ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Relazione Lattanzi: il nuovo sistema sanzionatorio e “la questione cautelare”
di Giorgio Spangher
1. Interessato dalla significativa riforma attuata con la l. n. 47 del 2015, il tema delle misure cautelari è rimasto sinora fuori dal perimetro della riforma del processo penale, delineato dal d.d.l. A.C. n. 2435 e conseguentemente dall’iniziativa emendativa della Relazione Lattanzi, in attesa dell’iniziativa del Ministro.
Pur tuttavia, qualche riflessione dovrebbe essere svolta, in relazione alle possibili ricadute sul tema per effetto delle intersezioni con i rinnovati profili della disciplina sanzionatoria proposta dalla Commissione.
Com’è noto, la finalità della riforma, tesa ad assecondare i diktat europei, è costituita dalla necessità di accorciare i tempi del processo, nella misura del 25%.
L’obiettivo è perseguito, oltre ai tradizionali strumenti, costituiti dalla risorse umane e da quelle strutturali, dal ricorso alla strumentazione tecnologica e informatica, dalla riduzione dei tempi morti e delle stasi processuali, in larga parte attraverso una maggiore integrazione dei gradi e delle fasi, anche per effetto dell’alleggerimento del carico giudiziario.
Quest’ultimo obiettivo è perseguito, nella progressione processuale, attraverso meccanismi che ne consentono la “scrematura”, così da alleggerire di volta in volta il carico che si riverbera sulla fase successiva.
Così, in rapida sintesi, prima dell’esercizio dell’azione penale, sono previste il pagamento di una somma di danaro fissata dall’ente accertatore in caso di violazione delle previsioni contravvenzionali, con archiviazione in caso di assolvimento di quanto richiesto; l’archiviazione meritata; l’accentuata ipotesi di procedibilità a querela.
Vanno successivamente considerate le possibili decisioni di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, le condotte riparatorie, la sospensione del processo e messa alla prova. Si tratta di strumenti deflattivi, in parte anche “sanzionatori” chiamati a precludere, in parte, i successivi sviluppi del processo. Ne sono ridefiniti contenuti e presupposti tesi ad un loro più solido contributo alla “missione” riformatrice. Piccoli chinese walls sono costituiti anche dalle nuove regole di giudizio chiamate ad arginare l’esercizio dell’azione (archiviazione) e l’emissione del decreto di citazione (passaggio a dibattimento).
In caso di soggetto irreperibile si emette una sentenza di improcedibilità, inoppugnabile, in attesa di reperire l’imputato.
Alla riferita finalità, nella visione già da essi prevista, ma incentivata nelle prospettazioni premiali, vanno naturalmente iscritti il procedimento per decreto, l’applicazione della pena a richiesta e il giudizio abbreviato.
Il panorama processuale si completa con la possibilità di definire il processo con il concordato in appello sui motivi e sulla pena.
L’eventuale accelerazione processuale (direttissimo e immediato), tuttavia, non esclude ipotesi regressive e deflattive nei termini già visti (patteggiamento, abbreviato, messa alla prova).
Sia in alcuni di questi percorsi che sono definiti con decisioni di “condanna”, dapprima provvisorie, perché impugnabili, poi definitive, sia nel rito ordinario, nelle diverse pronunce di merito, di primo grado, d’appello, definite irrevocabilmente ai sensi dell’art. 648 c.p.p., trova operatività il nuovo regime sanzionatorio delineato dalla proposta Lattanzi.
2. Dopo questo breve inquadramento è possibile ritornare all’interrogativo iniziale.
In quale misura il rinnovato quadro sanzionatorio, al di là di quanto già emerge , può incidere sull’applicazione (e poi sull’esecuzione, ovviamente) delle misure cautelari, soprattutto di quella inframuraria che come si è visto la riforma tende a ridimensionare.
È espressamente previsto – ai sensi del comma 2 dell’art. 275 c.p.p. – che ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata.
Come anticipato, la proposta della Commissione ipotizza che nel caso in cui il soggetto sia condannato ad una pena detentiva non superiore a quattro anni il giudice possa sostituirla con la detenzione domiciliare, con l’affidamento in prova al servizio sociale e con la semilibertà e che nel caso in cui l’imputato sia condannato ad una pena detentiva entro il limite di tre anni, il giudice (anche d’ufficio) possa sostituirla con il lavoro di pubblica utilità.
Quest’ultima previsione, invero, sembrerebbe essere in linea con quanto previsto dal comma 2 bis dell’art. 275 c.p.p. ove si stabilisce che, salvo quanto previsto dal comma 3 (dello stesso art.) e ferma restando l’applicazione dell’art. 276, comma 1 ter e 280, comma 3, non può applicarsi la custodia cautelare in carcere se (fatte salve ipotesi espressamente eccettuate) il giudice ritiene che all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni.
In altri termini, nella prognosi di una pena di tre anni, suscettibile di essere convertita come detto la misura degli arresti domiciliari (sussistendo esigenze cautelari) potrebbe ritenersi adeguata.
Resterebbe da colmare normativamente la questione relativa alla prognosi di una pena di quattro anni che, come indicato, potrebbe essere convertita potendosi configurare la misura degli arresti domiciliari con braccialetto ovvero con prescrizioni rigide.
In ogni caso, un raccordo andrebbe prospettato al riguardo, ad esempio, ritenendo necessarie esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.
Qualche interrogativo sembra prospettarsi con riferimento al possibile accesso di riti speciali.
È noto come costituisca orientamento consolidato che la possibilità ovvero anche l’intendimento manifestato di richiedere i riti premiali non sia ritenuto elemento adeguato - né sotto il profilo della pena, né sotto il profilo dell’accertata responsabilità - ad incidere sull’applicazione delle misure cautelari. Tuttavia, considerato quanto contenuto nella proposta, la definizione del patteggiamento nei limiti dei cinque anni o la condanna nel rito abbreviato negli stessi limiti di pena potrebbe incidere sulla protrazione della misura (ove non fosse già venuta meno).
