ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Concorrenza e giurisdizione: il caso R.A.I. Pubblicità (nota a T.A.R. Liguria, sez. II, 9 aprile 2021, n. 307)
di Fabiola Cimbali
Sommario: 1. Premessa - 2. La “vicenda” R.A.I. Pubblicità s.p.a. - 3. L'organismo di diritto pubblico: tratti distintivi ed elementi qualificanti - 4. L’impresa pubblica: connotati identificativi e fattori sintomatici - 5. Mercato e giurisdizione.
1. Premessa
I profili affrontati nella sentenza n. 307 emessa il 9 aprile 2021 dalla seconda sezione del T.A.R. Liguria confermano la complessità del quadro giuridico concernente gli strumenti mediante i quali si esplica l’intervento pubblico nell’economia, costituendo parimenti uno stimolante pretesto per soffermarsi sulle nozioni di “impresa pubblica” e di “organismo di diritto pubblico”[1].
L’utilità di una riflessione a riguardo non è riconducibile a ragioni di carattere teorico, ma è legata all’esigenza di valutare le implicazioni che siffatta distinzione presenta sul piano applicativo, soprattutto per quanto concerne il rinvio alla disciplina sugli appalti pubblici ed al regime dell’evidenza pubblica.
La delimitazione dei confini definitori è fortemente condizionata dall’evoluzione che ha interessato la normativa nazionale e comunitaria di riferimento e da essa ne dipende la relativa imposizione ad “organismi” che, pur dotati di una “fisionomia” privatistica, mantengono una “impronta pubblicistica” sul piano dell’attività svolta.
Essa, inoltre, ha rilevanti conseguenze sulla tutela, specialmente sul radicamento della giurisdizione in capo al giudice amministrativo e sulla individuazione delle “regole processuali” cui dare attuazione nella singola fattispecie.
Per tale ragione, in un’ottica di ricostruzione della cornice ordinamentale, è indispensabile che la definizione dei profili contenutistici di “impresa pubblica” e di “organismo di diritto pubblico” avvenga alla luce della regolamentazione di settore culminata nell’ordinamento interno con l’adozione del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (c.d. Codice dei contratti pubblici).
D’altra parte, la ricomposizione dello scenario giuridico non può prescindere dal fare riferimento alla normativa comunitaria sugli appalti la cui ratio si rinviene nell’esigenza di assicurare il coordinamento e l’armonizzazione delle procedure di aggiudicazione, così da porre le basi per una concorrenza effettiva, idonea a garantire le libertà fondamentali per l’integrazione europea[2].
In questo quadro la scelta metodologica di “filtrare” siffatta indagine attraverso il prisma della giurisprudenza (nazionale e comunitaria) appare appropriata nella misura in cui sia funzionale a metterne in evidenza gli sviluppi per effetto delle intervenute modificazioni normative od anche di una rinnovata esegesi della vigente disciplina.
Le difficoltà incontrate dalla giurisprudenza amministrativa nell’applicazione dei criteri comunitari ai “soggetti” che operano nel settore degli appalti pubblici si palesano in tutte le loro sfaccettature nella recente sentenza esaminata principalmente a proposito della possibilità di ricondurre R.A.I. Pubblicità s.p.a. nel novero degli organismi di diritto pubblico.
Il T.A.R. Liguria, chiamato a pronunciarsi sulla legittimità di un provvedimento adottato ad esito di una gara di appalto indetta da tale società (interamente partecipata dalla RAI – Radiotelevisione italiana s.p.a. con oggetto sociale la raccolta di pubblicità destinata ai programmi radio televisivi) l’ha qualificata come organismo di diritto pubblico con quanto ne consegue sulla disciplina sostanziale e processuale da applicare, nonché sulla scelta dell’autorità giurisdizionale innanzi alla quale incardinare la controversia per ottenere adeguata ed effettiva tutela.
2. La “vicenda” R.A.I. Pubblicità s.p.a.
Nel caso sottoposto al sindacato del T.A.R. Liguria - che ha sollecitato le riflessioni che seguono – il giudice amministrativo ha assunto la sua decisione ad esito di un processo promosso dalla Publi Level s.r.l. allo scopo di ottenere l’annullamento del provvedimento adottato da R.A.I. Pubblicità s.p.a. riguardante l’affidamento ad altra società del servizio d’appalto per l’allestimento e la gestione in occasione del Festival di Sanremo 2019 di eventi collaterali e connessi alla manifestazione musicale organizzati da RAI – Radiotelevizione italiana s.p.a. e/o di cui quest’ultima era partner, nonché l’utilizzo della location di svolgimento di alcuni dei predetti eventi[3].
A detta richiesta si accompagnava quella di condannare RAI Pubblicità s.p.a. al risarcimento dei danni subiti e subendi dalla ricorrente derivanti dal guadagno non realizzato, dal mancato arricchimento del curriculum professionale e dalla perdita di chance[4].
Dal punto di vista giuridico, le spiegate richieste venivano supportate adducendo distinti motivi di censura del provvedimento impugnato fondati sulla violazione di talune disposizioni del d.lgs. n. 50/2016 e dei principi generali dell’ordinamento giuridico.
Segnatamente, dalla prima angolazione, veniva asserita l’inosservanza degli articoli 71,72 e 73 per non avere la resistente, in spregio ai principi di trasparenza e di pubblicità vigenti in materia di contratti pubblici, provveduto alla pubblicazione di alcun bando; nonché la violazione degli articoli 61 e 64, essendo stata negata a Publi Level s.r.l. l’assegnazione del prescritto termine minimo di trenta giorni di tempo per potere presentare l’offerta.
Dalla seconda prospettiva, veniva rilevata la “trasgressione” dei principi di correttezza, di non discriminazione e di parità di trattamento in quanto l’originaria mancanza di coinvolgimento nella procedura di affidamento era sprovvista di corredo motivazionale e basata su informazioni non verificate.
RAI Pubblicità s.p.a., costituitasi in giudizio, contestava l’applicazione delle regole sull’affidamento dei contratti pubblici sostenendo che la vicenda sulla quale si era innestata la controversia concernesse un contratto di diritto privato concluso da una società di capitali dedita al perseguimento di scopi tipicamente imprenditoriali. Sulla base di tale assunto negava la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo ed eccepiva, altresì, l’irricevibilità del ricorso in quanto proposto una volta scaduto il termine di trenta giorni decorrenti dal ricevimento della lettera di invito alla procedura. Contestava, infine, l’ammissibilità della richiesta risarcitoria ritenendola indeterminata e priva di adeguato supporto probatorio.
Il Tribunale amministrativo ligure si pronunciava sul ricorso dichiarandolo irricevibile in quanto proposto oltre i termini prescritti a tal uopo e rigettava la domanda risarcitoria considerandola indeterminata e non dimostrata in ordine non solo alla probabilità di ottenere l’affidamento dell’appalto, ma anche relativamente all’entità del pregiudizio sofferto.
Il percorso logico giuridico seguito dalla sentenza muoveva dall’inquadramento dell’attività posta in essere da un soggetto imprenditoriale che opera nel mercato delle comunicazioni commerciali. Ciò al fine di metterne in risalto le possibili implicazioni sulla natura giuridica della società ricorrente, sull’applicabilità della disciplina del Codice dei contratti pubblici e, quindi, sulla riconducibilità della controversia insorta nell’alveo della giurisdizione del giudice amministrativo.
Preso atto della tesi affermata dalla giurisprudenza amministrativa e dalla Corte di cassazione sull’ascrivibilità della “società madre” (RAI-Radiotelevisione italiana s.p.a.) alla categoria degli organismi di diritto pubblico, il T.A.R. adito si mostrava consapevole delle incertezze cui può dar luogo l’applicazione della c.d. “teoria del contagio”[5]. Per tali ragioni peraltro, attesa l’assenza di pronunce che facessero luce sulla qualificazione giuridica della società resistente in termini di amministrazione aggiudicatrice e sul consequenziale obbligo di “impiegare” le regole dell’evidenza pubblica nella scelta dei contraenti, evidenziava l’importanza di verificare la sussistenza delle condizioni essenziali richieste per ricondurla nella predetta categoria[6].
Richiamato l’articolo 3, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 50/2016 e formulate alcune considerazioni alla luce del dato normativo invocato, perveniva alla conclusione che RAI Pubblicità s.p.a. fosse un organismo di diritto pubblico e che, in quanto amministrazione aggiudicatrice, dovesse osservare le disposizioni contenute nel Codice dei contratti pubblici.
Secondo siffatto ragionamento il rinvio alla citata normativa implicava, a norma dell’art. 133, comma 1, lett. e), n. 1), c.p.a., l’attrazione della controversia nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo e l’impiego delle norme del Codice del processo amministrativo.
Nel pervenire alle spiegate conclusioni, il T.A.R. ligure non condivideva il rilievo articolato dalla ricorrente secondo cui la decisione di non presentare alcuna offerta non era dipesa da riserve o perplessità sui meccanismi di scelta del contraente, quanto dal ritardo con il quale era stato effettuato l’invito alla gara che le aveva precluso di formalizzare «un’offerta corretta e consapevole». Da tale premessa fattuale, ricostruita anche sulla base degli elementi forniti da Publi Level s.r.l., l’autorità giurisdizionale decidente traeva, comunque, la conclusione di far ricadere sulla predetta società l’onere di contestare la lesività dell’atto nel termine accelerato di cui all’art. 120, comma 5, c.p.a. pena - come in effetti verificatosi - la tardività del ricorso e, dunque, la sua inammissibilità.
Sul fronte risarcitorio, inoltre, non riteneva meritoria di accoglimento la correlata richiesta di un ristoro per equivalente attesa l’omessa partecipazione alla procedura di gara e l’assenza di una impugnazione tempestiva. L’estraneità alla procedura, infatti, aveva precluso a Publi Level s.r.l. di dimostrare che sarebbe stata in condizione di aggiudicarsi l’appalto e, pertanto, la richiesta risarcitoria veniva considerata indeterminata e generica.
L’autorità giurisdizionale decidente, infine, nell’ottica della mitigazione e/o dell’esclusione del danno, nell’assumere la sua determinazione conclusiva valutava il comportamento delle parti secondo il canone di buona fede ed il principio di solidarietà. Non sottovalutava, perciò, la mancata attivazione degli strumenti di tutela accordati dall’ordinamento e, nello specifico, la scelta processuale di Publi Level s.r.l. di non aver presentato alcuna istanza cautelare per preservare la «propria posizione di aspirante all’esecuzione del relativo servizio».
3. L'organismo di diritto pubblico: tratti distintivi ed elementi qualificanti
La decisione in commento conferma come l’esigenza di fissare criteri idonei a qualificare la natura giuridica dei soggetti cui applicare il regime dell’evidenza pubblica sia particolarmente avvertita nel settore degli appalti pubblici.
Per tale ragione può rivelarsi utile una (seppure sintetica) analisi del dato normativo (comunitario e nazionale) allo scopo di appurare se possano trarsi elementi significativi nella definizione dei contorni concettuali di “impresa pubblica” e di “organismo di diritto pubblico”[7].
Fermo restando “l’intento normativo” di garantire una concorrenza tra gli operatori economici improntata a lealtà e trasparenza, per l’individuazione di coloro sui quali fare ricadere gli obblighi derivanti dall’evidenza pubblica, la normativa comunitaria, piuttosto che utilizzare la tecnica della elencazione tassativa, opta per una nozione “elastica” di amministrazioni aggiudicatrici tenute ad attivare le procedure di affidamento degli appalti[8].
Oltre lo Stato e gli Enti locali, infatti, sono considerati tali, gli “organismi di diritto pubblico”, in quanto “istituiti per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale” (requisito teleologico)[9], “dotati di personalità giuridica” (requisito personalistico), “la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli Enti locali o da altri organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione è sottoposta a controllo da questi ultimi, oppure i cui organi di amministrazione, o di direzione o di vigilanza, sono costituiti da membri più della metà dei quali è designata dallo Stato, dagli Enti locali o da altri organismi di diritto pubblico” (requisito dell’influenza dominante).
Tuttavia, mentre la riconduzione dello Stato e degli Enti locali nell’alveo delle amministrazioni aggiudicatrici avviene agevolmente, secondo tradizionali parametri formali, quella dell’organismo di diritto pubblico, in quanto “categoria aperta”, richiede una articolata operazione esegetica che implica l’accertamento di tre differenti parametri, la cui sussistenza deve essere valutata caso per caso.
I requisiti personalistico e dell’influenza dominante, presentando tratti distintivi facilmente identificabili, non pongono complicate questioni interpretative[10]. Diversamente deve concludersi per l’indicatore teleologico che permea intrinsecamente la nozione di organismo di diritto pubblico a tal punto da segnare il fondante discrimen rispetto ad “entità” (almeno in apparenza) analoghe, ma non tenute ad osservare la normativa sugli appalti pubblici[11]. In ragione degli effetti sulla qualificazione giuridica l’accertamento di tale parametro, oltre ad essere effettuato caso per caso, deve riguardare non solo il carattere generale (non industriale o commerciale) dell’interesse perseguito, ma la natura dell’attività svolta[12].
L’organismo di diritto pubblico integra, dunque, gli estremi di una nozione della quale la norma si serve per qualificare varie figure giuridiche tenute all’utilizzo trasparente di idonee procedure di gara laddove gli operatori attingano dal mercato i beni, le opere o i servizi necessari alla propria attività volta alla concretizzazione di bisogni pubblici da realizzare nel “campo” in cui operano.
La predilezione mostrata per “modelli” dai tratti “flessibili” nasce dalla circostanza che la relativa nozione è destinata a transitare, adattandosi di volta in volta, in eterogenei ordinamenti giuridici, rappresentando in tal modo una sorta di fondamentale collegamento tra il “contesto” di creazione e quello di approdo.
È inevitabile, però, che in sede normativa la decisione di non avvalersi di specifiche schematizzazioni per la qualifica di organismo di diritto pubblico optando per una valutazione di tipo pragmatico, non agevoli lo Stato membro nell’attuazione dei meccanismi di recepimento, chiamato ad avvalersi di un concetto non solo ad esso estraneo, ma anche di problematico approccio ermeneutico[13].
4. L’impresa pubblica: connotati identificativi e fattori sintomatici
Nella direttiva 2014/23/UE – con una struttura che nelle grandi linee ripropone quella della direttiva 04/17 - nel novero degli enti aggiudicatori è inclusa anche l’impresa pubblica (art. 7, comma 1) sulla quale le amministrazioni aggiudicatrici possono esercitare direttamente o indirettamente un’influenza determinante per ragioni legate alla proprietà, alla partecipazione finanziaria o alla normativa (art. 7, comma 4). Con una formulazione analoga, la categoria delle imprese pubbliche è definita prima nell’art. 3, comma 28, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 e, poi, in termini simili nell’art. 3, comma 1, lett. t), d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50[14]. In base alle richiamate disposizioni fattori sintomatici dell’esistenza del collegamento fra impresa ed amministrazioni possono rinvenirsi nella proprietà pubblica dell’assetto societario, nell’attribuzione ai poteri pubblici della maggioranza dei voti cui danno diritto le azioni o le quote della società, nonché il diritto da parte degli stessi di designare più della metà dei componenti gli organi di amministrazione, vigilanza e controllo.
Non riveste, dunque, rilevanza alcuna il connotato finalistico che impone il soddisfacimento di bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale[15]. In quanto proiettata al perseguimento di uno scopo di lucro o connotata dal criterio di autonomia finanziaria nella relativa gestione, inoltre, essa sopporta su sé il rischio derivante dall’attività espletata e, dunque, soggiace alle comuni regole della concorrenza[16].
Detto tratto qualificante, non essendo destinato ad ostacolare una concorrenza piena e libera, non obbliga il rinvio ai “percorsi” dell’evidenza pubblica, il cui rispetto, invece, si impone per i settori speciali ove è elevato e concreto il pericolo di alterare i meccanismi ed i principi che assicurano l’equilibrio e la parità di trattamento fra gli operatori del mercato[17].
Il regime dell’evidenza pubblica, pertanto, trova attuazione in modo pieno per le amministrazioni aggiudicatrici nei c.d. settori ordinari ed in maniera “temperata” per le imprese pubbliche dal momento che queste ultime vi soggiacciono limitatamente ai c.d. settori speciali.[18]
D’altro canto, una estensione in via analogica alle imprese pubbliche della disciplina sull’evidenza pubblica anche con riferimento ai settori ordinari non è praticabile. A ciò osta una lettura della richiamata impostazione normativa (comunitaria e codicistica) rigorosa e coerente rispetto all’esigenza di garantire l’effettivo esercizio della libertà di impresa che, peraltro, gode di apposita copertura costituzionale (art. 41 Cost.)[19]. Ciò, comunque, non esclude che l’impresa pubblica – al fine di assumere condotte più trasparenti in ragione della sua natura pubblica o per seguire procedure consolidate - ricorra alle procedure di evidenza pubblica in tutto od in parte ogniqualvolta scelga di intraprendere strade proiettate al perseguimento di bisogni di interessi generali privi del carattere industriale o commerciale, permeate da una logica differente da quella mirante alla remunerazione del capitale[20].
Specificamente per quanto riguarda il requisito teleologico, da un lato, ne è stata presuntivamente riscontrata la sussistenza in caso di mancanza di un contesto concorrenziale in cui si trova ad operare un determinato soggetto[21]; dall’altro, è stato evidenziato come l’accertamento di tale parametro passi da una accurata indagine delle relazioni finanziarie intercorrenti con l’ente pubblico[22].
Alla luce di tali indicazioni la diversificazione tra le imprese pubbliche e gli organismi di diritto pubblico prescinde dal modello organizzativo adottato, essendo piuttosto ancorata, tanto al diverso atteggiarsi delle prime, che, inserite in un ambito concorrenziale, sono esposte al rischio di impresa non potendo, conseguentemente, invocare l’intervento dell’ente di riferimento al fine di un ripianamento delle eventuali perdite; quanto alla possibilità di gestire servizi rinunciabili da parte dell’ente di riferimento.
L’intrinseca differenza fra la categoria dell’impresa pubblica e quella dell’organismo di diritto pubblico delineata a livello normativo pone, però, la questione dell’esistenza di possibili margini di sovrapponibilità in merito alla quale sono state offerte letture non proprio convergenti[23]. A fronte di una posizione più rigida, che ha escluso forme di commistione, ve n’è un’altra che propone formule organizzatorie atipiche, in cui sono contestualmente presenti elementi caratteristici dell’una e dell’altra categoria. Nella prima direzione muove il filone che, adottando la formula esegetica più restrittiva, pone su piani antitetici i concetti di “potere pubblico” e di “impresa pubblica”; nella seconda, la teoria che, pur dinanzi a modelli dalle differenti venature organizzatorie, invoca il regime dell’evidenza pubblica[24].
L’adesione all’una impostazione teorica o all’altra deve in ogni caso prendere atto dell’esistenza di un connotato comune ad entrambe le fattispecie ravvisabile nell’impiego dello strumento societario; nonché di un netto tratto differenziale - il metodo non economico - costituito dall’espletamento di una attività generale priva del carattere industriale o commerciale che, ontologicamente inconciliabile con il concetto di impresa, permea esclusivamente la figura dell’organismo di diritto pubblico[25].
5. Mercato e giurisdizione
Dalla sintetica ricostruzione dello scenario normativo ed ermeneutico di riferimento emerge come le regole dell’evidenza pubblica applicabili agli organismi di diritto pubblico siano rivolte alle imprese pubbliche relativamente ai settori speciali, con la fisiologica conseguenza che nelle controversie sorte in tali “campi” le azioni processuali devono essere incardinate dinanzi al giudice amministrativo.
Preliminarmente è utile osservare che “l’area” delle telecomunicazioni non rientra più fra i settori esclusi dalla disciplina generale; pertanto i contratti di appalto funzionali a detto ambito soggiacciono alla relativa regolamentazione codicistica soltanto allorché siano affidati da amministrazioni aggiudicatrici.
I soggetti diversi da queste ultime - fra i quali vanno contemplate le imprese pubbliche – sono chiamati ad osservare le regole pubblicistiche poste a tutela della concorrenza limitatamente agli appalti riguardanti le attività riconducibili ai settori speciali (gas, energia, elettricità acqua trasporti, porti, aeroporti, servizi postali). Diversamente, per i contratti “estranei” a tali ambiti, esse, agendo alla stregua di un “comune” soggetto privato, sono esonerate dal dare attuazione alla disciplina vigente con riguardo all’affidamento di “pubbliche commesse” giacché in tali ipotesi non vi è l’esigenza di garantire la concorrenza ricorrendo a formule procedimentali tipiche dell’evidenza pubblica ed a meccanismi volti ad assicurare trasparenza e pubblicità delle procedure[26].
Nel caso di specie, tuttavia, l’inquadramento della società resistente in termini di organismo di diritto pubblico avviene ad esito di un percorso argomentativo non perfettamente allineato rispetto alla descritta cornice normativa e giurisprudenziale.
Il T.A.R. Liguria, dichiarata infondata l’eccezione della società resistente, ha ritenuto sussistente la giurisdizione amministrativa sostenendo che Rai Pubblicità fosse assoggettata all’evidenza pubblica proprio in quanto organismo di diritto pubblico.
Il decidente è pervenuto a tale conclusione sul presupposto che Rai Pubblicità fosse «istituita per soddisfare esigenze di interesse generale della “Società madre” alla quale garantisce, attraverso la raccolta pubblicitaria una parte essenziale delle risorse necessarie per l’esercizio del servizio pubblico radiotelevisivo non avente carattere esclusivamente commerciale».
Tale assunto poggia su due diversi, ma connessi, pilastri concettuali riguardanti sia il “legame” di RAI Pubblicità con RAI-Radiotelevisione italiana, sia lo scopo sociale sotteso all’attività svolta dalla prima.
Dalla prima visione prospettica, il convincimento secondo cui RAI Pubblicità, (già SIPRA) sia stata istituita «per soddisfare esigenze di interesse della “Società madre” (…)» induce il T.A.R. ligure ad affermare che essa persegua interessi di rilevanza pubblicistica, considerando «indifferente che, oltre alle attività volte a soddisfare esigenze di interesse generale, essa svolga anche attività a scopo di lucro sul mercato concorrenziale».
