbani (dalla concorrenza dei poteri alla paralisi dei poteri?), in Riv. giur. urb., 2008, 4, 416 ss.; Id., Pianificazione paesaggistica e beni paesaggistici: la centralità del procedimento nella “duplicità” del sistema, in Riv. giur. urb., 2013, 1, 78 ss.; F. Silvestri, Linguaggio della Costituzione e linguaggio giuridico: un rapporto complesso, in Quad. Giur., 1989; P. Correale, Paesaggio e turismo nel diritto vigente, in FA, 1968, 53 ss.; A. Dell’Acqua, La tutela degli interessi diffusi, 1979, Milano, 121 ss.; A. Predieri, Paesaggio, in Enc. Dir., 505 ss.; G. Mastronardo, Valore del paesaggio, in A. Angiuli, V. Caputi Iambrenghi (a cura di), Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, 2005, 344 ss.
[5] Sulla configurazione di una funzione generale di amministrazione del paesaggio: M. Sinisi, L’autorizzazione paesaggistica tra liberalizzazione e semplificazione (d.p.r. 13 febbraio 2017 n. 31): la “questione aperta” del rapporto tra semplificazione amministrativa e tutela del paesaggio, in Riv. giur. ed., 2017, 4, 235 ss.
[6] In dottrina, sull’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, si vedano ex aliis: G. Cartei, L’autorizzazione paesaggistica nel codice dei beni culturali e del paesaggio, in G.d.A., 2007, 1270 ss.; A. Calegari, Riflessioni in tema di tutela dell'ambiente e del paesaggio nell’esperienza italiana, in Riv. giur. urb., 2014, 224 ss.; M. Corti, Vincoli e autorizzazioni paesaggistiche: orientamenti consolidati e profili di novità, in Riv. giur. amb., 2011, 2, 524 ss.; V. Parisio, L’impugnazione dell'autorizzazione paesaggistica nell'art. 146 c. 12 del d. lgs. n. 42 del 2004: supremazia dei valori paesaggistici e deroghe al sistema processuale amministrativo, in F. Cortese (a cura di), Conservazione del paesaggio e dell'ambiente, governo del territorio e grandi infrastrutture: realtà o utopia, 2009, 151 ss.; V. Parisio, Legittimità e merito nei provvedimenti di vincolo, in Riv. giur. urb., 2008, 3, 234 ss.; A. Angiuli, Art. 146, in A. Angiuli, V. Caputi Iambrenghi (a cura di), Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, 2005, Torino, 383 ss.; S. Civitarese Matteucci, Art. 146, in M. Cammelli (a cura di), Il codice dei beni culturali e del paesaggio, 2007, Bologna, 593 ss.; M.R. Spasiano, Art. 146, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, 2012, Milano, 1116 ss.; P. Carpentieri, Regime dei vincoli e Convenzione europea, in G.F. Cartei (a cura di), Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio, 2007, Bologna 135 ss.; G. Mari, Le incertezze irrisolte in tema di autorizzazione paesaggistica, in Riv. giur. ed., 2014, 6, 103 ss.
[7] Sul punto, T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 01 aprile 2014, n. 3577, in Foro amm.-T.A.R., 2014, 4, 1211 ss., ove si rileva che la nozione di paesaggio indicata dall’art. 131, d.lgs. n. 42/2004 e le definizioni dell’art. 136 conducono a ritenere che l’individuazione dei beni paesaggistici non sia caratterizzata dall'attenzione alla rilevanza estetica dei beni limitata alla visione panoramica e all’aspetto visivo, ma soprattutto tenda alla conservazione delle caratteristiche di un bene per i profili espressivi di “identità”. Tale nozione rinvia ad un insieme di valori ed elementi di carattere storico, economico, sociale, antropologico.
[8] A. Berlucchi, Il parere tardivo espresso dalla soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici ex art. 146 d. lgs. n. 2004/42: spunti di riflessione, in Riv. giur. ed., 2017, 1, 128 ss.
[9] P. Carpentieri, Interesse paesaggistico e procedimenti autorizzativi, in Riv. giur. urb., 2015, 2, 219 ss., ove l’A. sostiene che «interrogarsi sull'interesse paesaggistico (ossia su quel “notevole interesse pubblico” attorno al quale è ordita l'intera trama normativa e amministrativa della Parte III del vigente Codice di settore) significa interrogarsi non solo e non tanto su che cosa è “paesaggio” in generale, ma anche e soprattutto su quali sono gli oggetti (discreti), gli episodi di vita concreti, i rapporti specifici, gli interventi e le attività determinanti, con i quali il potere funzionale autorizzativo si confronta in particolare (naturalmente, tra le due dimensioni — quella generale inerente il paesaggio e quella particolare inerente l'esercizio della funzione autorizzativa — opera un nesso dialettico, l'una essendo la sintesi della seconda, che ne costituisce l'analisi, un po' come avviene, con le debite distinzioni e precisazioni, nel rapporto tra paesaggio e beni paesaggistici)».
[10] Si veda, in particolare, V. Parisio, Art. 146, in R. Ferrara, G. F. Ferrari (a cura di), Commentario breve alle leggi in materia di urbanistica ed edilizia, 2015, Padova, 145 ss.
[11] Per completezza, si evidenzia che la disciplina autorizzatoria non si esaurisce con il solo art. 146 cit. (oggetto della presente analisi). Più nel dettaglio, si segnala anche il regolamento n. 31/2017, recante la disciplina degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata, distinguendo gli interventi e le opere “libere” o “esenti”, non soggetti ad autorizzazione paesaggistica, e gli interventi e le opere di lieve entità, soggetti a procedimento autorizzatorio semplificato.
[12] G. Mari, op. cit., 103 ss.
[13] La connessione tra i due indicati commi sta nell’obbligo di chiedere la preventiva autorizzazione solo se il “progetto degli interventi” e i “lavori” da avviare possano, almeno in astratto, introdurre modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione. Lo scopo è esattamente quello «di impedire che i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili e aree di interesse paesaggistico possano introdurre modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione» (M. Sinisi, op. cit.).
[14] L'importanza di tale verifica è sottolineata dalla previsione secondo cui essa costituisce “atto autonomo e presupposto” rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio (art. 146, comma 4) ed è anche il motivo per cui, fuori dai casi previsti dalla legge, è preclusa la possibilità di rilasciare l'autorizzazione in sanatoria, successivamente alla realizzazione degli interventi.