Invero, se con riferimento al rito abbreviato l’abbattimento è fissato nella misura di un terzo, ovvero fino ad un terzo, nel rito condizionato (fatta salva la ulteriore riduzione di un sesto in sede esecutiva in caso di decisione non appellata), la decisione patteggiata è definita dopo l’abbattimento della metà e si prevede che nel caso di pena detentiva irrogata non superiore a quattro anni, il giudice possa applicare, a titolo di sanzione sostitutiva, la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova ai servizi sociali e la semilibertà (fatta salva l’ipotesi in cui sia preclusa la sospensione dell’esecuzione della pena ex art. 656 c.p.p.).
In altri termini, si tratta di reati significativi, anche più di quanto potrebbe conseguire al rito contratto.
Un discorso a parte sembrerebbe prospettabile con riferimento alla operatività della sospensione e messa alla prova, in considerazione che pur nella elevata soglia di ammissione (fino a dieci anni), seppur specificamente individuata per puntuali fattispecie incriminatrici, alcune ipotesi criminose potrebbero essere suscettibili di superare la soglia per l’applicazione della custodia in carcere secondo le indicazioni dell’art. 280 c.p.p.
Il problema della giustizia non si risolve modificando le regole del processo
di Giovanni Verde(*)
Sommario: 1.Premessa: il problema della giustizia non si risolve modificando le regole del processo - 2. I vincoli che la Costituzione pone al legislatore ordinario - 3. L’organizzazione non efficiente - 4. L’aggiramento dei limiti e divieti costituzionali - 5. Verso forme di giustizia deformalizzate (a proposito del d.d.l. in discussione) - 6. Qualche (non lieta) conclusione.
1. Premessa: il problema della giustizia non si risolve modificando le regole del processo
Ho svolto il mio insegnamento del diritto processuale civile nella convinzione che mi competesse di sistemare le norme di legge, di assemblarle in ragionevoli combinati disposti (come amava dire uno dei miei maestri, Virgilio Andrioli), di indicare i problemi e le soluzioni applicative possibili, di condire il tutto, seguendo l’insegnamento dell’altro mio maestro, Corrado Vocino, con un sano relativismo, alimentando negli allievi la civiltà del dubbio anche nei confronti delle idee che professavo. Da qualche tempo sono assalito dal timore di essere stato un cattivo maestro.
Ho, infatti, sotto gli occhi una casa che brucia: quella della giustizia. E non posso non pensare che una parte di responsabilità spetti a chi, come me, si è per tanti anni baloccato nell’illusione che, costruendo modellini processuali, si potesse migliorare il nostro sistema. Una fatica inutile e, forse, addirittura controproducente. Da più di venti anni Governo e Parlamento ci inondano di provvedimenti “a costo zero” per rendere migliore e più efficiente il sistema. Il solo fatto che ancora oggi l’uno e l’altro debbano ricorrere ad un ulteriore (ma non ultimo) provvedimento di riforma è la prova di assoluta evidenza che quanto è stato fatto in precedenza non è servito a niente.
È questa la ragione per la quale, consapevole che il persistere nell’errore è diabolico, da qualche tempo ho preso a considerare questi conati riformatori non sotto l’aspetto tecnico, ma cercando di individuare quale sia la filosofia che ne è alla base. E credo di aver capito che alla base vi è qualcosa di simile a una irrimediabile schizofrenia.
La dissociazione porta, infatti, Governo e Parlamento a ritenere che la via per rendere efficiente il sistema di giustizia civile sia quello di sottoporlo ad un’operazione di maltusiana riduzione, incentivando gli accordi fuori dal processo e rendendo quest’ultimo un percorso costosissimo e irto di ostacoli, là dove Governo e Parlamento alzano di mani di fronte alla inevitabile dilatazione del processo penale favorita dall’obbligatorietà dell’azione, così come previsto in Costituzione.
Farei offesa al relativismo al quale mi sono ispirato per tutta una vita se ponessi la distinzione, che potrebbe essere ridotta alla contrapposizione tra privato e pubblico, in termini assoluti. Per chi la pensa come me il problema sta nel trovare il giusto punto di equilibrio. Ma per farlo è necessario abbandonare qualsiasi ipocrisia e mettere sul tappeto i problemi che, nel nostro settore, nascono anche e, forse, soprattutto dalla rigidità dei precetti costituzionali.
Il legislatore ordinario, infatti: 1) non può istituire giudici speciali; 2) non può limitare l’esercizio del diritto d’azione dinanzi agli organi di giustizia; 3) deve garantire la possibilità di ricorrere alla Corte di cassazione contro i provvedimenti decisori e quelli sulla libertà personale; 4) deve rispettare il principio che l’azione penale è obbligatoria; 5) nel predisporre le norme sull’ordinamento giudiziario non può dettare un’organizzazione di tipo aziendale, fondata sulle competenze e sulla gerarchia; 6) deve accettare l’assimilazione dei pubblici ministeri ai giudici.
A mio avviso se non si comincia a fare una discussione franca e scevra da ipocrisie di circostanza su questi limiti e vincoli non saremo in grado di affrontare seriamente i problemi della nostra giustizia o, peggio ancora, poiché all’UE non interessa la qualità della giustizia, ma soltanto l’efficienza traducibile in termini economici, ci dovremo abituare a una giustizia sempre meno soddisfacente, cui sta di fronte la rassegnazione, che è come fuoco che cova sotto la cenere. L’ultimo libro che ho scritto (Giustizia, politica, democrazia, Rubbettino, 2021) costituisce il lascito di un penitente, che mette da parte le questioni di tecnica processuale, avendo capito che il cuore dei problemi è altrove.