A questo proposito la Corte di Giustizia - con una pronuncia richiamata proprio nella decisione esaminata - ha chiarito come per essere considerata amministrazione aggiudicatrice non è «sufficiente che un’impresa sia stata istituita da un’amministrazione aggiudicatrice o che le sue attività siano finanziate con mezzi finanziari derivanti dalle attività esercitate da un’amministrazione aggiudicatrice». È, invece, indispensabile che si tratti di un organismo istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale e «la cui attività risponde a siffatte esigenze». In questa impostazione è, dunque, rimarcata la volontà del legislatore dell’Unione di escludere un generalizzato rinvio al regime dell’evidenza pubblica ed alle norme vincolanti sugli appalti pubblici[27].
D’altro canto, l’accertamento volto a verificare che l’attività espletata soddisfi esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale deve essere condotto in modo concreto, ossia «tenendo conto di tutti gli elementi di diritto e di fatto pertinenti, quali le circostanze che hanno presieduto alla creazione dell’organismo considerato e le condizioni in cui quest’ultimo esercita le attività volte a soddisfare esigenze di interesse generale, ivi compresa, in particolare la mancanza di concorrenza sul mercato, la mancanza del perseguimento di uno scopo di lucro, la mancanza di assunzione di rischi collegati a tale attività nonché il finanziamento pubblico eventuale delle attività di cui trattasi»[28].
È improbabile che allorquando l’organismo operi in condizioni normali di mercato, persegua uno scopo di lucro e subisca le perdite collegate all’esercizio di dette attività, le esigenze che esso mira a soddisfare abbiano indole diversa da quella industriale o commerciale[29].
È fondamentale, perciò, fare chiarezza - circoscrivendone i contorni - sullo scopo sociale della società resistente nell’attuale articolazione organizzatoria ed in quella originaria precisando che secondo quanto stabilito nell’art. 2 dell’atto costitutivo e statuto di SIPRA, lo scopo sociale andava ravvisato nell’acquisizione e nello «sfruttamento di qualsiasi genere di pubblicità ed in particolar modo quella da farsi a mezzo di stazioni radiotrasmittenti (…)».
In base all’art. 4 del vigente atto costitutivo e statuto di RAI Pubblicità, invece, esso concerne «la raccolta, sui mercati nazionale ed internazionale, di pubblicità, di sponsorizzazioni, di comunicazioni commerciali e sociali, e di tutte le altre forme ed espressioni della pubblicità, destinate ai programmi radiofonici e televisivi qualunque sia il mezzo utilizzato nel presente e nel futuro per la loro diffusione (via etere, per mezzo di satelliti, via cavo, via filo, in chiaro e/o criptati, ecc.); la raccolta di pubblicità nelle forme indicate al punto precedente, destinata a qualsiasi altro mezzo di comunicazione, presente e futuro, quali la carta stampata, audio e video cassette, affissioni, cinema, tabelloni, internet, ecc. …».
Non vi è, dunque, alcuna “riserva” di attività a favore di RAI- Radiotelevisione italiana.
Dal dato statutario riportato non si evince, in realtà, che SIPRA, che nel 2013 ha cambiato (solo) la propria denominazione in quella di RAI Pubblicità, sia stata specificamente istituita per soddisfare esigenze della società controllante atteso che i “bisogni” del cui “appagamento” essa è stata investita non costituiscono una condizione essenziale per l’esercizio delle attività di interesse generale di RAI–Radiotelevisione italiana.
Tali precisazioni appaiono fondamentali, in quanto l’impressione tratta dall’analisi della sentenza del T.A.R. Liguria è che l’apporto delle risorse indispensabili per l’espletamento del servizio pubblico radiotelevisivo non avente carattere esclusivamente commerciale sia stato inquadrato quale scopo o come oggetto sociale di RAI Pubblicità. Invero, la circostanza secondo la quale attraverso la raccolta pubblicitaria venga garantita una parte essenziale delle risorse necessarie per l’esercizio del servizio pubblico radiotelevisivo potrebbe essere letta in una versione che la presenti verosimilmente alla stregua di una mera “operazione contabile”.
La considerazione dello scopo sociale nei termini proposti dal decidente, peraltro, non è in linea con l’art. 45, comma 5 del d.lgs. 31 luglio 2005, n. 177 (Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici). In forza di tale disposizione Rai–Radiotelevisione italiana può svolgere direttamente o attraverso società collegate, attività commerciali ed editoriali, connesse alla diffusione di immagini, suoni e dati, nonché altre attività correlate, purché esse non risultino di pregiudizio al migliore svolgimento dei pubblici servizi concessi e concorrano alla equilibrata gestione aziendale.
Per come si desume anche dalla convenzione conclusa fra la Rai –Radiotelevisione italiana e Rai Pubblicità la prima espleta in proprio l’attività di pubblico servizio e, attraverso la controllata (la seconda), quella di raccolta pubblicitaria in forza di una apposita concessione.
L’esistenza di una precisa linea divisoria tra il modus operandi di carattere “amministrativo” e quello ispirato al metodo concorrenziale trova conferma pure, in sede regolatoria, da parte dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni nella delibera n. 41/17/CONS e relativo Allegato A “Individuazione dei mercati rilevanti nel settore dei servizi di media audiovisivi”.
In tale documento, nell’ambito del mercato dei media audiovisivi in chiaro, sono indicate una attività legata al servizio pubblico ed una di tipo squisitamente commerciale/imprenditoriale e ad esse sono collegati distinti modelli di finanziamento volti a sostenerle.
In particolare, l’una è finanziata da fondi pubblici, e quindi mediante risorse economiche non contendibili, l’altra “si fonda economicamente sugli investimenti delle aziende clienti” attraverso i ricavi della raccolta pubblicitaria ed è connotata dalla competizione instaurata con gli altri soggetti presenti nel mercato[30].
A questa logica sembra ispirarsi, altresì, il Contratto di Servizio 2018-2022 tra il Ministero dello sviluppo economico e RAI-Radiotelevisione italiana s.p.a., ove sono diversamente concepiti i ricavi derivanti dal gettito del canone rispetto a quelli prodotti da attività svolte in regime di concorrenza[31].
Lo scenario descritto sembra, dunque, suggerire un inquadramento di RAI Pubblicità quale impresa pubblica per effetto del suo inserimento in un contesto concorrenziale che ne prospetta una – fisiologica - esposizione ai rischi derivanti dalla sua collocazione in un mercato nel quale intervengono altri operatori.
È evidente allora come la ricerca e la comprensione degli elementi strutturali che compongono, diversificandole, le figure dell’impresa pubblica e dell’organismo di diritto pubblico proprio perché condizionano l’individuazione sia della disciplina applicabile con riferimento alle procedure di affidamento, sia dell’autorità giurisdizionale dinanzi alla quale incardinare eventuali azioni processuali preludano ad una operazione particolarmente delicata.
Ciò soprattutto laddove si consideri come il generalizzato ricorso all’evidenza pubblica potrebbe alimentare il rischio di falsare le regole della concorrenza disattendendo lo spirito dei principi europei cui si ispirano le direttive in materia di affidamento di contratti pubblici e di quelli costituzionali posti a garanzia della libertà di iniziativa economica.
Il pericolo, tutt’altro che remoto, di avallare forme di disparità di trattamento tra coloro i quali operano nel mercato esige di scoraggiare pratiche che attribuiscano diritti o riconoscano posizioni destinate ad alterare l’equilibrato assetto concorrenziale, o che siano idonei a legittimare generalizzate limitazioni dell’esercizio dell’attività di impresa svolta nel mercato da soggetti partecipati dall’ente pubblico.
Il risvolto processuale di tale impostazione consiste nel ritenere quella ordinaria l’autorità giurisdizionale competente a sindacare l’operato di imprese pubbliche o private titolari di diritti speciali o esclusivi operanti per finalità diverse dal soddisfacimento di bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale, analogamente a quanto si verifica allorché essa debba esprimere il suo giudizio in campi diversi da quello dell’affidamento delle pubbliche commesse e su una attività priva di sfumature pubblicistiche[32].
La ricerca di elementi certi ed univoci alla luce dei quali individuare il giudice chiamato a “somministrare” giustizia è fondamentale nell’intendere correttamente la giurisdizione quale modo «storico con cui la giustizia di un ordinamento giuridico prende forma» in quanto «la legittima prioritaria preoccupazione è quella di assicurare una sede, quella giurisdizionale, dove la giustizia possa univocamente realizzarsi; nella convinzione che proprio nel modo di renderla la giustizia consiste al massimo grado»[33].
[1] La lettura della pronuncia in commento pone sullo sfondo l’affascinante tema del rapporto tra diritto ed economia che per l’ampiezza e per la peculiarità delle dinamiche prodotte non è possibile affrontare in questa sede. Per tali ragioni si ritiene utile il rinvio, sebbene senza pretesa di esaustività, a A. Barone, Cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni, Bari, 2018, ove tali aspetti vengono indagati da molteplici angoli prospettici.
[2] In questi termini M.A. Sandulli, Impresa pubblica e regole di affidamento dei contratti, in www.federalismi.it, 2008, 2, che proprio con specifico riferimento all’impresa pubblica afferma come «Il fatto che l’ordinamento comunitario si fosse preoccupato di non creare un diverso regime tra appalti gestiti da soggetti pubblici (unitariamente definiti come “amministrazioni aggiudicatrici”) e soggetti privati operanti in tali settori dimostra quindi proprio - in termini opposti alla tesi favorevole all’equiparazione impresa pubblica/pubblica amministrazione -che detta categoria è, invece, connotata da una finalità (quella economica) tipicamente privatistica ed è quindi di norma (e salvo eccezioni eventualmente stabilite in modo espresso e tassativo dalla legge) estranea al regime pubblicistico (si è già detto del resto che lo stesso regime degli appalti non può essere correttamente definito come pubblicistico)».
[3] Rai Pubblicità s.p.a. è la nuova denominazione assunta da SIPRA costituita nel 1926.
[4] La società ricorrente si era occupata per due anni consecutivi di allestire e di gestire una manifestazione collaterale al Festival di Sanremo avendone ricevuto l’affidamento direttamente sin dalla prima edizione nell’ambito della quale – a suo dire – aveva proposto il relativo format, ed a seguito di specifica procedura selettiva alla quale avevano preso parte altri cinque operatori. Relativamente alla terza edizione chiedeva di essere coinvolta nella procedura di affidamento del relativo servizio di gestione e di allestimento dell’evento. Originariamente la RAI Pubblicità s.p.a. si era determinata a non invitare la ricorrente invocando l’operatività del principio di rotazione dei fornitori ed adducendo l’esistenza di informazioni negative sul conto della Publi Level s.r.l. in ordine a danni dalla stessa provocati alla struttura che ospitava le due edizioni della manifestazione. Successivamente, mutando la propria decisione, la invitava formalmente a presentare l’offerta.
Tuttavia la società in un primo momento esclusa contestava l’esiguità del tempo concessole e comunicava a Rai Pubblicità di non essere in condizioni di potere presentare la propria offerta. Chiusasi la procedura alla quale avevano partecipato sei operatori, l’organizzazione della terza edizione della manifestazione veniva affidata alla Free Event s.r.l., controinteressata nel giudizio sfociato nella sentenza in esame.
[5] Nelle pronunce espressamente richiamate (T.A.R. Lazio- Roma, sez. III, 4 gennaio 2020, n. 54; T.A.R. Lazio- Roma, sez. III, 9 giugno 2004, n. 5460, Cass. civ., SS.UU., 22 dicembre 2011, n. 28330 e Cass. civ., SS.UU., 23 aprile 2008, n. 10443) viene puntualmente chiarito che la RAI – Radiotelevisione italiana è una società per azioni, concessionaria di un importante servizio di informazione reso ai cittadini ed è qualificabile, per le caratteristiche possedute, come organismo di diritto pubblico.
Per quanto concerne, invece, la tipologia di attività svolta - per quanto qui di interesse - è possibile trarre elementi utili per poterla circoscrivere e definire dal d.P.R. 28 marzo 1994, dallo Statuto della società e dalla convenzione con RAI Pubblicità. A norma degli artt. 1 e 5 del d.P.R. 28 marzo 1994 emerge – rispettivamente - che essa è concessionaria esclusiva sull’intero territorio nazionale del servizio pubblico di diffusione di programmi radiofonici e televisivi e che può «svolgere direttamente o attraverso società collegate attività commerciali e editoriali connesse in genere alla diffusione di suoni, immagini e dati, nonché altre attività comunque connesse all’oggetto sociale, purché esse non risultino di pregiudizio al migliore svolgimento dei pubblici servizi concessi e concorrano alla equilibrata gestione aziendale». L’oggetto sociale – ex art. 4.1 dello Statuto - concerne «la raccolta, sui mercati nazionale ed internazionale, di pubblicità, di sponsorizzazioni, di comunicazioni commerciali e sociali, e di tutte le altre forme ed espressioni della pubblicità, destinate ai programmi radiofonici e televisivi qualunque sia il mezzo utilizzato nel presente e nel futuro per la loro diffusione (via etere, per mezzo di satelliti, via cavo, via filo, in chiaro e/o criptati, ecc.)»; nonché «la raccolta di pubblicità nelle forme indicate al punto precedente, destinata a qualsiasi altro mezzo di comunicazione, presente e futuro, quali la carta stampata, audio e video cassette, affissioni, cinema, tabelloni, Internet, ecc.» Ed, in base all’art. 5.2 dello Statuto, è nella possibilità della società «acquisire finanziamenti, con obbligo di rimborso delle somme versate, da parte dei soci iscritti nel libro dei soci da almeno tre mesi che detengano almeno il due per cento del capitale sociale nominale, così come risultante dall’ultimo bilancio approvato, nel rispetto delle condizioni stabilite dalle norme di legge e di regolamento che individuano le operazioni non costituenti raccolta di risparmio tra il pubblico. Tali finanziamenti potranno essere eseguiti anche singolarmente da ogni socio senza alcuna formalità e, salvo patto contrario tra la Società e il socio, non saranno produttivi di interessi». Gli articoli 6, 7, 9 della Convenzione con Rai Pubblicità disciplinano la ripartizione del fatturato (il primo), la fatturazione e la rendicontazione (il secondo), le perdite per insolvenze (il terzo).
Alla luce della c.d. teoria del contagio il regime pubblicistico prescritto per l’organismo di diritto pubblico deve “estendersi” a tutti i suoi appalti. In tal senso Corte Giust. C.E., 15 gennaio 1998, C-44/96. Si esprimono criticamente nei confronti di questa elaborazione teorica M.P. Chiti, Impresa pubblica e organismo di diritto pubblico: nuove frontiere di soggettività giuridica o nozioni funzionali, in M.A. Sandulli (a cura di), Organismi e imprese pubbliche. Natura delle attività e incidenza sulla scelta del contraente e tutela giurisdizionale, in Quaderni della Riv. serv. pubbl. e app., 2004, 71; M.A. Sandulli, Impresa pubblica e regole di affidamento dei contratti, cit.; M.G. Roversi Monaco, Le figure dell’organismo di diritto pubblico e dell’impresa pubblica nell’evoluzione dell’ordinamento, in Dir. proc. amm., 2007, 401.
[6] Nel corpo della pronuncia viene dato atto dell’esistenza dell’ordinanza n. 6124 del 12 dicembre 2014 con la quale la quinta sezione del Consiglio di Stato, sia pure in sede di regolamento di competenza ed in materia di accesso documentale, qualificava, sotto il profilo soggettivo, la RAI pubblicità s.p.a come pubblica amministrazione.
[7] Com’è noto, l’introduzione nel nostro ordinamento di tale ultima categoria è avvenuta per effetto dell’articolo 3, comma 26, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, in seguito al recepimento delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE. L’attuale previsione, invece, è affidata all’articolo 3, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 50 del 2016 in recepimento dell’articolo 2, par. 1, n. 4 della direttiva 2014/24/UE, dell’articolo 3, par. 4 della direttiva 2014/25/UE e dell’articolo 6, par. 4 della direttiva 2014/23/UE.
[8] Tale “metodo qualificatorio” è stato gradualmente importato in tutte le tipologie di appalti comunitari, estendendone la portata applicativa a quelli di servizi ad opera della direttiva 92/50/CEE, di forniture con la direttiva 93/36/CEE, di lavori mediante la direttiva 93/37/CEE, e poi ripetute nella direttiva quadro 2004/18/CEE destinata a sostituire tutte le pregresse normative a decorrere dal 31 gennaio 2006.
[9] Con puntuale riguardo all’elemento teleologico in Corte Giust. U.E., 22 maggio 2003 C-18/2001 e Cons. Stato, sez. V, 16 gennaio 2017, n. 108 viene escluso che l’esistenza di un mercato concorrenziale precluda all’organismo di diritto pubblico di agire secondo logiche diverse da quelle industriali e commerciali.
[10] Nella visione di Cons. Stato, sez. V, 12 ottobre 2010, n. 7393, il requisito della soggettività giuridica prescinde dalla natura (pubblicistica o privatistica) del soggetto.
In Corte Giust. C.E., 3 ottobre 2000, C-380/98, The Queen c. The University of Cambridge, viene evidenziato il rapporto di alternatività fra gli indici della dominanza pubblica.
[11] Riguardo l’elemento teleologico F. Cintioli, Di interesse generale e non avente carattere industriale o commerciale: il bisogno o l’attività? (Brevi note sull’organismo di diritto pubblico), in M.A. Sandulli (a cura di), Organismi e imprese pubbliche. Natura delle attività e incidenza sulla scelta del contraente e tutela giurisdizionale, cit., 79 ss.
[12] In questa direzione Corte Giust. C.E., sent. 10 aprile 2008, C-393/06, Ing. Aigner Wasser Warme Umwelt Gmbh c. Fernwarme Wien Gmbh.
[13] G. Greco, Ente pubblico, impresa pubblica, organismo di diritto pubblico, cit., 844, evidenzia come i confini della nozione di organismo di diritto pubblico dipendano dal significato da attribuire all’elemento teleologico dal momento che «si tratta, del resto, dell’unico passo ambiguo della definizione (…), che oltre ad essere di non felice concezione, presenta le difficoltà tipiche della norma che rinvia a concetti indeterminati».
[14] In dottrina per la ricostruzione della figura dell’impresa pubblica M.S. Giannini, Le imprese pubbliche in Italia, in Riv. soc., 1958, 931; V. Ottaviano, L’impresa pubblica, in Enc dir., Milano, XX, 1970, 669; S. Cassese, L’impresa pubblica: storia di un concetto, in AA.VV., L’impresa, Milano, 1985; E. Ferrari, L’impresa pubblica tra il Trattato e le direttive comunitarie, in Organismi e imprese pubbliche. Natura delle attività e incidenza sulla scelta del contraente e tutela giurisdizionale, cit., 124; M.A. Sandulli, Imprese pubbliche e attività estranee ai settori esclusi: problemi e spunti di riflessione, in Organismi e imprese pubbliche. Natura delle attività e incidenza sulla scelta del contraente e tutela giurisdizionale, cit., 5 ss.; Id., L’ambito soggettivo: gli enti aggiudicatori, in Trattato sui contratti pubblici, cit. vol. V, 3154; C. Lacava, L’impresa pubblica, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, IV, Milano, 2003, 3901.
[15] Corte Giust. C.E., 10 maggio 2001, n. 223, cause riunite C-223/99 e C-260/99 ha chiarito come « (…) un ente avente ad oggetto lo svolgimento di attività volte all’organizzazione di fiere, di esposizioni e di altre iniziative analoghe, che non persegue scopi lucrativi, ma la cui gestione si fonda su criteri di rendimento, di efficacia e di redditività e che opera in ambiente concorrenziale, non costituisce un organismo di diritto pubblico ai sensi dell’articolo 1, lettera b) comma 2, della direttiva».
Corte Giust. C.E., 27 febbraio 2003 n. 373, causa C-373/00 ha precisato che quella relativa ai «bisogni di carattere generale figurante nella predetta disposizione è una nozione autonoma del diritto comunitario, che deve essere interpretata tenendo conto del contesto in cui si inserisce tale articolo e degli scopi perseguiti dalla direttiva 93/96; che spetta al giudice a quo valutare l’esistenza o meno di un bisogno avente carattere non industriale o commerciale, tenendo conto di tutti gli elementi di diritto e di fatto pertinenti, quali i fatti che hanno presieduto alla creazione dell’organismo interessato e le condizioni in cui quest’ultimo esercita la sua attività».
Cass., SS.UU., 7 aprile 2010, n. 8225, definisce «come bisogni generali aventi carattere non industriale o commerciale, ai sensi dell'articolo 1, lettera b), delle direttive comunitarie relative al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, quei bisogni che, da un lato, sono soddisfatti in modo diverso dall’offerta di beni o servizi sul mercato e al cui soddisfacimento, d’altro lato, per motivi connessi all’interesse generale, lo Stato preferisce provvedere direttamente o con riguardo ai quali intende mantenere un’influenza determinante. Risulta del pari dalla giurisprudenza che l’esistenza o la mancanza di un bisogno di interesse generale avente carattere non industriale o commerciale deve essere valutata tenendo conto dell’insieme degli elementi giuridici e fattuali pertinenti, quali le circostanze che hanno presieduto alla creazione dell’organismo considerato e le condizioni in cui quest’ultimo esercita la sua attività, ivi compresa, in particolare, la mancanza di concorrenza sul mercato, la mancanza del perseguimento di uno scopo di lucro a titolo principale, la mancanza di assunzione di rischi collegati a tale attività nonchè il finanziamento pubblico eventuale dell’attività in questione. Infatti ... se l’organismo opera in condizioni normali di mercato, persegue uno scopo di lucro e subisce le perdite collegate all’esercizio della sua attività, è poco probabile che i bisogni che esso mira a soddisfare siano di natura diversa da quella industriale o commerciale».
[16] A riguardo L.R. Perfetti, Organismo di diritto pubblico e rischio d’impresa, cit.; D. Palazzo, La rilevanza del rischio economico nella definizione dell’ambito soggettivo di applicazione della disciplina sui contratti pubblici e del diritto della concorrenza, in Dir. amm., 2019, 155.