[15] Ai sensi del comma 5 dell'art. 146, «sull’istanza di autorizzazione paesaggistica si pronuncia la regione, dopo avere acquisito il parere vincolante del soprintendente in relazione agli interventi da eseguirsi su immobili ed aree sottoposti a tutela dalla legge o in base alla legge, ai sensi del comma 1, salvo quanto disposto all'articolo 143, commi 4 e 5. Il parere del Soprintendente, all’esito dell'approvazione delle prescrizioni d’uso dei beni paesaggistici tutelati, predisposte ai sensi degli articoli 140, comma 2, 141, comma 1, 141-bis e 143, comma 1, lettere b), c) e d), nonché della positiva verifica da parte del Ministero su richiesta della regione interessata, dell’avvenuto adeguamento degli strumenti urbanistici, assume natura obbligatoria non vincolante ed è reso nel rispetto delle previsioni e delle prescrizioni del piano paesaggistico, entro il termine di quarantacinque giorni dalla ricezione degli atti, decorsi i quali l’amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione».
[16] Sul tema, da ultimo, si veda R. Leonardi, La tutela dell'interesse ambientale, tra procedimenti, dissensi e silenzi, 2020, Torino, 134 ss.
[17] Art. 146, comma 9, come modificato dal c.d. “Sblocca Italia”. La versione antecedente prevedeva la possibilità per l’amministrazione competente di indire una conferenza di servizi che avrebbe dovuto pronunciarsi nel termine “perentorio” di quindici giorni. In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del Soprintendente, l’amministrazione competente provvedeva sulla domanda di autorizzazione.L’obiettivo della suddetta riforma legislativa, dichiarato nella relazione di accompagnamento al d.d.l. di conversione del decreto Sblocca Italia, era quello di fornire una «chiarificazione circa la prescindibilità del parere del soprintendente», ciò al fine di «evitare rallentamenti nella conclusione dei procedimenti» e di «superare gli orientamenti spesso contrastanti».
[18] T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 4 giugno 2015 n. 1261, T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 2 febbraio 2011, n. 224, T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 18 marzo 2011 n. 440 e T.A.R. Abruzzo, Pescara, sez. I, 20 giugno 2009 n. 448, in giustizia-amministrativa.it., in cui si afferma che le valutazioni di compatibilità ambientale «concretano un apprezzamento tecnico discrezionale rispetto al quale il sindacato del giudice è circoscritto alle situazioni connotate da evidenti illegittimità e da incongruenze manifeste, mentre non può tradursi nella formulazione di giudizi che spettano solo all'autorità competente». Secondo poi T.R.G.A. Trentino-Alto Adige, Bolzano, 24 dicembre 2007 n. 398, in giustizia-amministrativa.it, non è ammissibile la surrogazione delle valutazioni tecniche spettanti alle amministrazioni preposte alla tutela dell'ambiente, paesaggistico territoriale e della salute dei cittadini.
[19] Secondo la giurisprudenza, la funzione esercitata dalla Soprintendenza, benché consultiva «assume valenza, in sostanza, di tipo co-decisionale rispetto alla determinazione di autorizzazione paesaggistica» (Cons. Stato, sez. VI, 04 giugno 2015, n. 2751, in Riv. giur. ed., 2015, 4, 768 ss.). Con l’entrata in vigore nel 2010 dell’art. 146 cit., «la Soprintendenza esercita, non più un sindacato di legittimità ex post […] sulla autorizzazione già rilasciata dalla regione o dall'ente delegato, con il correlativo potere di annullamento, ma un potere che consente di effettuare ex ante valutazioni di merito amministrativo, con poteri di cogestione del vincolo paesaggistico» (inter alia, Cons. Stato, sez. IV, 10 giugno 2019, n. 3870, in giustizia-amministrativa.it).
[20] A. Berlucchi, op. cit., 130 ss. Secondo l’A., «l’atto autorizzatorio, in buona sostanza, viene deciso sostanzialmente nel suo contenuto dalla Soprintendenza ma formalmente imputato all’ente subdelegato, solitamente il Comune».
[21] Sull’attività consultiva e pareri in generale si vedano ex plurimis: A. Amorth, La funzione consultiva e i suoi organi, in Amm. civ., 1961, 397 ss.; F. Trimarchi, Funzione consultiva e amministrazione democratica, 1974, Milano, 35 ss.; C. Barbati, L'attività consultiva nelle trasformazioni amministrative, Bologna, 2002, 132 ss.; V. Parisio, Novità e conferme nella discplina degli atti consultivi prevista nella l. 15 maggio 1997 n. 127, in Aa.Vv., Semplificazione dell'azione amministrativa e procedimento amministrativo alla luce della l. 15 maggio 1997 n. 127, 1998, Milano, 68 ss.; G. Ghetti, La consulenza amministrativa, 1974, Padova, 198 ss.; F. Franchini, Il parere nel diritto amministrativo, 1945, Milano, 44 ss.; V. Parisio, L’attività consultiva, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell'azione amministrativa, 2011, Milano, 324 ss.; M. Nicosia, Il procedimento amministrativo: principi e materiali. Commento alla l. 241/1990 e alla sua attuazione con i d.p.r. 300 e 352/1992, 1992, Napoli, 138 ss.
[22] Si segnalano T.A.R. Lazio, Latina, sez. I, 21 settembre 2006, n. 669; T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, 16 aprile 2012, n. 382; T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 24 febbraio 2014 n. 459, tutte in giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. VI, 04 ottobre 2013, n. 4914, in Urb e app., 2013, 12, 1344 ss.
[23] Si vedano, Cons. Stato, sez. VI, 15 marzo 2013, n. 1561, in giustizia-amministrativa.it; Id., sez. VI, 27 aprile 2015 n. 2136, in Riv. giur. ed., 2015, 775 ss.; Id., sez. VI, 28 ottobre 2015, n. 4927, in giustizia-amministrativa.it; Id., sez. VI, 13 maggio 2016, n. 1935, in Foro amm.-T.A.R., 2016, 3, 1204 ss.; Id., sez. VI, 18 luglio 2016, n. 3179, in giustizia-amministrativa.it.
[24] T.A.R. Veneto, sez. II, 14 novembre 2013 n. 1295, in giustizia-amministrativa.it. Secondo altra giurisprudenza la mancanza del parere vincolante avrebbe imposto all’amministrazione competente di concludere il procedimento dichiarando l’improcedibilità (con conseguente possibilità dell'interessato di ricorrere avverso l’inerzia e di chiedere il risarcimento del danno da ritardo: in tal senso, Cons. Stato, sez. VI, 30 luglio 2013, n. 4914, in Foro amm.-C.d.S., 2013, 4, 322 ss.).