2. I vincoli che la Costituzione pone al legislatore ordinario
La discussione franca comporta di chiarire quali sono le conseguenze dei vincoli e dei limiti posti dalla Costituzione.
a) Il legislatore non può isolare settori di controversie da affidare, per ragioni di materia, a giudici speciali e da risolvere con procedure semplificate. È un prezzo che paghiamo, essendo costretti a concentrare l’amministrazione della giustizia sui giudici statali ordinari. È un prezzo ragionevole? La nostra Costituzione ha posto il divieto di giudici speciali, sotto la cui mannaia sono caduti gli arbitrati obbligatori e che, alle origini, portò perfino a dubitare della possibilità di ammettere nel nostro ordinamento l’arbitrato “ad hoc”. Il divieto fu posto nel Quarantotto perché i Costituenti avevano fresco il ricordo che il Fascismo aveva fatto ricorso a Tribunali speciali per applicare leggi nefande e, quindi, si volle evitare che esperienze del genere avessero a ripetersi. A distanza di settant’anni possiamo porci due domande. La prima: il ricorso a giudici speciali può essere strumentale nei regimi autoritari; non dovrebbe esserlo nei regimi di sana democrazia, nei quali dovrebbe essere sufficiente la garanzia del giudice naturale e, di conseguenza, il solo divieto di giudici straordinari, ossia costituiti “ad hoc”. La seconda: se si volesse per prudenza mantenere il divieto, sarebbe sufficiente conservarlo per la sola giustizia penale o per la giustizia in senso lato civile riguardante situazioni giuridiche indisponibili. Oggi, non essendo ciò possibile, siamo costretti ad affidarci alla mediazione o alla negoziazione assistita, ossia a una sorta di “fai da te”.
b) Il legislatore non può limitare il diritto dei cittadini di portare in giudizio le loro pretese. Anche questo fu un divieto che i Costituenti introdussero, avendo il ricordo delle leggi razziali che avevano posto limiti agli ebrei al loro diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti. Il divieto ha una sua validità assoluta e, quindi, non è da mettere in discussione. L’art. 24 Cost., tuttavia, collega il diritto d’azione alla tutela “dei propri diritti e interessi legittimi”. Come si stabilisce che il cittadino ha un diritto o un interesse legittimo per il quale chiede tutela dinanzi al giudice? Nel nostro, ma non soltanto nel nostro sistema non esiste un catalogo degli uni o degli altri. È verosimile che i Costituenti abbiano operato nella convinzione che alla base del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo vi è un substrato naturale, ossia un interesse, un bisogno, una pretesa, ai quali l’ordinamento ha dato previo riconoscimento. Questa conclusione trova conforto nella posizione assolutamente contraria dei Costituenti nei confronti del diritto libero e in una loro implicita adesione ad un sistema basato sul primato della legge, tale che ai giudici spetti soltanto di dichiarare situazioni cui la legge ha già riconosciuta protezione, mai di creare, essi, la protezione; di parlare il linguaggio dell’accertamento, fondato sulla sussunzione del fatto alla norma (come si legge nell’art. 2909 c.c.) e soltanto eccezionalmente di esprimersi con provvedimenti costitutivi, con i quali il giudice ha poteri creativi (come si legge nell’art. 2908 c.c.). Nell’evoluzione di questi Settant’anni le cose sono andate in ben diversa direzione. La giurisprudenza, applicando direttamente le norme della Costituzione, che sono norme che esprimono valori e che non sono legate alla fattispecie, e dovendo anche adeguarsi alle pronunce del giudice europeo, sempre più spesso non applica la legge, ma crea il diritto omogeneo ai valori che sono a base della Carta fondamentale (quali l’eguaglianza sostanziale, la solidarietà, lo sviluppo della personalità ecc.) e della Carta dei diritti dell’uomo. Tutto ciò era ed è inevitabile, ma non può non avere come effetto una dilatazione del contenzioso, perché non c’è modo di porre un freno preventivo alla possibilità di portare dinanzi al giudice l’interesse, il bisogno o la pretesa che il singolo ritiene non soddisfatti o non sufficientemente tutelati. Il legislatore ordinario, pertanto, escogita espedienti di contenimento, che inevitabilmente incidono sul processo, che diventa un luogo in cui le garanzie si vanno lentamente prosciugando. E poiché il meglio è nemico del bene, la consapevolezza di questa evoluzione dovrebbe indurci a chiederci se il monopolio della giurisdizione affidata ai soli giudici statali costituisca un presupposto indeclinabile.
c) A proposito di garanzie, scontiamo anche la previsione della ineludibile garanzia del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti decisori. Anche questa è una previsione che ha condotto ad una dilatazione dei ricorsi dinanzi la Corte di cassazione, che ha un carico di contenzioso che è superiore a quello dei giudici cd. supremi degli altri Paesi. Anche in questo caso, essendo impossibile introdurre efficaci filtri preventivi, si incide sulle garanzie del processo. La Corte di cassazione, anche se a giorni alterni, non è giudice che assicura giustizia, ma è giudice che detta le regole e che, spesso, le crea. Si è parlato di un vertice ambiguo. Siamo piuttosto di fronte ad un ibrido sul quale sarebbe necessario fare chiarezza.
