ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ipotesi di modelli per progettare l’Ufficio per il Processo. Narrazione di un percorso condiviso ed elaborazione di una prima check list sperimentale di Mariano Sciacca*
A dibattito dottrinale aperto, è possibile sviluppare alcune ipotesi metodologiche circa la progettazione dell’Ufficio del Processo, così come previsto dal P.N.R.R..
L’occasione è data dalla ricostruzione del percorso di analisi organizzativa sperimentato presso una sezione del tribunale di Catania, sfociato nell’elaborazione di una checklist di modellizzazione organizzativa per l’Ufficio per il processo locale.
Sommario: 1. La lunga marcia dall’UPP a costo zero sino all’UPP\PNRR a motore europeo. 2. La progettazione dell’UPP presso la quarta sezione civile, imprese e fallimentare del Tribunale di Catania. Le riunioni ex art. 47-quater O.G. e il workshop di esplosione delle criticità, dei contenuti e delle proposte. 3. Gli obiettivi del workshop. 4. L’analisi strategica delle attività individuate. 5. Una prima checklist delle azioni per lo sviluppo del modello organizzativo sezionale.
1. La lunga marcia dall’UPP a costo zero sino all’UPP\PNRR a motore europeo.
Comprendere la lunga marcia intrapresa - dall’Ufficio per il processo a costo zero sino all’UPP\PNRR a motore europeo – impone un richiamo agli obiettivi di fondo che, sin dalle origini del dibattito, hanno scandito il confronto tra gli esperti di settore: potenziare le capacità di azione dei magistrati costruendo con loro strumenti a supporto delle loro attività (gestione del ruolo, gestione del fascicolo, processo di decisione, aggiornamento e studio), riqualificare il lavoro dei cancellieri e costruire unità operative di base sinergiche.
Le idee forti a sostegno del progetto UPP sono state individuate in estrema sintesi: azione sul piano organizzativo e istituzionale dei mezzi e delle strutture, anziché su quello della permanente riforma dei riti; centralità del ruolo del dirigente e della pianificazione gestionale; valorizzazione delle best practices nell’ottica del caseflow management dirette ad eliminare operazioni ridondanti; semplificazione delle procedure, razionalizzazione dei flussi documentali; riqualificazione delle culture professionali esistenti e inserimento di nuove professionalità (organizzative, informatiche e statistiche).
Centrale nella riflessione organizzativa è stata la fissazione di alcuni obiettivi strumentali: specializzazione per aree funzionali (assistenza all'udienza; relazioni pubblico – u.r.p. fisico e sito internet); ricerche dottrinali e giurisprudenziali; rapporti con i consulenti tecnici; predisposizione minute provvedimenti istruttori/decisori; adempimenti volontaria giurisdizione e adempimenti amministrativi; statistica); semplificazione delle attività (individuazione delle attività meramente formali, inutili e ridondanti; revisione delle procedure di gestione, spostando l’onere delle attività in questione ad altre articolazioni dello Stato o a privati; abbandono di prassi regolamentari locali non più richieste dalla normativa; informatizzazione integrale dei dati, delle procedure e dei relativi flussi, garantendo l’accessibilità alle informazioni ed ai servizi via intranet e via internet, realizzando una piena interoperabilità fra amministrazioni centrali e periferiche dello stato e garantendo interscambi documentali con pubbliche amministrazioni nazionali e locali, nonché con enti privati); riorganizzazione e riqualificazione dei ruoli professionali, superando il dilettantismo e valorizzando la dimensione organizzativa della “delega”.
Il dibattito che ne è seguito si è caratterizzato per una pluralità di dimensioni che vanno necessariamente segnalate: il valore in sé del dialogo interprofessionale per la definizione di soluzioni condivise rispetto ad una autoreferenziale visione corporativa e settoriale, l’ineludibilità di risposte sistemiche a fronte di interventi circoscritti alla risoluzione di microcriticità; il dilemma, ancora oggi irrisolto, dello stile gestionale degli uffici giudiziari, compresso e stressato tra un approccio istituzionale e un’impronta più prettamente manageriale[1].
2. La progettazione dell’UPP presso la quarta sezione civile, imprese e fallimentare del Tribunale di Catania. Le riunioni ex art. 47-quater O.G. e il workshop di esplosione delle criticità, dei contenuti e delle proposte.
La natura flessibile dell’UPP impone una modellizzazione specifica a seconda dell’ufficio\sezione, del contenzioso da definire e del contesto organizzativo concreto.
Tutto ciò impone uno sforzo di ideazione e modellizzazione degli UPP, anche nei casi in cui essi sono già attivi, in modo da:
Alla luce di questo quadro generale, si è inaugurato un percorso di progettazione organizzativa.
Si è avviato un percorso di autoanalisi (compiuto in vista dell’assegnazione dei nuovi funzionari UPP agli uffici giudiziari, previsto per i primi mesi 2022) in un’ottica sperimentale e incrementale presso la quarta sezione civile e fallimentare del Tribunale di Catania.
In fase di avvio si sono, quindi, organizzate riunioni ai sensi dell’art. 47-quater O.G.[2] tra i magistrati con la partecipazione di analisti di organizzazione di FormezPA nell’ambito di un progetto gestito dalla Regione Sicilia e finanziato dalla Fondo sociale europeo. Analisi che si è avviata con un workshop di ideazione e progettazione sul tema UPP.
Complessivamente, l’obiettivo ultimo del percorso è stato quello di definire un modello di UPP funzionale alle esigenze della Sezione.
Il 14 e il 19 luglio 2021 i consulenti hanno partecipato come osservatori alle riunioni art. 47-quater O.G. dei magistrati, rispettivamente dell’area civile e dell’area fallimentare della Sezione, successivamente progettando un workshop di ideazione sul tema UPP che si è tenuto il 20 luglio.
I lavori sono ancora in corso in vista dell’elaborazione del progetto organizzativo da sottoporre alla Presidenza del Tribunale.
Il workshop è stato un momento di lavoro fattivo e collaborativo tra tutti i magistrati della Sezione. Rispetto ad una normale riunione, dove il ragionamento viene espresso principalmente verbalmente e discutendo, un workshop deve enfatizzare alcuni aspetti particolari:
-sviluppare idee in modo sintetico
-anticipare e smorzare vincoli e limitazioni al ragionamento
-favorire idee innovative
-offrire spazio a tutti i partecipanti in modo uniforme evitando personalismi
Per rendere possibile questa modalità di lavoro da remoto, i consulenti hanno strutturato un workshop sulla piattaforma online Miro (www.miro.com), ovvero una piattaforma gratuita che offre uno spazio collaborativo senza limiti e tanti strumenti per lavorare e strutturare idee.
La scelta dello strumento è stata definita anche con finalità formative, dato che Miro può essere efficacemente utilizzato dai magistrati anche in altre occasioni, per il lavoro individuale o di gruppo, e nessuno dei giudici della Sezione conosceva lo strumento.
I consulenti hanno preconfezionato in una pagina Miro dedicata tutto il percorso di analisi e ideazione che si intendeva affrontare nel workshop. Alcuni schemi di ragionamento sono stati precompilati in base ai contenuti già emersi nelle riunioni di Sezione dei giorni precedenti.
Gli schemi e i grafici sono stati strutturati in modo da mettere in evidenza in modo differenziato i contributi per le due aree in cui sono divisi i magistrati della Sezione: civile e fallimentare.
3. Gli obiettivi del workshop.
Il workshop è stato ideato per raccogliere il maggiore numero di informazioni e dettagli, stimolando la discussione tra i partecipanti.
Complessivamente, l’obiettivo ultimo del percorso è quello di definire di un modello di UPP ideale per le esigenze della Sezione con il contributo di tutti i magistrati.
Si tratta di un obiettivo ambizioso in particolare per la presenza di due limiti di diversa natura. Il primo è la preesistenza di un UPP, che comporta naturalmente una tendenza a ricondurre il ragionamento verso forme di coordinamento e supporto già sperimentate. Il secondo è dato dai limiti normativi e dal dettato del PNRR: il supporto delle nuove unità di personale sembra dover essere ancorata alla riduzione dell’arretrato in modo da definire; non è sicuro che le risorse aggiuntive saranno destinate anche al settore fallimentare.
4. L’analisi strategica delle attività individuate.
A valle del primo quadro di attività del modello di UPP generato nel workshop, si è proceduto ad una analisi con l’obiettivo di definire quali aree di intervento sono ritenute più strategiche.
A tal fine si sono svolte due votazioni tra tutti gli elementi emersi su due direttrici: l’impatto positivo dell’attività sul lavoro dei giudici complessivamente inteso e lo sforzo necessario per raggiungere quell’impatto.
I risultati sono stati raccolti in un piano cartesiano disegnato dalle due variabili.
In esito stati elaborati degli output in termini di obiettivi, comportamenti, struttura organizzativa da assumere e strumenti di cui dotarsi in relazione alla nuova modalità di lavoro in staff di supporto alla giurisdizione.
5. Una prima checklist delle azioni per lo sviluppo del modello organizzativo sezionale.
Alla data del presente intervento si è sviluppata in una logica incrementale una prima sintesi metodologica del percorso intrapreso in questo periodo di sperimentazione progettuale permanente, sintetizzata nel documento di seguito richiamato realizzato dall’Ufficio innovazione e sviluppo organizzativo (U.I.S.O.), costituito in base ad una convenzione tra la Corte di appello e il Tribunale di Catania.
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Ufficio innovazione e sviluppo organizzativo
Oggetto: attuazione PNRR - progettazione ufficio per il processo - checklist sviluppo modello organizzativo sezione.
La IV Sezione Civile e fallimentare del Tribunale di Catania si confronta da luglio con un percorso di analisi e modellizzazione, svolto con l’utilizzo di metodologie composite e partecipative, con l’obiettivo di migliorare il supporto offerto al lavoro dei magistrati e sfruttare nel miglior modo possibile gli addetti ausiliari che nei prossimi mesi verranno messi a disposizione degli Uffici.
Sperando sia iniziativa utile, in conformità alle finalità istituzionali dell’Ufficio innovazione e sviluppo organizzativo – creato in esito alla stipula di una convenzione tra la Corte di appello e il Tribunale di Catania - viene proposto sulla base di questa esperienza, ancora in corso, uno schema metodologico indicativo, pensato per orientare facilitare le attività delle altre sezioni del Tribunale e del distretto.
Al percorso di analisi hanno preso parte tutti i giudici della quarta sezione civile, imprese e fallimentare, nonché gli analisti di organizzazione di FormezPA Simone Rossi, Giulio Michetti e Favorita Barra che hanno supportato l’ufficio nell’ambito del progetto di “CAPACITAZIONE ISTITUZIONALE DEGLI UFFICI GIUDIZIARI” su regia della Regione Sicilia grazie ai finanziamenti del Fondo sociale Europeo (FSE): a tutti loro va un ringraziamento espresso per la disponibilità mostrata.
Lo schema – da considerarsi sperimentale e da utilizzarsi in un’ottica incrementale – divide le attività in tre macro-fasi: attività propedeutiche, modellizzazione, gestione.
Per ogni macro-fase sono descritte categorie di attività e attività di dettaglio.
Per ogni categoria di attività sono esplicitati gli output, intesi come i principali risultati utili per lo sviluppo del percorso nel suo insieme (l’analisi ha avuto riguardo in modo specifico il target iniziale di smaltimento dell’arretrato civile).
FASE 1: ATTIVITÀ PROPEDEUTICHE
La prima fase si concentra sui prerequisiti necessari per la creazione di un modello efficace e tarato sulle specifiche esigenze della Sezione, valorizzando le esperienze già in corso e il vissuto dei magistrati, elaborando un quadro informativo completo dell’assetto organizzativo nello status quo.
1. I presupposti per l’azione
1.1 Definire un obiettivo condiviso di medio periodo sfidante
1.2 Creare team di sviluppo
1.3 Comunicare l’urgenza e l’importanza della sfida in atto
output:
- uscire dalle logiche quotidiane e visualizzare un obiettivo ambizioso
- individuare primi temi critici da affrontare
2. Analisi delle esperienze e delle attività dell'UPP o, in mancanza dell'UPP, dei giudici onorari e/o dei tirocinanti impiegati
2.1 Definire i benefici attuali delle attività svolte dall’UPP o da altre figure ausiliarie del magistrato
2.2 Definire limiti, punti deboli e criticità delle attuali attività di supporto
2.3 Definire le “lezioni apprese”: cosa deve essere mantenuto e cosa deve essere cambiato dell'attuale approccio alle figure di supporto dei magistrati
2.4 Definire i gap delle attuali attività rispetto alle principali esigenze dei magistrati (valutare i gap in senso generale, per esempio anche rispetto ai flussi informativi con la cancelleria)
output:
- Analisi critica delle attuali prassi di gestione delle figure ausiliarie
- Emersione di criticità informative, organizzative e di coordinamento
FASE 2: MODELLIZZAZIONE
L’obiettivo della seconda fase è definire una serie di ipotesi di sviluppo in un ragionamento basato sulle evidenze e sui dati concreti. Nel concreto, nella seconda fase bisogna rispondere analiticamente a diverse domande che presuppongono scenari alternativi:
quali sono gli ambiti di attività che possono produrre i maggiori benefici?
quali sono le materie e i procedimenti su cui la Sezione riscontra i maggiori problemi?
è preferibile che gli addetti svolgano attività di supporto al singolo giudice o su più ruoli?
che obiettivi possono essere stabiliti a livello statistico nel medio periodo?
1.Creare scenari operativi
1.1 Elencare le attività ipotetiche dell'UPP, senza limitarsi a quelle già attive o più elementari
1.2 Esplicitare la connessione tra le ipotesi, i gap e gli obiettivi di lungo periodo
1.3 Valutare strategicamente le ipotesi individuate, per esempio ordinandole in base a due dimensioni (impatto e sforzo necessario)
output:
- Individuare gli ambiti prioritari
2 Analisi quantitativa delle estrazioni statistiche
Estrazioni disponibili tramite pacchetto ispettori su pendenze complessive e definizioni, da filtrare ed elaborare con tabelle pivot.
2.1 Valutare le pendenze complessive della Sezione, disaggregandole per ruolo, materia e oggetto
2.2 Valutare il peso delle pendenze, disaggregandole per anzianità di ruolo, rito e materia\oggetto
2.3 Valutare il peso e la distribuzione di specifiche materie e oggetti che possono essere oggetto di un'azione specifica
2.4 Analizzare le modalità definitorie utilizzate e le tempistiche medie di definizione disaggregate per ruolo, materia e oggetto
output:
-Dare alle ipotesi una maggiore profondità
-Analizzare con maggiore dettaglio lo stato delle pendenze della sezione
3. Analisi statistica prospettica
3.1 Stimare in modo ragionato e prudente il contributo fattivo che potranno prestare gli addetti
3.2 Ipotizzare l’aumento di produttività dei magistrati interessati dalle attività
3.3 Stimare gli obiettivi fattibili in base all’aumento di produttività ipotizzato
3.4Elaborare di un piano di raggiungimento degli obiettivi sul breve e medio periodo
output:
- Valutazione quantitativa degli obiettivi complessivamente raggiungibili e degli obiettivi intermedi da monitorare
- Determinazioni conseguenti sulla riorganizzazione dei ruoli dei giudici,
- valutando la costituzione di gruppi di funzionari PNRR (ambito giuridico) per singoli aree operative\specifici obiettivi e conseguenti decisioni di riorganizzazione dei ruoli dei giudici togati (con conseguente variazione tabellare): segnatamente costituzione di repertorio giurisprudenziale di sezione, analisi e smistamento nuove iscrizioni, studio e definizione dei giudizi per aree omogenee (per materia\rito\anzianità di ruolo)
FASE 3: ORGANIZZAZIONE E GESTIONE
Nella terza fase bisogna ricondurre l’analisi e le ipotesi alla struttura concreta e al contesto organizzativo, non sottovalutando le modalità con cui gli addetti dovranno coordinarsi con la Sezione e il ruolo di tutti i magistrati nello sviluppo del nuovo modello.