Si occupano di delineare le caratteristiche e le differenze fra le due figure M.P. Chiti, Impresa pubblica e organismo di diritto pubblico, nuove forme di soggettività giuridica o nozioni funzionali, in Organismi e imprese pubbliche. Natura delle attività e incidenza sulla scelta del contraente e tutela giurisdizionale, cit., 70; D. Casalini, L’organismo di diritto pubblico, l’impresa pubblica e la delimitazione soggettiva della disciplina sugli appalti pubblici, in Foro amm. CdS, 2003, 3827; R. Caranta, Organismo di diritto pubblico e impresa pubblica, in Giur. it., 2004, 2415; M.G. Roversi Monaco, Le figure dell’organismo di diritto pubblico e dell’impresa pubblica nell’evoluzione dell’ordinamento, cit., 384; A. Nicodemo, Imprese pubbliche e organismi di diritto pubblico: analogie e differenze, in www.giustamm.it, 2012; F. Aperio Bella, Studio sull'attuale consistenza delle nozioni di impresa pubblica e organismo di diritto pubblico, in Dir. e soc., 2015, 160.
[17] Relativamente al regime normativo previgente può essere proficuo rinnovare la lettura degli articoli 207 e 217 del Codice del 2006, nonché dell’art. 30 e del 40° considerando della direttiva 2004/17. Ciò in quanto nel solco segnato da siffatta disciplina si colloca Cons. Stato, Ad. pl., 1 agosto 2011, n. 16 che, nel puntualizzare la diversità tra appalti “esclusi” ed “estranei” all’applicazione del Codice dei contratti pubblici – riscontrandola nella strumentalità dell’oggetto dell’appalto rispetto all’espletamento dell’attività speciale- chiarisce come l’impresa pubblica sia tenuta a rispettare la disciplina codicistica soltanto in relazione alle attività riconducibili ai settori speciali di cui agli artt. 208-213. Ad avviso dell’Adunanza plenaria, «La ricordata esigenza di tutela della concorrenza che dichiaratamente presiede alla direttiva 2004/17/CE sugli appalti nei settori speciali per la frequente condizione di monopolio in cui versano quei servizi pubblici, non si ripete per queste altre attività delle imprese pubbliche. Queste altre attività anzi, proprio per lo svolgersi in un mercato competitivo, paiono – salvo singole patologie comportamentali - naturalmente portate verso la compressione dei costi dei contratti, e perciò spontaneamente orientate all’apertura al mercato dei fornitori di beni e servizi: cioè verso il prezzo più basso o l’offerta economicamente più vantaggiosa, e senza che sia imposto da regole esterne».
T.A.R. Lazio, sez. III, 19 aprile 2021, n. 4561 ha evidenziato come l’utilizzo delle procedura ad evidenza pubblica sia obbligatorio anche quando l’oggetto dell’affidamento riguardi attività strumentali a quella espletata nei settori speciali.
In relazione al concetto di strumentalità T.A.R. Lazio riprende, facendola propria, la posizione della Corte Giust., 28 ottobre 2020, C-521/18, secondo cui, a proposito di Poste s.p.a., possono considerarsi strumentali solo quelle attività che «servono effettivamente all’esercizio dell’attività rientrante nel settore dei servizi postali consentendo la realizzazione in maniera adeguata di tale attività, tenuto conto delle sue normali condizioni di esercizio, ad esclusione delle attività esercitate per fini diversi, dal perseguimento dell’attività settoriale di cui trattasi».
[18] Così F. Aperio Bella, Studio sull’attuale consistenza delle nozioni di impresa pubblica e organismo di diritto pubblico, cit., 170-171, ad avviso del quale le imprese pubbliche «già sottratte al diritto dei pubblici appalti, vi sono attratte limitatamente ai “settori speciali”, e non in termini generali in quanto nei settori in questione (…), la sottoposizione di un operatore economico all’influenza dominante dell’apparato amministrativo è stata ritenuta una circostanza già da sola sufficiente a determinare una situazione di pericolo, che impone l’applicazione delle regole comunitarie volte a tutelare la libera concorrenza».
[19] Riguardo questo specifico profilo M.A. Sandulli, L’ambito soggettivo: gli enti aggiudicatori, Imprese pubbliche e attività estranee ai settori esclusi: problemi e spunti di riflessione, in Organismi e imprese pubbliche. Natura delle attività e incidenza sulla scelta del contraente e tutela giurisdizionale, cit., 3154 ss.; Id., Impresa pubblica e regole di affidamenti dei contratti, cit.
[20] Cfr. T.A.R. Lazio, sez. III, 19 aprile 2021, n. 4561, cit., secondo cui, però, tale scelta «non consente di radicare il contenzioso che nasce da tali procedure nella giurisdizione amministrativa».
[21] In questo senso Cass., SS.UU., 9 maggio 2011, n. 10068, in merito al parametro teleologico puntualizza che «(…) le normative europee non indicano i criteri per stabilire quando una specifica esigenza di carattere generale abbia carattere non industriale o commerciale. Il diritto comunitario, omettendo di fornire i criteri per stabilire quando ricorra la condizione in esame, rimette agli organi giurisdizionali dei singoli Stati stabilire quando ricorra tale condizione. La Corte di Giustizia delle Comunità Europee, cui ai sensi dell’art. 234 CE era stata sottoposta una questione pregiudiziale vertente sull’interpretazione del menzionato art. 1, lett. b) della direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, relativa al coordinamento delle procedure degli appalti pubblici di servizi, ha fornito alcuni criteri interpretativi al fine di stabilire quando ricorra una esigenza di carattere generale avente carattere non industriale o commerciale (v. sentenza 10 novembre 1998, causa C360/96, Gemeente Arnhem e Gemeente Rheden contro BFI Holding BV), precisando che la circostanza che l’organismo interessato agisca in situazione di concorrenza sul mercato può costituire un indizio a sostegno del fatto che non si tratti di un bisogno di interesse generale avente carattere non industriale o commerciale; che questi ultimi bisogni sono, di regola, soddisfatti in modo diverso dall’offerta dei beni o servizi sul mercato; che in linea generale presentano tale carattere quei bisogni al cui soddisfacimento, per motivi connessi all'interesse generale, lo Stato preferisce provvedere direttamente o con riguardo ai quali intende mantenere una influenza determinante». Le Sezioni unite, inoltre, chiariscono che «in altre sentenze la Corte di giustizia ribadisce tali criteri affermando che spetta al giudice nazionale valutare l’esistenza o meno di un bisogno avente carattere non industriale o commerciale tenendo conto degli elementi giuridici e fattuali pertinenti, quali le circostanze che hanno presieduto alla creazione dell’organismo considerato e le condizioni in cui quest’ultimo esercita la sua attività, ivi compresa, in particolare, la mancanza di concorrenza sul mercato, la mancanza del perseguimento di uno scopo di lucro a titolo principale, la mancanza di assunzione di rischi collegati a tale attività nonchè il finanziamento pubblico eventuale dell’attività in questione (v. sentenza n. 373 del 27.2.2003 causa C- 373/00; vedi altresì Cass. sez. un. n. 8225 del 2010)».
[22] In Cons. Stato, sez. V, 30 marzo 2013, n. 570 l’espletamento di attività secondo metodi che escludono l’assunzione del rischio di impresa per effetto di dazione di risorse da parte dell’ente pubblico idonee ad assicurare la permanenza sul mercato dell’organismo viene considerato indice presuntivo della sussistenza del requisito teleologico. In Cons. Stato, sez. VI, 20 marzo 2012, n. 1574 viene evidenziato come l’assenza del metodo economico può desumersi dal contesto in cui l’attività viene esercitata e cioè dall’esistenza o meno di un mercato di beni o servizi oggetto delle prestazioni erogate.
Cass. SS.UU., 7 aprile 2010, n. 8225 esclude che possa parlarsi di requisito teleologico ogniqualvolta l’ente svolga l’attività in un contesto concorrenziale facendosi carico del pericolo di eventuali perdite e sopportando il rischio economico riconducibile al perseguimento dell’oggetto sociale improntato a criteri di economicità.
[23] Per una approfondita e ragionata ricostruzione dei termini del dibattito sorto in merito G. Greco, Ente pubblico, impresa pubblica, organismo di diritto pubblico, cit., 844 ss. L’A. si schiera, comunque, a favore della tesi più restrittiva invocando proprio il dato normativo comunitario dal quale, a suo avviso, «risulta chiaramente che la figura di organismo di diritto pubblico sia altra cosa e sia distinta da quella di impresa pubblica».
A riguardo F. Aperio Bella, Sulle nozioni di impresa pubblica e organismo di diritto pubblico, cit., 162-163, osserva come fra le due figure «le differenze tipologiche riguardano pertanto (i) le modalità di svolgimento dell’attività - economica e non economica – e la conseguente possibile compatibilità, esistente soltanto per le imprese pubbliche, tra scopo di interesse pubblico e scopo di lucro, nonché (ii) l’elemento costituito dall’influenza dominante, che, seppure coincidente in linea teorica, si atteggia diversamente a seconda della fattispecie, in quanto, mentre per l’organismo di diritto pubblico è desumibile da un ampio spettro di “indici”, compreso il controllo di gestione, per l’impresa pubblica deriva dal riscontro di elementi di dominanza pubblica riconducibili, in ultima analisi, alla detenzione pubblica maggioritaria del capitale sociale, dal cui riscontro deriva, a cascata, la ricorrenza degli altri elementi “indiziari” di dominanza pubblica individuati dalla normativa».
[24] A titolo meramente esemplificativo nella prima direzione possono vedersi, a livello di giurisprudenza comunitaria, Corte Giust., 16 ottobre 203, C-283/00, Siepsa, Corte Giust., 15 maggio 2003, C-214/00; a livello di giurisprudenza nazionale T.A.R. Lombardia-Milano, sez. III, 15 febbraio 2007, n. 266; in dottrina di questo avviso M.A. Sandulli, Impresa pubblica e regole di affidamento dei contratti, cit.; M.G. Roversi Monaco, Le figure dell’organismo di diritto pubblico e dell’impresa pubblica nell’evoluzione dell’ordinamento, in Dir. proc. amm., 2007, 387; Nella seconda direzione, a livello comunitario, Corte Giust., 10 aprile 2008, C-393/06; a livello interno Cass., SS.UU., 23 aprile 2008, n. 10443, secondo cui la «R.A.I. s.p.a. deve qualificarsi organismo di diritto pubblico, in quanto resta ancora la impresa pubblica cui lo stato ha affidato la gestione del servizio pubblico radio televisivo su cui intende conservare la sua influenza». Da tale premessa le Sezioni Unite fanno discendere la conseguenza che «essa quindi deve osservare le norme comunitarie di evidenza pubblica nella scelta dei propri contraenti per gli appalti dei servizi (ad eccezione di quelli esclusi del settore radiotelevisivo)». In dottrina sembrano propendere una nozione più ampia di organismo di diritto pubblico ricomprendente anche casi di imprese pubbliche D. Sorace, Pubblico e privato nella gestione dei servizi pubblici locali mediante società per azioni, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1997, 79 ss.; G. Pericu, M. Cafagno, Impresa pubblica, in E. Chiti, G. Greco (diretto da), Trattato di diritto amministrativo europeo, Milano, 1997, parte speciale, 795; G. Morbidelli, Società miste, servizi pubblici e opere accessorie, in Riv. trim. app.,1997, 505; F. Gaffuri, Brevi considerazioni sulle riconducibilità delle società miste nella categoria degli organismi di diritto pubblico, cit., 255.
[25] F. Aperio Bella, Studio sull’attuale consistenza delle nozioni di impresa pubblica e organismo di diritto pubblico, cit., 161-162.
[26] A riguardo può vedersi Cons. Stato, Ad. pl., 1 agosto 2011, n. 16, la cui posizione ha trovato conferma nelle direttive del 2014 e nel vigente Codice dei contratti pubblici.
[27] Cfr. Corte Giust. U.E., sez. IV, 5 ottobre 2017 (punti 33-35).
Corte Giust. U.E., 22 maggio 2003, Korhonen e a., C- 18/01, peraltro, osserva come l’indagine volta ad accertare se “l’organismo” sia stato istituito allo specifico fine di soddisfare esigenze di interesse generale e se tali attività soddisfino effettivamente tali esigenze deve precedere quella attraverso la quale verificare se queste ultime abbiano o meno carattere industriale o commerciale (punto 40).
[28] Cfr. Corte Giust. U.E., sez. IV, 5 ottobre 2017 (punto 43).
[29] Cfr. Corte Giust. U.E., 16 ottobre 2003, Commissione/Spagna, C-283/00 (punti 81 e 82).
[30] Cfr. Delibera n. 41/17/CONS https://www.agcom.it/documents/10179/6702854/Delibera+41-17-CONS/1f4bc027-c119-4e5a-8380-da02daf3addb?version=1.1; nonché Allegato A alla Delibera n. 41/17/CONS https://www.agcom.it/documents/10179/6702854/Allegato+8-3-2017/c256909a-0163-42c1-b9c4 b2ed2efec23f?version=1.0Link.
In particolare, nella delibera n. 41/17/CONS viene chiarito come «Tipicamente, sul fronte della tutela della concorrenza, il mercato della televisione in chiaro viene analizzato considerando il solo versante della raccolta pubblicitaria – sul quale le imprese televisive conseguono ricavi dalla vendita degli spazi pubblicitari agli inserzionisti –, escludendo le attività finanziate dai fondi pubblici, che rappresentano una risorsa non contendibile sul mercato».
[31] L’art. 21 del Contratto di Servizio espressamente stabilisce che «In conformità a quanto stabilito dall’art. 47, commi 1 e 2, del TUSMAR, nel rispetto del diritto dell’Unione europea, e coerentemente a quanto previsto dall’art. 14 della Convenzione, la Rai predispone il bilancio di esercizio indicando in una contabilità separata i ricavi derivanti dal gettito del canone e gli oneri sostenuti nell’anno solare precedente per la fornitura del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale rispetto ai ricavi delle attività svolte in regime di concorrenza, imputando o attribuendo i costi sulla base di principi di contabilità applicati in modo coerente e obiettivamente giustificati e definendo con chiarezza i principi di contabilità analitica secondo cui vengono tenuti conti separati».
[32] Sulle implicazioni del rapporto fra concorrenza e giurisdizione I.M. Marino, Autorità garante della concorrenza e del mercato e giustizia amministrativa, in Scritti in onore di Pietro Virga, Milano, 1994, II, 1001.
[33] Cfr. I.M. Marino, Corte di Cassazione e giudici «speciali» (Sull’interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 111 Cost.), in Scritti in onore di Vittorio Ottaviano, II, Milano, 1993, 1394 e 1407.
In difesa della nomofilachia. Prime notazioni teorico-comparate sul nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione nel progetto di riforma del Codice di procedura civile
di Carlo Vittorio Giabardo
Sommario. 1. Premessa. – 2. La vocazione nomofilattica del rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione. 3. Il ruolo normativo delle Corti di vertice – 4. La selezione delle questioni di diritto “a rilevanza nomofilattica” (note di diritto comparato). - 5. I criteri di ammissibilità del rinvio pregiudiziale. - 6. L’efficacia e il vincolo del principio di diritto. 7. Riflessioni di chiusura.
[Art. 362 bis c.p.c. “Rinvio pregiudiziale”:
«Fuori dei casi in cui procede in base agli articoli 394 e 400, il giudice di merito può disporre con ordinanza il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte per la risoluzione di una questione di diritto necessaria per la definizione anche parziale della controversia, quando ricorrono le condizioni di cui al secondo comma.
Il rinvio può essere disposto dal giudice quando:
1) la questione di diritto sia nuova o comunque non sia stata già trattata in precedenza dalla Corte;
2) si tratti di una questione esclusivamente di diritto e di particolare rilevanza;
3) presenti particolari difficoltà interpretative;
4) si tratti di questione che, per l’oggetto o per la materia, sia suscettibile di presentarsi o si sia presentata in numerose controversie dinanzi ai giudici di merito.
Il giudice, se ritiene di disporre il rinvio pregiudiziale, assegna alle parti un termine non superiore a quaranta giorni per il deposito di memorie contenenti osservazioni sulla questione di diritto.
Con l’ordinanza che formula la questione dispone altresì la sospensione del processo fino alla decisione della Corte.
Il primo presidente, ricevuta l’ordinanza di rinvio pregiudiziale, con proprio decreto la dichiara inammissibile quando mancano una o più delle condizioni di cui al secondo comma.
Se non dichiara l’inammissibilità, il primo presidente dispone la trattazione del rinvio pregiudiziale dinanzi alla sezione semplice o, in caso di questione di particolare importanza, alle sezioni unite, per l’enunciazione del principio di diritto.
La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia in pubblica udienza.
Il provvedimento con il quale la Corte definisce la questione di diritto è vincolante per il giudice nel procedimento nel cui ambito è stato disposto il rinvio. Il provvedimento conserva il suo effetto vincolante anche nel processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda»]
1. Premessa
Tra le molte novità di grande rilievo contenute nel progetto di riforma del Codice di procedura civile elaborato dalla cd. “commissione Luiso” (dal nome del Presidente, il professor Francesco Paolo Luiso) presentato lo scorso maggio[1], spicca – per importanza sistematica e innovazione ordinamentale – l’introduzione del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione (art. 6-bis, lett. g. del Progetto, che introduce il nuovo art. 362 bis c.p.c.), ricompreso tra gli Emendamenti definitivamente firmati dalla Ministra della giustizia, la professoressa Marta Cartabia (Emendamento-13)[2].
Attraverso questo meccanismo si offre al giudice del merito la possibilità di richiedere alla Corte di Cassazione (che può decidere sia a sezioni semplici sia, in casi di particolare importanza, a sezioni unite) di esprimersi in via preventiva e in maniera vincolante nel caso di specie sull’interpretazione di un punto controverso di diritto. La pronuncia della Corte, che giustamente opera qui in udienza pubblica, servirà poi da guida, da indicazione quasi normativa per i casi vertenti sulla medesima questione. Non basta, infatti, che la questione esegetica sia rilevante, anche solo parzialmente, per la definizione del giudizio concreto; questa dovrà presentare alcune caratteristiche tassativamente previste che la rendano - per così dire - “di interesse pubblico”, a pena di inammissibilità. Essenzialmente: (a) esser nuova, o comunque non esser già stata trattata dalla Corte in precedenza; (b) esser di particolare importanza (l’autonomia di questa condizione è, però, discutibile, v. infra), (c) presentare particolari difficoltà interpretative e (d) essere suscettibile di riproporsi in numerose controversie, presenti e future.
Questi requisiti fanno intendere un punto importante, che merita di essere enfatizzato da subito: la pronuncia della Corte è semplicemente occasionata dal giudizio a cui si riferisce, ma ha una portata ben superiore. I giudici supremi si esprimeranno grazie a la vicenda, ma non solo per quella (anzi, questa è la parte marginale). La causa è un pretesto perché la voce della Corte si faccia sentire da tutti. Certo, i destini del caso concreto saranno inevitabilmente segnati, ma in ogni caso non vuole essere questa la funzione principale dello scioglimento della difficoltà interpretativa. Il senso è quello di fornire una guida (anzi, qualcosa di più) che si estenda e che irradi l’intero ordinamento (irradiare mi sembra la parola più appropriata: di «radiating effect of court decisions» si parla, nel contesto del common law, proprio per indicare questa influenza ordinamentale e normativa delle sentenze[3]).
2. La vocazione nomofilattica del rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione
Il rinvio pregiudiziale alla Corte suprema in sé non rappresenta una novità nel panorama del diritto comparato. L’immediato riferimento, come la stessa Nota Illustrativa riconosce, è la saisine pour avis dell’ordinamento francese. Questo strumento, in vigore dal 1992, di cui agli artt. 1031-1 e seg. del Code de procédure civile e L441-1 e seg. del Code l'organisation judiciaire, viene preso a modello quasi letteralmente. La Cour de cassation (o anche il Conseil d’Etat) può essere infatti adita preventivamente «sur une question de droit nouvelle, présentant une difficulté sérieuse et se posant dans de nombreux litiges»[4]. Con l’importante differenza però che, come dice il nome stesso (avis), la pronuncia non è formalmente vincolante nemmeno per il giudice a quo. Mutatis mutandis, anche il ben noto rinvio pregiudiziale alle Corte di Giustizia di cui all’art. 267 TFUE, per quanto riguarda il diritto dell’Unione europea, presenta importanti analogie[5].
Come in queste due ipotesi, l’introduzione va dichiaratamente nella direzione di potenziare la funzione nomofilattica (nel nostro caso, della Corte di Cassazione), in linea con le principali linee di riforma degli ultimi anni che hanno interessato il processo civile italiano e il giudizio di legittimità in particolare[6].
Lo scopo dichiarato è difatti quella di porre un rimedio alla lentezza nella formazione e nella fissazione di orientamenti chiari su punti controversi, considerati evidentemente essenziali nel loro ruolo che definiamo - senza timore - normativo (v. infra. Par. 2). La Cassazione, investita del rinvio, ha l’opportunità di pronunciarsi nell’immediatezza del sorgere dell’incertezza interpretativa nelle corti di merito, senza attendere che un caso giunga alla sua attenzione attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione, mentre nell’attesa si formano letture contrastanti. L’effetto sperato è quello che, grazie alla pronta soluzione del quesito esegetico, si prevenga il contenzioso futuro (o comunque si chiuda quello già sorto sulla medesima questione). La Nota Illustrativa fa riferimento alla ben nota querelle circa il soggetto onerato a promuovere istanza di mediazione obbligatoria nell’opposizione a decreto ingiuntivo (l’opponente o l’opposto?): solo nel 2020 le Sezioni Unite, investite della questione, si sono espresse, mentre per anni sia in dottrina sia in giurisprudenza (non solo di merito) vi erano state vedute discordi[7].