d) Il giudice dei valori aspira inevitabilmente e quasi inconsapevolmente a porsi come giudice dell’etica dei comportamenti. A questo giudice la nostra Costituzione ha affidato il compito di controllare il corretto esercizio dell’azione penale che si vuole obbligatoria. Anche questa è la ragione della dilatazione del contenzioso penale, i cui costi in termini di amministrazione della giustizia sono altissimi. La dilatazione è inevitabile perché i pubblici ministeri, che sono responsabili per l’esercizio dell’azione penale e che hanno alle loro dirette dipendenze la polizia giudiziaria (così essendo stato inteso l’art. 109 Cost.), sempre più spesso non conducono indagini su reati, ma dirigono inchieste alla scoperta di reati, essendo divenuti responsabili non solo per la repressione dei reati, ma anche per la loro prevenzione; e ciò con un’attività che non può essere doverosa e obbligata, in quanto alla base vi sono inevitabili scelte discrezionali. Ne consegue un numero di casi assai alto in cui il processo penale si traduce, per l’una o per l’altra ragione, in un nulla di fatto e vivendo nell’incubo per il quale tutto va tradotto in termini di economia, si impone oggi una riflessione sul rapporto tra prezzo e risultati. Quale che sia la conclusione, un dato è certo: se si potessero dirottare sulla giustizia civile risorse almeno pari a quelle assorbite oggi dalla giustizia penale, di sicuro i problemi della prima sarebbero assai meno rilevanti.
3. L’organizzazione non efficiente
Ai limiti e vincoli imposti dalla Costituzione al legislatore ordinario nella formulazione delle norme processuali si aggiungono limiti e vincoli riguardanti l’organizzazione dei servizi. Un qualsiasi aziendalista sa che l’efficienza organizzativa poggia sull’individuazione di soggetti capaci di escogitare modelli efficienti e di guidarli, essendo dotato dei necessari poteri direttivi; e sulla possibilità di selezionare soggetti cui affidare i compiti sulla base della loro idoneità specifica; di incentivare un sano antagonismo premiando i più meritevoli; di evitare forme organizzative eccessivamente rigide, lasciando ampi margini alla adattabilità in relazione alle esigenze concrete. L’organizzazione aziendale presuppone, perciò, che colui che è preposto a funzioni dirigenziali abbia poteri cui corrispondono situazioni di soggezione dei sottoposti e che l’esercizio di tali poteri abbia come contraltare una doverosa responsabilità. È il modello burocratico quale ci è stato tramandato soprattutto a partire da Weber.
Questo modello non è praticabile per la giustizia. Il superamento della prova concorsuale, che è la chiave di accesso alla funzione di magistrato, funge da livellatore delle persone. Il magistrato, secondo la Costituzione, è soggetto soltanto alla legge ed è autonomo e indipendente non solo nel rapporto con gli altri poteri dello Stato, ma anche all’interno del corpo dei magistrati. Ciò rende impossibile un’organizzazione fondata sul potere direttivo dei capi degli uffici. A questi ultimi viene affidata una funzione di mero coordinamento (cui si affiancano mansioni strettamente amministrative per le quali hanno poca o scarsa competenza) che nei fatti si svolge con forme di coinvolgimento complesse, spesso estenuanti, e che deve fare esclusivo affidamento sul senso di responsabilità dei collaboratori (non sempre presente e non sempre eguale), in quanto il potere direttivo è rigidamente regolamentato ed è sindacabile, così che ogni direttiva può scontrarsi con posizioni giustiziabili del destinatario. Il diritto tabellare costituisce l’approdo finale ed inevitabile del sistema quale si è cristallizzato negli anni.
Potremmo discutere sulle intenzioni dei Costituenti e chiederci se essi, quando garantirono l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati, pensarono a una garanzia riguardante il potere giudiziario nel suo complesso e verso l’esterno ovvero se vollero che questa garanzia avesse come destinatario anche il singolo magistrato e all’interno della stessa magistratura. Sarebbe, tuttavia, una discussione sterile, perché ormai questa seconda chiave di lettura è diventata diritto vivente.
Nel darne e nel prenderne atto, però, dovremmo anche comprendere che gli scandali che di recente hanno investito la magistratura poco hanno a che vedere con l’efficienza e la qualità della giustizia. Le quali, nella situazione data, poco o nulla cambiano se a capo di un ufficio o di una sezione del medesimo vi sia un magistrato piuttosto che un altro. I magistrati – essi ce lo ricordano di continuo (salvo dimenticarlo quando partecipano a una qualsiasi selezione) – sono tra loro fungibili e si differenziano non per l’idoneità maggiore o minore all’esercizio di talune determinate funzioni, ma soltanto per il fatto di esercitarle concretamente (secondo la lettura accolta dell’art. 107, co. 3° Cost.).
Eppure oggi il problema delle nomine è al centro delle discussioni sulla giustizia. La ragione è semplice: la pietra dello scandalo è data dalle Procure, così che il problema delle nomine è soprattutto il problema delle nomine nelle Procure. La spiegazione è semplice almeno quanto è evidente: le Procure hanno il potere di indagine, il quale non può non essere discrezionale e oggi, per l’ausilio dei moderni mezzi di captazione delle nostre vite private, è assai invasivo. Il suo esercizio mette a rischio l’equilibrio del nostro sistema e incide in qualche modo sulla nostra democrazia. Nelle Procure e presso i loro collaboratori vi sono infiniti serbatoi di notizie riguardanti le nostre vite private e del tutto irrilevanti per il processo penale. C’è l’immanente pericolo che il vaso di Pandora sia in qualche modo scoperchiato, creando effetti che mettono in pericolo le istituzioni.