Nel concreto, nella terza fase bisogna rispondere a diverse domande:
Che ruolo avranno i magistrati nella gestione del nuovo modello? Che ruolo avranno le cancellerie?
Come verranno accolti ed addestrati i nuovi addetti? Come e dove lavoreranno i nuovi addetti?
Come e quando verrà effettuato un monitoraggio dei risultati del modello? Che strumenti useremo per rimodularne le attività?
1. Implementazione organizzativa dei prototipi organizzativi
1.1 Avviare confronto con gli stakeholders
1.2 Strutturare deleghe e responsabilità dei magistrati nello sviluppo e nel monitoraggio del nuovo modello organizzativo
1.3 Strutturare le modalità di coordinamento con gli addetti
1.4 Strutturare un percorso di formazione specifica e di affiancamento degli addetti, strutturare un kit formativo e informativo di benvenuto
1.5 Strutturare i supporti metodologici e informativi per le attività degli addetti (moduli, schemi, checklist, modelli, etc.)
1.6 Verificare la fornitura della strumentazione tecnologica e settaggio consolle magistrato\assistente
1.7 Rimodulare il ruolo e le attività dei giudici onorari e dei tirocinanti per evitare sovrapposizioni e valorizzare le rispettive competenze
1.8 Analisi dei CV degli addetti per determinare la migliore destinazione e tarare il percorso di formazione e affiancamento
output:
-Intervenire su tutti gli elementi in grado di facilitare l'inserimento dei nuovi addetti
-Adeguare il sistema organizzativo
2.Gestione dell'implementazione
2.1 Monitoraggio statistico degli obiettivi intermedi (elaborazione di un cruscotto gestionale, modello programma di gestione art. 37)
2.2 Confronto e verifica interna alla Sezione rispetto ai prototipi organizzativi sviluppati
2.3 Rimodulazione progressiva delle attività e valutazione di nuove attività da sviluppare
2.4 Confronto con gli addetti per valutare soddisfazione, proposte e criticità
output:
-Verificare la tenuta degli obiettivi individuati
-Adeguare le attività in base agli impatti osservati e alle nuove necessità
* Presidente della sezione specializzata diritto d’impresa e fallimentare del Tribunale di Catania, è coordinatore dell’Ufficio innovazione e sviluppo organizzativo (UISO), costituito su convenzione tra Corte d’appello e Tribunale di Catania, nonché referente degli uffici giudiziari catanesi per il progetto della Regione Sicilia di “Capacitazione istituzionale degli uffici giudiziari”, finanziato dal Fondo sociale Europeo.
Da componente del CSM tra il 2010 e il 2014 ha anche presieduto il tavolo paritetico col Ministero della Giustizia in tema di organizzazione giudiziaria, digitalizzazione, organici, best practices, modello CAF.
E’ autore di articoli e pubblicazioni in materia organizzativa e informatica.
[1] S. ZAN, Fascicoli e Tribunali: il processo civile in una prospettiva organizzativa, Bologna, 2003, 10 s., nel richiamare l’esperienza del laboratorio bolognese per la sperimentazione del Processo Civile Telematico, rileva come il merito del gruppo vada individuato nella «consapevolezza che solo l’interazione tra i saperi e le culture diverse di tipo giuridico, processuale, informatico e organizzativo può pensare di affrontare il tema del cambiamento della giustizia civile con qualche speranza di successo, laddove è storicamente evidente che interventi parziali e monodisciplinari hanno sistematicamente fallito».
[2] L’art. 47-quater, ord. giud., sulle attribuzioni del presidente di sezione recita «Il presidente di sezione, oltre a svolgere il lavoro giudiziario, dirige la sezione cui è assegnato e, in particolare, sorveglia l'andamento dei servizi di cancelleria ed ausiliari, distribuisce il lavoro tra i giudici e vigila sulla loro attività, curando anche lo scambio di informazioni sulle esperienze giurisprudenziali all'interno della sezione. Collabora, altresì, con il presidente del tribunale nell'attività di direzione dell'ufficio».
In ricordo di Beniamino Caravita di Toritto
di Elisabetta Catelani
Troppo presto se ne è andato Beniamino Caravita di Toritto ed ha lasciato un grande vuoto negli allievi, studenti, amici, nei tanti colleghi che lo stimavano e che apprezzavano per le sue doti di disponibilità, curiosità, per l’intelligenza frizzante, veloce nel centrare ed analizzare un problema, per l’apertura al dialogo, anche con coloro che partivano da posizioni molto diverse dalle Sue, ma sempre alla ricerca di un punto d’incontro, là dove era possibile.
Era Professore di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università di Roma “La Sapienza”, noto non solo in ambiente Accademico grazie alle sue doti di costituzionalista poliedrico, ma molto ascoltato anche nelle Istituzioni, nel Parlamento, nel Governo, a livello regionale e, più in generale, in numerosi enti locali. Componente di tante commissioni governative, fra cui si può ricordare quella per le riforme istituzionali, istituita dal governo Letta. Importante e stimato Avvocato, spesso pronto a combattere le cause più complesse davanti alla Corte costituzionale, così come dinanzi agli altri giudici.
La sua vita è stata un insegnamento per molti e lo ricorderemo per l’intuito e la lungimiranza che ha dimostrato in tanti contesti: è stato uno dei primi, negli anni ’80, a studiare, da un punto di vista costituzionale, il tema dell’ambiente. Ed ancora oggi il suo volume su Il diritto pubblico dell’ambiente, pubblicato dal Mulino originariamente nel 1990, è il punto di riferimento per lo studio della materia, grazie agli aggiornamenti continui su un tema in continua evoluzione.
È stato uno dei primi a fondare nel maggio del 2003 una rivista di diritto costituzionale on line Federalismi.it, che è poi diventata una delle riviste più dinamiche, più aggiornate e di più ampio approfondimento in una pluralità di settori giuridici. Una rivista che ha avuto il pregio di consentire, all’inizio, un’analisi di questioni prevalentemente regionali in una fase storica, quella successiva alla riforma del Titolo V della Costituzione, in cui il regionalismo italiano era da costruire, cosicché il dibattito aperto in quella sede è sicuramente servito per contribuire all’interpretazione di norme in parte oscure o comunque suscettibili di una pluralità d’interpretazioni. L’autorevolezza che velocemente ha acquisito la rivista ha consentito un allargamento dei settori di intervento, dal diritto costituzionale in tutte le sue sfaccettature, al diritto amministrativo, al diritto dell’Unione europea, al diritto internazionale, ad ogni tema connesso alla vita delle Istituzioni. Insomma, una rivista eclettica, come era Lui, curioso ed interessato ad ogni profilo pubblicistico dello Stato. La rivista era e rimarrà sicuramente un luogo di dibattito aperto ad ogni interpretazione, indirizzo, orientamento culturale, senza preconcetti e senza ideologie, ma con metodo scientifico, come lui l’ha sempre voluta.
Ma lo ricorderemo, altrettanto, per il Suo carattere combattente in ogni occasione della vita, anche quelle più tristi e devastanti, come l’ultima che ha vissuto con tanta forza d’animo, a testa alta e senza mai compatirsi, lavorando fino a quando ha avuto l’ultima energia possibile. Grande forza, lucidità, capacità di approfondimento, emersa in modo netto nell’ultima e bellissima relazione sul sistema universitario svolta nel mese di ottobre scorso al seminario dell’Associazione dei costituzionalisti italiani, di cui era anche Vice Presidente, quando ormai la malattia l’aveva debilitato nel fisico, ma non nella mente e nella sua capacità di dimostrare sempre che il Suo apporto al dibattito costituzionalistico era essenziale.
Combattente in ogni iniziativa, nei tanti referendum che ha seguito nel periodo di grande attività dei radicali, fino al referendum sulla riforma costituzionale del 2016, in cui aveva creduto, pur consapevole dei limiti della riforma. Sempre pronto, comunque, a rialzare la testa, a ripartire con un altro progetto. Là dove c’era un nuovo tema di dibattito, c’era un’iniziativa di Beniamino Caravita, per la curiosità che lo caratterizzava e per il desiderio di capire, di studiare, di approfondire.
Lo ricorderemo anche per la Sua capacità di dubitare, di non avere un’idea preconcetta, ma aperta alle diverse soluzioni possibili, a cui poi arrivava anche ascoltando gli altri.
Avremo tempo per onorarlo nel modo giusto ed adeguato come merita, ma oggi lo ricordo con grande affetto e tanto rimpianto.
Un pensiero speciale alla famiglia con cui ha sempre condiviso i suoi progetti e le sue battaglie.
ROMA LOCUTA, CAUSA FINITA? SPUNTI PER UN’ANALISI DI UNA RECENTE ACTIO FINIUM REGUNDORUM, IN SENSO CENTRIPETO, DA PARTE DELLA CORTE COSTITUZIONALE.
di Beniamino Caravita di Toritto
Nel ricordo di Beniamino Caravita di Toritto, ripubblichiamo lo scritto che riproduce il testo della Sua relazione tenuta al Convegno di Modanella l'8 e 9 giugno 2019 dedicato, nell'ambito delle Giornate di studio sulla giustizia amministrativa, al tema "Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica".
Giuseppe Chiovenda (e i problemi attuali del nostro processo civile)
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. Ricordo di Giuseppe Chiovenda - 2. I Capisaldi del suo sistema processuale - 3. Segue: L’azione nel sistema dei diritti - 4. Segue: Il rapporto giuridico processuale - 5. Giuseppe Chiovenda e i problemi attuali del nostro processo civile - 6. Giuseppe Chiovenda persona.
1. Ricordo di Giuseppe Chiovenda
Giuseppe Chiovenda nasceva a Premosello (oggi Premosello Chiovenda), un piccolo paese della provincia di Novara, nella Val d’Ossola, il 2 febbraio 1872, da una antica famiglia patrizia[1].
Terminati brillantemente gli studi liceali presso il collegio Rosmini di Domodossola, avrebbe voluto iscriversi alla facoltà di lettere, avendo mostrato fin dall’adolescenza attitudine e interessi per la poesia, ma la famiglia lo convinceva a indirizzarsi su giurisprudenza.
Si iscriveva allora alla Sapienza di Roma, su suggerimento del padre, che faceva l’avvocato, e si laureava in quella università con lode il 5 luglio 1893, discutendo con Vittorio Scialoja una tesi sulle spese nel processo civile romano.
Subito dopo la laurea otteneva l’abilitazione alla professione forense, apriva un proprio studio legale, e veniva nominato vice pretore onorario a Roma.
Sollecitato anche dal suo maestro Vittorio Scialoja, grande romanista e potente docente universitario, Giuseppe Chiovenda, tra il 1894 e il 1899 pubblicava ben quattro saggi di diritto romano, tutti sulle spese processuali.
Con essi, Giuseppe Chiovenda si rendeva difensore della tradizione romanista e degli studi storici, soprattutto attraverso l’uso e l’analisi della dottrina tedesca[2]; nel 1900, poi, trasformava quei saggi in una monografia e con essa chiedeva ed otteneva la docenza per titoli.
Nell’anno accademico 1900-1901 teneva il suo primo corso da libero docente a Roma, con una prolusione dal titolo Le forme nella difesa giudiziale del diritto, prolusione con la quale si faceva difensore del processo civile austriaco elaborato da Franz Klein, ovvero la Zivilprozessordnung del 1895.
Nel 1901 pubblicava in versione definitiva la sua monografia sulle spese giudiziali civili, e il 3 maggio dello stesso anno vinceva il concorso per la cattedra di Parma.
A Parma, il 5 dicembre 1901, teneva una nuova prolusione dal titolo Romanesimo e germanesimo nel processo civile.
Si trattava di un lavoro volto a valorizzare, sempre secondo gli insegnamenti di Vittorio Scialoja, l’influenza del diritto romano e della dottrina tedesca nel nostro processo civile, tanto che in quello studio Giuseppe Chiovenda arrivava a scrivere, fra le varie riflessioni, che: “la legislazione e la scienza ci hanno ricondotto al diritto romano puro”.
Sempre a Parma Giuseppe Chiovenda pubblicava poi un volume ad uso degli studenti dal titolo Lezioni di diritto processuale civile, e l’anno successivo, ovvero nel 1902, a seguito della morte di Giuseppe Manfredini, veniva chiamato ad insegnare Procedura civile e ordinamento giudiziario a Bologna, alla giovane età di 31 anni.
A Bologna teneva una nuova prolusione il 3 febbraio 1903 dal titolo L’azione nel sistema dei diritti, una prolusione diventata poi celebre, e considerata una svolta epocale nello studio del processo civile, anzi indicata come il passaggio dalla Procedura civile al Diritto processuale civile[3].
Nel 1905 Giuseppe Chiovenda veniva chiamato alla cattedra di Napoli e, subito dopo, infine, nel 1907, a quella di Roma, ove rimaneva fino alla morte.
Iniziava a pubblicare i Principi di diritto processuale civile, che, dopo una prima edizione del 1906, ne faceva seguire altre nei successivi anni, 1908, 1912, 1923, 1928.
Ai Principi seguivano poi le Istituzioni, che lo stesso Giuseppe Chiovenda, nella prefazione, considerava “derivazione dell’opera mia precedente, Principi di diritto processuale civile”.
1.1. Giuseppe Chiovenda si occupava, altresì, di alcuni progetti di riforma del processo civile in discussione in quell’epoca.
Nel 1918, subito dopo la grande guerra, veniva nominata una commissione ministeriale per la riforma del codice di procedura civile e Giuseppe Chiovenda, chiamato a presiederla, scriveva un articolato di 204 punti, raggruppati in cinque titoli, e una dotta relazione, del 1919, che oggi si trova nei Saggi[4].
Il modello ispiratore, di nuovo, era il processo civile austriaco, ma il progetto riformatore non andava in porto.
A seguito dell’avvento del fascismo, il nuovo Ministro della Giustizia Aldo Oviglio istituiva anch’egli una nuova commissione per la riforma dei codici, e la terza sottocommissione, che si occupava del codice di procedura civile, veniva posta sotto la presidenza di Ludovico Mortara; a Giuseppe Chiovenda veniva assegnato solo il ruolo di vicepresidente.