Si potrebbe obiettare che non è sempre bene pronunciarsi subito, rapidamente, su una questione interpretativa difficile. L’obiezione ha fascino. Soprattutto se il dilemma è nuovo, recente, appena nato, occorre che le argomentazioni si sviluppino, si affinino, evolvano, si scontrino, trovino l’appoggio di questa o quella parte della dottrina, la quale a sua volta contribuirà a chiarificare gli aspetti positivi dell’una o dell’altra lettura; col tempo, poi, sorgeranno questioni pratiche che, forse, non erano state intraviste prima (la prassi è sempre imprevedibile) e sulle quali si sedimenteranno altre letture, contribuendo così al formarsi di una consapevolezza matura. Ma – come ha detto, forse sconsolatamente, Jean Buffet, all’epoca presidente della 2ème chambre della Cour de cassation, a proposito della saisie pour avis – «certains luxes ne sont plus possibles»[8].
3. Il ruolo normativo delle Corti di vertice
Facciamo un passo indietro e mi sia consentito partire da una premessa filosofica generale. Tutti gli ordinamenti contemporanei condividono una necessità: e cioè che, all’interno del sistema giuridico, non vi sia il caos interpretativo. Nelle questioni di diritto - forse la sola area tra quelle della conoscenza umana dove sia così sentita questa esigenza - c’è bisogno di qualcuno che parli “con l’autorità del Papa” (with the authority of the Pope: così si esprime il grande processualista statunitense Owen Fiss)[9]; e un altro studioso inglese (Peter Goodrich) discorre della necessità di un “supremo arbitro del significato” (supreme arbiter of meanings) delle parole della legge[10]. Vogliamo che il linguaggio del diritto sia il linguaggio dell’obiettività, e di questo linguaggio non può che esserne custode il giudice. Sappiamo che ogni enunciato normativo esprime sempre più norme (una per ogni interpretazione possibile), ma vogliamo sapere quale sia quella, sola, che debba guidare il comportamento. Nel diritto - potremmo dire - è necessario che vi sia l’ipse dixit[11].
Mi spingo anzi a dire che questa esigenza fa parte del concetto di diritto così come noi lo conosciamo. Si potrebbe, forse, immaginare un ipotetico ordinamento dove le interpretazioni divergano, e anche di molto, pur all’interno del recinto semantico tracciato dalle parole; però, in un siffatto mondo, occorre esser consapevoli che sia il valore (morale) dell’uguaglianza dei consociati davanti alla legge (il “trattare situazioni uguali in maniera uguale”, laddove per “uguale”, s’intende naturalmente “uguale agli occhi del diritto”) sia quello (latamente economico) - al primo strettamente collegato - della prevedibilità (calcolabilità) delle decisioni giudiziarie e quindi delle conseguenze dei propri comportamenti, sarebbero sacrificati[12]. Poiché questi valori sono considerati essenziali per i moderni stati di diritto, bisogna trovare forme per garantirne l’effettività.
Ora, questa funzione è assegnata alle Corti di vertice, le quali hanno (anche) il compito, tutto pubblico, di “ricondurre a unità” la polifonia di interpretazioni che, fisiologicamente e in misura maggiore o minore a seconda del contesto giuridico-culturale, si verificano tra coloro che sono chiamati ad applicare il diritto.
Questa dimensione pubblica dell’attività uniformatrice non può passare in secondo piano. Fa parte della natura stessa delle Corti di vertice la protezione dell’interesse collettivo alla «uniforme interpretazione» della legge e all’«unità del diritto oggettivo» (così si esprime l’art. 65 dell’ord. giud.; tra parentesi, tralascio volutamente qui il riferimento alla «esatta osservanza»: a prescindere dalla questione se possa in astratto darsi, o no, “esattezza” nell’interpretazione giuridica, non coincide forse questa con l’uniformità della stessa? Se ammettiamo il ruolo creativo della giurisprudenza - e mi sembra che rimangano pochi spazi per dubbi - allora l’interpretazione esatta sarebbe null’altro che quella uniforme data dalla Cassazione, e viceversa[13]).
Come è stato recentemente dimostrato in maniera credo definitiva, si usano impropriamente le espressioni ius litigatoris e ius constitutionis per identificare, rispettivamente, la protezione dell’interesse delle parti e quella dell’interesse “del diritto in generale”, nei giudizi di legittimità (dall’analisi storica risulta che esse descrivano, rispettivamente e semplicemente, l’errore di fatto e l’errore di diritto[14]). Ma la duplicità, l’ambivalenza, la tensione anzi tra l’esigenza della protezione dei diritti soggettivi, e quindi la cassazione di tutte le sentenze di merito giuridicamente non corrette, da un lato, e quella di assicurare l’unità, l’armonia del diritto, rimane in tutta la sua radicalità. La dottrina più attenta ha rimarcato a lungo la presenza di questi “due volti” che sempre più difficilmente sono chiamati a convivere[15]. Loïc Cadiet ha parlato a questo proposito di funzione disciplinare e funzione normativa della Corte di Cassazione francese per indicare, rispettivamente, l’attività di supervisione del rispetto della legalità, e quindi di censura delle sentenze non conformi a diritto, e quella di guida orientatrice, dovuta alla sua posizione apicale; l’una retrospettiva, volta a sanzionare l’errore, l’altra prospettiva, proattiva[16]. E la tendenza in atto dimostra chiaramente verso quale dei due estremi oscilli il pendolo, nel caso in cui questi due valori entrino in conflitto – ed è evidente che, pragmaticamente (non concettualmente), questo conflitto accada. L’esperienza insegna che non si possono volere (o meglio, ottenere) entrambe le cose in massimo grado. D’altronde, l’uso dell’espressione rôle normatif, riferita alla Cour de cassation - provocatoria se vogliamo, specialmente nell’ordinamento francese - si è imposta negli studi più recenti Oltralpe (paiono lontani i tempi del giudice bouche de la loi) e indica bene l’inevitabile trasformazione in atto, una delle grandi tendenze del nostro tempo su scala globale[17].
4. La selezione delle questioni di diritto “ad alto valore nomofilattico” (note di diritto comparato)
La naturale funzione pubblico-normativa delle corti di vertice fa sì che queste, sempre più spesso, siano chiamate a selezionare e a pronunciarsi solo su casi - per così dire - “ad alto valore nomofilattico”.
Le corti supreme di common law sono un esempio lampante. Accantoniamo la Corte Suprema Federale Statunitense (modello assai distante per i nostri fini), che pure ha le sue tecniche per scegliere quando esprimersi e quando è meglio star zitti[18], e diamo uno sguardo al sistema inglese. Quando – spessissimo - l’Appeal Panel della Supreme Court del Regno Unito si trova a rifiutare di pronunciarsi su un caso, negando, nella sua immensa discrezionalità, il permission of appeal, la maggior parte delle volte lo fa sulla base del fatto che le parti «do not raise an arguable point of law of general public importance»; cioè, letteralmente, il punto di diritto sollevato dai litiganti non presenta un sufficiente grado di importanza pubblica generale, un livello di proiezione che vada al di là di ciò che può interessare coloro che sono coinvolti nel giudizio[19]. Ma chi decide se il punto di diritto è adeguatamente, sufficientemente, importante? E soprattutto, e prima ancora: sulla base di quali criteri oggettivi è possibile operare un simile giudizio? Difficile dirlo. È la stessa Supreme Court ad auto-selezionare i ricorsi meritevoli sulla base di questa formula stereotipata (e fino a pochi anni fa senza nemmeno richiamarsi a questa). La scelta non è motivata e non può esser censurata. La stessa dottrina inglese sottolinea questa aleatorietà, ma senza che ciò si traduca in una aperta obiezione: «It is not possible to say, for any particular case, what general factors led to permission to appeal being granted. It is, however, possible to test […] which factors are associated with success»[20]. L’interesse privato, e quindi il problema della correttezza o meno della sentenza, è pressoché assente dalla valutazione della Supreme Court.
Questo funzionamento è in linea con la tradizione giudiziaria di quel Paese. Una tale soluzione sarebbe difficilmente percorribile all’interno della nostra cultura giuridica. Lascerebbe al giudice un così ampio margine di apprezzamento su cosa decidere (o non decidere) che sarebbe assai mal tollerato; e questo anche a tacer della presenza, in Italia, dell’art. 111, comma 7, Cost. che garantisce il diritto al ricorso per cassazione contro tutti i provvedimenti definitivi che decidono su diritti (il che, come è stato correttamente denunciato, finisce col porsi paradossalmente in contrasto con le esigenze di nomofilachia e necessiterebbe, pertanto, un serio, ma improbabile, ripensamento[21]).
Il bisogno di formare giurisprudenza con caratteristiche di quasi normatività su ricorsi ad alta valenza nomofilattica, però, è assai sentita anche dai paesi di civil law. La saisine pour avis consultiva francese, a cui s’è già fatto cenno, è un chiaro esempio. Ma ci sono anche altri meccanismi che possono essere apprezzati. In Spagna, ad es., uno dei fattori legittimanti il ricorso per cassazione è la presenza del cd. interés casacional (art. 477, commi 2 e 3, Ley de Enjuiciamiento Civil): tra le altre ipotesi, il Tribunal Supremo può pronunciarsi in quanto sia dimostrato questo interesse, che sussiste, ad es., nel caso in cui (a) la sentenza impugnata sia contraria alla giurisprudenza (doctrina jurisprudencial) del TS, (b) esistano contrasti giurisprudenziali sul punto, e (c) la norma applicata non sia in vigore da più di cinque anni, sempre che non sia già intervenuta una pronuncia sul punto da parte del TS. Quest’ultimo requisito, in particolare, mi pare degno di essere riportato, in quanto in linea sia con quello della question de droit nouvelle, nella saisine pour avis, sia con la “novità della questione di diritto” nel testo provvisorio dell’art. 362 bis c.p.c. Sembra che si vadano delineando, nel panorama comparato, corti supreme chiamate a dare – mi si perdoni l’improprietà – quasi interpretazioni autentiche dei testi normativi nuovi.
Sempre lungo questa linea, nel 2016, sempre in Spagna, nel nuovo recurso de casación contencioso-administrativo si fa riferimento al (discussissimo) concetto di interés casacional objetivo para la formación de jurisprudencia (art. 88, Ley Orgánica 7/2015). Questo interesse oggettivo potrà essere vautato, tra le varie ipotesi, quando la sentenza impugnata «afecte a un gran número de situaciones, bien en sí misma o por trascender del caso objeto del proceso», cioè sia idonea a influenzare un gran numero di situazioni, o di per sé, o perché trascende il caso oggetto del processo[22]. Non c’è bisogno di sottolineare il parallelismo evidentissimo con il requisito della “suscettibilità, per l’oggetto o per la materia, della questione di diritto di presentarsi in numerose controversie dinanzi ai giudici di merito”, nel testo provvisorio del futuro art. 362 bis, comma 2, n. 4 c.p.c.
È noto, infine, che anche nell’ordinamento italiano i giudici di legittimità sono chiamati, talvolta, a selezionare discrezionalmente i ricorsi sulla base della loro “importanza” o “rilevanza”. In questi casi, l’azione in qualità di custodi di un interesse che trascende quello delle parti in causa è manifesta. Si potrebbe ribattere – e giustamente – che la Corte di Cassazione agisce sempre a tutela (anche) dell’interesse pubblico. Tutte le sue pronunce sono dotate per natura di una particolare autorevolezza che fa sì che il loro dictum si estenda sempre oltre il caso specifico. Le ultime riforme hanno proprio enfatizzato questo ruolo guida della giurisprudenza tout court della Corte Suprema[23]. Vero. Ma vi sono momenti in cui questo interesse pubblico è assolutamente preponderante o addirittura esclusivo.
Il ricorso e la pronuncia del principio di diritto nell’interesse della legge è l’emblema più tipico. Derivato già dall’antico istituto francese post-rivoluzionario del ricorso da parte di un commissaire du roi dans l'intérêt de la loi, codificato in Italia all’art. 363 c.p.c., potenziato e rinvigorito nel 2006, delinea un meccanismo per il quale la Cassazione, su richiesta del Procuratore Generale rivolta al Primo Presidente (commi 1 e 2), o anche d’ufficio (comma 3), può pronunciarsi sulla corretta interpretazione di un punto di diritto senza che questo abbia effetti sulla fattispecie concreta, qualora le parti non possano (più) impugnare l’originaria sentenza o in caso di dichiarata inammissibilità[24]. Ma questa pronuncia – puntualizza l’art. 363 c.p.c. – può avvenire solo «se la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare importanza» (requisito, a voler essere precisi, stabilito testualmente solo per la pronuncia d’ufficio e per l’eventuale assegnazione, da parte del Primo Presidente, alle Sezioni Unite). Del resto, della pronuncia i destinatari non sono le parti coinvolte, ma l’intera classe dei giuristi, anzi, i consociati tutti. La rubrica avrebbe potuto dire “ricorso, o principio, nell’interesse di tutti” o “nell’interesse della collettività”, ma la formula usata è più pregnante, evocativa: “ricorso, o principio, di diritto nell’interesse della legge”. La legge (il diritto) è portatore di un interesse suo proprio. Il diritto, che deve essere custodito, viene personificato. (Ma attenzione; il rinvio pregiudiziale si differenzia profondamente, dal punto di vista concettuale, dall’enunciazione del principio nell’interesse della legge: mentre quest’ultimo, è, per così dire, astratto, il primo è pur sempre funzionale alla decisione della causa, e quindi è espresso in concreto, sebbene con vocazione generale).
Ancora: l’art. 374, comma 2 c.p.c. stabilisce che le Sezioni Unite si pronunciano (oltre che nell’ipotesi di conflitto di giurisprudenza) quando il ricorso presenta «una questione di massima di particolare importanza». La formula è leggermente differente, ma la sostanza non pare cambiare. Importante, anzi particolarmente importante è la parola chiave. Anche in questo caso la valutazione è discrezionale (“Il primo presidente può disporre”) e non c’è un diritto delle parti a vedere la propria causa discussa da questa particolare composizione. La Corte qui agisce al di là dell’interesse delle parti, a beneficio innanzitutto “del diritto in quanto tale”.
È chiaro che, in tutti questi tipi di valutazioni, importanza e rilevanza non hanno, né dovrebbero mai avere, una caratterizzazione soggettiva. Non si intende importante per le parti o importante anche solo nel senso concreto del termine (mi spiego: immaginiamo, ad es., una controversia sulla chiusura di un impianto produttivo cruciale il quale svolge una funzione sociale immensa nel contesto di riferimento; il punto interpretativo di diritto in una tal lite avrebbe una indubbia “importanza” per le sue ampie ricadute fattuali, ma non rientrerebbe, per questa sola ragione, entro l’alveo di applicazione delle norme ricordate). Ne segue pertanto una conclusione non da poco: l’importanza, o rilevanza che dir si voglia, non andrebbe mai misurata dal punto di vista economico, dal valore della controversia, che è qualcosa di contingente. Una causa da un miliardo di euro può anche non presentare nessun aspetto giuridico problematico, discusso, né di centralità sistematica né utile per risolvere casi futuri; e viceversa, una causa di pochi centesimi ben può riferirsi, ad es., a un rompicapo interpretativo di diritto affrontato da tempo in dottrina o in giurisprudenza con pluralità di vedute e idoneo, se non risolto, a generare un contenzioso di massa[25]. Anzi; sarebbero proprio le controversie che, normalmente, hanno minor valore quelle che necessitano maggiormente di interventi nomofilattici, proprio per l’attitudine delle questioni di diritto in esse contenute a presentarsi più frequentemente nel corpo sociale.
5. I criteri di ammissibilità del rinvio pregiudiziale
Riflettere, anche comparativamente, su questi aspetti mi sembra utile in quanto la locuzione «particolare rilevanza», riferita alla questione di diritto, è ripetuta anche nel testo del futuro art. 362 bis, comma 2, lett. 2) c.p.c. qui in esame; locuzione che viene poi ulteriormente ribadita (nella dizione alternativa della “particolare importanza”) al successivo comma 6, che regola l’ipotesi in cui il rinvio pregiudiziale deve essere deciso non dalla sezione semplice, ma dalle Sezioni Unite (cosicché parrebbero esserci, a voler essere meticolosissimi, due distinti giudizi di importanza/rilevanza; uno, il primo, ai fini dell’ammissibilità del rinvio pregiudiziale e decisione da parte della sezione semplice, e l’altro, successivo e qualificato, ai fini dell’assegnazione eventuale alle Sezioni Unite. Tra le questioni particolarmente rilevanti, dovranno essere selezionate quelle… particolarmente importanti; una sorta di “importanza di secondo grado”, come a dire che, nel caso di assegnazione alle S.U., il quesito deve essere, enfaticamente, estremamente, sommamente importante).
Qualche aspetto tecnico.
Il rinvio è richiesto dal giudice a quo, che agisce in totale autonomia; le parti, al più, potranno sollecitare la sua azione. Come negli incidenti di costituzionalità, si è voluto attribuire alla sola autorità giudiziaria la facoltà di aprire questa parentesi che, alla stessa maniera, sospende il processo d’origine (sospensione cd. “impropria”, in quanto il giudizio che si apre non verte sulla dichiarazione di diritti). Avrebbe il legislatore potuto stabilire l’obbligatorietà di questo rinvio? La risposta è risolutivamente negativa; la potestas interpretandi del diritto non è di competenza esclusiva della Corte di cassazione, e pertanto la - per così dire - cessione del diritto-dovere di ius dicere non avrebbe potuto che essere discrezionale[26].
Opportunamente si prevede che, prima di giungere all’attenzione della Corte, il rinvio debba passare un “filtro” a cura del Primo Presidente. Il testo dell’art. 362 bis c.p.c. elenca i requisiti che la questione di diritto deve possedere a pena di inammissibilità. Dalla lettura del testo, si ricava che dovrebbero essere tutti contemporaneamente presenti per superare il vaglio: “Il primo presidente, ricevuta l’ordinanza di rinvio pregiudiziale […] la dichiara inammissibile quando mancano una o più delle condizioni» (dal che si deduce che l’assenza anche solo di una delle qualità rende il rinvio irricevibile).
I problemi interpretativi che questa lista solleva non sono pochi, ma non sono nemmeno insuperabili. Un adeguato sviluppo giurisprudenziale contribuirà a chiarire le incertezze che saranno via via sollevate (è prevedibile che sarà la “novità” della questione quella che darà luogo alle maggiori incognite: si potrebbe, ad es., utilizzare questo meccanismo per sollevare un nuovo quesito interpretativo, riferito però a una disposizione sulla quale la Corte si sia già pronunciata? Immaginiamo che la Corte, in sede di rinvio pregiudiziale, abbia interpretato la disposizione D nella forma D1, escludendo l’interpretazione D2. Potrebbe, poco dopo, un altro giudice, in altro processo, chiedere alla Corte di pronunciarsi sul medesimo testo, argomentando però D3, per la prima volta? Propenderei, forse, per la risposta negativa, più aderente alla formulazione della legge, che riferisce la novità alla questione, non all’argomentazione spesa: ma mi sembra che il discrimine tra le due non sia poi così preciso[27]. E ancora: come si misura la suscettibilità della questione di presentarsi in numerose altre controversie? Come dovrà motivare il giudice a quo sul punto?).
A questo riguardo, mi preme sottolineare un ultimo aspetto. Alla luce dei criteri, mi pare di poter dire che il requisito dell’importanza di cui al comma 2, lett. 2, non sia tanto una qualità autonoma della questione, ulteriore e separata dalle altre, bensì una forma per ricomprendere, in una sola parola, le caratteristiche enumerate. La lista stessa già dà corpo a questo giudizio di meritevolezza. Mi sembra evidente, infatti, che una questione di diritto che sia al contempo nuova, sia oggettivamente difficile e sia idonea a presentarsi in un vasto contenzioso di serie, sia per ciò stesso importante, senza bisogno di ulteriori argomentazioni.
6. L’efficacia e il vincolo del principio di diritto
La disposizione, infine, specifica che «Il provvedimento con il quale la Corte definisce la questione di diritto è vincolante per il giudice nel procedimento nel cui ambito è stato disposto il rinvio».
Il riferimento, testualmente, è al giudice (singolare), non ai giudici. A prima vista, sembrerebbe quindi che il vincolo si produca solo nei confronti dell’autorità postulante. Cosicché, se il rinvio è stato disposto dal Tribunale, la Corte d’Appello potrebbe re-interpretare diversamente la questione, non essendosi l’organo di secondo grado spogliatosi volontariamente del potere di decidere il diritto. Insomma, qualcuno potrebbe esser tentato di sostenere che l’aver abbandonato il proprio potere di ius dicere vincoli solo chi lo ha voluto e non potrebbe estendersi agli altri gradi. Questo ragionamento, però, non convince ed è contrario allo spirito della disposizione[28]. La pronuncia in sede di rinvio pregiudiziale (esattamente come quella sul principio di diritto in sede di rinvio “ordinario” ex art. 384, comma 2 c.p.c.) è un rechtliche Beurteilung, un “giudizio giuridico” definitivo. Con la sua decisione, richiesta, la Cassazione crea - nel senso kelseniano del termine - la norma specifica e individuale che risolve, una volta applicata, una volta per tutte il conflitto[29]. Vi è quindi una scissione temporale e soggettiva tra interpretazione e applicazione (o, se vogliamo, con altra terminologia, tra interpretazione in astratto e interpretazione in concreto): due attività che, però, normalmente, sono realizzate in forma contestuale e che pertanto devono essere considerate in maniera unitaria. Nel testo, quindi, la parola giudice va intesa come generica “autorità giudiziaria” del processo in corso. Si aggiunga che la definitività di questo giudizio è anzi talmente intensa da sopravvivere, esattamente come accade nell’art. 392 c.p.c., persino in un eventuale giudizio futuro (vincolando così un altro giudice), instaurato tra le medesime parti e sul medesimo oggetto di causa (evidentemente, in caso di estinzione del primo; cd. effetto ultrattivo). Tutti i giudici del merito del procedimento sono quindi obbligati ex lege ad uniformarsi a quanto statuito dalla Corte senza poterlo rimettere in discussione; se ciò non avviene, il soccombente potrà dolersene con le impugnazioni (se in sede di legittimità, per errore di diritto).