[25] Ex plurimis, T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 24 luglio 2013, n. 1739; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 2267, 2015; T.A.R. Sardegna, Cagliari, sez. II, 20 gennaio 2016, n. 41; T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 20 settembre 2016 n. 1446, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[26] Con riguardo a tale articolo, autorevole dottrina (Parisio) ha chiarito come i poteri vincolanti vadano esclusi dal relativo ambito di applicazione altrimenti ricorrendo l’interprete in «un insanabile contraddizione logica, in quanto un parere definito dalla legge come vincolante finirebbe di fatto col perdere tale sua qualificazione se si riconoscesse all'amministrazione attiva la possibilità di prescinderne»; V. Parisio, Art. 16, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, 2011, Milano, 715 ss.
[27] Sulla non applicabilità del silenzio assenso al parere della soprintendenza ex art. 16, 17 e 20 l. n. 241/1990, T.A.R. Campania, Napoli, sez. VII, 9 febbraio 2012, n. 685; T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, 16 aprile 2012, n. 382; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II ter, 03 settembre 2015, n. 11030, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[28] Merita una riflessione, sul punto, la pronuncia dell’Adunanza Plenaria 27 luglio 2016, n. 17, in giustizia-amministrativa.it, la quale ha precisato che il silenzio assenso previsto dalla l. n. 394/1991 (legge quadro sulle aree protette) non è stato implicitamente abrogato a seguito dell'entrata in vigore della l. n. 80/2005, che nell’innovare l'art. 20 l. n. 241/90, ha escluso che l'istituto del silenzio assenso possa trovare applicazione in materia di tutela ambientale e paesaggistica. Pur riferendosi la pronuncia ad altro contesto normativo, si può ritenere che gli interessi coinvolti e la materia specifica siano simili e che quindi i rilievi della pronuncia possano risultare qui di interesse. Le ragioni per cui il giudice amministrativo giunge a tali conclusioni sono le seguenti: a) non si rinviene un’indicazione della giurisprudenza costituzionale in senso preclusivo alla possibilità per il legislatore ordinario statale di dotarsi dello strumento di semplificazione procedimentale rappresentato dal silenzio assenso anche in materia ambientale, laddove si tratti di valutazione con tasso di discrezionalità non elevatissimo; b) neppure la giurisprudenza comunitaria ha fornito indicazioni precise in tal senso: la Corte di giustizia europea (ex aliis, 28 febbraio 1991, causa C-360/87; 10 giugno 2004, causa C-87/02; 26 febbraio 2011, causa C-400/08) ha ritenuto non compatibile la definizione tacita del procedimento solo quando però, per garantire effettività agli interessi tutelati (tutela della salute), fosse necessario un’espressa valutazione amministrativa quale un accertamento tecnico o una verifica. In questi casi, la previsione del silenzio assenso darebbe adito al rischio che l’amministrazione non svolga quella attività istruttoria imposta a livello comunitario per la tutela di particolari valori e interessi. In dottrina, A. Berlucchi, op. cit.; G. Sciullo, Gli interessi sensibili in recenti prese di posizione del Consiglio di Stato, in Riv. giur. urb., 2016, 2, 56 ss.
[29] L’art. 17 bis riguarda, infatti, anche i pareri vincolanti (da ritenere inclusi nell’ampia nozione di “assensi comunque denominati”) resi in uno schema di provvedimento, non ponendo eccezioni per gli interessi sensibili.
[30] Corte cost., 17 dicembre 1997, n. 404, in Foro amm., 1998, 1321 ss.; Id., 10 marzo 1998, n. 302, in Giust. civ., 1998, 1390 ss.; Id., 01 luglio 1992, n. 307, in Giur. it., 1998, 1, 505 ss.
[31] Cons. Stato, sez. VI, 18 aprile 2011, n. 2378, in Foro amm.-C.d.S., 2011, 1306 ss. Ed ancora, «la semplificazione procedimentale può sì perseguire l'obiettivo di speditezza del procedimento ma non surrettiziamente invertire il rapporto sostanziale tra interessi e sottrarre effettività a un principio fondamentale dell'ordinamento costituzionale qual è la tutela del paesaggio» (Cons. Stato, sez. VI, 23 maggio 2012, n. 3039, in Riv. giur. ed., 2012, 4, 707 ss.).
[32] T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 11 settembre 2020, n. 9528, in Foro amm.-T.A.R., 2020, 5, 456 ss., secondo cui «il parere successivamente reso in senso favorevole dalla Soprintendenza supera ed assorbe la proposta contraria della Commissione Comunale, poiché assume natura, oltre che obbligatoria, anche vincolante, con il quale la Soprintendenza esercita non più un sindacato di legittimità ex post (come previsto dall'art. 159 del Codice nel regime transitorio fino al 31 dicembre 2009), sull'autorizzazione paesaggistica già rilasciata dalla Regione o dall'ente delegato, con il correlativo potere di annullamento, ma un potere che consente di effettuare ex ante valutazioni di merito amministrativo, con poteri di cogestione del vincolo paesaggistico». Pertanto, la scansione procedimentale sopra riportata «assegna, quindi una inequivoca prevalenza delle valutazioni fatte dall'Autorità Statale (sebbene effettuate in sede consultiva) che, quindi, dovranno essere formalmente recepite nell'atto finale, conclusivo del procedimento, dall'ente (comunale o regionale) competente al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica».
[33] Cons. Stato, sez. VI, 03 marzo 2015, n. 2136; Cons. Stato, sez. VI, 22 settembre 2015, n. 4927, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[34] Tanto è confermato dalla giurisprudenza anche in casi analoghi disciplinati dal medesimo d.lgs. n. 42/2004, ad esempio nel giudizio di compatibilità ambientale. Ed infatti, «alla funzione di tutela del paesaggio (che il Ministero dei beni culturali esercita esprimendo il suo obbligatorio parere nell’ambito del procedimento di compatibilità ambientale) è estranea ogni forma di attenuazione determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire inconsiderazione. Esso è atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica, attraverso il quale, similmente a quanto avviene nell’espressione del parere di cui all’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, l’intervento progettato viene messo in relazione con i valori protetti ai fini della valutazione tecnica della sua compatibilità con il tutelato interesse pubblico paesaggistico, valutazione che è istituzionalmente finalizzata a evitare che sopravvengano alterazioni inaccettabili del preesistente valore protetto» (Cons. Stato, sez. IV, 02 marzo 2020, n. 1486; Id., sez. VI, 23 luglio 2015, n. 3652; Id., 10 giugno 2013, n. 3205, tutte in giustizia-amministrativa.it).