Ludovico Mortara dava incarico di redigere la bozza di un nuovo codice a Francesco Carnelutti e Giuseppe Chiovenda, mortificato dall’andamento delle cose, pochi mesi dopo, e sempre nell’anno 1924, dava le dimissioni.
Dopo il 1924 non avrà più alcun incarico, anche perché inviso al fascismo e al nuovo Ministro della Giustizia Alfredo Rocco, suo antico avversario accademico.
In quell’anno, tuttavia, insieme a Francesco Carnelutti, fondava a Padova la nuova Rivista di diritto processuale civile.
1.2. Giuseppe Chiovenda esercitava con successo l’avvocatura nel corso di tutta la sua vita, ed ebbe numerosi e valorosi allievi, che ne esaltarono l’opera e la personalità, anche dopo la sua morte, avvenuta il 7 novembre 1937.
Tra questi allievi ricordo Enrico Tullio Liebman, Antonio Segni e Virgilio Andrioli[5].
2. I Capisaldi del suo sistema processuale
Credo si possa affermare, senza timore di essere smentiti, che il Sistema di diritto processuale civile di Giuseppe Chiovenda, si basa, principalmente, da una parte sulla teoria dell’azione, e dall’altra su quello del rapporto giuridico processuale[6].
È lo stesso Chiovenda che ha la premura di sottolineare ciò.
Nella prefazione dei Principi di diritto processuale civile, Giuseppe Chiovenda avvertiva: ”Il concetto di azione, inteso come autonomo potere giuridico di realizzare per mezzo degli organi giurisdizionali l’attuazione della legge in proprio favore, e il concetto del rapporto giuridico processuale, o sia di quel rapporto giuridico che nasce fra le parti e gli organi giurisdizionali dalla domanda giudiziale, indipendentemente dall’essere fondata o no, sono i due capisaldi del mio sistema”.
Dunque, teoria dell’azione e rapporto giuridico processuale, sono, per lo stesso Chiovenda, i capisaldi del suo sistema; dal che è su questi due capisaldi, che peraltro mi sembrano colmi di spunti di riflessione con riferimento alla situazione attuale della nostra giustizia civile, che desidero aggiungere qualche piccola cosa[7].
3. Segue: L’azione nel sistema dei diritti
Il tema dell’azione interessava Giuseppe Chiovenda fin dalla più giovane età.
Egli infatti scriveva un primo contributo sull’argomento dal titolo Azione, sul Dizionario pratico del diritto privato diretto da Vittorio Scialoja[8], saggio che deve collocarsi agli inizi del ‘900, quando Giuseppe Chiovenda aveva appena 28 anni. Tornava poi sull’argomento nella stesura delle Lezioni di diritto processuale civile, scritte per l’anno accademico parmense del 1901/2[9], ove forniva una nozione dell’azione richiamando la posizione di Adolf Wach[10], e infine completava lo studio dell’argomento con la celeberrima prolusione bolognese del 3 febbraio 1903[11].
Giuseppe Chiovenda aveva all’epoca 31 anni, era quindi ancora giovanissimo, e la prolusione ha infatti le caratteristiche di un’opera giovanile.
Si pensi che il saggio è composto da un testo di 23 pagine, cui poi seguono ben 74 pagine di note, e le note sono scritte in forma assai più piccola rispetto al testo.
Il saggio trattava le “Varie significazioni di azioni nel diritto positivo”, e ripercorreva le discussioni dottrinali di Windscheid-Muther, di Hasse, di Bulow, di Degenkolb, di Wach, di Hellwig, per arrivare ad affermare che “L’azione è dunque a mio parere un diritto potestativo”, ed è “il diritto di porre in essere la condizione per l’attuazione della legge”[12].
Tale diritto, per Giuseppe Chiovenda, è autonomo rispetto al diritto sostanziale che viene fatto valere nel processo, ed è un diritto che l’attore ha nei confronti della controparte, e non dello Stato, come invece sostenevano Muther e Wach.
Infine, il saggio concludeva con frasi che avevano però poco, a mio sommesso parere, di conclusivo, o comunque dalle quali difficilmente poteva attribuirsi alla prolusione quel carattere rivoluzionario cui poi si è invece attribuito.
Queste le conclusioni: “Abbiamo anzi veduto come il processo sia lo svolgimento d’un rapporto di diritto pubblico, almeno tra il giudice e lo Stato. Ogni atto del processo ci presenta l’uno e il trino…attribuire il processo più all’uno che all’altro è rimpiccolirlo. Tutte le leggi giuridiche, da quelle che governano l’interesse del singolo a quelle che regolano il potere sovrano dello Stato, e le loro ragioni storiche e logiche, s’agitano e vivono nel processo civile: esso appare veramente nel mondo giuridico come il punto al qual si traggon d’ogni parte i pesi”[13].
3.1. Al suo esordio, L’azione nel sistema dei diritti trovò infatti scettici i processualisti del tempo[14], ma questo non impedì a Giuseppe Chiovenda di tornare alla teoria dell’azione in più occasioni successivamente; e, direi, egli perfezionava e chiariva la sua posizione nei Principi e poi nelle Istituzioni[15].
Dunque, se vogliamo farci una idea più precisa dell’azione chiovendiana, possiamo leggere i passi che egli vi dedicava proprio nei Principi, poi riportati anche nelle Istituzioni.
Scriveva Giuseppe Chiovenda: “Dominava allora una concezione tutta privata del processo, che veniva considerato come un semplice strumento a servizio del diritto soggettivo, come un istituto meramente pedissequo al diritto sostanziale, come un rapporto esso stesso di diritto privato. La prima conseguenza di questo modo generale d’intendere il processo si manifestava nella dottrina dell’azione. Si considerava l’azione come un elemento del diritto stesso dedotto in giudizio, come il potere, inerente al diritto stesso, di reagire contro la violazione. Si confondevano cioè due entità, due diritti assolutamente distinti fra loro. Al contrario, l’azione è un potere di realizzazione della volontà concreta della legge”[16].
Date, dunque, le ragioni per le quali era necessario voltare la pagina[17], ovvero quelle di superare la logica privatistica del processo civile tipica dell’800, Giuseppe Chiovenda le individuava nel passaggio tra l’azione quale diritto astratto di agire, all’azione quale diritto potestativo idoneo a provocare l’attuazione della volontà di legge.
Si riporta ancora quanto Giuseppe Chiovenda scriveva sul punto: “Devono invece considerarsi come una esagerazione non accettabile dell’idea dell’autonomia dell’azione quelle teorie che, in un modo o nell’altro, si ricollegano al concetto del c.d. diritto astratto di agire, inteso come semplice possibilità giuridica d’agire in giudizio, indipendentemente dall’esito favorevole. Non v’è dubbio che ognuno abbia la possibilità materiale e anche giuridica di agire in giudizio ma questa mera possibilità non è ciò che sentiamo come azione. Quanto a me, definii l’azione come un diritto potestativo….. e si dice che questo singolo ha azione intendendosi dire con ciò che egli ha il potere giuridico di provocare colla sua domanda l’attuazione della volontà di legge. L’azione è pertanto il potere giuridico di porre in essere la condizione per l’attuazione della volontà della legge. La quale definizione, a ben guardare, coincide con quella delle fonti nihil aliud est actio quam ius persequendi iudicio quod sibi debetur”[18].
3.2. Quindi, è vero che Giuseppe Chiovenda aveva una visione pubblica della funzione giurisdizionale, perché ciò è quanto emerge in modo chiaro dalle sue stesse parole; tuttavia questa visione non costituiva una svolta autoritaria in grado di limitare i diritti processuali delle parti e spostare il fulcro della tutela dei diritti dalla lite dei privati all’autorità dello Stato.
Seppur queste mie siano semplici, piccole riflessioni, prive di pretese, poiché è evidente che, altrimenti, l’argomento necessiterebbe di ben altri approfondimenti[19], ritengo tuttavia sia da escludere che il nome di Giuseppe Chiovenda possa esser utilizzato per giustificare concezioni pubblicistiche della funzione giurisdizionale civile oltre una certa misura.
In sostanza, se vogliamo sintetizzare il problema, Chiovenda spostava solo la funzione del processo dal c.d. diritto astratto di agire alla attuazione della volontà di legge.
È evidente che bisogna allora intendersi sul significato da attribuire al concetto di attuazione della volontà di legge:
a) se con questa espressione si intende solo rimarcare la natura pubblica del processo, che tuttavia mantiene la sua funzione ultima di attuazione dei diritti soggettivi delle parti in tutte le ipotesi di mancata cooperazione spontanea dell’obbligato (in quanto, appunto, dinanzi ad ogni lite, la volontà della legge è proprio quella di attribuire o negare i diritti soggettivi dei litiganti), allora la novità, si comprende, non ha particolare carattere rivoluzionario;
b) se al contrario alla frase si vuole attribuire un significato ulteriore, quasi a concepire il giudice in diretto contatto con la legge a prescindere dai diritti e dalle domande delle parti, sovrano di riconoscere o negare le loro pretese anche al di là del diritto privato e sulla base di ragioni pubbliche che, di volta in volta, il giudice possa determinare, questa impostazione è fuori dal sistema di Chiovenda, che direi certamente non ha mai ritenuto, nemmeno lontanamente, di immaginare una simile deriva.
Direi che deduzioni del genere, se a qualcuno ancora oggi venissero in mente, sono escluse dall’analisi dello stesso sistema di Giuseppe Chiovenda, per come ci ricorda anche Andrea Proto Pisani:
aa) in primo luogo è lo stesso Chiovenda che ci indica cosa si deve intendere con l’attuazione della volontà di legge, ed infatti egli sul punto precisa che: “Deve rilevarsi che ponendo lo scopo del processo nell’attuazione della volontà della legge, si esclude ch’esso possa porsi nella difesa del diritto soggettivo. Questa difesa sarà lo scopo, tutto individuale e soggettivo, che si propone l’attore; il processo invece ha lo scopo generale e obiettivo di attuare la legge, e lo scopo dell’attore e del processo coincideranno solo nel caso in cui la domanda sia fondata. Ma la sentenza è sempre attuazione della legge, sia fondata o infondata la domanda; tanto accogliendo quanto respingendo la domanda, la sentenza afferma una volontà positiva o negativa della legge. Così il processo non serve all’una o all’altra parte; serve alla parte che, secondo il giudice, ha ragione”[20]
Dunque, è vero che egli afferma che la volontà di legge si contrappone alla difesa del diritto soggettivo, ma è anche vero che questa contrapposizione, per Chiovenda, si ha solo nelle ipotesi di domande infondate, il che è del tutto evidente; ma se la domanda è fondata, una contrapposizione tra diritto soggettivo e concreta volontà di legge non può porsi, e dunque il processo, seppur funzione pubblica dello Stato, serve alla parte che ha ragione.
bb) In secondo luogo, e direi soprattutto, è noto il principio chiovendiano secondo il quale “Il processo deve dare, per quanto è possibile, praticamente a chi ha un diritto, tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire”[21].
È chiaro, così, che per Giuseppe Chiovenda, scopo fondamentale del processo è proprio quello di attribuire alle parti l’attuazione dei diritti che questi vi facciano valere; dal che non è prospettabile che l’immagine pubblicistica dell’attuazione della volontà di legge scalfisca questo dato, in quanto il processo, attuando la legge, deve pur sempre e inevitabilmente avere per scopo quello di attribuire, ancora una volta, a chi ha un diritto, tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire.
cc) Infine, è valore del sistema chiovendiano quello dello strumentalità del processo al diritto sostanziale.
Lo ricorda di nuovo Proto Pisani, il quale riferendosi al sistema chiovendiano, osserva: “in quanto tutto centrato sulla massima strumentalità del processo e sull’esigenza oggi costituzionalmente doverosa della effettività della tutela giurisdizionale”[22].
E allora, se il processo è strumentale al diritto sostanziale, la volontà di legge non comprime i diritti delle parti, anche perché tale concreta volontà di legge, si ha, per Giuseppe Chiovenda, sempre “relativamente a un bene che l’attore pretende da questa volontà garantito”[23].
Ed ancora Giuseppe Chiovenda: “L’azione ha natura privata o pubblica secondo che la volontà di legge di cui produce l’attuazione ha natura privata o pubblica. Per lo più l’azione nasce per il fatto che colui che doveva conformarsi ad una volontà concreta di legge, che ci garantiva un bene della vita, ha trasgredito questa volontà, così che noi ne cerchiamo l’attuazione indipendentemente dalla volontà dell’obbligato”[24].
Quindi, l’attuazione della volontà di legge non pregiudica i diritti soggettivi delle parti, e lo scopo del processo resta quello di riconoscere o negare a chi agisce in giudizio un bene della vita.
4. Segue: Il rapporto giuridico processuale
L’altro caposaldo del sistema processuale, come abbiamo detto, è quello del rapporto processuale.
Giuseppe Chiovenda ci ricorda subito che da Hegel a Behtmann – Hollweg fino a Bulow “il processo civile contiene un rapporto giuridico”, e l’idea, scrive Chiovenda, era già propria del iudicium romano, nonché della definizione che ne davano i nostri processualisti medioevali “Iudicium est actus trium personaru, actoris, rei iudicis”.
Si tratta di un rapporto giuridico di diritto pubblico: “E’ un rapporto autonomo e complesso appartenente al diritto pubblico”[25], e: “durante il processo entrambe le parti hanno diritto al provvedimento, e il giudice è tenuto verso entrambe a questa prestazione”.
Aggiunge poi Giuseppe Chiovenda che se il provvedimento favorevole è per le parti solo una aspirazione: “è invece una vera e propria aspettazione giuridica, cioè un diritto, quella che ciascuna delle parti ha durante il processo relativamente al provvedimento del giudice” [26].
Fissata poi la distinzione tra azione e rapporto giuridico processuale[27], Giuseppe Chiovenda tiene a precisare quali siano i doveri dello Stato, nella persona del giudice, all’interno del rapporto giuridico processuale: “Il dovere fondamentale che forma come l’ossatura d’ogni rapporto processuale, è, come si è visto, il dovere del giudice di provvedere sulle domande delle parti. A questo corrisponde il dovere di fare tutto ciò che è necessario nel caso concreto per provvedere. Questo dovere fa parte dell’ufficio del giudice, spetta cioè certamente al giudice verso lo Stato. E’ poi praticamente ozioso discutere se il giudice è obbligato anche verso le parti, e se il giudice è obbligato di fronte alle parti come persona o come organo dello Stato. Certo le parti hanno di fronte al giudice, come persona, il potere giuridico di porlo con le loro domande nella giuridica necessità di provvedere”[28].
Dunque, per Giuseppe Chiovenda il giudice non ha solo il dovere di provvedere, ma ha altresì, come persona… il dovere di fare tutto ciò che è necessario nel caso concreto per provvedere.
5. Giuseppe Chiovenda e i problemi attuali del nostro processo civile
Il Parlamento ha approvato in questi giorni una legge delega di riforma del processo civile.