Credo che il recente intervento del Presidente della Repubblica sia stato in qualche misura provocato dalle attuali vicende. Egli ha ammonito: “Guai se la magistratura perde credibilità”. La Sua preoccupazione è la magistratura, non il processo. Ma parlare di magistratura significa parlare di ordinamento giudiziario, un capitolo del quale concerne le nomine. A questo riguardo, è per me doveroso squarciare il velo dell’ipocrisia di regime che ci affligge: in un sistema che per definizione è basato sulla fungibilità delle persone (perché per i cittadini che chiedono giustizia vale la regola che l’un giudice vale l’altro, così che non è possibile pretendere che abbia attitudini specifiche), le scelte non possono che avvenire sulla base di criteri soggettivi, cui si dà, con enfatiche circolari del CSM, una parvenza di oggettività (che si trasforma in discutibile criterio di giudizio del giudice amministrativo, cui il magistrato pretermesso ricorre non perché sia più bravo o più idoneo, ma perché sono stati violati i criteri che lo stesso CSM si è dato). Si parla di scandalo delle lottizzazioni su basi correntizie e volutamente si mette la sordina alle cause dell’attuale situazione, che vanno ravvisate nella mancanza di oggettivi e attendibili criteri, così che l’unica alternativa resta l’anzianità o il sorteggio. E se ne parla soltanto perché nelle Procure è oramai concentrato un potere enorme, che il potere politico vorrebbe in qualche modo controllare quando è esercitato ai suoi danni (ma non quando colpisce l’avversario).
Sarebbe necessario un ripensamento sull’ordinamento giudiziario, curando di distinguere ciò che è funzionale per garantire l’indipendenza del giudice e le “garanzie” del pubblico ministero e ciò che si è tradotto in privilegio. Ho, tuttavia, il timore che fino a quando si ritiene che ciò è di competenza esclusiva dei magistrati (che, con l’avallo del CSM, predispongono i provvedimenti legislativi tramite il Ministero, di cui occupano le posizioni di vertice) un ripensamento in questa direzione non sia possibile. Qualcosa, tuttavia, si potrebbe pretendere e fare per rispettare l’art. 107, ult. co. Cost., che vuole che lo “status” del p.m. non sia identico a quello del giudice. Non credo che ci sia la volontà e la forza necessaria per farlo.
Finiamo, così, con lo scaricare il peso delle riforme sul processo.
4 . L’aggiramento dei limiti e divieti costituzionali
La difficoltà in cui si imbatte il legislatore ordinario – che, oggi, deve rispondere all’Europa, che, per darci danaro, pretende anche il nostro impegno concreto a risolvere anche i problemi del sistema di giustizia – sono evidenti, anche perché siamo costretti ad operare con la clausola dell’invarianza finanziaria (ossia con riforme a costo zero), come è anche per il disegno di legge di recente riproposto e di cui ci occuperemo in seguito.
La tattica cui fa ricorso il nostro legislatore è quella dell’aggiramento dei precetti costituzionali. Se il primo comma dell’art. 106 Cost. prescrive che le nomine dei magistrati abbiano luogo per concorso, si dilata la portata precettiva del secondo comma, che apre la strada alla possibilità di nominare giudici onorari per tutte le funzioni attribuite ai giudici singoli, da un lato riducendo la collegialità ad una minima area residuale (il che era ben lontano da ciò che i Costituenti avevano sotto i loro occhi e, nel passato, mi indusse a pensare che sottostante alla norma vi fosse un nucleo non minimo di riserva di collegialità) e, dall’altro lato, incrementando il numero dei giudici onorari in misura tale da tradire il precetto costituzionale, che di sicuro aveva in mente una possibilità di ridotta utilizzazione di un giudice scelto senza le garanzie del pubblico concorso (presupposto indispensabile perché si abbia un giudice “ordinario”).
Non basta. Oggi si pensa a forme surrettizie di implementazione. Il disegno di legge AS 1662 comunicato alla Presidenza del Senato il 9 gennaio 2020 e di recente emendato dal nuovo Governo contiene un art. 12 bis di nuova formulazione che fa molto affidamento sul cd. ufficio per il processo, al quale sono attribuiti compiti di supporto, che si estendono alla predisposizione di bozze di provvedimenti e alla cooperazione per incrementare la capacità produttiva dell’ufficio, per abbattere l’arretrato e per prevenirne la formazione. Senza opporre un aprioristico fine di non ricevere a tali innovazioni, non si può non sottolineare il divario tra la preoccupazione dei Costituenti di garantire un’adeguata e oggettiva selezione dei magistrati tramite il concorso pubblico e i sistemi di reclutamento, alquanto opachi, del personale di questo ufficio (per non parlare delle mansioni che possono facilmente tracimare).
Con la stessa tattica dell’aggiramento, si garantisce il diritto di azione da esercitare nel processo ordinario, ma se ne rende sempre più costoso e ricco di insidie l’esercizio, là dove si spinge la parte a cercare la lite fuori dal processo: a) incentivando con benefici fiscali (art. 1, comma 1, lett. a) la mediazione, la cui obbligatorietà viene ulteriormente estesa (dall’art. 1, comma 1, lett. c); e b) dilatando la negoziazione assistita, nel cui ambito i difensori possono compiere anche un’attività istruttoria stragiudiziale, perfino (e, a mio avviso, pericolosamente) utilizzabile nel processo in caso di insuccesso della negoziazione (art. 1, comma 3). Si pongono le premesse per discutere nel processo degli abusi nell’attività di acquisizione delle prove con l’inevitabile responsabilità disciplinare (ma non solo) del difensore, come previsto dall’art. 1, comma 5.
5 .Verso forme di giustizia deformalizzate (a proposito del d.d.l. in discussione)
Siamo, insomma, costretti a credere che i problemi della giustizia civile si possano risolvere riducendo la durata dei processi a tempi ragionevoli e che ciò si possa fare attraverso le norme processuali. È sbagliato, in quanto è evidente che la lunghezza dei nostri processi è determinata soprattutto dai tempi morti, che non dipendono dalle norme processuali. Stiamo pagando l’errore, perché da circa un ventennio facciamo riforme che hanno inciso sulle garanzie, senza conseguire alcun beneficio. Ed è paradossale che ciò sia avvenuto soprattutto dopo che è stata approvata la riforma dell’art. 111 Cost. secondo cui “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”.