[35] Ciò in quanto, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti e in mancanza di parere della Soprintendenza, l’art. 146, comma 9, stabilisce che l’amministrazione competente “provvede comunque” sulla domanda di autorizzazione.
[36] Cons. Stato, sez. II, 08 giugno 2016, n. 1794, in giustizia-amministrativa.it, ove si specifica, tra l’altro, che «il parere pronunciato tardivamente, pur conservando la propria legittimità, deve considerarsi inutiliter datum, dunque, solo nel caso in cui il procedimento sia stato medio tempore concluso dall’Ente territoriale competente».
[37] In generale sull'istituto del silenzio assenso, vedasi F.G. Scoca, Modello tradizionale e trasformazioni del processo amministrativo dopo il primo decennio di attività dei tribunali amministrativi regionali, in Diritto amministrativo e giustizia amministrativa nel bilancio di un decennio di giurisprudenza, 1985, Rimini, 236 ss.; Id., Il silenzio della pubblica amministrazione: la ricostruzione dell'istituto in una prospettiva evolutiva, in V. Parisio (a cura di), Inerzia della pubblica amministrazione e tutela giurisdizionale: una prospettiva comparata, Milano, 2002, 3 ss.; V. Parisio, Silenzio della pubblica amministrazione, in M. Clarich , G. Fonderico (a cura di), Dizionario del diritto amministrativo, Milano, 2006, 1022 ss.; Id., Silenzio della pubblica amministrazione, in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, VI, Milano, 2006, 5550 ss.; A. Travi, La semplificazione amministrativa come strumento per far fronte alla crisi economica, in giustamm.it, 2016; M. P. Chiti, Semplificazione delle regole e semplificazione dei procedimenti: avversari o alleati?, in Foro it., 2006, 1057 ss.; G. Morbidelli, Il silenzio assenso, in V. Cerulli Irelli (a cura di), La disciplina generale dell'azione amministrativa, 2006, Napoli, 265 ss.
[38] In dottrina, si veda, ex plurimis, M.A. Sandulli, Gli effetti diretti della l. 7 agosto 2015 n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a. silenzio assenso e autotutela, in federalismi.it, 2015, 17 ss.; P. Marzaro, Silenzio assenso tra Amministrazioni: dimensioni e contenuti di una nuova figura di coordinamento orizzontale all'interno della nuova amministrazione disegnato dal Consiglio di Stato, in federalismi.it, 2016; Id., Il coordinamento orizzontale tra amministrazioni: l'art. 17 bis della l. n. 241 del 1990 dopo l'intervento del Consiglio di Stato. Rilevanza dell'istituto nella gestione dell'interesse paesaggistico e rapporti con la conferenza di servizi, in Riv. giur. urb., 2016, 2, 10 ss.; G. Mari, Autorizzazioni preliminari e titoli abilitativi edilizi: il ruolo dello sportello unico dell'edilizi, la conferenza di servizi e il silenzio assenso id cui agli artt. 17-bis e 20 l. n. 241/1990, in Aa.Vv., Semplificazione e trasparenza amministrativa: esperienze italiane ed europee a confronto, atti dei convegni Strategie di contrasto alla corruzione: l. 06/11/2012 n. 190 e s.m.i. e Titoli abilitativi edilizi, Sblocca Italia e Decreti del Fare, Napoli, 2016, 39 ss.; A. Police, Il dovere di concludere il procedimento e il silenzio inadempimento, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell'azione amministrativa, Milano, 2017.
[39] Sul punto, peraltro, giova evidenziare come il pluridecennale dibattito dottrinale e giurisprudenziale sviluppatosi sul tema si è, da tempo, indirizzato verso posizioni diametralmente opposte – o comunque parzialmente diverse e “temperate” – all’applicazione tout court degli istituti di semplificazione (tra cui il silenzio assenso) nell’ambito della tutela di interessi sensibili, rilevando, in buona sostanza, come detti istituti non debbano trovare applicazione (o comunque un’applicazione limitata a pochi circostanziati casi) quando è in gioco la protezione dell'ambiente. Sulla scia di tale consolidata impostazione ed indirizzo, si veda, da ultimo, R. Leonardi, op. cit., 354 ss.
[40] Stando poi al tenore letterale, il silenzio assenso procedimentale attiene ai soli casi in cui una amministrazione è tenuta ad acquisire l’assenso di una altra amministrazione su uno schema di provvedimento già predisposto dalla prima. In base a tale interpretazione, l’art.17 bis non trova invece applicazione nel caso in cui le diverse amministrazioni coinvolte siano chiamate a compiere valutazioni nell'ambito di un procedimento a struttura complessa (nel corso della cui istruttoria sia necessario acquisire pareri e valutazioni con il coinvolgimento di una pluralità di amministrazioni), in tal caso trovando applicazione gli artt. 16 e 17 della l. n. 241/90 (articoli che escludono il silenzio assenso e, in termini più generali, forme di semplificazione quali anche il silenzio devolutivo in caso di interessi sensibili coinvolti). Parimenti la norma «non sarebbe applicabile nei procedimenti collegati relativi ad autonomi atti di assenso funzionali a consentire lo svolgimento di un’attività e che risultano essere l’esito di distinte valutazioni delle amministrazioni» (G. Mari, La rilevanza della disciplina del silenzio assenso, in Riv. giur. ed., 2016, 3, 61 ss.).
[41] Sulle criticità in merito all'applicazione dell'art. 17 bis alle materie sensibili si veda, in particolare, G. Corso, La riorganizzazione della P.A. nella legge Madia: a survay, in federalismi.it, 2015; F. Scalia, Il silenzio assenso nelle c.d. materie sensibili alla luce della riforma Madia, in Urb. e app., 2016, 1, 11 ss.; E. Scotti, Silenzio assenso tra amministrazioni, in A. Romano (a cura di), L'azione amministrativa, 2016, Torino, 566 ss.
[42] Per un’analisi approfondita, F. Martines, La “non decisione” sugli interessi pubblici sensibili: il silenzio assenso fra amministrazioni pubbliche introdotto dall'art. 17 bis della l. 241/1990, in Dir. amm., 2018, 3, 747 ss.