Questa riforma ha come scopo principale quella della riduzione del tempi del processo e come strumenti per raggiungere un simile obiettivo quelli dell’incentivazione delle procedure ADR, e soprattutto della mediazione, e quella del potenziamento dell’ufficio del processo, ovvero di un ufficio composto da giudici onorari e da giovani laureati assunti a tempo determinato, chi aiutino il giudice studiando i fascicoli, facendo ricerche di giurisprudenza, individuando i punti di mediabilità (è questa la parola usata dalla legge!) della lite, stendendo i verbali, aiutandolo nell’assunzione dei mezzi istruttori, e, infine, predisponendo bozze dei provvedimenti.
Precisamente:
- è stata estesa e rafforzata la mediazione, anche nella sua condizione di procedibilità della domanda, e anche nelle ipotesi in cui la stessa sia demandata al giudice; ad essa sono poi stati riconosciuti incentivi ed agevolazioni fiscali; inoltre si è di previsto che il giudice possa, oltreché mandare sempre in mediazione le parti, anche formulare proposte di conciliazione fino al momento in cui trattiene la causa in decisione.
- Si è prevista la necessità di dare nuove sanzioni contro chi “abusi” del diritto di azione e di difesa.
- Si sono ulteriormente ridotti i casi nei quali il Tribunale pronuncia in composizione collegiale, e si è potenziato e interamente ri-disciplinato, appunto, il c.d. Ufficio del processo.
Sostanzialmente, sembra che il processo civile non abbia più il compito di attuare i diritti soggettivi dei privati ma piuttosto quello di gestire e valutare le posizioni dei litiganti in un’ottica più generale.
La parte, precisamente - sembra e si ha la sensazione- non deve insistere oltre una certa misura nella tutela dei suoi diritti, ne’ avere sicuro e libero accesso alla decisione giurisdizionale, perché ciò costituisce atteggiamento in contrasto con lo spirito che oggi deve invece darsi tra litiganti.
La parte, infatti, e tutto al contrario, deve preferibilmente mediare, ovvero trovare un accordo che soddisfi l’esigenza del contenimento delle liti, e ciò anche a costo di qualche sacrifico.
Se poi, al contrario, la parte sceglie di volere in tutti modi il riconoscimento giudiziale del suo diritto, va da sé che questo non gli può essere impedito, tuttavia in questi casi la funzione giurisdizionale non potrà essere nella sua interezza resa da magistrati ordinari e togati, e vi provvederà, in gran parte, per ragioni di economia, l’ufficio del processo, ovvero un gruppo di giovani usciti dall’università, senza alcuna esperienza professionale, assunti a tempo determinato con compensi economici simbolici.
Quanto tutto questo sia in contrasto con il sistema processuale di Giuseppe Chiovenda, e quindi in contrasto con la nostra stessa storia, non v’è bisogno che io lo dimostri, e balza, credo, agli occhi, anche solo in base a quanto sopra ho cercato di riassumere:
a) in primo luogo, se il rapporto tra mediazione e tutela giurisdizionale è rovesciato, e ciò nel senso che la regola della tutela dei diritti è oggi la mediazione e l’eccezione la giurisdizione, allora la tutela dei diritti non è più normalmente in grado di porsi quale strumento dei diritti soggettivi sostanziali, e viene meno quella funzione del processo che Giuseppe Chiovenda aveva individuato con l’Azione nel sistema dei diritti.
Se infatti il “centro” è la mediazione e non il processo, allora la Attuazione della volontà di legge si perde, poiché la mediazione, per sua stessa natura, consistendo in reciproche rinunce tra le parti, non è mai in grado di attribuire a chi ha un diritto, praticamente tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire.
Se poi si pensa che v’è addirittura chi attribuisce un valore morale a questo atteggiamento rinunciatario, allora è del tutto evidente che la teorica dell’azione chiovendiana è saltata.
b) Ma se la centralizzazione della mediazione contrasta con L’azione nel sistema dei diritti, la nuova disciplina dell’ufficio del processo contrasta con i principi del Rapporto giuridico processuale.
Per Giuseppe Chiovenda, come abbiamo visto, l’azione instaura un rapporto processuale tra parti e giudice, e da questo rapporto processuale discendono “diritti e doveri tra loro”[29].
In particolare è chiaro che per Giuseppe Chiovenda il rapporto processuale attribuisce dei doveri al giudice, cosicché, appunto, il processo crea “il dovere del giudice di provvedere sulle domande delle parti”, e a questo “corrisponde il dovere di fare tutto ciò che è necessario nel caso concreto per provvedere”.
E che questo sia un dovere personale del giudice, Giuseppe Chiovenda lo dice in modo chiaro: è un dovere che il giudice ha come persona.
Del resto, la conclusione è del tutto evidente se solo si pensa che, in forza della nostra Costituzione, la giustizia è amministrata in nome del popolo, cosicché va da sé che la stessa non possa essere delegata; e relegare invece il giudice a sole funzioni di controllo di attività compiute da altri, così distanziandolo dalla lite e dai litiganti, è certamente un degrado della giurisdizione, ed è una rottura di quei diritti/doveri che discendono dal rapporto giuridico processuale per come Giuseppe Chiovenda, e poi tutta la dottrina processualistica, lo aveva posto.
6. Giuseppe Chiovenda persona
Non posso chiudere questo mio breve scritto senza ricordare Giuseppe Chiovenda persona.
La figlia Beatrice Canestro Chiovenda, in una lettera inviata ad Andrea Proto Pisani per la ristampa dei Saggi, ringraziava per la nuova edizione, ed aggiungeva: “emergerà così il lato umano, forse poco conosciuto dagli studiosi del diritto, della personalità di mio Padre, poeta, umanista e letterato, orgoglioso dei successi della scienza italiana, e testardo montanaro, come amava definirsi, ossolano sempre sollecito degli interessi della gente della sua Valle, che aiutò con opere e consigli”.
E Arturo Carlo Jemolo, per commemorare la scomparsa di Giuseppe Chiovenda presso l’Accademia dei Lincei nel 1938, usava queste parole: “La passione per l’arte -che, quasi bambino, gli aveva fatto scrivere una tragedia in versi, Corradino di Svevia, recitata al collegio rosminiano di Domodossola- lo accompagnò per tutto il cammino della sua vita”[30].
Dunque, Giuseppe Chiovenda non fu solo uno studioso del processo civile, non trascorse l’intera sua vita sui libri, ne’ impiegò tutta la sua gioventù, come qualcuno ha creduto, dietro il diritto romano e la dottrina tedesca; proprio Franco Cipriani ricordava che Giuseppe Chiovenda, dopo la laurea, a Roma, frequentava il cenacolo di Ugo Fleres, collaborava alla rivista Ariel. ed era un assiduo frequentatore del teatro Costanzi[31].
Se si pensa che Giuseppe Chiovenda ebbe la sfortuna di perdere presto i genitori, la madre addirittura nel corso dell’infanzia, e il padre, nel 1891, quando aveva solo 19 anni, ciò fa di questi aspetti qualcosa di ancora più prezioso e significativo.
6.1. Nell’anno della morte del padre, Giuseppe Chiovenda pubblicava una scelta di poesie, e poi, tre anni dopo, ovvero nel 1894, una ulteriore raccolta di versi, Agave.
La figlia raccontava del padre che, oltre il diritto e la poesia, amava la musica, l’equitazione e la scherma, tanto che, da studente universitario, fece una volta Premosello - Roma quasi interamente a cavallo, e che, ancor dopo i cinquant’anni, si teneva in forma tirando di scherma in una palestra romana.
Egli, inoltre, nel 1901, fu insignito della medaglia d’argento al valor civile per l’opera generosamente prestata in occasione dell’alluvione che colpì Premosello, e nel 1927, con una cospicua somma inaspettatamente ottenuta con la vincita di una causa, fondò l’ospedale di Premosello.
Si dice anche che Giuseppe Chiovenda amava fare escursioni sul monte Rosa, amava la pesca, la caccia, le fotografie (che sviluppava da sé), le bocce, il pianoforte, il violino, il teatro, le automobili: uno dei primissimi, infatti, ad ottenere la patente, e l’unico professore della facoltà giuridica di Roma a guidare la macchina, una rarità in quegli anni.
6.2. Nel 1992, ovvero a centoventi anni dalla nascita di Giuseppe Chiovenda, gli studiosi di storia patria della Val d’Ossola pubblicavano un volume, Scritti ossolani.
Quel volume contiene due scritti di Giuseppe Chiovenda.
a) Uno è del 1913 e s’intitola: La pesca nel Toce e i diritti degli ossolani.
Con quello scritto, un vero e proprio saggio giuridico, Giuseppe Chiovenda prendeva la difesa dei diritti degli ossolani di pescare nel Toce, come avevano sempre fatto, contro la Casa Borromeo, antica feudataria della Val d’Ossola, che al contrario pretendeva che i pescatori ottenessero da lei il permesso, secondo regole risalenti ai diritti feudali.
Per quel saggio, che negava l’esistenza delle pretese della Casa Borromeo, Giuseppe Chiovenda non si aspettava ne’ un onorario, ne’ un ringraziamento; tuttavia si racconta che un giorno sentì bussare alla sua porta e, apertala, vi trovò un folto gruppo di ossolani, che erano andati in delegazione a ringraziare il professore, donandogli un servizio di piatti commissionato espressamente per lui.
Giuseppe Chiovenda tenne quel servizio tra le cose più care, da usare solo per le grandi occasioni; quel servizio si trova ancor oggi conservato nella casa di Premosello – Chiovenda.
b) L’altro scritto è del 1917, Il diritto del Comune di Mergozzo sopra il lago omonimo.
Questo scritto fu occasionato da una contestazione del Genio civile di Novara, del 1912, il quale riteneva di dover considerare demaniale il lago, che viceversa, fino a quel momento, era sempre stato da tutti considerato di proprietà comunale.
Giuseppe Chiovenda decideva allora di occuparsi della questione, rispolverava due giudicati, avutisi nel ‘600: il primo del 19 dicembre 1615, che dichiarava il lago di proprietà del Comune di Mergozzo; il secondo, dell’8 gennaio 1691, il quale ribadiva solennemente il diritto del comune “di godersi del suo lago”.
Dimostrato, poi, che la legislazione italiana riconosceva la species dei laghi di proprietà privata, Giuseppe Chiovenda dimostrava che il lago in questione possedeva tutti i requisiti richiesti dalla legge affinché potesse considerarsi lago privato del Comune di Mergozzo.
Scrive Franco Cipriani in occasione della presentazione del volume Studi Ossolani: “Mi è chiaro infatti che essi (gli scritti) non si spiegano soltanto con la scienza di Giuseppe Chiovenda, ma anche e soprattutto con il suo amore per la sua Terra, per il suo fiume, il suo lago, le sue montagne e i suoi conterranei: in una parola, per la sua Ossola”[32]
6.3. Infine, l’altro aspetto che merita di essere ricordato è quello che Giuseppe Chiovenda si tenne, dal 1922 fino alla sua morte del 1937, lontano dal fascismo[33], ed anzi fu l’unico processualista che sottoscrisse il “Manifesto Croce”, su Il Mondo del 1 maggio 1925, ovvero il documento con il quale gli intellettuali antifascisti denunciavano solennemente al paese e alla comunità internazionale le gravi responsabilità del fascismo e l’abisso verso il quale stavano conducendo l’Italia[34].
Quel documento usciva all’indomani dell’assassinio di Giacomo Matteotti e del discorso tenuto da Benito Mussolini alla Camera dei Deputati il 3 gennaio 1925, ed era da considerare una risposta al precedente documento degli intellettuali fascista coordinati da Giovanni Gentile.
Si leggeva in tal documento che “non è nemmeno quello degl’intellettuali fascisti un atto che risplenda di amor di Patria. è un imparaticcio scolaresco, nel quale in ogni punto si notano confusioni dottrinali e dove, con facile riscaldamento retorico, si celebra la doverosa sottomissione degli individui al tutto”.
Si deve, al contrario: “ravvivare e far intendere in modo più profondo e più concreto al nostro popolo il pregio degli ordinamenti e dei metodi liberali e a farli amare con più consapevole affetto. E forse un giorno, guardando serenamente al passato, si giudicherà che la prova che ora sosteniamo, aspra e dolorosa, era uno stadio che l’Italia doveva percorrere per rinvigorire la sua vita nazionale, per compiere la sua educazione politica, per sentire in modo più severo i suoi doveri di popolo civile”.
Tra i firmatari, oltre Giuseppe Chiovenda, Giovanni Amendola, Carlo Cassola, Luigi Enauidi, Carlo Fadda, Guglielmo Ferrero, Matilde Serao.
Le conseguenze pregiudizievoli che quella firma arrecò a Giuseppe Chiovenda non sono note, tuttavia sempre Franco Cipriani ricorda una vicenda, che mi sembra importante richiamare, a chiusura di questo mio omaggio al maestro.
Nel 1928 Giuseppe Chiovenda veniva invitato a tenere un breve corso di lezioni nella facoltà giuridica di Barcellona.
Ricevuto l’invio il 9 marzo 1928, Giuseppe Chiovenda si rivolgeva al Rettore della propria università per chiedere, suo tramite, alla competenti autorità governative il permesso per potersi recare là.
Il 13 marzo 1928, la richiesta di autorizzazione veniva girata dal Rettore dell’Università al Ministro della Pubblica istruzione, ma questi, invece di autorizzare il trasferimento, contro il quale niente aveva eccepito il Rettore, lo trasmetteva, il 22 marzo 1928, ossia dopo averci pensato (evidentemente) una decina di giorni, addirittura alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, è cioè a Benito Mussolini, osservando che: “Il predetto professore è uno dei firmatari del c.d. manifesto degli intellettuali, tuttavia, a quel che mi consta, ha sempre tenuto una condotta molto riservata e non ha partecipato a contrasti di carattere politico. Dato ciò, io ritengo che, in considerazione dell’alto valore scientifico del prof. Chiovenda, lo si potrebbe autorizzare ad accogliere l’invito rivoltogli dall’Università di Barcellona, tanto più che la sua serietà di studioso dà affidamento che egli si asterrebbe dal fare qualsiasi cenno a questioni di natura politica durante la permanenza in Spagna”.
Benito Mussolini, probabilmente occupatissimo in altre faccende in quel periodo, non rispondeva.
Si arrivava ad aprile, ed ancora nessuna risposta.
Il 12 aprile 1928 il Ministro dell’Istruzione, Pietro Fedele, inviava una ulteriore lettera di sollecito, avvicinandosi i giorni nei quali Giuseppe Chiovenda doveva tenere le sue lezioni a Barcellona.
La risposta arrivava con un telegramma del Ministero degli interni del 27 aprile 1928, ovvero dopo ancora due settimane, ormai, diremmo, a tempo scaduto per potersi recare a Barcellona secondo il calendario didattico che quella università si era data.
Questo lo scarno testo del telegramma: “Questa Presidenza ritiene che non sia opportuno consentire al prof. Giuseppe Chiovenda di recarsi a Barcellona per tenervi corso lezioni”.
Il Ministro dell’Istruzione, quindi, in data 3 maggio 1928, rispondeva finalmente al Rettore dell’Università di Roma, avvertendolo che “non si ravvisa l’opportunità che il prof. Giuseppe Chiovenda si rechi a Barcellona”.