Fermo che un processo per definizione deve essere “giusto”, altrimenti non è processo, la formula inserita nell’art. 111 Cost. ha dato luogo a diverse letture: è giusto il processo che si svolge nel rispetto delle regole fissate dal legislatore; è giusto il processo che perviene alla decisione giusta. La prima lettura mi sembra tautologica e mi sembra ancorata ad epoche storiche in cui si potevano celebrare processi non regolati per legge; la seconda è per me pericolosa, nella misura in cui rende finalistica l’azione del giudice, che dovrebbe essere neutrale e asettica. Ne preferisco una terza: è giusto il processo che si svolge nel rispetto di regole giuste.
Se si condivide questa interpretazione e se è possibile scrutinare se le regole processuali sono “giuste”, è necessaria una premessa. Le regole processuali hanno per oggetto le forme e i tempi degli atti e individuano gli oneri, le facoltà e i poteri dei soggetti processuali. Esse non riguardano soltanto le parti e i soggetti che a vario titolo partecipano al processo e, quindi, devono essere funzionali per non scadere in pernicioso formalismo (secondo l’ammonimento di Satta), ma toccano anche il giudice, in quanto stabiliscono i limiti all’esercizio del suo potere, dovendo fungere da insopprimibile garanzia (come più di mezzo secolo fa evidenziò Calamandrei). Per esemplificare, l’art. 324 c.p.c. non è norma indirizzata esclusivamente alle parti, le quali, non impugnando il provvedimento nei tempi fissati ne determinano il passaggio in giudicato, ma è norma che riguarda anche il giudice, il quale non può intervenire sulla vicenda una volta che sia decorso il termine e la parte non abbia impugnato il provvedimento.
Quando si abbia presente questa caratteristica delle norme processuali, appare evidente che si dovrebbero evitare norme di contenuto didascalico. Di conseguenza, prescrivere non forme degli atti, ma modi (per cui i fatti devono essere esposti in “modo chiaro e specifico”: così si legge nell’art. 3, comma 1, lett. b) in relazione all’atto introduttivo in primo grado; nel comma e-ter) per la comparsa di risposta; nell’art. 6, comma 1, lett. a) per l’atto d’appello e, in maniera non dissimile, nell’art. 6-bis, comma 1, lett. a) per il ricorso in cassazione) non solo è inutile, ma è controproducente. Si incentivano discussioni inutili sulla “conformazione” dell’atto di parte, complicando il processo e appesantendolo di inutili questioni (oggi ne abbiamo esempi quotidiani in relazione alla redazione dell’atto di appello o per effetto della giurisprudenza della S.C. che ha elaborato un principio di completezza del ricorso, che ha come conseguenza un suo inevitabile appesantimento là dove se ne vorrebbe imporre addirittura la dimensione). Sono discussioni che mi fanno rimpiangere i tempi in cui era sufficiente rifarsi all’aureo art. 156 c.p.c., che era l’irrinunciabile bussola per il giudice che voleva governare bene il processo. Con queste riforme i confini che delimitano il potere del giudice diventano mobili, giacché gli si affida il compito di stabilire ciò che nell’atto confezionato dalla parte non è espresso in forma sufficientemente chiara, puntuale e completa con una valutazione che non può non essere soggettiva.
Si dovrebbero anche evitare disposizioni irragionevolmente impositive. L’art. 3, comma 1, lett c) del disegno in esame vuole che nell’atto di citazione sia contenuta l’indicazione specifica dei mezzi di prova “a pena di decadenza” e analoga imposizione è stabilita per la comparsa di risposta dalla lett. e-quater), anche se non si può escludere il diritto di “entrambe le parti ad articolare i necessari e conseguenti mezzi istruttori” per effetto delle domande, eccezioni e difese successive (lett. e-quinquies). Non ho mai amato un processo materiato di preclusioni e di decadenze, che lo allontanano dal suo obiettivo, che dovrebbe essere quello della decisione più giusta possibile. Non ho mai amato l’esasperazione del principio di autoresponsabilità a senso unico, che incrementa il divario tra parte e giudice, al quale le norme che impongono forme e, soprattutto, termini (ce ne sono a iosa anche nel disegno di legge oggi ripresentato) sono sostanzialmente e necessariamente prive di sanzioni nell’ambito del processo (infatti, poiché non è possibile la sanzione della nullità degli atti o del procedimento, che aggiungerebbe al danno della parte incolpevole una beffa, la violazione potrebbe soltanto costituire base per valutazioni sulla professionalità del giudice o per sue responsabilità disciplinari). In disparte tali considerazioni, che riguardano mie opzioni personali, è da chiedersi se le ricordate disposizioni siano funzionali a una giustizia più rapida ed efficiente. C’è da dubitarne, perché da un lato si introduce qualcosa di simile al principio di eventualità, contro cui a cavallo degli anni Trenta e Quaranta scrisse pagine ancora attuali Antonio Segni, costringendo i difensori ad immaginare il tutto e il di più e appesantendo inutilmente gli atti processuali; e, dall’altro lato, si apre la strada su ciò che la parte doveva antivedere (e non ha visto, così aprendo la strada a dispute tra cliente e difensore su chi ne abbia responsabilità) e ciò che è conseguenza delle posizioni dell’avversario, così rendendo inutilmente complicato il processo.
Si dovrebbe, infine, stabilire se obiettivo del processo è la corretta soluzione della controversia (come leggiamo nelle sentenze dei nostri supremi giudici) o una rapida ed efficace composizione della lite (anche se le parti sono costretti a subirla).