[43] Si vedano le considerazioni di F. De Leonardis che (nel citato scritto Il silenzio assenso in materia ambientale: considerazioni critiche sull'art. 17 bis introdotto dalla cd. riforma Madia) osserva come «appare chiaro che norma costituisce una vera e propria fuga in avanti in quella che si potrebbe definire la guerra di logoramento degli interessi sensibili che vengono sempre più parificati a quelli ordinari». L’A., a sostegno dell’opportunità di mantenere in vita la previgente esclusione del regime semplificatorio per le materie sensibili, mette in evidenza per un verso l’incoerenza della nuova disciplina rispetto a quella prevista per il silenzio assenso dell’art. 20 L. 241/1990 e, per altro verso, afferma (richiamando E. Casetta) che «non tutti gli interessi tollerano una disciplina procedimentale che comporti una semplificazione in grado di sacrificare la corretta ponderazione di alcuni valori».
[44] F. Scalia, Il silenzio assenso nelle c.d. materie sensibili alla luce della riforma Madia, op. cit., il quale osserva che, in realtà, «la norma non introduce nulla di nuovo quanto al profilo della intensità della tutela degli interessi sensibili ed anzi, letta insieme alla norma di delega legislativa in materia di silenzio assenso, contenuta nella stessa L. n. 124/2015 (art. 5), può rappresentare l'occasione per ricondurre in un ambito di coerenza costituzionale la normativa già vigente in tema di silenzio in materie sensibili».
[45] Corte Cost., 01 luglio 1992, n. 307, ove si evidenzia che i principi fondamentali da osservarsi in tema di smaltimento dei rifiuti, stante la necessità di tutelare la salute e l'ambiente, escludono la possibilità del ricorso al silenzio assenso. Per la Corte tale esclusione è motivata «proprio perché si impone la tutela della salute e dell'ambiente che sono beni costituzionalmente garantiti e protetti».
[46] Ex plurimis, Corte cost., 10 ottobre 1992, n. 393.
[47] Corte cost., 12 febbraio 1996, n. 26, in Giur. it., 1996, I, 271 ss. In particolare, secondo questa giurisprudenza costituzionale, l’istituto del silenzio assenso non può ritenersi compatibile con i principi di buon andamento della P.A., in presenza di procedimenti complessi, caratterizzati da un alto tasso di discrezionalità.
[48] Ci si riferisce al parere Cons. Stato, Ad. speciale, 23 giugno 2016, n. 1640, in giustizia-amministrativa.it.
[49] Sul tema, V. Parisio, Interessi forti e interessi deboli: la natura degli interessi come limite alla semplificazione del procedimento amministrativo nella l. 7 agosto 1990, n. 241, in Dir. proc. amm., 2014, 839 ss.; F. Manganaro, Principio di legalità e semplificazione dell'attività amministrativa. I. Profili critici e principi ricostruttivi, Milano, 2000; A. Police, Riflessioni sui tortuosi itinerari della semplificazione nell'amministrazione della complessità, in apertacontrada.it, 2013.
[50] A. Del Prete, Il silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni: profili critici e problematici, in Riv. giur. ed., 2018, 3, 75 ss.
[51] Cons. Stato, Ad. speciale, 23 giugno 2016, n. 1640.
[52] Ed infatti, l’art. 11, comma 9, del d.p.r. n. 31/2017, relativo ad interventi sottoposti a procedura autorizzativa paesaggistica semplificata, stabilisce che «in caso di mancata espressione del parere vincolante del Soprintendente nei tempi previsti dal comma 5, si forma il silenzio assenso ai sensi dell'articolo 17-bis della l. 7 agosto 1990 n. 241, e successive modificazioni e l'amministrazione procedente provvede al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica». Sul punto, si richiamano anche le circolari MIBACT del 10 novembre 2015 e del 20 luglio 2016, ove si distingue tra procedimenti ad istanza di parte privata e quelli in cui la domanda provenga dalla P.A.: per i primi resta applicabile l’art. 20 della l. n. 241/1990 e quindi l’inclusa esclusione degli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico; «trova invece applicazione il nuovo art. 17 bis in tutti i casi in cui la domanda provenga da una p.a. anche ove il destinatario finale dell'atto titolare della posizione soggettiva condizionata al previo atto di assenso sia un privato e la sua domanda sia intermediata e vincolata dallo sportello unico comunale». Secondo quanto chiarito nella circolare, l’art. 17 bis trova poi applicazione «qualora l’inerzia concerna pareri vincolanti in quanto atti aventi natura di codecisione» (rientrando invece i pareri non vincolanti nell’ambito della disciplina di cui all’art. 17 della l. n. 241/1990).
[53] P. Marzaro, Autorizzazione paesaggistica semplificata e procedimenti connessi, op. cit. Ciò pur a fronte delle perplessità espresse in relazione all'operatività dell'art. 17 bis della l. n. 241/1990, che l’A. definisce «espressione di un generale e preoccupante processo di dequotazione della tutela garantita agli interessi sensibili che caratterizza in modo sempre più netto il nostro sistema, specie all'esito della c.d. riforma Madia».
[54] F. D’Angelo, L'autorizzazione paesaggistica: inapplicabilità del silenzio assenso “endoprocedimentale”, in Dir. Amm., 2021, 2, 231 ss.
[55] Si pensi, poi, alla riduzione dell'incisività del ruolo attribuito alla Soprintendenza dal Codice (nelle ipotesi in cui si formi il silenzio assenso, il procedimento sarebbe reso privo di un contributo istruttorio qualificato che, storicamente, le regioni o i comuni non sono apparse in grado di offrire per ragioni politiche o organizzative; inoltre, l'istruttoria eventualmente avviata dagli organi ministeriali diverrebbe inutile e ininfluente rispetto alla determinazione finale, con vanificazione delle risorse impiegate) e al rischio di deresponsabilizzare, oltre i funzionari ministeriali, le amministrazioni procedenti.
[56] Tale conclusione sembrerebbe confermata dall'introduzione del comma 8 bis nell'art. 2 della l. n. 241/1990 ad opera del D.L. n. 76/2020, convertito dalla L. n. 120/2020, che sancisce l'inefficacia, fra gli altri, dei pareri di cui all'art. 17 bis adottati «dopo la scadenza dei termini previsti[...] fermo restando quanto previsto dall'articolo 21- nonies».