6.4. “Questo fu, in un oscuro periodo di servitù politica e di depressione morale, Giuseppe Chiovenda: grande mente di studioso e insieme altissima coscienza morale; e, per questa fusione di dottrina e di carattere, maestro esemplare di scienza e umanità.
Apparteneva a quella categoria di italiani austeri e pensosi, nemici dell’improvvisazioni dilettantesche, attaccati all’essere più che al parere, per i quali la vita ha un senso di intima serietà e di non ostentata dedizione al dovere”[35]
6.5. “Nel 1937, quando la sua salma si avviò verso il camposanto seguita dagli amici e dai discepoli piangenti, il rettore fascista dell’Università di Roma non partecipò al funerale, ne’ permise che il feretro sostasse nell’atrio dell’Università, per ricevere i tradizionali onori funebri”[36].
[1] Per ogni informazione sulla vita di Giuseppe Chiovenda può vedersi CIPRIANI, Storie di processualisti e di oligarchi, Milano, 1991, 70 e ss.; TARUFFO, Giuseppe Chiovenda, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, Roma, 2013, I, 526; TARELLO, Giuseppe Chiovenda, in Dizionario biografico degli italiani, Treccani, Roma, 1981, vol. 25; MECCARELLI, Giuseppe Chiovenda, Il contributo italiano alla storia del pensiero – Diritto, Treccani, Roma, 2012.
[2] Chi scrive, allievo di allievi di Giuseppe Chiovenda (Virgilio Andrioli e Andrea Proto Pisani), conosce bene questa tradizione, e il valore che la processualistica italiana attribuisce agli studi storici e alla dottrina tedesca.
Io stesso, da giovane, fui mandato per queste ragioni a studiare in Germania, e la mia prima monografia La condanna con riserva, oltre infatti ad essermi stata assegnata perché già oggetto di attenzione da parte di Giuseppe Chiovenda (v. infatti CHIOVENDA, Azioni sommarie. La sentenza di condanna con riserva, ora in Saggi di diritto processuale civile, riedizione a cura di Andrea Proto Pisani, Milano, 1993, I, 121), era dedicata, per oltre la metà, proprio alla ricerca storica (v., infatti, su essa, il parere di Virgilio Andrioli, in L’affetto, l’umanità e l’intransigenza morale di un maestro: Virgilio Andrioli, a cura di Proto Pisani, Napoli, 2019, 150).
[3] GROSSI, Scienza giuridica italiana, Milano, 2000, 61; SATTA, Dalla procedura civile al diritto processuale civile, in Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova, 1968.
[4] CHIOVENDA, Saggi di diritto processuale civile, riedizione a cura di Andrea Proto Pisani, Milano, 1993, II, 1 e ss.
[5] ANDRIOLI, Giuseppe Chiovenda tra Principi e Istituzioni, Scritti giuridici, Milano, 2007, III, 2011.
[6] PROTO PISANI, La tutela giurisdizionale dei diritti nel sistema di Giuseppe Chiovenda, Foro it., 2002, V, 125.
[7] Su questi due capisaldi di Giuseppe Chiovenda v. anche, in questa rivista, SPAZIANI, Chiovenda e il computer. Il processo da remoto e la teoria dell’azione.
[8] Chiovenda, Azione, ora in Saggi, cit., III, 1.
[9] Le Lezioni, sono richiamate da CIPRIANI, Scritti in onore dei Patres, Milano, 2006, 244.
[10] CHIOVENDA, “E’ la forma di attuazione autoritativa del diritto obiettivo, relativamente ad un rapporto ad esso soggetto, e allo scopo della tutela di interessi: di diritto privato” (pag. 42), per poi aderire alla posizione di Gierke, per il quale l’azione spetta solo a chi ha ragione “ogni altro uso è abuso” (pag. 70, in nota) (le citazioni sono richiamate da CIPRIANI, Scritti in onore dei Patres, cit., 244).
[11] CHIOVENDA, L’azione nel sistema dei diritti, ora in Saggi, cit., I, 3.
[12] CHIOVENDA, L’azione nel sistema dei diritti, ora in Saggi, cit., I, 14 e 23.
[13] CHIOVENDA, L’azione nel sistema dei diritti, ora in Saggi, cit., I, 26.
[14] Piero Calamandrei ricordava che il suo maestro Carlo Lessona, a lezione, diceva agli studenti di non aver capito la teoria di Giuseppe Chiovenda sull’azione; e critiche a detta prolusione vennero da numerosi studiosi del periodo: da Vincenzo Simoncelli ad Alfredo Rocco, da Tommaso Siciliani a Vincenzo Galante (v. CIPRIANI, Scritti in onore dei Patres, cit., 256).
Per la posizione sul punto del processualista fiorentino può vedersi comunque CALAMANDREI, La relatività del concetto di azione, Studi sul processo civile, Padova, 1947, V, 1.
[15] Egli stesso, nella prefazione delle Istituzioni, riportando quanto già premesso nei Principi, scriveva: “Personale soprattutto è il mio concetto di azione, o, se così vuol dirsi, la formulazione da me data a quel concetto dell’autonomia dell’azione, che la dottrina germanica ha posto in luce con tanta efficacia. Questa formulazione esposta nella mia prolusione bolognese del 3 febbraio 1903, si ritrovò poi a concordare con quella del Weismann” (CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1933, pag. IX).
[16] CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1933, 17.
[17] Precisava infatti CHIOVENDA: “Più fattori concorsero alla formazione delle moderne teorie. Da un lato il rinnovamento degli studio di diritto pubblico e che avviò gli studiosi a considerare il processo come campo d’una funzione d ‘una attività statale, in cui prevale e domina la persona degli organi giurisdizionali e la finalità dell’attuazione, non tanto dei diritti dei singoli, quanto della volontà della legge. Dall’altro il rinnovamento degli studi di diritto romano: questi studi condussero a differenziare nettamente il diritto alla prestazione nella sua direzione personale determinata (Anspruch, ragione o pretesa), dal diritto di azione, come diritto autonomo tendente alla realizzazione della legge per via del processo. Il riconoscimento di questa autonomia fu completato con Adolf Wach, il quale dimostrò che l’azione è un diritto che sta a sé, e va chiaramente distinto dal diritto dell’attore che tende alla prestazione del convenuto obbligato” (v. ancora, Istituzioni, cit., 18).
[18] CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1933, pagg. 20, 21
[19] Per ogni approfondimento di questi aspetti v. TARELLO, L’opera di Giuseppe Chiovenda nel crepuscolo dello Stato liberale, in Dottrine del processo civile, preso in esame da TARUFFO, Sistema e funzione del processo civile nel pensiero di Giuseppe Chiovenda, Riv. trim. dir. proc. civ., 1986; 215; e LIEBMAN, Storiografia giuridica manipolata, Riv. dir. proc., 1988, 100.
[20] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., pag. 40.
[21] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., pag. 42.
[22] PROTO PISANI, La tutela giurisdizionale dei diritti nel sistema di Giuseppe Chiovenda, cit., 125
[23] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., pag. 35.
[24] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., pag. 21.
[25] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., pagg. 50, 51.
[26] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., 52.
[27] “Altro è dunque l’azione, altro il rapporto processuale; quello spetta alla parte che ha ragione, questo è fonte di diritti per tutte le parti. Altro è poi il rapporto giuridico processuale altro è il rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio. Questo è oggetto di quello” (CHIOVENDA, Istituzioni, cit., 52).
[28] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., 52.
[29] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., 53.
[30] JEMOLO, Commemorazione di Giuseppe Chiovenda, Rendiconti dell’Accademia dei Lincei, XIV, Roma, 1938, 638.
[31] CIPRIANI, Scritti in onore dei Patres, cit., 226.
[32] CIPRIANI, Scritti in onore dei Patres, cit., 296.
[33] V. infatti TARUFFO, Giuseppe Chiovenda, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, cit., 528.
[34] Scriveva CALAMANDREI, Giuseppe Chiovenda, Riv. dir. proc. 1947, 189: “Da allora, anche Giuseppe Chiovenda si trovò ad essere, a poco a poco, un sorvegliato e un isolato: mentre la sua fama era celebrata all’estero, egli, che era indubbiamente in Italia il maestro più insigne di diritto processuale, si trovava messo al bando, come tutti i professori che non avevano voluto iscriversi al partito fascista.
[35] CALAMANDREI, Giuseppe Chiovenda, cit., 293.
[36] CALAMANDREI, Giuseppe Chiovenda, cit., 285.
Spedizioni internazionali rifiuti pericolosi: poteri sovrani dello Stato di importazione e discrezionalità politica dello Stato di esportazione (nota a Cons. Stato, Sez. IV, 26 07 2021 n. 554).
di Simone Francario
Sommario: 1. Osservazioni preliminari sulla disciplina sovranazionale in materia di movimentazioni transfrontaliere di rifiuti pericolosi; 1.1 La convenzione di Basilea del 22 marzo 1989: principi fondamentali e ambito di applicazione; 1.2 La procedura delle movimentazioni transfrontaliere; 1.3 In particolare: il traffico illecito di rifiuti pericolosi e i rimedi previsti dal trattato; 2. La vicenda decisa dal giudice amministrativo; 3 La questione della giurisdizione sugli atti dell’amministrazione tunisina: i poteri sovrani dello Stato di importazione; 4 La questione dell’attivazione dell’arbitrato internazionale: la discrezionalità politica dello Stato di esportazione; 5. Osservazioni conclusive.
1. Osservazioni preliminari sulla disciplina sovranazionale in materia di movimentazioni transfrontaliere di rifiuti pericolosi.
1.1 La Convenzione di Basilea del 22 marzo 1989: principi fondamentali e ambito di applicazione
Il commento della sentenza 554/2021, resa dalla Sezione IV del Consiglio di Stato il 26 luglio 2021 in materia di reimpatrio di rifiuti pericolosi, rende opportuna la preliminare ricostruzione del quadro normativo della disciplina che, a livello sovranazionale disciplina i movimenti oltre frontiera di rifiuti pericolosi e la loro eliminazione, disciplina che ha nella Convenzione di Basilea del 22 marzo 1989 la sua principale fonte [1].
La comunità internazionale ha ritenuto necessario intervenire per regolamentare la materia in quanto, per gran parte del XX secolo, le spedizioni internazionali di rifiuti furono utilizzate come un “escamotage” di alcuni privati e/o Stati per liberarsi di ingenti quantità di rifiuti in danno per lo più di Paesi in via di sviluppo e spesso dietro la corresponsione di compensi irrisori, con grave danno per la salute umana e per l’ambiente[2].
Quando tali eventi furono portati alla luce dalla cronaca, la comunità internazionale ha deciso di porre immediatamente un freno al problema e furono così raggiunti vari compromessi[3].
In primo luogo furono emanate le “Linee direttive e principi del Cairo concernenti la gestione ecologicamente razionale dei rifiuti pericolosi” del 17 giugno 1987, che costituivano uno dei primi accordi internazionali in materia, ma che erano, tuttavia, sprovviste di efficacia vincolante considerato che il loro scopo, come si legge sin dalle prime righe del preambolo, era quello di “[to be] addressed to Governments with a view to assisting them in the process of developing policies for the environmentally sound management of hazardous wastes.”[4]
Successivamente, fu emanata la Convenzione di Basilea del 22 marzo 1989, che rappresenta un primo compromesso/punto d’incontro tra quegli Stati che volevano comunque regolamentare il campo delle spedizioni internazionali di rifiuti pericolosi, ma senza aggiungere troppi freni, e quelli che, d’altro lato, spingevano per una disciplina molto più stringente.
La linea “dura”, se così si può dire, ha poi prevalso nella Convenzione di Bamako stipulata nel 1991 su iniziativa dell’OUA (Organizzazione per l’unità africana), con cui la maggioranza degli Stati africani, rimasti insoddisfatti del compromesso politico raggiunto con la precedente Convenzione di Basilea, ha imposto norme più severe per quanto riguarda l’importazione in Africa di rifiuti pericolosi: ai sensi dell’art. 4 della Convenzione di Bamako, infatti, le Parti devono proibire l’ingresso in Africa di rifiuti pericolosi provenienti da Stati che non sono firmatari di tale trattato[5].
Il quadro normativo si è poi arricchito nel corso del tempo anche con l’emergere di altre normative sovranazionali “regionali”, tra cui, ad esempio, si può citare il Regolamento n. 1013/2006 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 giugno 2006, che abroga la precedente normativa contenuta nel Regolamento 259/93/CEE e nella decisione 94/774/CE, e che si applica alle spedizioni internazionali di rifiuti, pericolosi e non, qualora, tra le altre cose, un Paese appartenente all’Unione Europea sia coinvolto nella movimentazione a qualsiasi titolo (e quindi, sia come Paese di spedizione, che come Paese di transito e/o destinazione) [6].
Sebbene prima facie il sistema normativo di riferimento possa apparire molto frammentario, è bene ricordare che le varie normative internazionali sono in gran parte molto simili tra di loro in quanto, seppure con le dovute differenze, si basano sul modello e sui principi già stabiliti proprio con la Convenzione di Basilea, la quale occupa, pertanto, una posizione di fondamentale importanza.
Il preambolo della Convenzione di Basilea attualmente in vigore consente di individuare i principi generali alla base delle procedure ivi previste[7].
Nella parte introduttiva del Trattato internazionale innanzitutto si afferma, con una certa enfasi, che il movimento oltre frontiera di rifiuti pericolosi o di altri rifiuti, la loro gestione ed eliminazione deve avvenire nel rispetto della salute umana e dell’ambiente[8]; si evidenzia il “diritto sovrano [di ogni Stato] di vietare l’entrata o l’eliminazione, sul suo territorio, di rifiuti pericolosi e di altri rifiuti provenienti dall’estero”;[9] si ribadisce il principio di riduzione al minimo della produzione, pericolosità e movimentazione dei rifiuti[10]; si afferma il principio del previo consenso informato per cui i movimenti oltre frontiera di rifiuti pericolosi possono essere autorizzati soltanto se, oltre a svolgersi nel rispetto della salute umana e dell’ambiente, “sono effettuati […] in modo conforme alle disposizioni della presente Convenzione”[11]; si riconosce altresì la crescente tendenza a “voler vietare i movimenti oltre frontiera di rifiuti pericolosi e la loro eliminazione in altri Stati, in particolare nei Paesi in via di sviluppo” i quali “dispongono di una capacità limitata di gestione dei rifiuti pericolosi e di altri rifiuti” e che pertanto “è necessario promuovere il trasferimento, soprattutto verso i Paesi in via di sviluppo, di tecniche destinate ad assicurare una gestione razionale dei rifiuti pericolosi e di altri rifiuti prodotti localmente”[12]; e si evidenzia, infine, anche che la gestione ed eliminazione dei rifiuti deve essere ispirata al principio di prossimità, in base al quale “i rifiuti pericolosi e gli altri rifiuti, nella misura in cui ciò è compatibile con una gestione ecologicamente razionale ed efficace, dovrebbero venir eliminati nello Stato in cui sono prodotti”[13].