Per quanto forte, però, tale vincolo sul procedimento in corso non è assoluto. Innanzitutto, così come nel giudizio di rinvio “ordinario”, è da ritenersi che questo cessi davanti allo ius superveniens (o, ovviamente, in caso di intervenuta dichiarazione di incostituzionalità della norma da applicare o di intervenuta sentenza della Corte di Giustizia). Aggiungerei – ma sono consapevole che l’affermazione è problematica e discutibile – che il vincolo venga meno anche qualora nel frattempo sia mutato l’orientamento della Cassazione su quello stesso punto di diritto[30]. Se prendiamo davvero sul serio l’affermazione per la quale gli orientamenti consolidati sono - secondo una concezione realistica e non formalistica - fonti del diritto (nella misura in cui possiedano certe caratteristiche di autorevolezza e stabilità), allora la loro successione nel tempo dovrebbe essere parificata a quella delle leggi. D’altronde, come può apparire ingiusta l’applicazione di una disposizione che non è più vigente (e che è cambiata, evidentemente perché non considerata più adatta), parimenti appare ingiusta l’applicazione di una interpretazione che nel frattempo è stata apertamente sconfessata e rinnegata (e quindi parimenti considerata non più adatta) dallo stesso organo che l’aveva originariamente pronunciata. A maggior ragione, ritengo che la Corte stessa, se investita nuovamente del ricorso con le impugnazioni, potrà cambiare l’originaria opinione (a meno che quella non fosse stata emessa dalle Sezioni Unite, nel qual caso dovrà operare l’art. 374, comma 3, c.p.c. che impone la rimessione a queste ultime). Ci si aspetta però che questo accada raramente, stante la necessità di una (relativamente intensa) stabilità delle pronunce interpretative.
Il valore del provvedimento interpretativo non è, né avrebbe potuto essere, formalmente vincolante per tutti gli altri giudizi, presenti e futuri. La sua efficacia è identica alla pronuncia del principio a seguito di cassazione con rinvio, ex art. 383 c.p.c. (il nuovo art. 362 bis c.p.c. parla proprio, testualmente, di principio di diritto). È chiaro, però, che la sua forza è concepita, nel disegno complessivo e alla luce della ratio della norma, come particolarmente intensa. A mio avviso, comunque, queste distinzioni analitiche non devono preoccupare troppo. La dicotomia tra efficacia pienamente vincolante ed efficacia solo persuasiva dei precedenti non ha mai convinto appieno; è noto, infatti, che questi possono essere più o meno vincolanti, a seconda di quanto siano effettivamente seguiti e rispettati, oppure no, nella realtà. (Ammesso che di “precedente”, nei sistemi continentali, e specialmente in Italia, possa parlarsi: e la risposta, a stretto rigore, dovrebbe essere negativa, in quanto, nella nostra tradizione, per “precedente” intendiamo una regola compilata sotto forma di “massima”, cioè in termini generali e astratti, laddove invece nell’universo di common law questo è l’applicazione di una regola a un caso concreto[31]). I comparatisti sanno bene che, da un lato, mentre nel common law il precedente può rappresentare un ostacolo più facilmente superabile di quanto si pensi (i giudici possono discostarsene attraverso le note tecniche del distinguishing e dell’overruling; la vincolatività è questione culturale, prima ancora che normativa), d’altro lato tutti i sistemi di civil law vanno verso una maggior stabilità della giurisprudenza, la quale, sotto certe condizioni, ben può considerarsi diritto vivente (e vigente)[32].
7. Riflessioni di chiusura
Come si è cercato di mettere in luce, l’introduzione del rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione rappresenta un tassello ulteriore verso una corte sempre più dotata di un ruolo quasi normativo. Aggiungiamo “quasi”, perché la stabilità e la forza dell’interpretazione della Cassazione è (deve essere) pur sempre tendenziale, aperta all’evoluzione e alle buone ragioni, non granitica. La sua forza non va misurata col metro del formalismo, ma con quello della fattualità (cioè la responsività ai fatti) e dell’effettività[33].
L’assunzione di questo ruolo, peraltro, è una delle grandi tendenze in atto a livello comparato. Le ragioni di questa traiettoria sono sicuramente complesse e non è questa la sede per indagarle; a livello generale, bisognerebbe risalire al mutamento che sta avvenendo circa il ruolo del giudice, all’importanza sempre più cruciale del diritto giurisprudenziale e, ancora più a monte, alla crisi del formante legislativo tout court (in breve: alle ragioni della post-modernità giuridica, nel senso tecnico dato a questo vocabolo da Paolo Grossi)[34]. La nostra non è più l’epoca della “vocazione per la legislazione” o per la “scienza giuridica” (come scriveva Savigny[35]), bensì quella per la giurisdizione[36].
Parecchie implicazioni discendono da questa presa d’atto. Una delle molte è che i giudici (e quelli supremi in particolare) devono avere piena consapevolezza della magnitudine di questo compito, e quindi della necessità di svolgerlo con equilibrio e misura. Il rimedio al pericolo di una Corte che si pone «di fronte alle regole come un Titano del diritto sempre più protetto, ma anche sempre più chiuso, nella sua Torre» (il che sarebbe sommamente negativo[37]) sta, probabilmente, nel dialogo. Non intendo solo il dialogo con la legge o il dialogo con la dottrina[38]. Mi riferisco qui al dialogo con le corti di merito, nel più ampio quadro di una nomofilachia discorsiva[39]. D’altro canto, è il giudice del merito che solleva (se lo ritiene) la questione, è dal caso specifico che il quesito origina, ed è ai giudici del merito che la questione ritornerà per essere effettivamente seguita; ed è evidente che la Corte né dovrà, né potrà, essere insensibile alle istanze che dal merito provengono.
[1] V. Proposte normative e note illustrative, disponibile in https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1754-le-proposte-di-interventi-in-materia-di-processo-civile-e-di-strumenti-alternativi. Vedi, in generale, E. D’Alessandro, La riforma della giustizia civile secondo il Piano nazionale di ripresa e resilienza e gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII. Riflessioni sul metodo, in Giustizia Insieme, 31 maggio 2021, in https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1758-la-riforma-della-giustizia-civile-secondo-il-piano-nazionale-di-ripresa-e-resilienza-e-gli-emendamenti-governativi-al-d-d-l-n-1662-s-xviii-riflessioni-sul-metodo-di-elena-d-alessandro, G. Scarselli, Osservazioni al maxi-emendamento 1662/S/XVIII di riforma del processo civile, in Giustizia Insieme, 24 maggio 2021, in https://www.giustiziainsieme.it/it/news/121-main/processo-civile/1747-osservazioni-al-maxi-emendamento-1662-s-xviii-di-riforma-del-processo-civile, B. Capponi e A. Panzarola, Questioni e dubbi sulle novità del giudizio di legittimità secondo gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII (breve contributo al dibattito), in Giustizia Insieme, 21 maggio 2021, in https://www.giustiziainsieme.it/it/news/121-main/processo-civile/1744-questioni-e-dubbi-sulle-novita-del-giudizio-di-legittimita-secondo-gli-emendamenti-governativi-al-d-d-l-n-1662-s-xviii-breve-contributo-al-dibattito.
[2] In senso critico, su questa introduzione, B. Capponi, È opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di Cassazione?, in Giustizia Insieme, 19 giugno 2021, in https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1811-e-opportuno-attribuire-nuovi-compiti-alla-corte-di-cassazione-di-bruno-capponi. Per un primo sguardo d’insieme circa le novità in materia di giudizio di legittimità, R. Frasca, Considerazioni sulle proposte della Commissione Luiso quanto al processo davanti alla Corte di Cassazione, in Giustizia Insieme, 7 giugno 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1779-considerazioni-sulle-proposte-della-commissione-luiso-quanto-al-processo-davanti-alla-corte-di-cassazione.
[3] M. Galanter, The Radiating Effect of Courts, in K. Boyum – L. Mather (a cura di), Empirical Theories About Courts, New York, 1983, 115 e seg.
[4] Da tempo l’istituto ha attirato l’attenzione della dottrina italiana; cfr. già C. Silvestri, La saisine pour avis della Cour de Cassation, in Riv. Dir. Civ., 1998, 495 e seg.
[5] Così come, per certi aspetti, l’art. 420 bis c.p.c. (Accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità ed interpretazione dei contratti e accordi collettivi) e anche l’incidente di costituzionalità; lo rileva B. Capponi, È opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di Cassazione?, cit.
[6] Nomofilachia è parola senza dubbio bellissima: “custodire i nomoi”, un compito tanto nobile quanto necessario; su questo, penso non si possa non essere d’accordo. I disaccordi intervengono, piuttosto, sull’uso che di questa esigenza ne è stato fatto, ossia per giustificare interventi e prassi giudiziarie, stratificatisi poi nel tempo, non sempre apprezzabili, perché tutte volte alla riduzione o comunque al respingimento massivo dei ricorsi; cfr. B. Sassani, La deriva della cassazione e il silenzio dei chierici, in Riv. Dir. Proc., 2019, 74 e seg. Ma vedi poi le considerazioni di E. Scoditti, La nomofilachia naturale della Corte di cassazione. A proposito di un recente scritto sulla «deriva della Cassazione», in Foro It., 2019, V, 415 e seg. Sulla nomofilachia, tra la sterminata letteratura, si rimanda a F. Di Stefano, Giudice e precedente: per una nomofilachia sostenibile, in Giustizia Insieme, 3 marzo 2021, in https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1598-giudice-e-precedente-per-una-nomofilachia-sostenibile
[7] Il riferimento è a Cass. Sez. Un. 18 settembre 2020, n. 19596 (cfr., ex multis, M. Mocci, La Corte di Cassazione chiarisce a chi spetti l’onere di promuovere la mediazione a seguito di un decreto ingiuntivo, in Giustizia Insieme, 20 novembre 2020, in https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1360-la-corte-di-cassazione-chiarisce-a-chi-spetti-l-onere-di-promuovere-la-mediazione-a-seguito-di-un-decreto-ingiuntivo).
[8] Jean Buffet, Pour aller plus loin : exposé de Jean Buffet, 29 marzo 2000, disponibile in https://www.courdecassation.fr/jurisprudence_2/avis_15/presentation_saisine_avis_8018/loin_expose_36050.html: «La saisine pour avis «a été conçu comme un instrument mis à la disposition des juges du fond […] destiné à remédier […] à la lenteur de la formation de la jurisprudence, puisqu’il faut attendre plusieurs années avant qu’une difficulté ne remonte jusqu’à la Cour de Cassation. […] Certes certains autres, plus minoritaires, ont trouvé le procédé fâcheux et pervers en soulignant que seule une longue maturation préalable d’une affaire, enrichie d’opinions divergentes des tribunaux et de débats doctrinaux, permet à la Cour de Cassation de dire le droit d’une manière sûre. […] Mais certains luxes ne sont plus possibles».
[9] O. Fiss , Objectivity & Interpretation, in 34, Stanford Law Review, 1982, 755. Va precisato che, nel suo scritto, Fiss ricollegava questa autorità alla funzione giudiziale tout court, in termini puramente descrittivi; ma ritengo che la formula esprima bene, a livello di immagine evocata, l’esigenza normativa propria delle corti di vertice.
[10] P. Goodrich , Reading the Law, Oxford University Press, 1986, 188.
[11] La ragione, fondamentalmente, è che il linguaggio del diritto è un linguaggio amministrato; innanzitutto dal legislatore, certamente, ma anche dalla giurisprudenza. Sul concetto di linguaggio amministrato, fondamentale i contributi di Mario Jori, e spec. Definizioni giuridiche e pragmatica, in P. Comanducci, R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 1995. Ricerche di giurisprudenza analitica, Torino, 1995, 109 e seg.
[12] Trovo che valga la pena insistere su questa dimensione morale ed economica al tempo stesso dei valori di uguaglianza e certezza. Insuperate, sul punto, le riflessioni di P. Calamandrei, Fede nel diritto (1940), a cura di S. Calamandrei (con saggi di G. Alpa, P. Rescigno, G. Zagrebelsky), Roma-Bari, 2008, spec. 83 e seg., e l’introduzione di G. Zagrebelsky, Una travagliata apologia della legge, 3 e seg.
[13] La sottile argomentazione è di S. Chiarloni, Un ossimoro occulto: nomofilachia e garanzia costituzionale dell’accesso in cassazione, in C. Besso, S. Chiarloni (a cura di), Problemi e prospettive delle corti supreme: esperienze a confronto, Napoli, 2012, 19 e seg.
[14] G. Scarselli, Sulla distinzione tra ius constitutionis e ius litigatoris, in Questione Giustizia, 13 gennaio 2017, 13 gennaio 2017, in https://www.questionegiustizia.it/articolo/sulla-distinzione-tra-ius-constitutionis-e-ius-litigatoris_13-01-2017.php
[15] M. Taruffo, Il vertice ambiguo. Saggi sulla Cassazione civile, Bologna, 1991; Id., Le funzioni delle corti supreme tra uniformità e giustizia, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2014, 35 e seg.
[16] L. Cadiet, Problèmes et perspectives de la Cour de cassation française, in C. Besso, S. Chiarloni (a cura di), Problemi e prospettive delle corti supreme: esperienze a confronto, Napoli, 2012, 55 e seg., ma spec. 58. V. anche Id., Le rôle institutionnel et politique de la Cour de Cassation en France: tradition, transition, mutation?, in Annuario di diritto comparato e studi legislativi, 2011, 191 e seg. Di funzione proattiva, in questo senso, parlava anche M. Taruffo, in quello che è il suo ultimo studio sul tema, Sobre la evolución del Tribunal de Casación italiano (e ivi riferimenti ai lavori precedenti), in J. Nieva Fenoll, R. Cavani (a cura di), La casación hoy, cien años después de Calamandrei, Marcial Pons, 2021, 8 e seg.
[17] V., a questo proposito, l’ampio studio di D. Lanzara, Le pouvoir normatif de la Cour de cassation à l'heure actuelle, Paris, 2017. Anche F. Marchadier (a cura di), Le rôle normatif de la Cour de cassation. Étude annuelle 2018, Paris, 2018.
[18] Su questo argomento, v. la bella analisi di V. Barsotti, L’arte di tacere. Strumenti e tecniche di non decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti, Torino, 1999.
[19] Lo si apprende anche solo scorrendo il sito ufficiale della Supreme Court, nella sezione dedicata alle ultime impugnazioni negate, https://www.supremecourt.uk/news/permission-to-appeal-march-april-2021.html. Il riferimento normativo, per chi vuole, è la Practice Direction 3, Applications for Permission to Appeal, §3.3.
[20] C. Hanretty, Who Gets Heard? Permission to Appeal Decisions, in Id., A Court of Specialists: Judicial Behavior on the UK Supreme Court, Oxford UP, 2020, 55.
[21] Con chiarezza, S. Chiarloni, Un ossimoro occulto: nomofilachia e garanzia costituzionale, cit., 20: «Ci troviamo qui di fronte ad uno dei casi più eminenti di eterogenesi dei fini perseguiti da una norma processuale assurta al rango di garanzia costituzionale. Proprio la garanzia del ricorso contro tutte le sentenze ha determinato l’impossibilità per la Corte di cassazione di assicurare l’uniforme interpretazione e applicazione della legge. La ragione è semplice e può venir racchiusa in un detto della saggezza popolare: tot capita tot sententiae». Su questa eterogenesi dei fini, anche Id., Riflessioni minime sui paradossi della giustizia civile, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2019, 131 e seg.; Id., Ragionevolezza costituzionale e garanzie del processo, in Riv. Dir. Proc., 2013, 521 e seg. Da ultimo, Sergio Chiarloni è tornato su questo aspetto nel saggio, in lingua spagnola, Nomofilaxis y reforma del juicio de casación, nel già ricordato libro di J. Nieva Fenoll, R. Cavani (a cura di), La casación hoy, cien años después de Calamandrei, Marcial Pons, 2021,17 e seg.
[22] Anche se, nella giurisprudenza spagnola, questo requisito è stato interpretato piuttosto restrittivamente; per tutti, J. Huelin Martínez de Velasco, El interés objetivo en la nueva casación contencioso-administrativa, in 22, Anuario de la facultad de Derecho de Madrid, 2018, 355 e seg.
[23] Il riferimento è soprattutto agli artt. 360 bis, n. 1, c.p.c. e 118, 1 comma, disp. att. c.p.c.
[24] In senso critico, B. Capponi, La Corte di cassazione e la “nomofilachia” (a proposito dell’art. 363 c.p.c.), in Judicium, 6 aprile 2020, in https://www.judicium.it/la-corte-di-cassazione-e-la-nomofilachia-art-363-c-p-c/
[25] Ritengo quindi che l’accesso alle corti supreme non debba mai essere giustificato sulla base del valore economico in gioco. Lo rilevavo incidentalmente in C. V. Giabardo, Considerazioni sparse in tema di tutela processuale degli small claims, nota a Cass. 27 gennaio 2017, n. 2168, in Giur. It., 2017, 1598 e seg.
[26] In questo senso, B. Capponi, È opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di Cassazione?, cit.
[27] La Nota Illustrativa, su questo punto, non è d’aiuto. A proposito della novità della questione, così dice: «tale presupposto sarà sussistente tutte quelle volte in cui venga in rilievo l’interpretazione di un testo normativo di recente emanazione. Tuttavia, la “novità” deve essere intesa in modo più ampio, quale assenza di precedenti espressi dalla giurisprudenza di legittimità: in altre parole, lo strumento in esame potrà essere utilizzato anche con riferimento a normative meno recenti che, tuttavia, non siano state esaminate dal giudice della nomofilachia».
[28] Nella Nota Illustrativa, difatti, il riferimento al giudice è assente. Così è scritto: «Il principio di diritto espresso dalla Corte di cassazione è vincolante nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione».
[29] Nella teoria di Kelsen ogni decisione giuridica crea la norma particolare (cfr. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, a cura di S. Cotta e Treves, Milano, 1959 (ed. or., 1945), I, 135).
[30] Cosa che, ad oggi, nel giudizio di rinvio non accade. Cfr., da ultimo, Cass., ord. 19 ottobre 2020, n. 22657 (con mia nota critica, Note critiche sull’irrilevanza del mutamento di giurisprudenza nel corso del giudizio di rinvio, in Giur. It., 2021, in corso di stampa). V. anche A. Briguglio, «Creatività» della giurisprudenza, mutamento giurisprudenziale e giudizio di rinvio, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1984, 1380 e seg.
[31] Con chiarezza, M. Taruffo, Precedente e giurisprudenza, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2007, 709 e seg.; Id., Dimensioni del precedente giudiziario, ivi, 1994, 411 e seg. L. Passanante, Il precedente impossibile. Contributo allo studio del diritto giurisprudenziale nel processo civile, Torino, 2018, 61.
[32] S. Chiarloni, Un mito rivisitato: note comparative sull’autorità del precedente giurisprudenziale, in Riv. Dir. Proc., 2001, p. 629.
[33] Per i necessari riferimenti, P. Grossi, Ritorno al diritto, Roma – Bari, 2016, spec. Cap. II, Sulla odierna fattualità del diritto, 37; G. Benedetti, “Ritorno al diritto” ed ermeneutica dell’effettività, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2017, 3.
[34] P. Grossi, A proposito de 'il diritto giurisprudenziale', in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2020, 1 e seg.; Id., La invenzione del diritto: a proposito della funzione dei giudici, ivi, 2017, 869 e seg. Id., Il giudice civile. Un interprete?, ivi, 2016, 1135 e seg.
[35] F. C. von Savigny, Vom Beruf unserer Zeit für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft, Heidelberg, 1814.
[36] N. Picardi, La vocazione per il nostro tempo per la giurisdizione, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2004, 41 e seg. e anche in Studi in onore di G. Tarzia, Milano, 2005, Vol. I, 179 e seg.
[37] L’espressione è di B. Capponi, È opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di Cassazione?, in fine.
[38] Sul fenomeno della “dottrina delle corti”, v. i contributi di G. M. Berruti, C. M. Barone, R. Pardolesi, M. Granieri e E. Scoditti, in La giurisprudenza fra autorità e autorevolezza: la dottrina delle corti, in Foro It., 2013, 181 e seg.
[39] R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I 'volti' delle Corte di Cassazione a confronto, in Giustizia Insieme, 4 marzo 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-civile/1599-nomofilachia-integrata-e-diritto-sovranazionale-i-volti-delle-corte-di-cassazione-a-confronto-di-roberto-conti
Siamo lieti di presentare un ulteriore scritto che va ad arricchire la rubrica della Rivista sul tema Giustizia e comunicazione, i cui intenti sono stati enunciati con l’editoriale del 18 maggio 2021 e che, periodicamente, ha ospitato i contributi di magistrati di merito e di legittimità, Gianni Canzio, Giovanni Melillo, Claudio Castelli, nonché, in un’ottica di necessaria apertura verso le fonti esterne, le interviste dei professionisti della comunicazione, Rosaria Capacchione e Giovanni Bianconi.
Con lo scritto che segue, l’Autore, appassionato conoscitore del pensiero cattolico-progressista in Italia, analizza l’attualità del pensiero di don Lorenzo Milani, di recente ripreso dalla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, che attribuisce alla parola – ed alla comunicazione – il ruolo di strumento dell’agire.
La comunicazione diviene presupposto necessario per compiere un percorso di liberazione individuale, in una critica costruttiva dell’esistente, percorso funzionale al farsi carico di una trasformazione collettiva e che, quindi, sia in grado di vedere oltre il dato temporale immediato, nei suoi effetti per le generazioni future.
La cultura, veicolata attraverso la comunicazione, è funzionale alla crescita che conduce all’emancipazione dell’individuo, primo presupposto per potersi far carico degli altri in un’ottica demistificante e priva di propaganda. Ed è proprio qui che si manifesta il fondamentale ruolo della comunicazione che non deve essere mero vettore di informazioni ma creazione di un ponte che aiuti l’altro a diventare vero autore della propria esistenza.
Parola e comunicazione. Coscienza critica e sguardo sul mondo
di Francesco Messina
L’esperienza umana di don Lorenzo Milani per una nuova Europa
Sommario: 1. Premessa: una parola che impegna e trasforma - 2. Bisogna “essere” per poter fare - 3. Scrivere e comunicare come espressioni della responsabilità critica.