Per tutte le ragioni che ho esposto il legislatore è di fronte a una scelta obbligata. Oramai il processo è diventato in prevalenza uno strumento di composizione delle liti, che le parti sono obbligate ad accettare più per necessità che per intima convinzione. Questo è il senso di molte disposizioni del disegno di legge che sto esaminando.
Esemplifico. L’art. 3, comma 1, lett. c-bis) prevede che la contumacia ritualmente verificata determini “la non contestazione dei fatti a fondamento della domanda, ove la stessa verta in materia di diritti indisponibili”. In questo modo sulla parte convenuta è posto un onere di costituzione, se vuole evitare la “ficta confessio”, che si verifica per il solo fatto della mancata costituzione a seguito di regolare notificazione dell’atto introduttivo e senza alcun riguardo alle ragioni che possano avere eventualmente impedito una tempestiva costituzione.
Il procedimento semplificato di cognizione, che è inserito nel II libro del c.p.c., diventa il rito normale ed è un procedimento la cui semplificazione riguarda soprattutto l’attività istruttoria. Non si cerca più la verità, essendo sufficiente la probabilità come, del resto, ha anticipato la Corte di cassazione sia pure enunciando come criterio residuale quello del “più probabile che non”.
Nel corso del giudizio di primo grado e per le controversie relative a diritti disponibili il giudice può, infine, pronunciare ordinanza provvisoria di accoglimento “quando i fatti costitutivi sono provati e le difese del convenuto appaiono manifestamente infondate” o ordinanza di rigetto nel caso contrario o nel caso di assoluta incertezza sull’oggetto della domanda o di mancata esposizione dei fatti su cui essa dovrebbe essere fondata; ordinanza reclamabile e che non acquista efficacia di giudicato. La disposizione, che immagina un giudice che “alla prima letta” abbia attentamente studiato gli atti introduttivi, è in linea con la tendenza alla sommarizzazione. Qualcosa del genere già esiste, così che, quanto al procedimento, sarebbe stato sufficiente mutuare le disposizioni sulla sentenza breve introdotte nel codice del processo amministrativo. Si eviterebbero la contradizione di una definizione nel merito della controversia con un provvedimento non suscettibile di giudicato e l’inutile complicazione che può seguire all’accoglimento del reclamo.
Sono questioni tecniche che, tuttavia, non mi appassionano. Ne ho estratto alcune (ma ce ne sono altre) per evidenziare che il nostro legislatore è costretto a tradire il precetto costituzionale, perché il processo che sta costruendo è sempre meno giusto sotto tutti gli aspetti.
6. Qualche (non lieta) conclusione
Vi è, infine, un’altra idea largamente condivisa: che vi sia da combattere una litigiosità eccessiva, alimentata da un’avvocatura troppo numerosa. Condivido parzialmente la diagnosi, ma non i rimedi. Non si può contrastare l’abuso del processo con provvedimenti che per punire la mancanza di meritevolezza della parte non perseguono la giusta definizione della lite. Bisogna sapere distinguere l’esito della vicenda processuale dalla giusta sanzione per il comportamento immeritevole. E ciò andrebbe fatto non solo per il processo civile, ma anche per il processo penale, in tutti i casi in cui l’azione penale viene esercitata senza il necessario equilibrio e senza l’egualmente necessaria prudenza. Sono convinto, infatti, che le soluzioni praticate per i giudici in ordine alla responsabilità civile e disciplinare non possono essere automaticamente e completamente estese ai pubblici ministeri.
Soprattutto di ciò ho scritto nel mio ultimo libro, preoccupato, come sono, per un’evoluzione che ha ricadute sull’economia del Paese e sui nostri comportamenti collettivi e individuali, alimentando una sterile burocrazia, cui è impossibile porre rimedio, deprimendo il coraggio dell’osare e incentivando la fuga dalla responsabilità; in una parola, condannandoci alla mediocrità. Ma soprattutto essa incide pesantemente sui nostri diritti di libertà, che la Costituzione vorrebbe inviolabili. Il problema dell’efficienza, ridotto a un problema di tempi processuali ragionevoli, è soltanto un aspetto della questione-giustizia nel nostro Paese. Non ho scritto per l’accademia e non a caso ho scelto un editore generalista. Volevo e speravo che i temi posti sul tappeto non fossero oggetto di discussione nel chiuso recinto delle aule universitarie, ma in qualche modo coinvolgessero quanti hanno a cuore non solo la giustizia, ma anche la democrazia. Pensavo soprattutto ai giovani, perché il problema riguarda soprattutto il loro futuro. Ho, tuttavia, l’impressione che per il combinarsi delle convenienze di tutti (politici, magistrati, avvocati, mezzi di informazione e persino cittadini, che se ne preoccupano soltanto quando si imbattono in processi a loro carico) non ci sia la necessaria volontà di aprire un serio dibattito.
Se mi perdonate una piccola presunzione, ho tentato di accendere una fiammella, che è assai tenue. Sta soprattutto a voi giovani di fare in modo che non si spenga.
(*) Magistrato per 12 anni, poi avvocato e professore universitario di diritto processuale civile, ha insegnato nelle Università di Camerino, Salerno, Napoli-Federico II, Roma-Sapienza e LUISS, che lo ha insignito del titolo di Emerito. È stato dal 1998 vice-presidente del CSM. È tra i massimi esperti del processo civile. L’ultimo libro pubblicato è Giustizia, politica, democrazia, Rubbettino, 2021.
Paradossi normativi, contrasti ermeneutici, componimenti nomofilattici.
Brevi note sulla sentenza della Sezioni Unite penali 4 giugno 2021 n. 22065
di Irene Ambrosi
Sommario: 1. Premessa - 2. La fattispecie - 3. Il quadro normativo - 4. Il contrasto - 5. L’antefatto: l’orientamento della III Sezione civile - 6. La composizione del contrasto sul problema dell’individuazione del giudice del rinvio - 7. La compatibilità della soluzione prescelta rispetto al diritto vivente sovranazionale e costituzionale - 8. Notazioni conclusive.