Successivamente, la Convenzione, utilizzando un criterio formalistico, si occupa di definire il suo ambito di applicazione e a tal fine l’art. 1, letto in combinato disposto con l’art. 3, prevede che essa si applichi nei confronti dei rifiuti qualificati come pericolosi dagli allegati alla Convenzione stessa o dalle legislazioni delle Parti[14].
1.2 La procedura delle movimentazioni transfrontaliere
Per quanto riguarda la disciplina vera e propria dei movimenti oltre frontiera di rifiuti pericolosi la Convenzione di Basilea, dunque, non ne impedisce tout court le movimentazioni[15] , ma, al contrario, pare più corretto affermare che le esportazioni di tali beni siano consentite solo nel rispetto della procedura e delle garanzie ivi previste[16].
Ad esempio, in applicazione del principio di prossimità, l’art. 4, comma 9, prevede che le movimentazione oltre frontiera di rifiuti pericolosi e di altri rifiuti possono essere autorizzate solamente “se lo Stato di esportazione non dispone dei mezzi tecnici e degli impianti necessari o dei siti di eliminazione richiesti per eliminare i rifiuti in questione secondo metodi ecologicamente razionali ed efficaci, oppure se i rifiuti in questione sono necessari come materia prima per l’industria del riciclaggio o del recupero nello Stato di importazione.” [17]
Ad ogni modo, la garanzia più importante prevista dalla Convenzione di Basilea, come anticipato nell’analisi dei principi fondamentali contenuti nel preambolo, consiste nel fatto che le movimentazioni transfrontaliere dei rifiuti pericolosi devono svolgersi sulla base di una procedura che si basa, essenzialmente, sul principio del previo consenso informato[18]: i Paesi coinvolti nella spedizione devono autorizzare in via preventiva tale movimentazione, e nel fare ciò devono seguire le modalità elencate nella Convenzione di Basilea, pena l’illegalità della spedizione.
Innanzitutto, ciascuna parte deve designare, ai sensi dell’art. 5, una o più “autorità competenti” [19] le quali hanno il compito di ricevere e rispondere a tutte le notificazioni relative alle movimentazioni di rifiuti pericolosi, così come sono deputate a ricevere ogni informazione relativa a tali spedizioni.
L’art. 5, inoltre, prevede che le parti designino anche una “autorità corrispondente”, la quale ha essenzialmente il compito di ricevere e inoltrare alle altre parti altro tipo di informazioni[20].
Il successivo art. 6 disciplina l’intera procedura autorizzatoria di previo consenso informato: lo Stato di esportazione deve notificare, tramite la propria autorità competente, all’autorità competente dello Stato di importazione e degli Stati di transito ogni movimento di rifiuti pericolosi, oppure può esigere che tale compito sia svolto dal produttore o dall’esportatore.
Tale notifica deve essere accompagnata da un documento contenente le dichiarazioni e informazioni specificate nell’allegato V-A come, ad esempio, il motivo dell’esportazione dei rifiuti, l’esportatore dei rifiuti, il produttore o i produttori dei rifiuti e il luogo di produzione, l’eliminatore dei rifiuti e il luogo effettivo dell’eliminazione, denominazione e descrizione fisica dei rifiuti, dichiarazione del produttore e dell’esportatore attestante l’esattezza delle informazioni e informazioni concernenti il contratto concluso tra l’esportatore e l’eliminatore.
In questo modo allo Stato di importazione vengono fornite tutte le informazioni necessarie per decidere se dare “conferma per iscritto a chi ha inviato la notifica di averla ricevuto e nel contempo consente al movimento, con o senza riserva, oppure nega l’autorizzazione a procedere al movimento, oppure chiede un complemento d’informazione” (art. 6, par. 2)[21].
Le autorizzazioni rilasciate dai Paesi di importazione e di transito costituiscono nel meccanismo delineato dal trattato il presupposto necessario e fondamentale affinché il Paese di esportazione possa autorizzare l’esportatore a spedire i rifiuti pericolosi oltre frontiera.
Infatti lo Stato di esportazione autorizzerà l’esportatore ad iniziare il movimento oltre frontiera “soltanto dopo aver ricevuto la conferma scritta che l’autore della notifica ha ricevuto il consenso scritto dello Stato di importazione”.[22]
Allo stesso modo anche l’autorizzazione del Paese di transito costituisce un presupposto necessario dell’autorizzazione all’esportazione del Paese di spedizione: quest’ultimo, infatti, “autorizza l’inizio del movimento oltre frontiera soltanto dopo aver ricevuto la conferma scritta dello Stato di transito.”[23]
Ciononostante, è al Paese di importazione che spetta l’ultima parola in merito allo svolgimento della spedizione: se manca la sua autorizzazione, allora, “le parti vietano o non permettono l’esportazione di rifiuti pericolosi o di altri rifiuti.”[24]
1.3 In particolare: il traffico illecito di rifiuti pericolosi e i rimedi previsti dal trattato
Tra le ragioni principali che hanno portato alla stipulazione della Convenzione di Basilea, si è visto, vi è la ferma intenzione delle parti firmatarie di contrastare il fenomeno delle movimentazioni illegali ed incontrollate di rifiuti pericolosi tra più Stati, in quanto estremamente dannoso per la salute umana e per l’ambiente.
Si da atto, infatti, già nel preambolo che la comunità internazionale è seriamente preoccupata dal problema del traffico illecito oltre frontiera di rifiuti pericolosi e di altri rifiuti[25], e a tal fine la Convenzione si occupa anche di fornire alcuni strumenti giuridici per prevenire e risolvere tale eventualità.
Innanzitutto viene fornita la definizione della fattispecie di traffico illecito di rifiuti pericolosi o di altri rifiuti, per tale intendendosi, ai sensi dell’art. 9, una qualsiasi movimentazione oltre frontiera effettuata in assenza della notifica; senza il consenso degli Stati interessati; senza il reale consenso degli Stati interessati in quanto ottenuto mediante falsificazioni o frode; oppure quando non è materialmente conforme ai documenti; o, infine, quando comporta una eliminazione deliberata dei rifiuti pericolosi o di altri rifiuti in violazione delle disposizioni del trattato e dei principi generali del diritto internazionale.
Ciò posto, la Convenzione di Basilea offre una soluzione diversa a seconda di chi sia l’autore del traffico illecito di rifiuti pericolosi.
Se il movimento oltre frontiera di rifiuti pericolosi è considerato traffico illecito a causa del comportamento dell’esportatore allora lo Stato di esportazione, in primo luogo, provvede affinché i rifiuti in questioni siano rimpatriati e, in secondo luogo, solo se il rimpatrio dei rifiuti non è di fatto possibile, si adopera affinché i rifiuti siano eliminati in altro modo e in maniera conforme alle disposizioni del trattato[26].
In questi casi, la Convenzione di Basilea precisa, “le parti interessate non si oppongono al ritorno di tali rifiuti nello Stato di esportazione, né lo ritardano o lo impediscono.”[27]
Se, invece, l’illegalità della spedizione è causata dal comportamento dell’importatore o eliminatore, spetta invece allo Stato di importazione provvedere affinché i rifiuti in questione vengano eliminati in modo ecologicamente razionale dall’importatore o dall’eliminatore o, in caso, anche dallo stesso Paese di destinazione.[28]
Infine, qualora la responsabilità del traffico illecito di rifiuti pericolosi non possa essere addossata all’esportatore, al produttore, all’importatore o all’eliminatore, le Parti interessate cooperano per eliminare tali rifiuti il più presto possibile e secondo metodi ecologicamente razionali all’interno dello Stato di esportazione, o di importazione o altrove.[29]
In aggiunta a tali rimedi, che sono riservati al caso in cui si verifichi una spedizione illecita di rifiuti pericolosi, la Convenzione di Basilea contiene anche ulteriori modi di risoluzione delle controversie che hanno valenza generale.
Innanzitutto, il primo comma dell’art. 20 pone la regola generale per cui se dovesse sorgere una questione circa l’interpretazione, applicazione o osservanza della Convenzione o di uno dei suoi protocolli le Parti “si sforzeranno di dirimere la controversia mediante trattive o qualsiasi altra via pacifica di loro scelta.”
In subordine, ai sensi del secondo comma, se le Parti non riescono a raggiungere un accordo tramite le modalità del primo comma, queste possono ricorrere a due strade diverse (che pare siano alternative): possono adire la Corte Internazionale di Giustizia, oppure possono avviare una procedura arbitrale alle condizioni definite nell’allegato VI alla Convenzione di Basilea; sempre al secondo comma, come norma di chiusura, poi, si stabilisce che “se le Parti non pervengono ad un accordo per sottoporre il caso alla Corte Internazionale di Giustizia o a una procedura arbitrale, ciò non le esime dalla responsabilità di continuare a tentare di risolvere la controversia con i mezzi indicati nel paragrafo 1.”
2. La vicenda decisa dal giudice amministrativo.
Nel contesto normativo sopra ricostruito s’inquadra la vicenda adesso decisa in appello dal giudice amministrativo, che riguarda appunto una peculiare ipotesi di spedizione internazionale di rifiuti pericolosi che non si conclude felicemente in quanto, una volta giunti a destinazione, il Paese di importazione ne ordina l’immediato rimpatrio per violazione delle garanzie e delle procedure previste per le loro movimentazioni stabilite dalla Convenzione di Basilea.
Una società operante nel settore aveva chiesto alla Regione Campania l’autorizzazione per spedire in Tunisia, in più movimentazioni, circa 12.000 tonnellate di rifiuti non pericolosi (classificati come rifiuti non urbani ma speciali) dove sarebbero stati sottoposti a trattamenti di recupero.
Allo stesso tempo, al fine di ottenere l’autorizzazione anche da parte del Paese di importazione, la documentazione relativa a tale spedizione era stata trasmessa anche alle autorità tunisine, in particolare all’ANGED (Agence nationale de Gestion des Déchets), la quale aveva autorizzato l’importazione dei suindicati rifiuti.
Dopo aver ricevuto il consenso dell’ANGED, e dopo aver ricevuto conferma da parte del Consolato di Tunisia a Napoli che l’ANGED fosse l’autorità competente ad esprimersi in merito, la Regione Campania aveva autorizzato l’esportazione dei rifiuti e una prima parte delle movimentazioni si svolge con esito positivo.
Le restanti movimentazioni, tuttavia, venivano bloccate presso il porto tunisino di arrivo in quanto le autorità locali asserivano di aver accertato, tramite un’istruttoria interna non comunicata neanche all’esportatore, che i rifiuti in oggetto erano in realtà rifiuti pericolosi. Secondo l’amministrazione tunisina, questi rientravano nella categoria “rifiuti urbani Y46” di cui alla Convenzione di Basilea, la quale ne vietava le movimentazioni se non nel rispetto di determinate particolari garanzie. Inoltre, sempre secondo l’Autorità tunisina, la direzione regionale dell’ANGED non era l’autorità competente a rilasciare l’autorizzazione per l’importazione di tali rifiuti ai sensi della Convenzione di Basilea.
Sulla base di tali ragioni, il Responsabile del Ministero degli Affari locali e dell’ambiente della Tunisia comunicava all’impresa esportatrice che la spedizione da essa svolta era da ritenersi illegale, e ordinava pertanto il rimpatrio dei rifiuti in Italia.
Conseguentemente all’ordine di rimpatrio emesso dalle autorità straniere, anche la Regione Campania, con un proprio provvedimento, ordinava all’esportatore di ritrasportare i rifiuti in Italia.
L’impresa esportatrice ricorreva a questo punto innanzi al TAR Napoli chiedendo, inter alia, l’annullamento del provvedimento di rimpatrio adottato dalla Regione Campania, l’accertamento della corretta classificazione dei rifiuti e “la condanna delle amministrazioni resistenti all’adozione di misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio anche mediante la tempestiva attivazione procedura risolutiva ex art. 20 della Convenzione di Basilea ai fini della risoluzione sul piano internazionale della controversia”.
Con sentenza il giudice amministrativo di primo grado Rigettato il ricorso di primo grado dichiarando il difetto assoluto di giurisdizione sulle domande proposte dalla ricorrente, la quale, successivamente, proponeva appello al Consiglio di Stato che, con la sentenza che si annota, confermava la pronuncia resa dal TAR.
Dichiarato inammissibile il ricorso per difetto di giurisdizione con sentenza del Tar Napoli, 9 febbraio 2021 n. 834, l’impresa ricorreva in appello al Consiglio di Stato.
Secondo il giudice amministrativo, la complessa e articolata domanda dell’impresa ricorrente si riassumerebbe sostanzialmente in due questioni: se, in considerazione del fatto che il gravato ordine di rimpatrio dalla Regione Campania si basa su atti emanati da una amministrazione straniera, sui provvedimenti adottati dalle autorità tunisine possa ritenersi sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo; se la pretesa della società esportatrice a che lo Stato italiano promuova una procedura di arbitrato internazionale nei confronti della Tunisia ex art 20 della Convenzione di Basilea costituisca una situazione giuridica soggettiva tutelabile in giudizio o meno.
3 La questione della giurisdizione sui provvedimenti emanati dall’amministrazione tunisina: i poteri sovrani dello Stato di importazione .
Secondo il giudice amministrativo, la decisione sull’annullamento dell’ordine di rimpatrio della Regione Campania non può prescindere dall’esame degli atti precedentemente adottati dall’amministrazione tunisina, in quanto, in virtù del meccanismo delineato dalla Convenzione di Basilea, tra i due “è ravvisabile un rapporto di presupposizione necessaria, in ragione del quale l’atto straniero a monte si atteggi[a] come presupposto unico ed imprescindibile dei successivi atti nazionali che, in quanto tali, sono rispetto a quello, meramente consequenziali, ponendosi nell’ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell’atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni di interesse, stante il carattere immediato, diretto e necessario del rapporto che s’instaura tra gli atti considerati.”
Tale considerazione ha portato il giudice a declinare la giurisdizione sulla domanda di annullamento, superando sbrigativamente anche il tentativo dell’appellante di escludere la qualificazione degli atti dell’amministrazione straniera come atti compiuti jure imperii.
In applicazione del noto principio consuetudinario di diritto internazionale “par in parem non habet iudicium”, gli atti compiuti iure imperii dalle autorità straniere godono infatti dell’immunità giurisdizionale da parte degli altri Stati, e ciò rende pacifico che sui provvedimenti emanati dall’amministrazione tunisina non possa sussistere la giurisdizione (amministrativa) del giudice italiano.
Sotto questo profilo, la stessa Convenzione di Basilea non sembra consentire l’esclusione della suddetta qualificazione nel momento in cui si basa sul principio fondamentale per cui è “riconosciuto pienamente ad ogni Stato il diritto sovrano di vietare l’entrata o l’eliminazione, sul suo territorio, di rifiuti pericolosi e di altri rifiuti provenienti dall’estero.”[30]
Ciò costituisce uno dei pilastri su cui è costruita l’intera Convenzione di Basilea e, infatti, esso trova applicazione in gran parte delle disposizioni ivi contenute, tra cui, in particolare, in quelle relative alla procedura autorizzatoria di previo consenso informato ed in quelle relative al rimpatrio dei rifiuti a seguito dell’accertamento dello svolgimento di un traffico illecito ad opera del comportamento dell’esportatore (che in questo caso non aveva rispettato le disposizioni del trattato avendo richiesto l’autorizzazione alla movimentazione ad una autorità straniera incompetente)[31].