1. Premessa: una parola che impegna e trasforma
Nel discorso sullo stato dell’Unione del maggio scorso la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha citato don Lorenzo Milani in un motto della Scuola di Barbiana (“I care”), auspicando di dargli una dimensione europea e di poterlo declinare al plurale (“We care”).
È un importante riconoscimento laico dell’insegnamento del Priore che, per l’autorevolezza della fonte, segue solo quello di Papa Francesco del giugno 2017.
L’esperienza umana e di pensiero che si originò sull’appennino toscano, sul monte Giovi, nel microcosmo di una quasi inaccessibile parrocchia, viene indicata oggi, a distanza di oltre 50 anni, per il suo valore simbolico e internazionale.
A Barbiana, don Lorenzo arrivò dopo che la carica innovativa del suo ministero - manifestatasi per sette anni a San Donato di Calenzano con la realizzazione di una scuola serale aperta a tutti i giovani di estrazione popolare e operaia, senza esclusioni ideologiche - aveva reso convergenti, pur di contrastarla, interessi economico-sociali e le scelte politiche della Curia fiorentina.
Nel dicembre del 1954, don Lorenzo viene “trasferito”, o meglio esiliato, su un monte del Mugello, in una piccola chiesa che doveva essere chiusa, a 450 metri di altezza, non completamente raggiungibile da strada percorribile, né servita da energia elettrica e acqua; l’unica destinazione possibile per un sacerdote che, in ambito ecclesiale, era stato definito “una campana stonata”.
Malgrado l’evidente scopo sterilizzante, da quel momento seguirono tredici anni intensissimi per impegno religioso e civile che non solo segneranno la storia della Chiesa (come definitivamente riconosciuto da Papa Francesco qualche anno fa), ma influenzeranno in modo straordinario la cultura italiana sul piano pedagogico, scolastico, linguistico, intellettuale.
La scelta della Presidente von der Leyen può, quindi, aver un rilievo politico serio solo se il suo richiamo alla frase milaniana non replichi lo stile comunicativo del puro slogan, della citazione comoda da comizio o da intervento politico (come, purtroppo, è dato spesso constatare), ma colga il significato profondo, di metodo e di prospettiva che ne è la radice.
Perché per capire la “lezione” di Barbiana non basta semplicemente “andarci”, ma, come è stato detto con acutezza, bisogna “salirci”.
E non tanto fisicamente quanto, soprattutto, compiendo un percorso che impegni ciascuno nell’assoluto rispetto della verità e della “parola”, intesa prima come manifestazione della coscienza e, poi, come arte del comunicare il pensiero sulla realtà e “per” la realtà in cui si vive; la “parola” che don Milani individuò come strumento che dà senso e significato all’azione concreta, alla prassi vissuta in cui sono riconoscibili i principi del Vangelo e della Costituzione.
“Parola” e “comunicazione” come espressioni di “parresia”, e cioè disvelamento critico delle storture sociali, occasione profetica civile, lontana da ansie di proselitismo religioso.
Cogliendo, allora, la sincerità delle parole della Presidente della Commissione Europea, sarà bene anche aver consapevolezza di “chi sia stato don Milani” (per usare una espressione del suo amico Giorgio Pecorini).
Bisogna cercare di capire quanto del suo pensiero, della sua esperienza personale e del suo impatto sulla collettività sia ancora attuale e quanto sia, ormai, storicizzato, espressione, cioè, di un’epoca definitivamente differente da quella attuale.
In questa breve riflessione, non si può valutare pienamente l’esistenza breve ma “bruciante” e intensissima del Priore di Barbiana, tutta protesa nella ricerca dell’assoluto che lui trovò nell’impegno metodico per l’emancipazione culturale di chi viveva ai margini del dialogo sociale e delle decisioni istituzionali.
Un metodo – nell’accezione etimologica di “percorso” di conoscenza - che Milani volle indicare ai giovani a lui affidati e che spesso erano in un rapporto di reciproca chiusura con la realtà, ma che nella parte finale della sua vita divenne una chiave interpretativa del mondo e delle azioni che in esso si compiono.
Qualche considerazione su cosa possano significare, oggi e nel futuro, le parole I care è, però, possibile e necessario quanto meno per impedirne le versioni mistificate o propagandistiche.
2. Bisogna “essere” per poter fare
Don Milani è stata una personalità complessa, non incasellabile negli schemi pragmatici e, soprattutto, mentali a cui oggi siamo abituati.
Potremmo definirlo un “irregolare” che mise in focus, come riferimento via via più radicale della sua vita, l’elevazione civile delle persone che incontrò sul suo cammino ministeriale e divenne tutt’uno con la sua presenza intellettuale attiva sui temi più importanti della società del tempo.
Ritenne che è attraverso un percorso di affrancamento e di liberazione dalle imposture del mondo che l’individuo ri-scopre la propria dimensione più autentica.
Ciò, ed è bene ricordarlo, egli fece senza alcun interesse di parte, della propria “ditta” (come soleva dire riferendosi alla Chiesa) perché era convinto che la fede cristiana sia uno “stato di Grazia”, un dono di cui si può essere o meno destinatari (“…quando ci si affanna a cercare apposta l’occasione d’infilare la fede nei discorsi si mostra di averne poca, di pensare che la fede sia qualcosa di artificiale aggiunto alla vita, e non invece un modo di vivere e di pensare…) .
Ciò che è decisivo in don Lorenzo è che l’uomo sia il più possibile padrone del proprio destino, consapevole, cioè, dei propri “talenti” che deve far fruttare, guardando sempre alla condizione di chi vive ai margini culturali della società per migliorarla.
Già nel 1958, nella sua opera “Esperienze Pastorali”, scriveva: “la povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale”, così a significare che il controllo e l’esercizio della “parola”, della comunicazione corretta e critica – da praticare senza edulcorazioni ipocrite o convenienze sociali – siano il presupposto ineludibile per compiere un percorso di liberazione personale e di possibile trasformazione collettiva.
“Scrivere”, “parlare”, “comunicare” per gli altri implica, per don Milani, un preliminare scavo interiore, una forma di giudizio da esplicare prima verso se stessi, un vero e proprio atto di responsabilità che, una volta realizzato, pone le premesse per chiedere altrettanto al mondo, compreso a quegli intellettuali che, con azioni od omissioni, contribuiscono a conservare disparità sociali, se non consentire vere e proprie regressioni culturali.
Ma non si comprenderebbe appieno il valore esistenziale, e quindi anche intrinsecamente politico, che per don Milani ha la “parola comunicata”, se si dimenticasse il luogo e la dimensione umana in cui è avvenuta la sua elaborazione più matura.
Nell’isolamento di Barbiana si realizzò, per una sorta di eterogenesi dei fini, una condizione di distacco dai “rumori” del mondo che favorì l’ascolto del “Logos” archetipico, non contaminato, in cui i princìpi dell’ “essere” uomo si rapportano alla Natura, alla dimensione del tempo che in essa si manifesta, all’insegnamento che da tutto ciò ne hanno tratto le generazioni, alla conseguente necessità di una memoria condivisa che vada oltre l’esistenza del singolo.
Da questo rapporto unico tra pensiero e tempo - così radicalmente in opposizione ai modelli della frenesia mediatica, dalla comunicazione non meditata quale ulteriore bene di “consumo” a cui la società italiana viene sempre più abituata tra gli anni ‘50 e ‘60 - don Lorenzo indica una strada diversa e alternativa nel comunicare: quella del rapporto tra la denuncia dell’ingiustizia e la ricerca faticosa, altrettanto indispensabile, dell’equilibrio nel giudicare gli altri e il momento storico in cui si vive.
La comunicazione diventa, quindi, sintesi tra “polemica frizzante anzi sferzante” ed “equilibrio”, inteso non come compromesso incrostato di convenienza, ma come dovere civile di porre lo sguardo più lontano nel tempo, sforzandosi di intravedere gli effetti della parola e dell’esempio sulle generazioni che verranno (…sulla via maestra del conformismo non si casca mai, mentre sul filo teso dello sporgersi verso i lontani l’equilibrio è un’arte che tutta una vita non ci basterà per apprendere bene… Lettera a don Antonio 20.5.1959)
È in questa prospettiva storico-esistenziale che sta tutta la differenza di visione e di scopo rispetto ad alcune manifestazioni del movimento del ’68 che hanno voluto vedere nell’esperienza milaniana la legittimazione a fare scelte puramente oppositive al “sistema”, quasi a voler trovare in essa la giustificazione a esplicare il desiderio narcisistico (specie dei giovani della borghesia neocapitalista) d’imporre se stessi piuttosto che piegarsi ad ascoltare la voce del “prossimo” che la sorte ci ha messo accanto e di cui si constata l’esclusione dai diritti e dal dibattito sociale. Non, quindi, un “prossimo” ipotetico sul quale verificare, da lontano, le teorie del mondo oppure la funzionalità della comunicazione accattivante e fintamente “rivoluzionaria”, ma il “prossimo” della quotidianità, con le sue debolezze, i suoi istinti respingenti, la sua materialità spesso tragica.
Per don Milani, la classe borghese, a cui lui pure è appartenuto, non può pretendere di “dirigere” gli ultimi, i poveri, di orientarne, come accade da sempre, i destini da una posizione di superiorità, ma deve “restituire” in cultura e di capacità di parola, dando loro la possibilità di essere menti pensanti e coscienze democratiche (“il mondo ingiusto l’hanno da raddrizzare i poveri, e lo raddrizzeranno solo quando l’avranno giudicato e condannato con mente aperta e sveglia come la può aver solo un povero che è stato a scuola;…Bisogna essere schierati. Bisogna ardere dell’ansia di elevare il povero a un livello superiore. Non dico a un livello pari dell’attuale classe dirigente. Ma superiore: più da uomo, più cristiano, più spirituale, più tutto..” Esperienze Pastorali 1958).
Bastano queste riflessioni per comprendere la grande distanza di sentimento e di ragione tra chi, all’interno dell’esperienza composita di una generazione, preferì teorizzare (anche) la contrapposizione globale, senza porsi il problema delle sue conseguenze nel lungo periodo e sulle relazioni sociali, e la diversa scelta teorica e pratica milaniana di porre il centro della propria azione pensata all’esterno del proprio circolo ristretto, limitato, biologico.
Si tratta, allora, di mutare stato mentale attraverso un dialogo e una parola che allarghi le dimensioni personali, che le metta anche in conflitto, che discuta le certezze, ma che elevi la persona: “…Io al mio popolo gli ho tolto la pace. Non ho seminato che contrasti, discussioni, contrapposti schieramenti di pensiero. Ho sempre affrontato le anime e le situazioni con la durezza che si addice al maestro. Non ho avuto né educazione né riguardo né tatto. Mi sono attirato addosso un mucchio di odio, ma non si può negare che tutto questo ha elevato il livello degli argomenti e di conversazione del mio popolo….Esperienze pastorali 1958”.
Si tratta di un’esigenza che don Lorenzo sentì quanto mai urgente perché, prima di molti, vide in quegli anni, sotto la spinta dell’industrializzazione di massa, lo svuotamento delle campagne e delle montagne verso la città, e i segni della mutazione antropologica degli italiani, dei modelli comportamentali di riferimento, sempre più indirizzati dalla comunicazione giornalistica e televisiva a favore della acriticità e del consumo di massa.
Ancor di più egli avvertì, quindi, la necessità di una nuova forma di cittadinanza consapevole, in grado cioè di gestire i complessi fenomeni della comunicazione e, così, di resistere al conformismo che generano, opponendo la scuola, in particolare la “sua” scuola, prima quella popolare a San Donato di Calenzano e poi quella a Barbiana (…Far scuola di idee più sane. Far capire che il vanto di un povero non è di scimmiottare le parate antisociali degli oppressori e poi tornare il giorno dopo nella schiera anonima degli oppressi a brontolare sterilmente contro il mondo ingiusto…1958).
3. Scrivere e comunicare come espressioni della responsabilità critica
Lo stile comunicativo di don Milani – negli anni degli scritti pubblici che derivarono dalla sua presa di posizione contro la “Lettera dei cappellani militari” sull’obiezione di coscienza e, poi, dal processo penale che ne seguì a suo carico – divenne sempre più radicalmente proteso a fornire strumenti di critica costruttiva all’esistente.
Egli seppe, in sostanza, mantenersi in quello spazio politico dove scelta religiosa, tensione sociale in ottica istituzionale, impronta laica e passione emotiva gli permisero di saldare - nel tempo da lui vissuto – individuo e società, diritti inespressi o negati e richiamo alla spinta propulsiva della Costituzione, laicità di pensiero e incursioni negli spazi profondi dell’animo.
Una posizione eclettica e solo in apparenza inafferrabile perché, più semplicemente, essa non fu ristretta negli angusti recinti ideologici.
Insomma, una personalità che, in età matura, pur provenendo da famiglia di origine ebraica ma lontana da osservanze religiose, con ascendenti vicini ai migliori ambienti della cultura europea, preferì a una comoda e garantita vita di “classe” il salto nell’assoluto.
E ciò non attraverso l’ascesi egoistica, ma seguendo una radicale strategia pedagogico-culturale contro l’ingiustizia sistemica.
Viene da chiedersi cosa rimanga di quell’esperienza e se, oggi, essa possa fornire ancora significati di rilievo.
Ciò che si è ormai storicizzato è la possibilità di cogliere con nettezza i confini politici, i luoghi esistenziali e collettivi in cui scegliere e agire.
Le grandi contrapposizioni ideologiche sono venute meno, così come appaiono ormai permeabili e transitabili, quasi sempre in opposizione alla coerenza, gli spazi che furono occupati dalle reciproche “autorità” religiose e laiche.
Il processo di omologazione di massa ha reso molto più magmatiche e incerte le differenze di classe. E i fenomeni di “scristianizzazione” si sono verificati non tanto per il paventato prevalere delle forze dell’ateismo politico quanto, maggiormente, per il neocapitalismo industriale che ha modificato stili di vita, mercificato il tempo, indirizzato, come dirà lucidamente poi Pasolini, ogni prospettiva politico-economica-istituzionale verso la garanzia dello “sviluppo”, con la produzione e consumo ansiogeno di beni superflui, al posto di quella di “progresso”, e la creazione e la tutela di beni necessari.
Non è difficile constatare che il ruolo degli intellettuali e, più in generale, quello della comunicazione prima nel generare e, poi, nel sostenere e amplificare tale sistema di “valori”, siano stati decisivi.
La crisi che oggi viviamo sia livello nazionale che in quello mondiale sul piano economico, ambientale e generazionale, è frutto di quei decenni e, forse, costituisce un’occasione per rimeditare tra le storie importanti del Paese quella di Barbiana, indicata dalla Presidente UE come prospettiva per una nuova Europa.
È bene considerare che la particolarità dell’esperienza milaniana sui concetti di “parola” e “comunicazione” sta nel fatto che essa si concentrò non tanto sull’epocale questione del rapporto tra intellettuale e classi subalterne oppure tra intellettuali e cultura, quanto sullo studio e sulla pratica del concetto di “intellettualità”.
Don Milani ritenne ben chiara - in primo luogo per averlo praticato su stesso e, poi, perché non gli erano ignote alcune riflessioni di Simone Weil, non a caso richiamata in una sua lettera del 29.4.1955 - la “necessità” di un processo di “de-creazione” e di distacco mentale dalla propria classe di origine borghese, quella che egli riteneva all’origine delle diseguaglianze e del tradimento delle speranze e delle aspettative sorte con la Costituzione della Repubblica.
La sua contrapposizione verso gli intellettuali dell’epoca (tranne rare eccezioni) stava nel loro ruolo di proclamazione e mantenimento di un presunto ordine sociale e istituzionale che, in realtà, era all’origine della definitiva sedimentazione delle diversità e delle ingiustizie patite dagli ultimi e dagli oppressi.
Don Lorenzo risolse l’anomalia indicando con i suoi scritti e il suo esempio una “strada” nuova, direi apocalittica nel senso etimologico di “rimozione del velo”, di denuncia dell’ignoranza, della neghittosità, del conformismo che impediva - e impedisce tutt’ora! – l’emancipazione cognitiva del cittadino, la sua “coscientizzazione” critica su tutto ciò che è sociale, politico e culturale.
La cultura, quale elemento storico, radicato nella storia di un popolo, che lo identifica ben oltre ciò che è moderno e transeunte, non deve, per don Milani, essere semplicemente e singolarmente assimilata, né deve essere all’origine di future gabbie ideologiche.
Deve, al contrario, deve essere funzionale alla formazione dell’individuo, del proprio “Sé”, per metterlo nella condizione di porsi con occhio sempre demistificante, attento, riflessivo e critico verso qualsiasi soggetto, qualsiasi materia di studio, qualsiasi Istituzione.
È per questa tensione costante, irreversibile verso i concetti di responsabilità e impegno che a Barbiana il “sapere” non portava al riconoscimento di alcun merito esterno al singolo, ma, diversamente, all’assunzione di un suo “compito”.
Perché dopo l’emancipazione di se stessi si doveva operare per quella degli altri.
L’I care, il “mi faccio carico, mi interessa” reca in sé, quindi, un significato molto più complesso e radicale rispetto a quello che è stato quasi sempre veicolato in modo superficiale, se non per finalità di pura propaganda.
Il motto non indica l’auspicio di un aiuto occasionale a favore di chi si trova in difficoltà perché, se così fosse, costituirebbe l’ennesima forma esornativa e ipocrita di chi vive nel privilegio e, grazie a tale condizione, può consentirsi qualche salutare parentesi finalizzata a garantire un sufficiente equilibrio interiore.
“Farsi carico”, al contrario, è soprattutto ricerca, spirito coraggioso, desiderio di praticare terreni diversi, di volgere lo sguardo più lontano, cercando nell’altro un’occasione di completamento di se stesso.
Se ne ha un riscontro di straordinaria nettezza in un dialogo/lezione che don Milani tenne nell’autunno del 1965, a Barbiana, ad alcuni studenti di una scuola di giornalismo di Firenze che con i loro insegnati erano andati trovarlo.
Infatti, erano ormi ben note le vicende processuali (peraltro ancora in corso) in difesa degli obiettori di coscienza e gli scritti di don Milani che, in sequenza, erano stati pubblicati da diversi quotidiani nazionali (“Lettera ai Cappellani militari” e “Lettera ai giudici”).
Il dialogo tra don Lorenzo e i giornalisti, lungi dall’essere un semplice ripercorrere gli eventi giudiziari, diviene plasticamente l’occasione per un’analisi radicale e senza sconti sui contenuti e sugli scopi della comunicazione che - e non a caso - viene messa in relazione diretta con la scelta di vita di ciascuno.
Il Priore muove il suo ragionamento, affrontando alcune questioni di fondo della società italiana che, ancora oggi, risultano attualissime: scarsa conoscenza lessicale e immaturità del cittadino italiano che fruisce dei mezzi d’informazione (dato statistico ricordato anche da Tullio De Mauro sino agli ultimi suoi interventi pubblici); tipologia e velocità della comunicazione di massa che porta a “intendere” superficialmente e “disabitua a riflettere”; tendenza sempre più spiccata e preoccupante a una comunicazione considerata un ennesimo prodotto di “consumo” del cittadino.
Rispetto a un simile scenario realistico e inquietante, don Milani indica il comunicare, e in particolare lo scrivere, come la manifestazione concreta della qualità dell’impegno, dello sforzo tecnico-linguistico di ognuno nella società a favore della chiarezza e della verità.
La comunicazione, quindi, non è mero trasferimento di informazioni, ma operazione complessa di “pensiero” che, attraverso la scelta dei contenuti, l’analisi filologica, lo scavo semantico, permette di andare in profondità, di realizzare “un ponte tra chi la fa e chi la riceve”.
È dalla realizzazione di quel “ponte” che deriva per ognuno il dischiudersi della sensibilità, il manifestarsi della coscienza, la possibilità di farsi autore consapevole della propria esistenza.
Il primo presupposto razionale ed emotivo di tale metodo è il desiderio di avvicinarsi alla “verità” che, come avviene in ogni opera d’arte, si ottiene per sottrazione di tutto ciò che, sul piano linguistico-comunicativo, la offusca.
La “verità”, quindi, come risultato dell’arte, della tecnica della “chiarezza” espositiva, e non della “prudenza” che, per definizione, contraddice l’arte e, quasi sempre, sconfina nella convenienza.
Ma tutto ciò presuppone anche un’altra decisiva opzione esistenziale, vale a dire
una “assoluta mancanza di volontà di carriera”.
E infatti Milani avverte l’uditorio con parole adamantine, inequivocabili, progettuali: “..questa è una cosa che non vi posso insegnare. Scrivendo (e, quindi, comunicando ndr) come me non farete mai carriera nella vita, in nessun posto…Perché (si tratta di rispettare ndr) un giuramento fatto a se stesso e agli altri di colpire quando c’è da colpire chiunque abbia ad avere, senza rispetto di nessuno, alla ricerca della verità oggettiva la quale non è fatta né di carità, né di educazione, né di tatto, né di pietà..(trascrizione della registrazione audio)”.
Nelle parole di Milani c’è tutta la sua particolarità esperienziale in cui convivono l’insegnamento socratico; la radice familiare ebraica in cui la “Parola” coincide con la “Verità rivelata”; l’incipit del vangelo giovanneo in cui il Verbo aleggia sull’origine del mondo.
Ma, più laicamente, emerge anche l’intento pedagogico di mettere in reciproca mediazione il “sentire” emotivo degli umili, la voce mozzata degli oppressi, e il “sapere” depositato e disponibile a pochi (in particolare, il sapere “linguisticamente” inteso).
Riappropriarsi del dominio della lingua, dei suoi meccanismi sintattici, delle sue significazioni, consente di acquisire la possibilità di far sentire la propria voce in quel luogo metaforico (la lingua, appunto) in cui si sono consumati, e ancora si consumano, gli squilibri sociali e culturali, le narrazioni finalizzate agli interessi dominanti, la banalizzazione e disumanizzazione delle altre esistenze.