[57] F. D’Angelo, op. cit.
[58] Ex aliis, T.A.R. Campania, Napoli, sez. VI, 07 giugno 2019, n. 3099; TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 08 giugno 2017, n. 394; T.A.R. Abruzzo, Pescara, sez. I, 10 maggio 2018, n. 153, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[59] Sul punto, Cons. Stato, Sez. IV, 2 marzo 2020, n. 1486, in Foro amm.-C.d.S., 2020, 3, 567 ss. I giudici amministrativi, in tale pronuncia, hanno evidenziato come «alla funzione di tutela del paesaggio (che il Ministero dei beni culturali esercita esprimendo il suo obbligatorio parere nell’ambito del procedimento di compatibilità ambientale) è estranea ogni forma di attenuazione determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in considerazione […]. Anche laddove, cioè, il legislatore abbia scelto una speciale concentrazione procedimentale, come quella che si attua con il sistema della conferenza dei servizi, essa non comporta comunque un’attenuazione della rilevanza della tutela paesaggistica perché questa si fonda su un espresso principio fondamentale costituzionale».
[60] G. Sciullo, “Interessi differenziati” e procedimento amministrativo, in giustamm.it, 2016, 5, 24 ss. Secondo l’A., «l'interpretazione costituzionalmente orientata delle ipotesi di silenzio assenso in discorso spinge a ricostruire l'inerzia serbata dall'amministrazione non come fattispecie legale equivalente un atto di consenso alla determinazione prospettata dall'amministrazione procedente (o quantomeno di non contrarietà all'interesse curato rispetto ad essa), ma piuttosto come ‘silenzio facoltativo', ossia come silenzio che abilita l'amministrazione procedente ad assumere la determinazione finale pur in assenza del consenso dell'amministrazione coinvolta nella conferenza». Ciò però non esonera l'amministrazione procedente dall'annoverare, in forma espressa e compiuta, nella valutazione complessiva degli interessi in gioco «anche quell'interesse in relazione al quale è mancata la determinazione dell'amministrazione rimasta silente, impiegando le conoscenze a sua disposizione o in ipotesi avvalendosi di valutazioni di altre strutture pubbliche al riguardo idonee».
[61] Cons. Stato, sez. V, 27 agosto 2014, n. 4374, in giustizia-amministrativa.it, ove si legge che «l’amministrazione procedente, chiamata ad adottare il provvedimento finale, deve tenere conto delle posizioni prevalenti espresse in seno alla conferenza, ma non essendo in presenza di un organo collegiale, bensì di un modulo procedimentale, ciò non significa che deve attuare la volontà della maggioranza delle amministrazioni, quanto piuttosto che deve esercitare un potere discrezionale bilanciando le ragioni manifestate in seno alla conferenza, verificando in che termini si delinei la prevalenza del soddisfacimento degli interessi in gioco. […] Il ruolo assunto dall’amministrazione procedente non è meramente notarile, ma di sintesi delle ragioni emerse, dovendone ponderare l’effettiva rilevanza per come sono state in concreto prospettate, al fine di esprimere un giudizio di prevalenza».
[62] Si badi che la giurisprudenza amministrativa si è più volte espressa in tal termini con riferimento al parere soprintendizio, vale a dire che «la mancata osservanza, da parte della Soprintendenza, del termine previsto ex lege per il rilascio del parere di compatibilità paesaggistica non determina l’illegittimità del parere reso oltre tale termine ma semplicemente la perdita, da parte di quest’ultimo, del carattere vincolante impressogli dalla legge perché esso, pur collocandosi al di fuori del quadro normativo, costituisce pur sempre un elemento del procedimento che l’Amministrazione deve valutare, potendosene solo motivatamente discostare». Secondo i giudici amministrativi, non può dunque fondatamente sostenersi che l’assenza del rappresentante della Regione alla Conferenza di servizi potesse avere valore di conferma per silentium del parere favorevole già espresso, quanto meno sotto il profilo della totale mancanza di argomentazioni idonee a superare le ragioni di tutela paesaggistica del sito evidenziate dalla Soprintendenza (T.A.R. Sardegna, Cagliari, sez. II, 23 febbraio 2017, n. 133, in giustizia-amministrativa.it).
[63] Si rinvia integralmente, anche per un approfondimento specifico e dettagliato, a L. Caruccio, Art. 14 ter, in V. Italia, S. D’Ancona, G. Ruggeri, P. Pantalone, A. Zucchetti (a cura di), L’attività amministrativa, 2020, Milano, 476 ss.
[64] Cons. Stato, Comm. Speciale, 7 aprile 2016, n. 890, in giustizia-amministrativa.it.
[65] Come evidenziato in dottrina (A. Del Prete, op. cit.), «se da un lato si possono tendenzialmente ritenere compatibili con la tutela di interessi sensibili […] moduli di semplificazione consistenti nel coordinamento ed unificazione di procedimenti connessi, più delicato è il discorso in relazione a quei sistemi che consentano di prescindere dal pronunciamento dell'amministrazione. E ciò sia per il valore costituzionale dell'interesse tutelato, che impone un'adeguata istruttoria e ponderazione, sia anche per le peculiari caratteristiche che connotano le autorizzazioni in materia ambientale, come quelle relative al paesaggio e ai beni culturali».
[66] In tal senso, è stato suggerito da parte della dottrina di escludere i procedimenti ad elevato contenuto discrezionale, applicando il criterio della differenziazione dei livelli e delle modalità procedimentali, sulla scorta di quanto già avviene per i rapporti tra P.A. e privati.
[67] In particolare, il comma 8 bis dell’art. 2 della l. n. 241/1990, introdotto dal d. l. n. 76/2020 (c.d. Decreto Semplificazioni), sancisce, in estrema sintesi, l’inefficacia del provvedimento emanato oltre i termini procedimentali in tutti i casi in cui operi il regime del silenzio assenso, nonché nelle ipotesi di SCIA. Per una approfondita analisi, si veda M. Calabrò, Il silenzio assenso nella disciplina del permesso di costruire. L’inefficacia della decisione tardiva nel d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni), in giustiziainsieme.it, 2020.
[68] F. D’Angelo, op. cit.
Un nuovo (piccolo?) passo verso l’abolizione della pena di morte negli Stati Uniti
di Paolo Passaglia
Sommario: 1. L’anno della svolta? - 2. E il governo federale? - 3. La formalizzazione della moratoria federale sulle esecuzioni.