Pertanto, quando al verificarsi di una spedizione internazionale illegale lo Stato di importazione ordina il rimpatrio dei rifiuti esso non sta agendo di certo jure privatorum anche se si muove nel contesto internazionale, ma sta esercitando il proprio “diritto sovrano di vietare l’entrata o l’eliminazione sul proprio territorio” di rifiuti pericolosi esteri.
Tanto è vero che quando viene ordinato allo Stato di esportazione di riprendersi i rifiuti spediti, come evidenziato in sentenza, la Convenzione di Basilea “non pone alcuna condizione, prescrizione o limitazione a tale ultimo proposito, ma prevede, anzi, espressamente, che lo Stato di esportazione né si opporrà né ritarderà né impedirà il ritorno dei rifiuti il cui traffico è stato dichiarato illecito.”
Da tanto esposto, secondo il Consiglio di Stato, discende che “a dispetto di quanto censurato dall’appellante, le note provenienti dalla Repubblica di Tunisia si configurano come atti autoritativi e decisori, esercizio di funzioni sovrane, da parte di un altro Stato” sui quali, pertanto, non può sussistere la giurisdizione del giudice amministrativo italiano.
L’assunto, riferito ad atti amministrativi di un’autorità straniera, è sicuramente corretto, ma rimane il fatto che di per sé non spiega l’asserito difetto di giurisdizione sui provvedimenti amministrativi dell’autorità amministrativa nazionale italiana, come si sottolinea meglio di seguito.
4 La questione dell’attivazione dell’arbitrato internazionale. La discrezionalità politica dello Stato di esportazione
La società esportatrice aveva altresì chiesto l’accertamento e la condanna delle Amministrazioni resistenti ad attivare tempestivamente la procedura arbitrale prevista ai sensi dell’art. 20, secondo comma, della Convenzione di Basilea nei confronti della Tunisia.
In relazione a tale domanda il giudice amministrativo, richiamando gli insegnamenti della Corte Costituzionale, ha ritenuto che non è ravvisabile un obbligo del Governo italiano di avvalersi del procedimento arbitrale e di attivare la cooperazione internazionale in quanto tale attività rientra all’interno di “prerogative governative – di natura eminentemente politica – in materia di esecuzione di trattati internazionali.”
Dunque, trattandosi di un atto che il Governo emana nell’esercizio del potere politico, è altresì pacifico che, ai sensi dell’art. 7, co. 1, c.p.a., questo non può essere impugnato davanti al giudice amministrativo.
Sulla base di queste motivazioni, in primo grado, la domanda di attivazione della procedura di arbitrato internazionale veniva dichiarata inammissibile per difetto assoluto di giurisdizione.
Riproposta la questione in appello, il Consiglio di Stato ha ritenuto meritevole di conferma la pronuncia di primo grado ribadendo che “La possibilità di esperire un arbitrato internazionale, previsto dall’art. 20 della Convenzione, si profila come una soluzione rimessa alla scelta politica di ciascuno Stato, rispetto alla quale l’interessato non vanta alcun interesse giuridicamente qualificato. Si tratta infatti di attività chiaramente di natura politica, che involge delicati profili correlati ai rapporti internazionali fra gli Stati, di per sé espressione di una funzione sovrana apicale, libera nel fine e perciò sottratta al sindacato giurisdizionale.”
Sotto questo profilo, il Consiglio di Stato ritiene doveroso chiarire che la declinatoria della giurisdizione del giudice amministrativo anche in relazione alla domanda di arbitrato non lede in alcun modo il diritto di difesa, costituzionalmente garantito, della società esportatrice, in quanto il ricorso al giudice amministrativo nazionale e/o all’arbitrato internazionale non sono le due uniche opzioni esistenti per far valere i diritti dell’esportatore.
La possibile sede per tutelare le proprie pretese, a maggior ragione quando in una fattispecie del genere gli Stati coinvolti hanno deciso di non attivare la procedura arbitrale prevista dalla Convenzione di Basilea, è infatti rappresentata dal foro del Paese di importazione, ossia della Tunisia.
Il Consiglio di Stato si preoccupa al riguardo di precisare che “non va inoltre sottaciuto che il principio affermato dalla pronuncia del T.a.r. non priva di tutela la società odierna appellante, la quale -pienamente consapevole di aver intrapreso un’attività che la pone in contatto con le istituzioni, le procedure e l’ordinamento giuridico di un altro Paese – ben può, conseguentemente, adire gli organi giurisdizionali della Repubblica di Tunisia, per ivi proporre le sue censure e ivi far valere i suoi interessi o i suoi diritti.”
In conclusione, quindi, considerato il ventaglio di opzioni a disposizione dell’esportatore per tutelare le proprie ragioni, e considerato altresì che non è stata data prova di aver esperito le necessarie azioni processuali innanzi agli organi giurisdizionali della Tunisia o che presso queste autorità l’esportatore abbia ricevuto un diniego di giustizia o una decisione non conforme ai principi basilari dell’ordinamento italiano, anche questo motivo di gravame viene respinto e l’appello viene definitivamente rigettato con conferma della sentenza di prime cure.
5. Considerazioni conclusive
Non pare si possa seriamente dissentire dalla soluzione data dal giudice amministrativo alle questioni così come dallo stesso poste.
Ciò che tuttavia non convince nella decisione del giudice amministrativo è, come si è accennato, il fatto che sia praticamente scomparsa la questione della giurisdizione del giudice amministrativo sugli atti dell’amministrazione italiana.
Se infatti è corretto ritenere che il giudice amministrativo italiano sia privo di giurisdizione e non possa quindi sindacare gli atti se questi provengono dall’autorità tunisina, è anche vero che la ricorrente aveva comunque impugnato dinanzi al TAR un provvedimento dell’amministrazione italiana, non tunisina. E che per quanto l’ordine di reimpatrio della Regione Campania potesse e dovesse ritenersi vincolato nel contenuto dalla decisione delle autorità tunisine, esso rimaneva comunque un provvedimento almeno in astratto impugnabile innanzi al giudice amministrativo italiano ai sensi dell’art 113 Cost., il quale come è noto, statuisce che “contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale” e che “tale tutela non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi d’impugnazione o per determinate categorie di atti”.
Già in sede commento della pronuncia di primo grado, si era sotto questo profilo sottolineato che sarebbe stato più corretto dichiarato infondato il ricorso, perché l’atto impugnato non poteva mai avere un diverso contenuto in ragione dell’insindacabile vincolo derivante dalla decisione dell’autorità straniera, piuttosto che declinare la giurisdizione su un provvedimento amministrativo[32].
Se la qualificazione della spedizione come traffico illecito di rifiuti pericolosi e il conseguente ordine di rimpatrio sono atti che lo Stato di importazione compie nell’esercizio di poteri sovrani e di governo e non sono pertanto sindacabili dal giudice amministrativo nazionale del paese di esportazione, non pare che dal riconoscimento dell’immunità giurisdizionale a favore di detti provvedimenti stranieri possa automaticamente discendere il difetto assoluto di giurisdizione anche sulla domanda di annullamento del provvedimento emanato dalla regione Campania.
Infatti, ai sensi del 113 Cost., il provvedimento della Regione Campania dovrebbe essere pur sempre impugnabile.
Secondo il meccanismo delineato dall’art. 9 della Convenzione di Basilea esso appare senz’altro come un provvedimento vincolato nel concreto contenuto, perché l’amministrazione italiana, a fronte dell’ordine di rimpatrio emanato dalla Tunisia, non può “opporsi, ritardare o impedire il rientro” di tali rifiuti, ma, anzi, è tenuta ad adoperarsi affinché i rifiuti tornino in Italia. Ma, se il provvedimento amministrativo non può avere un diverso contenuto, ciò dovrebbe a rigore portare alla pronuncia d’infondatezza del ricorso o semmai alla pronuncia d’inammissibilità per carenza d’interesse ai sensi dell’art 21 octies della l. 241/1990 e s.m.i., non ad una pronuncia di difetto di giurisdizione.
Nulla da eccepire invece con riferimento alla pronuncia declinatoria della giurisdizione con riferimento alla mancata proposizione dell’arbitrato internazionale, poiché appare in realtà pacifico che la ricorrente non possa vantare alcuna situazione giuridica tutelabile in giudizio, in quanto la decisione del Governo di iniziare (o non iniziare) la procedura arbitrale internazionale ex art. 20 della Convenzione di Basilea, costituisce un chiaro atto politico che, come è noto, ai sensi dell’art. 7, co. 1, cpa, non può essere impugnato davanti al giudice amministrativo.
[1] Per un’analisi più generale delle normative sovranazionali in tema di spedizioni di rifiuti pericolosi si rinvia a S. FRANCARIO, Movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi e giurisdizione amministrativa, in www.federalismi.it, n. 16, del 30 giugno 2021.
[2] Tra i tanti, si possono ricordare il caso dei fratelli Colbert i quali compravano da industrie americane rifiuti chimici pericolosi e, invece di eliminarli come rifiuti pericolosi all’interno degli Stati Uniti, li riciclavano, li annacquavano e li vendevano come prodotti chimici vergini a vari Stati Africani (per un’analisi più approfondita si veda S.M. MÜLLER, Hidden Externalities: The globalization of hazardous waste, in Business History Review, Cambridge University Press, Cambridge, 93, 2019, pp. 51 e ss); o ancora la c.d. nave dei veleni Khian Sea, la quale, con un carico di circa 15 mila tonnellate di rifiuti nella stiva e al fine di risolvere una situazione di emergenza rifiuti, partì dal porto di Philadelphia nel 1986 e scaricò detti rifiuti in più di 11 Paesi diversi oltre che in mare aperto e, nonostante ciò, gli stessi rifiuti scaricati in mare, dopo non molto tempo, furono ritrasportati dalle correnti sulle coste della città di Philadelphia da dove erano partiti; gli eventi legati alla città nigeriana di Koko, la quale passò alla cronaca verso la fine degli anni ’80 quando fu scoperto che alcune imprese italiane spedivano container carichi di rifiuti pericolosi nella città nigeriana di Koko, dietro il pagamento di circa 100 dollari, al mese.
[3] Cfr. P. M. DUPUY, J. E. VINUALES, International Environmental Law, Cambridge University Press, Cambridge, 2018, p. 273, dove gli A. a proposito delle origini della Convenzione di Basilea affermano che: “The Basel Convention is also rooted in the environmental justice movement, and its predecessor was also a non-binding instrument. At the origin of this treaty lies a controversial factual configuration characterized by the generation of large amounts of waste in developed countries (or their richest regions) and the transfer of that waste to developing countries (or poor regions) for elimination or simply discharge. This phenomenon, largely induced by the high costs of waste disposal in the countries that generate such waste, came under much criticism, especially because of the impact on the environment and health of the people in receiving States and regions.”
Nello stesso senso cfr. anche S.A. KHAN, Clearly hazardous, obscurely regulated: lessons from the Basel Convention on waste trade, in American Journal of International Law Unbound, Symposium on global plastic pollution, Cambridge University Press, Cambridge, 2020, p. 201, dove si sottolinea proprio che “The Basel Convention was adopted in 1989 based on broad international consensus that the widespread business practice of exporting hazardous waste from industrialized to developing countries required stricter regulation. Accounts of the negotiation process show that beneath the general consensus that disposing toxic wastes in poor countries was unethical […].”
In generale sul tema si vedano anche K. KUMMER, International management of hazardous wastes: the Basel convention and related legal rules, Oxford University Press, Oxford, 1995; J. CLAPP, Toxic Exports: The transfer of hazardous wastes from rich to poor countries, Cornell University Press, London, 2001.
[4] Cfr. considerando n. 1 delle Linee direttive e principi del Cairo concernenti la gestione ecologicamente razionale dei rifiuti pericolosi.
La loro funzione di “guidelines”, ossia di suggerimento ai legislatori nazionali per modificare la propria normativa in materia, è confermata anche dai successivi punti del preambolo. Si prenda in considerazione, ad esempio, il considerando n. 3: “These guidelines are without prejudice to the provisions of particular systems arising from international agreements in the field of hazardous waste management. They have been developed with a view to assisting States in the process of developing appropriate bilateral, regional and multilateral agreements and national legislation for the environmentally sound management of hazardous wastes.”
[5] M. M. MBENGUE, Principle 14, in The Rio Declaration on Environment and Development: A Commentary, Oxford University Press, Oxford, 2015, pp. 384 e ss. dove l’A. sottolinea che: “Due to several publicized incidents in the mid 1980s involving hazardous wastes produced in industrialized countries and dumped in developing countries, international law has focused primarily on the permissibility of international movements and trade in waste and other hazardous substances. In this focus, a particular tension has emerged: the desire of many developing countries, particularly African states, to ban international trade in waste, and the opposition by many industrialized countries, desiring to keep their waste disposal options open. There are significant economic incentives that influences state policies regarding trade in hazardous substances and activities, and the industries and agricultural sectors that produce the substances in question are often of significant economic and therefore political importance regionally. Due to the high costs of disposal of such activities and substances in developed countries with stronger environmental regulation and enforcement, these industries seek to dispose of these substances in the developing world where costs are significantly lower.”
[6] Per una ricostruzione delle regole generali e dei principi fondamentali della normativa comunitaria in materia di rifiuti si veda M. MEDUGNO, T. RONCHETTI, Economia circolare e trasporto transfrontaliero dei rifiuti, in Ambiente & Sviluppo, 10, 2018, pp. 646 e ss.; A. STORTI, Spedizione transfrontaliera di rifiuti: sistematica delle fonti e profili problematici, in www.lexambiente.it, 2017; C. FELIZIANI, La gestione dei rifiuti in Europa, in www.federalismi.it, 2017; C. BOVINO, La normativa ambientale, in Manuale Ambiente, Wolters Kluwer, Milano, 2015, pp. 415 e ss; P. DELL’ANNO, Disciplina della gestione dei rifiuti, in Trattato di diritto dell’ambiente (diretto da P. DELL’ANNO, E. PICOZZA), Cedam, Padova, 2012, II, pp. 162 e ss.;
Più in generale sull’evoluzione dei principi generali in materia di ambiente e di rifiuti a livello comunitario cfr. R. ROTA, Profili di diritto comunitario dell’ambiente, in Trattato di diritto dell’ambiente, op. cit., I, pp. 151 e ss.; M. MONTINI, Unione Europea e Ambiente, in Codice dell’ambiente (a cura di S. NESPOR, A. L. DE CESARIS), Giuffrè Editore, Milano, 2009, pp. 47 e ss.; A. JAZZETTI, Manuale sui rifiuti, Il Sole 24 ore, Milano, 2001, pp. 1 e ss.