In questo sforzo di assunzione di responsabilità, di lavoro e di dono disinteressato, sta la declinazione più profonda e autentica dell’I care, del “farsi carico” degli altri.
E lo si fa accettando il compito sociale o istituzionale, il posto fisico, piccoli o grandi che siano, che la vita ci ha assegnato.
Perché visibilità e grandezza sono pur sempre dimensioni tutte esteriori mentre la qualità di un’esistenza la si misura dall’impegno, della passione e dall’amore che ci si mette nel generare coscienze critiche e democratiche.
Avvocati in cucina e Magistrati in cucina, 80 + 80 storie di quarantena
di Maria Cristina Amoroso
Sia che voi siate tra color che son sospesi tra la prima e la seconda dose del vaccino, sia che siate ormai intimamente, profondamente e irreversibilmente vaccinati, consiglio la lettura dei testi “Avvocati in cucina” e “Magistrati in cucina”, editore Grimaldi & c.
Si tratta di un vero e proprio Decamerone culinario, in cui centoessanta, tra magistrati e avvocati, riportandoci a più di un anno fa, mettono a nudo i loro pensieri più intimi dell’epoca e condividono con i lettori le loro personali ricette utilizzate per sopravvivere, dentro e fuori la cucina, ai tempi del lokdown.
L’impresa è il frutto dell’impegno di quattro moderni aedi convertiti alla carta stampata, i dottori Ernesto Aghina e Nicola Russo, che hanno collazionato i racconti dei magistrati, e gli avvocati Manuela Palombi e Alessandro Gargiulo, che hanno raccolto le narrazioni dell’avvocatura.
I due volumi sono di godibile fruibilità: le foto dei protagonisti introducono il lettore in tanti mini sipari, in cui il magistrato o l’avvocato di turno condivide la sua personale esperienza della pandemia, e sceglie e regala gli ingredienti necessari a realizzare i piatti che più gli hanno fatto compagnia.
Per chi ha voglia di andare oltre il contenuto più immediato, gli spunti di riflessione sono davvero tanti… i due tomi, infatti, non sono solo preziosi ricordi e gustose ricette, ma rappresentano il pretesto per raccontare le “due anime dell’agone processuale”, e, per questa via, disvelare le differenti spinte che agitano il mondo della giustizia.
Ad un occhio più attento, le storie della quarantena comunicano la capacità di avvocatura e magistratura di condividere e prospettare visioni unitarie: parlano la stessa lingua la dottoressa Cozzolino e l’avvocatessa Aprea, che erigono con mandorle, burro, zucchero cioccolato fondente e zucchero a velo le fondamenta di una universale torta caprese.
Nei racconti si denuncia l’esistenza di visioni contrapposte sui medesimi temi: per il dott. Carlo Visconti lo scarpariello vive solo se sposato con i bucatini (anche se traditori), mentre per l’avvocatessa D’Angelo il vero scarpariello dei Quartieri spagnoli accetta solo i mezzanelli, al più la mezza zita tagliata, e va rigorosamente infuocato di peperoncino.
Si racconta di valori di fondo storicamente inconciliabili: la dottoressa Criscuolo affida la Pasqua al casatiello strutto e pepe mentre l’avvocato Crisi opta decisamente per il tortano, così perpetrando una sfida raccontata negli annales della storia della tradizione pasquale campana.
Da entrambi i volumi emerge una spietata vis autocritica.
Nel tomo “Magistrati in cucina” non si fa mistero dei contrasti interni della magistratura e delle ideologie contrapposte che la animano: la genovese ad alta digeribilità del dott. Auletta è del tutto diversa da “la mia genovese” del dottor Baldassare ed è ancor più dissimile dalla “genobolognese” della dottoressa Annunziata, a tacere delle differenze delle prime con “la genovese della nonna (non la mia, ma quasi)” della dottoressa De Franco.
Allo stesso modo, nel volume “Avvocati in cucina” non si nascondono i conflitti che ancora oggi lacerano l’avvocatura: l’avvocato di Iorio sostiene apertamente che il pescespada debba trovare la sua nobile fine arrotolato in braciole, mentre l’avvocato Trapuzzano afferma strenuamente che il vero pescespada morto è solo quello che finisce in spiedini.
Nonostante le criticità, però, dalle storie emerge la voglia prepotente di entrambi gli operatori della giustizia di proporre soluzioni innovative ed originali come il “si sono arrubbati le pere, cheescake rivisitata” dell’avvocato Von Arx, e la anomala e rivoluzionaria “zuppapizza” della dottoressa Teresi; e la accesa attenzione per le prospettive sovranazionali: si veda il “Gyoza“ della dottoressa Picozzi e il “ Black code” dell’avvocato Mariniello.
Due testi, insomma, ricchi di ottimi ingredienti e proprio per questo da non perdere.
Complimenti vivissimi ai curatori per il progetto ottimamente realizzato, i libri sono divertenti, emozionanti e ricchi di spunti storici, a volte anche piccanti (si veda l’ardita storia della nascita del tiramisù raccontata dall’avvocatessa Fabrizio), e in maniera leggera ma mai superficiale riescono meritoriamente a guidarci di nuovo verso tradizioni che sembravano, a torto, inesorabilmente perdute.
Unica controindicazione: riuscire a reggere l’amara nostalgia, che fa da sfondo quasi a tutti i racconti, di aver potuto godere solo per pochi mesi di una Napoli divenuta meravigliosa.
L’auspicio è quindi che l’esperimento si ripeta, magari a latitudini diverse.
Rimaniamo golosamente in attesa.
Il diritto pubblico tra ordine e caos. Intervista a Giancarlo Montedoro di Fabio Francario
Giancarlo Montedoro è Presidente di Sezione del Consiglio di Stato e docente di Diritto pubblico dell'economia presso la Luiss Guido Carli. Della sua ultima monografia ("Il diritto pubblico tra ordine e caos. I pubblici poteri nell'età della responsabilità") si è discusso nel convegno organizzato da UNIMOL lo scorso 24 maggio, in occasione del quale l'Autore è stato intervistato da Fabio Francario. Si pubblica di seguito il testo dell'intervista per i lettori di Giustiziainsieme.
1.- Diritto privato e diritto pubblico nel nuovo spazio giuridico globale.
Francario “Che idea del diritto hanno i giuristi? … … naturalmente ciò (l’interrogativo) vale sul presupposto che i giuristi sentano il bisogno di avere un pensiero per non diventare solo esperti legali, che è un’altra cosa (degna – direi indispensabile per guadagnarsi il pane – ma un’altra cosa)” (così M. a pag 212 del volume).
Se si vuole comprendere Montedoro, perché scrive e cosa scrive, bisogna muovere da questo interrogativo di fondo che anima le sue riflessioni di giurista.
La domanda consente di comprendere innanzi tutto perché lui stesso afferma di scrivere “un libro che non vuol finire”; un libro che per il momento è parte (non conclude) di una trilogia aperta nel 2010 con Mercato e potere amministrativo, proseguita nel 2015 con Il giudice e l’economia e arrivata adesso a Ordine e caos.
Lui stesso, nel presentare il suo lavoro, definisce il trittico “ideale”, ma siamo sicuri che l’aggettivazione “ideale” non allude al fatto che il trittico si sia con ciò perfezionato e concluso, ma al fatto che il trittico è solo quel che al momento appare di un libro senza fine sull’idea che del diritto può avere un giurista.
Quale idea può dunque avere, un giurista, del diritto?
La tensione ideale che anima il lavoro di Montedoro (provo ad azzardare subito una conclusione) si traduce nel convincimento che il diritto non può essere ridotto alla sola idea di protezione di interessi individuali che viene assicurata ne cives ad arma veniant; ma deve necessariamente comprendere anche la dimensione degli interessi superindividuali, insuscettibili cioè di appropriazione individuale e altrimenti detti pubblici. L’idea del diritto di Montedoro è che tale binomio sia indissolubile, che l’uno non possa esistere senza l’altro.
Oggi come oggi, l’affermazione è tutt’altro che banale e scontata, e Montedoro scrive questo suo libro senza fine convinto che compito del giurista “come intellettuale specifico del nostro tempo” è di “dare testimonianza della permanente validità del diritto pubblico” per evitare che l’interesse pubblico scompaia di fronte all’interesse privato.
Perché “nel nostro tempo” c’è bisogno di ribadire questa idea del diritto ?
La riflessione di M. è storicizzata, e si consuma in un momento in cui il diritto pubblico vive una fase di crisi, di transizione da un sistema che aveva un ben preciso ordine ad un sistema che deve ancora trovare il suo nuovo ordine e che pertanto attraversa adesso un momento di caos.
I processi di globalizzazione hanno investito anche lo spazio giuridico e messo in crisi il concetto di sovranità legato all’idea di uno Stato nazionale capace di creare un sistema coerente di regole, strutture e relazioni “governati da leggi magari semplici come quelle che spiegano il mondo fisico”.
La prima domanda che viene da porre è se, nel nuovo spazio giuridico globale, il diritto privato, inteso come insieme di regole calcolabili che garantisce gli scambi, potrebbe veramente essere sufficiente per tutelare gli interessi individuali senza che siano a tal fine necessarie istituzioni pubbliche e se la politica possa veramente lasciare il posto alla tecnocrazia.
Montedoro Vorrei fare una premessa in linea con quanto le ho sentito dire sulla funzione del diritto e del giurista e che mi trova completamente d’accordo.
Quello che vado scrivendo e progressivamente chiarendo nel mio pensiero riguarda la funzione del giurista e del giurista di diritto pubblico in particolare.
La scrittura è spesso un processo – igienico - di autochiarificazione, di rischiaramento sul senso del nostro operare come giuristi.
Per questo intendo la scrittura come una forma di comunicazione inevitabilmente soggettiva, situata ma non per questo solo autobiografica .
Ciò non significa rinunciare in alcun modo al rigore del metodo giuridico ma solo, a partire dalla propria esperienza, attraverso un’analisi metodologica obiettiva, senza cedimenti sociologici, atecnici, approdare, quando possibile, ad una comprensione più profonda e, se si vuole, personale, delle cose.
Ritengo questo - quando accade - motivo di grande appagamento.
Intendo il giurista – proprio come lo ha descritto - come un intellettuale specifico ossia un uomo che pensa il generale a partire da un sapere specifico, nell’epoca del tramonto della figura dell’intellettuale generalista alla Sartre ( figura di intellettuale impegnato ideologicamente che è difficile rimpiangere per chi coltiva il dubbio metodico e si riconosce nella democrazia liberale ).
Un intellettuale quindi e non solo un “problem solver” ed in particolare un uomo che, oltre l’adempimento dei suoi doveri istituzionali, è parte di una comunità e non è disposto al “tradimento” rispetto alla sua funzione di comprensione e denuncia dei fatti sociali.
Naturalmente ciò è ovvio per un accademico.
Per un giudice questo intento deve fare sempre i conti con la sua funzione istituzionale, non deve violare gli obblighi di servizio, deve essere una facoltà critica esercitata con la misura che l’ordinamento si attende da un giudice.
Questo anche quando il giudice – come mi è accaduto insegnando – ha il privilegio di essere in contatto con la comunità scientifica ( cosa che lo arricchisce ) .
Ciò non vorrà dire rinunciare a parlare, nemmeno quando il messaggio da comunicare vada nel senso di una sensazione di irreparabilità ( alla Cioran per intendersi, intellettuale che amo molto e che ha descritto la condizione umana nell’epoca del nichilismo ) e non sia in grado di indicare qualche via di uscita dalla crisi.
In quel caso magari si potrà ricorrere alla letteratura per esprimere il senso del mistero e dell’irreparabile che è parte dell’avventura dell’uomo nel mondo.
La letteratura può essere un modo di comunicare la crisi del diritto.
Sono molto critico , in definitiva, rispetto ad una cultura del politicamente corretto e del silenzio istituzionale che vedo crescere intorno a me, venata di neo-autoritarismo quando approdi ad un’idea di assoluta inopportunità di ogni forma di comunicazione relativa al proprio lavoro.
E’ naturalmente una questione di misura.
Non ci esprime ovviamente sugli affari che sono in trattazione o sono stati trattati.
Su quelli solo – ove necessario – nelle sedi istituzionali.
Per il resto però non dovrebbero imporsi “zone franche” alla libertà di espressione, forme di sospensione di tale libertà ma solo farsi questioni di misura nell’espressione.
Penso, ma qui formulo solo un giudizio personale, che i magistrati debbano preferire – per esprimersi - l’ambiente scientifico ed accademico evitando la stampa le quante volte ciò potrebbe condurre ad essere identificati come protagonisti di uno spazio politico-partitico ( in consonanza al divieto di essere iscritti ai partiti che non ha valenza solo formale ovviamente ).
Eguale misura deve essere utilizzata nell’accedere ai social ( tecniche che possono comportare rischi di espressioni non misurate e non consone all’immagine che un magistrato deve sempre custodire ).
Un buon punto di riferimento per ipotizzare quanto ardua e decisiva per il futuro dei giuristi liberali sia la discussione sui predetti limiti è la sentenza della Corte Strasburgo del 9 luglio 2013 ( affare Di Giovanni c. Italie ).
Per la Corte europea dei diritti dell’uomo i magistrati e i funzionari dell’ordine giudiziario devono usare il proprio diritto alla libertà di espressione – che deve quindi essere garantito – con cautela ogni qualvolta “l’autorevolezza e l’imparzialità del potere giudiziario siano suscettibili di essere messi in discussione”.
Naturalmente non si può non concordare in linea di massima.
Tuttavia occorre fare dei distinguo, da buoni pensatori “sospettosi”, inclini a vedere i rischi insiti in ogni scelta ( magari per confermarne la bontà ).
L’espressione usata è molto ampia.
Nel bilanciare i diversi diritti in gioco, la Corte fa - forse - pendere troppo l’ago della bilancia sulla necessità di garantire “il prestigio” del sistema giudiziario e gli imperativi superiori della giustizia.
Questo può condurre a conculcare, senza volerlo naturalmente, la vivacità del dibattito intellettuale fra giuristi, ivi compresi i magistrati, che si giova di un libero franco e corretto confronto fra le opinioni.
Occorre quindi non credere che per i magistrati valga la regola del riserbo.
Tale regola vale in rapporto alle pratiche loro assegnate, per il resto riespandendosi la libertà di manifestazione del pensiero, con l’obbligo di misura prima ricordato.
Sono altresì dell’idea - con la Corte di Strasburgo - che i rappresentati dell’autorità giudiziaria non debbano utilizzare la stampa o la televisione “neanche per rispondere a delle provocazioni” ( c’è il rischio in questi casi di derive che seminano discredito e non sempre il contesto comunicativo è avvertito della delicatezza e complessità dei temi trattati affrontati talvolta con eccessi di semplificazione o intenti scandalistici ).
Bastano, allo scopo, le c.d. “pratiche a tutela” all’occorrenza aperte dagli Organi di Autogoverno.
Necessaria, in ogni caso, una valutazione del tenore delle dichiarazioni e del contesto generale.
Ecco mi sembra che il bilanciamento operato dalla Corte – delicato – sia da tenere sempre a mente, in questi tempi difficili, consapevoli che possa comportare un rischio di scivolamento verso forme di autocensura e pur combattendo contro questa tendenza coltivando sempre nella comunicazione lo stile sobrio dei giuristi del passato .
Con queste avvertenze il magistrato può considerarsi un intellettuale, pur essendo un uomo delle istituzioni.
Fatta questa premessa sulla funzione del giurista e sui modi del suo comunicare quando fa il giudice, tento di rispondere alla sua domanda sul diritto privato nel mondo globale.
La risposta che posso abbozzare è a partire dall’angolo visuale di chi pratica la giustizia amministrativa; tale prospettiva evidenzia l’ascesa del diritto privato anche nell’ambito del diritto pubblico ( e si pensi alla responsabilità civile da violazione dell’interesse legittimo o al prevalere del diritto dei contratti sugli altri rami del diritto amministrativo ) come parte di quella che definirei “la privatizzazione del mondo” ( stato di cose presenti che suscita in me grande preoccupazione prima che indubbio disagio ) .
E’ parte del fenomeno della progressiva invadenza dell’economia di mercato sul diritto, del diritto privato sul diritto pubblico, della generalizzazione della responsabilità civile (del diritto dei torts ) come paradigma fondamentale attorno cui costruire una civiltà giuridica ( in coerenza con l’individualismo metodologico e con il culto del “terribile diritto” e dell’individualismo possessivo ), del prevalere di una società di monadi, di soggetti irrelati, gelosi della propria sfera di autonomia patrimoniale, anche socialmente distanziati ora, a seguito della pandemia .
Questo processo, portato anche della globalizzazione economica, si intreccia con la crisi dello Stato e della democrazia ( va notato che la democrazia si è sviluppata solo nell’alveo statale sinora ).
La crisi dello Stato oggi non è più quella di ieri ( non è dovuta al pluralismo sociale ) è crisi della sua dimensione a fronte di problemi che hanno una portata che non può risolversi solo nell’ambito territoriale statuale ( migrazioni, terrorismo, crisi finanziarie globali, crisi ambientale legata ai cambiamenti climatici, crisi pandemica e sanitaria globale ) .
Lo Stato tuttavia continua ad essere, per quanto inadeguato, l’unico ombrello che abbiamo di fronte alle emergenze.
Il diritto privato essendo il diritto dei mercati istituisce una lex mercatoria che, pur avendo portata globale, ultrastatuale quindi, tuttavia, per sua stessa natura, promossa da grandi soggetti privati multinazionali, non riesce ad assumere su di sé compiutamente funzioni pubbliche e compiti di servizio pubblico ( compiti che, anche per il diritto UE, fanno capo direttamente alla dimensione statale talvolta in affanno e gravata dai debiti prodottisi per anni di vista corta e, più di recente, negli interventi emergenziali di gestione delle crisi ).
Sono un esempio di questa situazione le c.d. FAANG ( Facebook, Apple, Amazon, Netflix e Google) i giganti del Big Tech che puntano sul ridisegno sociale indotto dall’intelligenza artificiale.
Qui si apre un mondo fuori dalla politica, ma non certo impolitico.
Una nuova dimensione della sovranità.
Ingegneri che attraverso la programmazione informatica formalizzano il diritto dando vita ad un tecno-diritto, ad una matematizzazione delle norme e delle decisioni, ad una giurimetria.
Il processo si apre alla decisione predittiva, il procedimento amministrativo usa l’algoritmo, il diritto privato si disintermedia mediante gli smart contracts.
Parallelamente i progressi della scienza medica, invece che avviarla verso un recupero della sua dimensione umanistica, ci pongono di fronte al post-umano, alle crescenti biopolitiche imposte dalla pandemia ( con i loro rischi per il quadro delle libertà costituzionali ).
L’uomo è uomo performante oltre che homo oeconomicus.
Un uomo timocratico, che vive in un ambiente post-umano, in una sorta di “parco umano”, ove le collettività sono oggetto di politiche sperimentali legate agli sviluppi tecnologici.
Il diritto pubblico – fondato sulle Carte costituzionali novecentesche - appare in questo quadro afflitto da una strutturale debolezza, un diritto “debole”.
Naturalmente la crisi dello Stato è la vera origine della crisi del costituzionalismo, rafforzata però dalla perenne ed irrisolta transizione costituzionale; dall’idea che la Costituzione sia invecchiata e sia fuori centro (anche per effetto delle profonde trasformazioni del mondo del lavoro e della crisi della forma partito nazionale – il gramsciano moderno Principe al quale i costituenti hanno affidato il compito della costruzione del “politico” – nel mondo post-ideologico per cui la Costituzione rimane senza Soggetto alla morte del sistema dei partiti ).
Il vecchio mondo sta morendo. Un nuovo mondo sta sorgendo ma non è ancora sorto come avvertiva Gramsci “in questo chiaroscuro nascono i mostri”.
Nel vuoto politico si vedono pericoli (non vi sono più i partiti tradizionali nazionali; tardano a venire i partiti transnazionali del futuro o i nuovi soggetti politici o post- politici del futuro).
Essendo l’organizzazione statuale il luogo per eccellenza del “politico”, mentre i luoghi sovranazionali sono “depoliticizzati”, come profeticamente notava Carl Schmitt cantore del Nomos della Terra rispetto al diritto “sconfinato, abbiamo bisogno di una dimensione politica sovranazionale che tuttavia difetta ed è difficile costruire per via di Trattati ed accordi internazionali.
Il globale peraltro si sta rivelando insostenibile e la “giuridicità” scricchiola fra i troppi livelli di governo e di giurisdizione ( per non parlare della “irtiana” crisi della fattispecie prodotta da una legislazione amministrativizzata ed occasionalistica ).
Quali prospettive allora nel rapporto fra diritto privato e pubblico nel mondo globale?
Il tema è legato al futuro del “politico”, è tutt’uno con esso.
Come ha detto il prof. Tremonti il globale è in crisi ma il mondo continua ad essere internazionale ( ed interconnesso ).
Il diritto pubblico quindi non è uno strumento sufficiente se rimane chiuso nella sua dimensione nazionale, mentre il diritto privato, diritto degli scambi del mercato globale, pur più contaminato da dimensioni non statualistiche come abbiamo detto, per sua natura non riesce a produrre comunità politiche e strutture amministrative.