1. L’anno della svolta?
Per coloro che osservano l’evoluzione della politica statunitense in materia di pena di morte, gli ultimi dodici mesi sono stati, di gran lunga, i più interessanti della storia recente: sono stati, infatti, i mesi in cui, nella fase iniziata con la fine degli Anni Settanta (la fase della reintroduzione della pena capitale), si sono verificate le maggiori novità. Le novità sono state tali che, forse, questi mesi saranno ricordati in futuro come quelli «della svolta».
Sebbene gli avvenimenti siano, probabilmente, ormai fin troppo conosciuti, e a costo di ripetere quanto già esposto in precedenti interventi (anche in questa rivista: cfr. La banalizzazione della pena di morte nel tramonto dell’era Trump e il caso di Lisa Montgomery, 8 gennaio 2021, e L’abolizione della pena di morte negli Stati Uniti: forse qualcosa si sta muovendo davvero, 12 febbraio 2021), giova, anche a fini espositivi, ripercorrere in estrema sintesi i momenti salienti del periodo che ha avuto inizio nel luglio 2020.
(a) Negli ultimi sessant’anni, le esecuzioni negli Stati Uniti erano state quasi tutte poste in essere da parte e nell’ambito degli Stati (e in particolare di alcuni di essi, a partire dal più attivo, il Texas). A livello federale, le esecuzioni erano state molto sporadiche: dal 1958 in poi, si erano avute una esecuzione nel 1963, due nel 2001 e una nel 2003. Il Presidente Trump, nell’estate 2019, aveva propugnato un’inversione di tendenza, consistente in una riattivazione delle esecuzioni federali: superati gli ostacoli giudiziari, burocratici e pratici, derivanti dal lungo intervallo di tempo dall’ultima esecuzione e dalla necessità di un aggiornamento delle procedure, il 14 luglio 2020 si era proceduto alla prima esecuzione dopo oltre diciassette anni. L’esecuzione era destinata ad aprire una sequenza di ben tredici esecuzioni, con le quali la prassi della pena di morte federale avrebbe fatto un salto all’indietro di oltre un secolo, per saldarsi al periodo della presidenza di Grover Cleveland (1885-1889 e 1893-1897): per trovare un anno con più esecuzioni delle 10 del 2020, si doveva tornare al 1896; considerando poi che l’amministrazione Trump avrebbe condotto ben sei esecuzioni dopo la sconfitta alle elezioni presidenziali, un altro aspetto eloquente emergeva, e cioè che per la prima volta dal 1889 si sarebbero eseguite condanne nel periodo di passaggio da un presidente ad un altro, nell’intervallo cioè tra le elezioni e l’inizio del mandato dal nuovo eletto.
(b) Questi dati, indicativi di per sé, sono usciti ingigantiti dal fatto che la pandemia ha condotto a una significativa contrazione del numero di esecuzioni, che infatti nel 2020 è stato pari a 17, il valore più basso dal 1991. Se, per la prima volta nella storia, nello scorso anno il potere federale ha condotto più esecuzioni di quando non abbiano fatto gli Stati nel loro insieme, il dato sembra dimostrare chiaramente che il Governo federale, a differenza di quanto si è fatto a livello statale, ha omesso di tener conto delle cautele imposte dalla pandemia, sia sotto il profilo della diffusione del virus che sotto quello della effettiva possibilità per i detenuti di fruire di una piena difesa tecnica.
(c) Le forzature che l’amministrazione Trump ha compiuto hanno probabilmente inciso sull’opinione pubblica. Di certo hanno prodotto una reazione di stampo politico, consistente nel rifiuto, da parte del Partito democratico, dell’impostazione trumpiana. È in questo contesto, infatti, che, per la prima volta, un candidato presidente democratico ha inserito nel suo programma elettorale l’abolizione della pena di morte. O meglio, ha inserito l’impegno a favorire l’abolizione: all’abolizione a livello federale, infatti, Joe Biden ha associato l’assunzione di una responsabilità nel coadiuvare gli Stati nei loro sforzi per l’abolizione.
(d) Appena entrato in carica, il nuovo Presidente è parso «dimenticarsi» di questa parte del suo programma: probabilmente assorbito dalla necessità di invertire la rotta rispetto alla disastrosa gestione della pandemia, Biden ha lasciato in sospeso la questione inerente alla pena di morte, limitandosi a non far organizzare ulteriori esecuzioni.
Nel frattempo, a livello statale, anche senza il fattivo sostegno federale, qualcosa si è mosso: l’avvenimento più significativo, almeno da un punto di vista mediatico, si è avuto il 24 marzo 2021, con l’abolizione della pena di morte nello Stato della Virginia, cioè nello Stato che deteneva (e detiene tuttora) il primato relativo al numero di esecuzioni nella storia degli Stati Uniti e che si poneva al secondo posto, dopo il Texas, nella triste graduatoria del numero di esecuzioni condotte dopo la ripresa del 1977 (sul tema, sia consentito rinviare a P. Passaglia, L’abolizione della pena di morte nello Stato della Virginia: tassello del mosaico abolizionista o tessera di un domino?, in Diritti Comparati, 6 aprile 2021).
Un altro fatto da non trascurare è stata la rarefazione estrema delle esecuzioni. Nel 2021, dopo le tre esecuzioni ordinate dal Presidente Trump nel gennaio, è maturato il più lungo lasso di tempo senza esecuzioni da parte degli Stati in oltre quaranta anni: il Texas aveva, infatti, condotto l’ultima esecuzione «non-federale» l’8 luglio 2020 e solo il 19 maggio 2021 ne avrebbe posta in essere un’altra. Non solo: nei primi sei mesi del 2021, il totale delle esecuzioni si sarebbe fermato a cinque: alle tre federali si sarebbero sommate due esecuzioni da parte del Texas (la seconda il 30 giugno). Si tratta di numeri estremamente contenuti, che, verosimilmente, sono destinati a essere confermati anche per la seconda parte dell’anno, visto che attualmente le esecuzioni pendenti sono quattro: due in Texas, una in Missouri e una in Nevada (Stato, quest’ultimo, in cui nel mese di aprile l’assemblea legislativa aveva adottato una legge abolizionista, incorsa però nel veto del Governatore: cfr. J. Schulberg, Nevada Democrats Squander Opportunity To End Death Penalty, in HuffPost, 13 maggio 2021).