[7] Sui principi generali alla base della Convenzione di Basilea cfr. P. M. DUPUY, J. E. VINUALES, International Environmental Law, op. cit., pp. 273 e ss.: “The general approach of the Basel Convention is summarized by K Kummer, former Executive Secretary of the Convention, as follows: (i) the reduction of hazardous waste generation to a minimum (‘principle of waste minimisation’, Article 4(2)(a)); (ii) the disposal in an environmentally sound manner by facilities located as near to the source of generation as possible (‘principle of proximity disposal’, Article 4(2)(b)-(c)); (iii) absolute prohibition of exports of hazardous waste in some cases (to States which are not parties to the Convention, to Antarctica, to States which have prohibited imports or do not have the capacity to manage them in an environmentally sound manner, or from an OECD State to a non-OECD State); (iv) in all other cases, the exports of hazardous waste must comply with the system established by the Convention, namely the disposal must be carried out in an environmentally sound manner in the country of import and the transboundary movement must meet certain conditions, mainly a specific PIC procedure (Article 6); (v) hazardous waste which is exported illegally or which is not disposed of in an environmentally sound manner must be re-imported into the State of origin.”
[8] Il principio che impone che le spedizioni transfrontaliere di rifiuti devono innanzitutto svolgersi in una maniera tale da rispettare la salute umana e l’ambiente si evince da molteplici disposizioni del preambolo dove, in particolare, si legge che: “Le parti alla presente Convenzione, coscienti dei danni che i rifiuti pericolosi e altri rifiuti nonché i movimenti oltre frontiera di tali rifiuti rischiano di causare alla salute umana e all’ambiente; consce della minaccia crescente che rappresentano per la salute umana e l’ambiente la sempre maggiore complessità e lo sviluppo della produzione dei rifiuti pericolosi e di altri rifiuti nonché i loro movimenti oltre frontiera; consce ugualmente del fatto che il modo più efficace per proteggere la salute umana e l’ambiente dai pericoli che rappresentano tali rifiuti consiste nel ridurre al minimo la loro produzione dal punto di vista della quantità e/o del pericolo potenziale; convinte che gli Stati dovrebbero prendere le misure necessarie per fare in modo che la gestione dei rifiuti pericolosi e di altri rifiuti, compresi i loro movimenti oltre frontiera e la loro eliminazione, sia compatibile con la protezione della salute umana e dell’ambiente, qualunque sia il luogo nel quale tali rifiuti vengono eliminati; fatto notare che gli Stati dovrebbero provvedere affinché il produttore adempia gli obblighi relativi al trasporto e all’eliminazione dei rifiuti pericolosi e di altri rifiuti in un modo che sia compatibile con la protezione dell’ambiente, qualunque sia il luogo nel quale tali rifiuti vengono eliminati.”
[9] Cfr. Considerando n. 6.
[10] Cfr. Considerando nn. 3, 10, 17 e 18.
[11] Cfr. Considerando n. 9.
[12] Cfr. Considerando nn. 7, 20, 21.
[13] Per una recente applicazione del principio di prossimità in materia di spedizioni internazionali di rifiuti si veda Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sez. VIII, sentenza 11 novembre 2021, Causa C-315/20. Una società italiana aveva richiesto alla Regione Veneto l’autorizzazione preventiva per la spedizione in Slovenia di rifiuti urbani non differenziati prodotti in Italia. La Regione si era opposta alla spedizione osservando in particolare che: sebbene i rifiuti in esame erano stati sottoposti a un trattamento meccanico al fine del loro utilizzo in combustione, tale operazione non aveva sostanzialmente alterato la loro natura e rimanevano, pertanto, rifiuti urbani non differenziati e non potevano essere qualificati diversamente al fine di agevolare la lor movimentazione transfrontaliera; e che, in applicazione del principio di autosufficienza e prossimità, ispiranti anche la normativa comunitaria in materia di spedizioni internazionali tra Stati membri di rifiuti, sarebbe stato necessario smaltire tali rifiuti in Italia in quanto la stessa Regione Veneto si era dichiarata disponibile ad accogliere gli stessi disponendo nel proprio territorio di impianti in grado di soddisfare le esigenze dello spedizioniere. Lo spedizioniere aveva impugnato il provvedimento regionale dinanzi al TAR ottenendone l’annullamento; proposto l’appello dalla Regione, il Consiglio di Stato sottoponeva la questione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea chiedendo, in via di estrema sintesi se i rifiuti urbani indifferenziati, trattati meccanicamente da un impianto al fine del recupero energetico (operazione R1/R12 ai sensi del d. lgs. 152/2006), possono rimanere classificati come rifiuti urbani non differenziati; e se, inoltre, tale operazione possa influire sul diniego opposto dall’amministrazione italiana motivato sulla base del principio di prossimità.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea conferma che la natura dei rifiuti rimane inalterata: essi devono essere inquadrati come rifiuti urbani indifferenziati anche se sono stati sottoposti ad un trattamento meccanico di cui alle operazioni R1/R12.
Successivamente il giudice comunitario chiarisce anche che il diritto europeo, in particolare, in virtù dell’art. 11, paragrafo 1, lettera i) del regolamento 1013/2006, consente alle competenti autorità di spedizione di opporsi alla spedizione transfrontaliera di rifiuti urbani indifferenziati e che tale norma costituisce diretta applicazione del principio di prossimità, il quale costituisce uno dei cardini anche del quadro normativo approntato dal diritto europeo in materia.
Infatti, si legge in sentenza ai punti 25-26: “La Corte ha tuttavia sottolineato che, in tale ambito, per quanto concerne in particolare le misure atte ad incoraggiare la razionalizzazione della raccolta, della cernita e del trattamento dei rifiuti, una delle più importanti misure che devono essere adottate dagli Stati membri, in particolare tramite gli enti locali dotati di competenza a tale riguardo, consiste nel cercare di trattare detti rifiuti nell’impianto più vicino possibile al luogo in cui vengono prodotti, segnatamente per i rifiuti urbani non differenziati, per limitarne al massimo il trasporto.
Ne consegue che, conformemente all’art. 3, par. 5, e all’art. 11, par. 1, lett. i) del regolamento n. 1013/2006, e al fine di garantire il rispetto dei principi di autosufficienza e di prossimità sanciti all’articolo 16 della direttiva 2008/98 e attuati dalle disposizioni succitate del regolamento n. 1013/2006, principi invocati, nel procedimento principale, dall’autorità competente di spedizione, quest’ultima può opporsi a una spedizione di rifiuti urbani non differenziati provenienti dalla raccolta domestica destinati al recupero o allo smaltimento.”
[14] P. BIRNIE, A. BOYLE, C. REDGWELL, International law and the environment, Oxford University Press, Oxford, 2009, p. 477, dove gli A. affermano che “Wastes are ‘hazardous’ only when listed in the Convention’s annexes, or if defined as such by national law and notified to the Convention’s Secretariat.”
Tuttavia proprio il ricorso a tale criterio formalistico sembra destare qualche perplessità in dottrina la quale evidenzia che in tal modo la definizione di rifiuto pericoloso sarebbe rimessa alla valutazione, svolta caso per caso, dagli Stati coinvolti. Così argomentando, un rifiuto qualificator come pericoloso, ad esempio, dallo Stato di esportazione, potrebbe essere considerate non pericoloso dallo Stato di importazione e ciò escluderebbe di conseguenza l’applicazione delle regole previste dalla Convenzione di Basilea, la cui applicazione, così ragionando, sarebbe rimessa alla interpretazione sovrana e discrezionale compiuta dalle Parti. Sul punto O. BARSALOU e M.H. PICARD, International Environmental Law in an Era of Globalized Waste, in Chinese Journal of International Law, Oxford University Press, Oxford, 17, 2018, pp. 887 e ss dove si legge che: “Furthermore, the Basel regime does not precisely define ‘hazardous waste’, leaving the legal qualification of waste within the sovereign discretionary interpretation of States authorities. […] This means that sovereign States are able to circumvent their international legal obligations and claim that the waste they manage, export and import is outside the purview of the Basel Convention. […] By allowing States to subjectively interpret the concept of ‘hazardous waste’, international environmental law facilities global waste displacement.”
[15] Anche se, comunque, la Convenzione di Basilea prevede una serie di casi in cui le movimentazioni transfrontaliere di rifiuti pericolosi sono vietate e non possono essere autorizzate.
Ci si riferisce in primo luogo all’art. 4, comma 1, lett. a), dove è previsto il diritto per gli Stati firmatari di vietare ad ogni modo l’importazione di determinate categorie di rifiuti pericolosi; questo divieto, ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. b), dovrà essere comunicato alle altre parti secondo le modalità indicate dalla Convenzione stessa e, una volta adempiuta tale comunicazione, “le parti vietano o non permettono l’esportazione di rifiuti pericolosi o di altri rifiuti nelle parti che hanno vietato l’importazione di tali rifiuti, se questo divieto è stato notificato conformemente alle disposizioni del capoverso a) di cui sopra.”
Inoltre l’art. 4, comma 5, in base al quale le spedizioni internazionali di rifiuti pericolosi possono avvenire solamente tra gli Stati firmatari della Convenzione e dove si legge che “Le Parti non autorizzano né le esportazioni di rifiuti pericolosi o di altri rifiuti verso uno Stato non Parte, né l’importazione di tali rifiuti provenienti da uno Stato non Parte.”
L’art. 4, comma 6, invece, vieta l’esportazione di rifiuti pericolosi o di altri rifiuti in vista della loro eliminazione in Antartide.
Mentre l’art. 4, comma 2, lett. e), vieta le esportazioni di rifiuti pericolosi o di altri rifiuti “verso gli Stati o i gruppi di Stati appartenenti ad organizzazioni di integrazione politica o economica che sono Parti, in particolare i Paesi in via di sviluppo, che hanno vietato, nella loro legislazione, ogni importazione di tali rifiuti, oppure [ogni Parte vieta tali esportazioni] se ha motivo di credere che i rifiuti in questione non vi saranno gestiti secondo metodi ecologicamente razionali come quelli stabiliti dai criteri che le Parti definiranno in occasione della loro prima riunione.”
[16] Cfr. J. CRAWFORD, Brownlie’s Principles of Public International Law, Oxford University Press, Oxford, 2019, p. 347, dove si legge che: “The Basel Convention of 1989 was negotiated in response to concerns that the transport of hazardous waste between countries could pose an environmental hazard to both transit and recipient countries. It does not ban the transport of hazardous waste, but places limits on its movement: it is permissible to export waste if the exporting country does not have sufficient disposal capacity or disposal sites capable of disposal in an environmentally sound manner, and if the waste is required as a raw material for recycling or recovery industries in the importing country.”
[17] Sul punto P. BIRNIE, A. BOYLE, C. REDGWELL, International law and the environment, op. cit. pp. 476, dopo aver ribadito che la Convenzione di Basilea è frutto di un compromesso tra gli Stati che volevano lasciare aperto lo spostamento di rifiuti pericolosi oltre frontiera e gli Stati che invece, all’opposto, lo volevano vietare in toto, affermano che da tale Trattato è possibile ricavare alcune importanti norme consuetudinarie: ad esempio, la regola che il “transboundary movement is permitted only in circumstances where the state of export does not have the capacity of facilities to dispose of the wastes in an environmentally sound manner itself, unless intended for recycling […]” rappresenta un principio che “probably already represent customary law, since they are supported in part by state practice, by the sovereign right of states to control activities in their own territories, and by the responsibility of exporting states for activities within their jurisdiction which harm other states or the global environment.”
[18] Cfr. J. CRAWFORD, Brownlie’s Principles of Public International Law, op. cit., p. 347, il quale afferma che: “In addition, the exporting state must obtain the consent of the importing state and transit states before allowing a shipment of hazardous waste.”
Nello stesso senso anche O. BARSALOU e M.H. PICARD, International Environmental Law in an Era of Globalized Waste, op. cit., p. 899, dove gli autori affermano che “The Basel Convention does not determine a legally binding cap on waste transfer across jurisdictions. Provided the host State consents and is notified by the exporting State, hazardous waste is legally traded on the international market. Technically speaking, the Basel Convention implements the Environmentally Sound Management (ESM) of hazardous waste through a Prior Informed Consent (PIC) Procedure. In short, there is no ban of waste transfer, rather a regulatory platform for exchange.”
Della stessa opinione sono anche P. BIRNIE, A. BOYLE, C. REDGWELL, International law and the environment, op. cit., p. 478, secondo cui: “Only rarely does international law require the prior consent of other states before environmentally harmful activities may be undertaken. […] Unusually, the essence of the control system established by the Basel Convention is the need for prior, informed, written consent from transit states and the state of import. Only in the case of transit states which are parties to the Convention can this requirement be waived in favour of tacit acquiescence. Information must be supplied which is sufficient to enable the nature and effects on health and the environment of the proposed movement to be assessed.” Inoltre, sempre secondo gli A. (p. 476), anche questa regola positivizzata nella Convenzione di Basilea rappresenterebbe una norma di diritto internazionale consuetudinario: “Lastly, the Basel and regional conventions demonstrate widespread agreement that trade which does take place requires prior informed consent of transit and import states” e ciò rappresenta una “customary law.”
[19] Sul sito istituzionale della Convenzione di Basilea (www.basel.int) per autorità competente si intende “the governmental authority designated to be responsible, within such geographical areas as the Party may think fit, for receiving notifications of transboundary movements and any related information and for responding to such notifications.”
[20] Il sito istituzionale della Convenzione di Basilea (www.basel.int) definisce “l’autorità corrispondente” come “the entity of a Party responsible for receiving and submitting information to other parties as provided for in articles 13 and 16 of the Convention.”
[21] M. M. MBENGUE, Principle 14, op. cit., pp. 386 e ss., dove si legge che: “The Basel Convention sets out detailed conditions for the international regulation of transboundary movements of hazardous and other wastes between parties, based on a system of ‘prior informed consent’. Under the regime, the exporting state must notify the states concerned of any transboundary movement and the importing state responds by giving its consent with or without conditions, denying permission, or requiring additional information. No transboundary movement can occur until the exporting state has received the written consent of the importing state and confirmation from that state of the existence of a contract between the exporter and the disposer that specifies the environmentally sound management of the wastes.”
[22] Cfr. art. 6, co. 3, lett. a).
Inoltre, ai sensi dell’art. 6, co. 3, lett. b), in applicazione del principio della gestione ecologicamente razionale dei rifiuti, il trattato prevede anche che il rilascio dell’autorizzazione da parte dello Stato di esportazione sia subordinato al fatto che “l’autore della notifica ha ricevuto dallo Stato di importazione la conferma dell’esistenza di un contratto, stipulato fra l’esportatore e l’eliminatore, sulla gestione ecologicamente razionale dei rifiuti in questione.”
[23] Cfr. art. 6, co. 4.
[24] Cfr. art. 4, co. 1, lett. c).
[25] Cfr. considerando n. 19.
[26] Cfr. art. 9, co. 2, lett. a), b).
[27] Cfr. art. 9, co. 2, lett. b), ultimo periodo.
[28] Cfr. art. 9, co. 3.
[29] Cfr. art. 9, co. 4.
[30] Cfr. considerando n. 6.
[31] Cfr. P. BIRNIE, A. BOYLE, C. REDGWELL, International law and the environment, op. cit., p. 476.
[32] Cfr. S. FRANCARIO, Movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi e giurisdizione amministrativa, cit.
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