Le prospettive dello sviluppo del diritto privato e del diritto pubblico – travolti dallo stesso destino ma dotati di differenti capacità di risposta - in astratto sono varie, esemplificando sommariamente : 1) la prima la delinea Teubner che ritiene possibile un costituzionalismo senza Stato prodotto dai soggetti “depoliticizzati” che si muovono nel mondo transnazionale ( Günther Teubner Nuovi conflitti costituzionali Milano Torino 2012 ); la rivoluzione digitale ed il mondo postpandemico potrebbero riservarci sorprese in questo senso, la visione è connotata da un certo irenismo di fondo che non vede la disuguaglianza dell’ordine neoliberista e ritiene il diritto privato il centro della futura esperienza giuridica ; 2) la seconda è la costruzione di un unico spazio politico sovranazionaleper effetto di processi di unificazione degli Stati in strutture federali o quasi federali ( in tal senso mi sembra vada il pensiero del cosmopolitismo giuridico politico di stampo kantiano di Danilo Zolo ), la prospettiva è razionale ma qui difettano le soggettività per attivare il processo, il mondo multipolare che viviamo è assai più caotico e schmittiano che kantiano ; 3) la terza prospettiva è quella di una realistica convivenza di modelli regolatori fra più dimensioni alcune nazionali altre globali ( in tal senso si muove il pensiero di S. Cassese che pure considera le esigenze di una democratizzazione della globalizzazione quando la sua analisi della condizione delle cose presenti arriva a definirle in termini di caos o situazione babelica cfr. il suo aureo libretto I Tribunali di Babele ), la speranza risiede nella razionalizzazione data dalla unificazione europea e dalla formazione di aree di influenza sovranazionali regionali ; la debolezza della prospettiva sta in una certa sopravvalutazione dei processi di costruzione delle istituzioni rispetto ai processi sociali (quella che è stata definita “Costituzione senza popolo” cfr. E. Scoditti 2001 il cui pensiero – molto profondo – a partire proprio dal diritto civile, con itinerari di ricerca coltivati con Luigi Palombella, approda ad una dimensione che accetta la sfida della complessità nella c.d. ricerca della interlegalità o legalità fra ordinamenti, con accenti che fanno pensare alla lezione di Santi Romano); 4) la quarta è data da una forte auspicata ripresa – all’indietro con un movimento paradossale che è in realtà un avanzamento - del costituzionalismo nazionale, alla riscoperta di una dimensione vichiana della storicità, che torna al passato per aprirsi al futuro ( Azzariti Diritto o barbarie, Bari Roma 2022 ma anche A. Schiavone Progresso Bologna 2020 ); si tratta di una visione che riscopre il tempo ciclico, alla ricerca dei punti di consunzione della modernità e della post-modernità ma che rischia di risolversi nel dramma di un’attesa senza sbocco come quella del Tenente Drogo nel Deserto dei Tartari ; 5) la quinta vede il rientro nell’ambito dello Stato Nazione, una sorta di ripiegamento apertamente pessimistico; visione questa, forse, più realistica che, comunque, fa i conti con gli insorgenti populismi di cui si comprendono le ragioni nella deriva del neoliberismo da correggere per riscoprire una fede civica nell’alveo statuale ( in questo senso il pensiero di Yascha Mounk e quello gemello di Jan Zielonka segnalano l’esigenza di leggere in senso fortemente critico le esperienze del neo-liberismo e ritengono doveroso, in questa temperie storica, porre le domande scomode , quelle che pochi hanno il coraggio di porre) .
V’è alla fine – comparando queste visioni - la sensazione di un cammino già avviato oltre l’Occidente ( intravisto, non senza procurarsi critiche, da F. Cassano Senza il vento della storia. La sinistra nell’era del cambiamento , Roma Bari 2014 ).
Nuovi luoghi della sovranità si andranno definendo, speriamo nel quadro di un’Europa non così rigidamente ordo-liberale ma capace di riscoprire la sua anima sociale: le politiche dei servizi pubblici ( studiate da E. Scotti ) e non solo della concorrenza.
Abbiamo bisogno di recuperare in questo ambito il senso della distinzione fra pubblico e privato come dimensioni costitutive dell’esperienza giuridica moderna , apportatrici di ordine.
In questo quadro europeo rinnovato occorre tener fede ad un’idea della giustizia come processo dialettico ( su cui si sofferma Lipari in Elogio della giustizia Bologna 2021) che recuperi un’idea complessa del diritto lo Ius che , ove ridotto a Lex, a puro comando, decade.
La Lex deve, a sua volta, essere restaurata nel suo contenuto precettivo ( è il messaggio di Irti Viaggio fra gli obbedienti Milano 2021 ) evitando le trappole della corruzione della lingua. Illusorio essendo pensare che il diritto flessibile o amministrativizzato possa assicurare alcuna tenuta.
La finanza dovrà – con la sua tendenza a “puntare” sul contratto di scommessa e sul circolo ermeneutico infinito – cedere nuovamente il passo all’economia reale, magari circolare, ambientalmente compatibile.
Dalla scommessa si dovrebbe gradualmente tornare a forme della negozialità meno problematiche come gli schemi assicurativi.
L’amministrazione – ed il suo giudice – devono mostrarsi pronti a fare la loro parte ( assegnare risorse scarse, promuovere valori adespoti, curare gli interessi, non semplicemente risarcire ).
Guardare al diritto privato dall’angolo visuale del diritto pubblico significa coglierne la residualità ( le relazioni di cura sono più importanti per il funzionamento dei meccanismi sociali della mera logica della spettanza che di per sé non assicura coesione sociale ).
Il diritto privato può – ma senza essere sufficiente allo scopo ( e si pensi al diritto antitrust che richiede un’Autorità amministrativa che lo applichi ) – al più occuparsi di interessi individuali, per quelli sovraindividuali o individuali che sono avvolti in fasci di rapporti interessati all’assegnazione di beni scarsi vale il diritto pubblico.
2.- Sulla risarcibilità dell'interesse legittimo
Francario Se non sostituita, la sfera pubblica è comunque sotto assedio della tecnocrazia, che tende per sua natura a mantenere aperti i processi decisionali perché venga costantemente assicurata la razionalità economica delle decisioni che rimangono esposte alla possibilità che per tale motivo vengano continuamente rimesse in discussione.
Chiarito ciò, M. sottolinea come nel nostro tempo il decisore pubblico sia messo sotto assedio anche dalla svolta storica consumata nel ns ordinamento nel 1999 sotto la pressione più generale del diritto comunitario degli appalti della risarcibilità degli interessi legittimi. Qui se possibile il profilo diventa ancor più delicato perché, dietro l’apparenza di una conquista di civiltà giuridica che sembrerebbe implicita nel riconoscimento della natura sostanziale della figura giuridica soggettiva dell’interesse legittimo, si cela il rischio di una vera e propria involuzione che la patrimonializzazione della figura può comportare se finisce con il disperdere quel “deposito di valori da sempre connesso al diritto pubblico”. Sotto questo profilo, personalmente sono in assoluta sintonia con M. come si può intuire sin dal titolo di uno dei miei ultimi lavori ospitato in un quaderno di QG (La giurisdizione plurale: giudici e potere amministrativo, maggio 2021) curato proprio da M. unitamente al consigliere Scoditti della Corte di cassazione: “Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria”.
L’affermazione della risarcibilità dell’interesse legittimo è un bene o un male per il diritto pubblico e amministrativo in particolare ?
Montedoro La questione del risarcimento danni da violazione di interesse legittimo è al centro del libro su Ordine e Caos.
La sentenza della Cassazione n. 500 del 1999 è stata uno spartiacque.
Da allora l’amministrazione che abbia violato un interesse legittimo può essere convenuta per i danni.
E’ incredibile che una scelta così importante per la costruzione dell’ordinamento sia avvenuta in via esclusivamente giurisprudenziale.
Anche questo è un segno di debolezza della politica.
Il legislatore è intervenuto su aspetti di contorno come la giurisdizione ( attribuita al giudice amministrativo ) o la previsione di un termine decadenziale ( e non prescrizionale ).
Su questo tema si è giuocata la partita di crisi della modernità che ha visto, nel Paese, contrapposto il diritto privato ed il diritto pubblico , fino alla prevalenza del primo.
Tutto il diritto pubblico può ora essere riletto nel prisma dell’art. 2043 cod. civ. e l’opera è in corso nelle Corti.
Cosa significa dare questa centralità all’art. 2043 cod.civ. ?
Significa proprio quello che ha sottolineato nello scritto prima richiamato mettere a rischio un deposito di valori , facendo prevalere i profili di patrimonializzazione.
La conversione del pregiudizio in moneta deve essere l’ultima ratio per questa ragione.
La centralità della tutela di annullamento è una questione di civiltà connessa al modo in cui consideriamo il nostro vivere in comune.
Mi piace però pensare che anche l’amministrazione debba essere giusta.
Anzi addirittura pensare che la vera giustizia possa essere fatta solo dall’amministrazione, nel riesercizio del potere, secondo le linee stabilite dalla sentenza.
Il punto è che la sentenza amministrativa spesso contiene statuizioni conformative dell’azione amministrativa che vengono a calarsi in una realtà del personale amministrativo che è lontana dalle raffinate analisi dei giuristi e che deve confrontarsi con il pulsare delle esigenze della vita e con i limiti organizzativi e finanziari talvolta anche culturali dell’amministrazione.
Sarebbe necessario un rapporto molto più stretto fra il giudice e l’amministrazione per rendere effettiva la giustizia amministrativa.
Un tema immenso che richiederebbe di ripensare l’ottemperanza in modo sistematico, andando oltre il c.d. commissario ad acta ed istituendo presso il giudice amministrativo un Ufficio incaricato dell’esecuzione che adotti gli atti amministrativi in sostituzione senza passare attraverso le attività di recalcitranti uffici amministrativi soccombenti nel giudizio di cognizione.
Occorrerebbe anche sancire una responsabilità penale ( salvo giustificati o eccezionali motivi) per la mancata esecuzione degli ordini giudiziari, prima delle necessarie attività sostitutive.
Questo sarebbe molto più importante di prospettive che coltivino rafforzamenti delle azioni risarcitorie.
Dell’art. 2043 cod. civ. e di una società che lo mette al centro della vita di tutti ( ormai si intraprendono azioni risarcitorie per i motivi più svariati, danni esistenziali, danni da contatto sociale, danni da perdita di chance, danni da violazione di interessi legittimi ) penso ciò che pensava Elias Canetti in Massa e potere , la società moderna è caratterizzata dalla “paura di essere toccati”.
La paura di essere toccati è consustanziale all’individualismo metodologico quale visione per la quale non esiste la società esistono solo gli individui.
La garanzia dell’intangibilità della propria sfera vitale e patrimoniale è diventata più importante di ogni condotta solidaristica o sociale.
E’ un aspetto della attuale lotta fra concorrenza ( intesa come fine e non come mezzo) e solidarietà , fra homo oeconomicus e homo civicus.
Fra economia e politica.
I giuspubblicisti non devono stancarsi di esplorare le potenzialità dei nuovi rimedi come le azioni risarcitorie, ma devono saperli collocare nell’alveo della tradizione giuridica che ci è stata consegnata, ciò significa non perdere mai di vista la loro residualità.
La stessa analisi economica del diritto con la sua nozione di costi transattivi non ignora che vi sono fallimenti del mercato, non tutti risolvibili sul piano della buona regolazione con leggi che eliminino detti costi ; a volte è necessario che non il contratto ma l’impresa allochi/organizzi i fattori produttivi ( e così si riconosce il potere organizzativo dell’imprenditore al di sopra dell’incontro della domanda e dell’offerta o si invita un imprenditore o una cordata di imprenditori ad un salvataggio di altra impresa in crisi ) altre volte deve intervenire lo Stato o la pubblica amministrazione perché le risorse da mobilitare per superare il market failure sono assai ingenti.
Contratto, impresa, pubblica amministrazione sono tre modi di allocare le risorse.
Seguono logiche diverse e si giustificano economicamente per affrontare problemi diversi.
Dell’amministrazione non potremo fare a meno per lungo tempo.
Le crisi bancarie prima e la pandemia poi ce lo hanno dimostrato.
Quindi ci tocca far funzionare questa amministrazione. Non semplicemente pensare a munire i privati di azioni risarcitorie come fosse questo il centro del problema socio-politico del diritto pubblico.
3.- La filosofia della conoscenza del processo amministrativo.
Francario Veniamo al Capitolo IV: La verità nel processo e fuori dal processo.
Qual è la filosofia della conoscenza che si consuma nel processo amministrativo?
Montedoro Mi piacerebbe poter individuare una filosofia della conoscenza nel processo amministrativo.
Ma sono molto incerto sull’individuazione della sua matrice.
Penso che possa dirsi che si tratti di una matrice liberale.
Una matrice che affonda le sue radici nel pensiero del liberalismo, nella sua diffidenza verso il potere.
Penso che il processo amministrativo sia un processo che risente di scelte pragmatiche fatte sull’onda di esigenze come quelle della verità di fronte al potere arbitrario, un potere amministrativo che lo Stato democratico vuole sia criticabile dialetticamente.
La questione della verità da Cartesio a Hume, da Bacone a Kant fino a Popper è centrale per la definizione del metodo scientifico.
Il giudice ( anche il giudice amministrativo ) è un ermeneuta ma è anche un epistemologo.
Usa vari saperi ( testa l’ appropriatezza e la ragionevolezza delle scelte amministrative fondate sulla scienza, vagliando tutti i saperi utilizzati dalla pa nel sindacato sulla discrezionalità tecnica ) e ne saggia lo statuto epistemologico e la tenuta delle soluzioni ; fa questo mediante ausiliari all’occorrenza e comunque alla luce della migliore scienza ed esperienza.
Il potere deve essere sempre criticabile anche quando è fondato sulla scienza ; anche quando assume l’aspetto delle soluzioni algoritmiche.
La questione della ricerca della verità è tutta qui per il processo amministrativo.
E’ inscritta nella questione del controllo del potere.
Ma la sua domanda è più maliziosa in fondo: essa si interroga sulla esistenza di una filosofia della conoscenza che sia insita nelle regole processuali; il processo ovviamente può averla.
Nel processo penale è evidente : il processo inquisitorio ha un’idea della conoscenza di stampo obiettivistico, ritiene quindi che sia necessario affidare l’indagine sui fatti reato ad un giudice istruttore perché egli è portatore di una maggiore terzietà rispetto all’accusa ed alla difesa.
Il processo accusatorio rifugge da tale impostazione, abbraccia un’idea relativistica e soggettivistica della conoscenza, affida la creazione del materiale probatorio al dibattimento , al contraddittorio, all’esame ed al controesame di imputati, testi e coimputati.
Il giudice non può essere integralmente scettico, né può essere assolutamente disperato ( alla Cioran ) sulla possibilità di attingere qualche certezza.
Deve essere consapevole che la realtà si conosce a partire dalla soggettività (acquisizione della fenomenologia e dell’ermeneutica ).
Deve sapere che sono possibili errori.
Deve accettare il metodo scientifico ossia la falsicabilità – popperiana - delle prove.
Deve agire come se qualcosa fosse conoscibile. Sul piano del buon senso, anche se la poesia ci dice che è conoscibile solo l’ ”ombra di un’ombra”.
Come dice Borges nell’elogio dell’ombra :
“Questa penombra è lenta e non fa male;
scorre per un mite pendio
e assomiglia all’eternità.”
Ma qualcosa è conoscibile sul piano del buon senso.
Al giudice conviene il realismo di Maurizio Ferraris e non lo scetticismo postmoderno di Gianni Vattimo ( anche se una volta scrissi a proposito dei codici settoriali che Gianni Vattimo era approdato al Consiglio di Stato intendendo che ci si poteva produrre solo ormai in una legislazione frammentaria e non più universalistica ).
Forse per carattere sarei uno scettico moderato.
La post-modernità poi ha introdotto con Nietzsche l’idea che non esistono i fatti ma solo le interpretazioni.
Tutto è messo in questione.
Tutto è questione di narrazione.
Il talk show è più importante del processo quindi.
Ma il processo non è puramente un giuoco come pure descritto dal grande Calamandrei.
Esso serve ad accertare fatti, è una sofisticata macchina di accertamento.
In particolare nel processo amministrativo vengono in rilievo i fatti posti a base del provvedimento amministrativo.
La verità narrata dal potere esecutivo.
Il giudice amministrativo nel nuovo processo amministrativo ha pieno accesso al fatto.
Può disporre consulenza tecnica o verificazione.
Può usare, ma con moderazione, del principio dell’onere della prova ( perché il legislatore sa che vi è uno squilibrio di forze fra parte pubblica e parte privata ed ha improntato il processo al principio dispositivo con metodo acquisitivo ossia con il correttivo di poteri officiosi del giudice che riequilibrino le posizioni all’occorrenza, è il giudice signore della prova, così definito dal pensiero intramontabile di Mario Nigro).
4. Il problema del metodo. Le tentazioni del dogmatismo e del relativismo.
Francario Problema del metodo. Nelle epoche di transizione, scienza del diritto e giurisprudenza corrono il rischio sia di chiudersi di fronte ai cambiamenti e alle novità arroccandosi nelle categorie tradizionali e mantenendo in vita concetti ormai consumati; che di rifiutare ogni tradizione e di “vedere in ogni dove nuovi paradigmi”. Tentazioni del dogmatismo e del relativismo: come vengono evitate in questo “libro senza fine” e in partciolare in “ordine e caos”?
Montedoro E’ un duplice rischio.
Occorre leggere il nuovo a volte con nuove categorie.
E’ quello che abbiamo tentato di fare leggendo le decisioni algoritmiche senza stare alle strettoie della legge n. 241 del 1990 ma usando i principi che già si rinvengono nelle Carte europee ed in disposizioni sparse che si sono occupate di intelligenza artificiale.
Ma anche la tradizione è importante.
Senza il passato non siamo nulla. Non c’è identità.
E lo scavo si addice al riconoscimento dell’importanza della tradizione.
Nel libro uso in modo parziale e forse “amputante” il pensiero di Derrida.
E’ un pensiero incentrato sul mistero del linguaggio inteso come un libro aperto all’attribuzione di infiniti significati.
Naturalmente l’Opera aperta di Eco non è compatibile con alcuna logica processuale.
Ma di Derrida ad un giudice interessa – e molto – il rapporto che si può istituire fra linguaggio e realtà , fra testo e contesto, fra universale e singolare.
Ed il metodo erratico – nelle opere di questo filosofo non filosofo che si è occupato degli argomenti più vari dall’ospitalità all’amicizia, dal discorso funebre alla natura della lingua parlata ( in cui ha rinvenuto un testo archetipico con ciò preannunciando il mondo del futuro informatico, forse un mondo integralmente scritturale ) – dello scavo nel concetto.
Scavare nel concetto, come talpe, per estrarre nuovi significati, vino nuovo dall’otre vecchio ( rovesciando il detto ).
Il linguaggio è un testo di ricchezza sterminata, la traduzione è sempre una ricreazione, la decostruzione è il modo della nominazione.
Nel tempo del caos multilivello, l’avventura del giurista è data da questo confronto, alla fine, fra universale e singolare in cui l’universale è stressato, è messo in questione.
Chissà se il linguaggio cattura la realtà e quanta ne cattura ma noi giuristi dobbiamo agire “come se” tanto fosse possibile come se alla fine un ancoraggio sia possibile per l’uomo.
5. Nel futuro c'è il divorzio fra democrazie e diritti umani?
Francario Nel finale torna a riflettere sulla misura del cambiamento in corso e sulla tendenza alla creazione di società senza Stato che sembrerebbe potere o voler fare a meno delle conquiste e dello stesso fondamento del costituzionalismo moderno in punto di tutela dei diritti costituzionali e di rispetto delle procedure democratiche. Per quanto si possa essere lontani da un tale momento, è comunque certo che si arriverà ad un nuovo ordine globale ed è importante giungere a questo appuntamento senza che i fondamenti del costituzionalismo moderno siano andati dispersi per poter essere rifondati nella nuova dimensione spaziale. Certamente suggestivo il paragone con gli antichi greci, che rievoca chiaramente quel compito del giurista “come intellettuale specifico del nostro tempo” di dare testimonianza della permanente validità del diritto pubblico, di cui si è già detto: “Compito degli europei, in questa fase storica, non è dissimile dal compito degli antichi greci, lasciare un testamento spirituale, impedire che il mondo di ieri … sia distrutto senza lasciare che i tratti di nobiltà di spirito che lo connotavano (democrazia come sistema di pesi e contrappesi, tutela dei diritti umani, spazi di autonomia per l’individuo) siano perduti per sempre nell’urto con le nuove forze produttive scaturenti dalla moderna tecnica”.
Il futuro ci riserva davvero il divorzio fra democrazie e diritti umani ?
Montedoro Vi è una retorica dell’autosufficienza dei diritti umani, l’ho sempre vista con sospetto.
I diritti umani fioriscono in un ambiente istituzionale che li protegga che ne abbia cura.
Non sono solo opera delle Corti e dei giudici.
Naturalmente l’esistenza di Corti Costituzionali ed anche di Corti sovranazionali ( Corte UE a Lussemburgo ; Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo ) ci fa vivere l’idea – che tende a divenire ideologia – dello sganciamento dei diritti umani dagli Stati e quindi dalle democrazie.
Il divorzio è in corso anche per il fatto che il capitalismo politico ha scelto – di recente – paesi totalitari per svilupparsi a tassi di rendimento ignoti in aree del mondo ove esistono le tutele del lavoro e dei diritti sociali.
Come si costruirà lo spazio giuridico oltre lo Stato ?
In modo del tutto indipendente dallo Stato o in modo che lo Stato ogni Stato – specie quello che si presenta come Stato di diritto – “consegni il testimone” di un equilibrio fra democrazia e diritti umani ( equilibrio che chiamiamo democrazia costituzionale ) all’ordinamento sovranazionale prossimo venturo ?
Il futuro del diritto pubblico è legato a questa vicenda.
Non basta il diritto privato ( l’abbiamo detto ), non basta la lex mercatoria, né il dialogo fra le Corti o la presenza di conflitti costituzionali che scardinino gli Stati, fino all’emersione di nuove forme della politicità conviene ricercare una mediazione “alta” fra Stato, mercato e diritti umani.
Un equilibrio possibile che in Europa abbiamo conosciuto nei primi anni del secondo dopoguerra prima che prevalesse l’individualismo metodologico, la sola tutela delle libertà di carattere economico ( con risultati di conformazione di tutti gli ordinamenti nazionali non tenuti più soltanto ad ottenere gli specifici risultati fissati dalle direttive), la politica delle privatizzazioni, il passaggio dal controllo delle imprese alla regolazione, la centralità della “Francovich”, l’assedio del pubblico, la diffusione della teoria di Buchanan della c.d. Public choice.
Si tratta di scelte che hanno mostrato i loro limiti.
Sono oggetto di revisione critica in epoca postpandemica.
Il liberalismo può risorgere dalle ceneri del liberismo sfrenato.
La ringrazio molto per le sue domande.
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