Se le esecuzioni si sono ridotte in misura estremamente significativa (per trovare un anno con meno di dieci esecuzioni, come dovrebbe essere il 2021, bisogna risalire alle cinque del 1983), un ulteriore segnale della contrazione del ricorso alla pena di morte si è avuto con le condanne pronunciate nei primi sei mesi dell’anno, che sono state pari a quattro, il numero più basso dagli Anni Settanta (le condanne sono state pronunciate in Alabama, in Florida, in Nebraska e in California, dove peraltro è in vigore una moratoria sulle esecuzioni; per una analisi compiuta della pena di morte nei primi sei mesi dell’anno, v. Death Penalty Information Center, Mid-Year Review: Virginia’s Historic Death Penalty Abolition Accompanies Continuing Record-Low Death Penalty Usage in First Half of Year, 1° luglio 2021).
2. E il governo federale?
L’elezione di Joe Biden e la necessità di marcare una discontinuità forte rispetto alla Presidenza Trump, anche in materia di pena di morte, aveva fatto presagire che proprio sulla Casa Bianca e, in generale, su Washington il fronte abolizionista avrebbe dovuto concentrarsi per ottenere i maggiori successi.
L’inerzia dell’amministrazione Biden, però, ha raffreddato non poco le aspettative iniziali, che addirittura, nel corso dei mesi, sono parse sul punto di essere smentite. Un timore di questo tipo è, presumibilmente, quello che ha animato il Commissariato Onu per i diritti umani, che l’11 marzo ha ufficialmente chiesto al Presidente di «fare tutto quello che [fosse] in suo potere per interrompere le esecuzioni, sia a livello federale che negli Stati», sottolineando che «non c’[era] tempo da perdere, con migliaia di individui nei bracci della morte statali in tutto il paese e con varie esecuzioni fissate a livello statale nel 2021» (cfr. UN High Commissioner for Human Rights, USA: UN experts call for President Biden to end death penalty, 11 marzo 2021).
Nonostante queste sollecitazioni, però, l’amministrazione federale si è mantenuta inerte. Anzi, il 14 giugno si è addirittura arrivati a quella che sembrava qualcosa di molto simile a una patente smentita degli impegni elettorali, quando il Dipartimento della Giustizia ha depositato presso la Corte suprema una memoria nella quale si confermava la richiesta, presentata dalla precedente amministrazione, di annullamento della decisione di appello che aveva rovesciato la condanna a morte inflitta in primo grado all’attentatore della maratona di Boston del 2013. A fronte di questa condotta processuale, un portavoce della Casa Bianca è intervenuto per sottolineare, da un lato, l’indipendenza del Dipartimento della Giustizia in proposito e per ribadire, dall’altro, l’impegno del Presidente Biden a non far porre in essere esecuzioni (cfr. N. Raymond, Biden administration pushes for Boston Marathon bomber death sentence, in Reuters.com, 16 giugno 2021).
Questa assicurazione, zavorrata dall’assenza di atti concreti contro la pena di morte, è apparsa piuttosto lontana dal poter essere sufficiente a escludere qualunque ritorno indietro rispetto agli impegni assunti in campagna elettorale. Da dover essere l’alfiere di un cambiamento epocale, il Governo federale sembrava che andasse assumendo una posizione del tutto marginale nella politica sulla pena di morte, all’insegna di una silente conservazione.
Tutto questo, almeno, fino al 1° luglio.
3. La formalizzazione della moratoria federale sulle esecuzioni
Il 1° luglio, dal Dipartimento della Giustizia, è arrivata la notizia di un primo, piccolo passo nella direzione preconizzata alla vigilia delle elezioni presidenziali. L’Attorney General, Merrick B. Garland, ha adottato un Memorandum for the Deputy Attorney General, the Associate Attorney General, Heads of Department, con cui si è formalizzata la moratoria sulle esecuzioni federali finalizzata al controllo e alla revisione delle policies del Dipartimento in materia (le – assai criticate – policies adottate dall’amministrazione Trump, che avevano permesso le esecuzioni nell’ultimo scorcio del suo mandato). Le verifiche previste si concentreranno, in particolare, sul protocollo di somministrazione dell’iniezione letale (onde valutare se le modalità e le sostanze previste non provochino eccessiva sofferenza al condannato) e sulle formalità che hanno velocizzato l’organizzazione delle esecuzioni (cfr. Department of Justice – Office of Public Affairs, Attorney General Merrick B. Garland Imposes a Moratorium on Federal Executions; Orders Review of Policies and Procedures, 1° luglio 2021).
Scorrendo le due paginette scarse di cui consta il memorandum, la sensazione che la montagna abbia partorito un topolino non è facile da esorcizzare: al netto del tecnicismo del testo, a stretto rigore il suo significato si sostanzia nella sospensione delle esecuzioni in attesa della verifica della conformità delle policies esistenti agli imperativi di una giustizia equa, che vengono ribaditi in modo fermo. In concreto, per i 46 detenuti nel braccio della morte federale, il memorandum implica che, per ora, non avranno da temere una imminente esecuzione e che, pro futuro, se all’esecuzione si farà luogo, saranno comunque garantiti i diritti costituzionali.
Un po’ poco, oggettivamente: il passo che è stato compiuto dal Dipartimento della Giustizia è quanto di più anodino potesse immaginarsi.
Eppure, è un passo avanti, che giunge dopo mesi di una stasi che si prestava a interrogativi sempre più inquietanti.
È un passo avanti, che consente di confermare l’impegno abolizionista; certo, ci si attendeva una iniziativa ben più rapida e ben più decisa, ma – quanto meno – adesso si può sostenere che, anche a livello federale, ci si sta muovendo.
È un passo avanti che denota le modalità che sono state scelte: un approccio molto cauto, che non contempla grandi dichiarazioni di principio e che evita qualunque fuga in avanti. Questa impostazione potrà apparire insoddisfacente, anzi sul piano teorico lo è senz’altro; non è escluso, però, che sia quella più opportuna, perché è quella che, nella forma più rassicurante possibile per i retenzionisti, fa i conti con una opinione pubblica la quale è ancora piuttosto lontana dal vedere una preponderanza degli oppositori della pena di morte. Il rigurgito retenzionista che, dopo la sentenza quasi-abolizionista nel caso Furman v. Georgia, 408 U.S. 238 (1972), ha segnato la storia più recente degli Stati Uniti ha forse insegnato che, per assicurarsi risultati duraturi, è necessario procedere con la politica dei piccoli passi. O fors’anche dei piccolissimi.
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