1. Premessa
È tornata all’esame delle Sezioni unite penali l’enigmatica norma contenuta nell’art. 622 c.p.p., con cui è stato codificato uno spazio di transizione processuale tra giudizio penale e quello civile che, da autorevolissima dottrina è stato ritenuto frutto di un “lapsus normativo” [1] in quanto all’interno della disposizione convivono due ipotesi eterogenee: l’annullamento dei capi civili (ad esempio, perché i danni risultano male liquidati) e l’accoglimento del ricorso dalla parte civile contro il proscioglimento dell’imputato.
L’art. 622 c.p.p. anche in questo secondo caso stabilisce infatti che, «quando occorre», la Corte di cassazione rinvii alla sede civile d'appello.
La stessa dottrina, con il consueto caustico rigore, nota al riguardo “Ovvio se avesse annullato qualche provvedimento sui danni: ma qui l'organo a quo non ha giudicato al riguardo, né poteva; l'art. 538 esclude giudizi simili rispetto al prosciolto; e l'art. 578 li ammette, in appello o cassazione, solo quando, esistendo condanna ai danni, sia sopravvenuta l'estinzione del reato; né, su appello o ricorso dalla parte civile, l'art. 576 contempla decisioni su an e quantum debeatur. Sappiamo cos'avvenga: assolto l'imputato con una formula a effetti extra penali (art. 652), l'impugnante mira a eliderli; e siccome dipendono dal proscioglimento, tale è la res in iudicium deducta” [2]. Sarebbe, pertanto, “norma non applicabile: i codificatori vi hanno trasposto una massima avulsa dal sistema; e siccome le ruote della procedura girano da sole, dal "pastiche" nascono dei paradossi.” [3].
Nella fattispecie in esame, la norma va applicata e, per accenno, va rammentato che i noti paradossi sono frutto del recepimento, da parte del legislatore del 1988, dell’ampliamento dell’ambito applicativo dell’ art. 541 c.p.p. abrogato, a seguito dell’introduzione della possibilità di ricorso per cassazione della parte civile avverso le sentenze di proscioglimento ai sensi dell’art. 576 c.p.p., sull’abbrivio, nel sistema previgente, delle decisioni n. 1 del 1970 e n. 29 del 1972 della Corte costituzionale. Gli stessi paradossi costituiscono il fondo della questione affrontata dalla sentenza della Corte di cassazione, resa a Sezioni Unite penali, n. 22065, depositata il 4 giugno 2021, imp. Cremonini.
2. La fattispecie
In prime cure, l’imputato era stato assolto dal Tribunale ai sensi dell'art. 530, comma 2, c.p.p. perché il fatto non sussiste, in relazione al reato di cui all'art. 590 commi 2 e 3 c.p. (lesioni personali colpose dovute alla caduta di un operaio da un’impalcatura).
La Corte di appello aveva accolto l'appello della parte civile e ritenuto sussistente, senza lo svolgimento di alcuna attività istruttoria, la responsabilità del datore di lavoro sulla base di una diversa valutazione delle acquisizioni istruttorie (in particolare, valorizzando la deposizione della persona offesa, assunta nel giudizio penale, ritenuta attendibile perché riscontrata da una testimonianza e dagli accertamenti medico-legali) ai sensi dell'art. 2087 c.c. e del d. lgs. 81 del 2008 in tema di sicurezza sul lavoro.
Ha proposto ricorso per cassazione il datore di lavoro il quale ha lamentato la violazione di legge e il vizio di motivazione per l’omessa rinnovazione, nel giudizio d’appello, della prova dichiarativa decisiva ai fini del ribaltamento, ai soli effetti civili, del giudizio di responsabilità operato dal giudice di prime cure, mediante la quale la Corte di appello è pervenuta alla valutazione della colpevolezza dell'imputato, sia pure ai soli effetti civili, senza aver, doverosamente, rinnovato l'istruttoria dibattimentale.
3. Il quadro normativo
Come già accennato, l’art. 622 c.p.p. detta la regola in tema di “annullamento della sentenza ai soli effetti civili” e prevede che «fermi gli effetti penali della sentenza, la Corte di cassazione, se ne annulla solamente le disposizioni o i capi che riguardano l'azione civile ovvero se accoglie il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell'imputato, rinvia quando occorre al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche se l'annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile».
Il fondamento della norma è comunemente individuato in quello di evitare ulteriori interventi del giudice penale ove non vi sia più nulla da accertare agli effetti penali.
“Fermi gli effetti penali”, il rinvio al giudice civile competente in grado di appello è prescritto “quando occorre” e può avvenire nelle seguenti ipotesi:
- a seguito di ricorso dell’imputato sia per i capi penali sia per quelli civili (art. 574 c.p.p.);
- se il giudice abbia dichiarato estinto il reato per amnistia o per prescrizione (art. 578 c.p.p.);
- a seguito di ricorso della parte civile contro il proscioglimento dell’imputato (art. 576 c.p.p.).
La norma è ritenuta una eccezione alla regola sia rispetto all’art. 538 c.p.p. secondo cui il giudice penale decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno soltanto nel caso in cui pronunci sentenza di condanna sia rispetto all’art. 573 c.p.p., secondo cui l’impugnazione per i soli interessi civili è proposta, trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale.
Nella fattispecie in esame, la Corte di appello, in accoglimento dell’impugnazione della parte civile ex art. 576 c.p.p., ha riformato la sentenza di primo grado ai soli effetti della responsabilità civile, condannando l’imputato al risarcimento dei danni da liquidarsi dinanzi al giudice civile.
Rileva peraltro, nel caso in esame, il dettato dell’art. 603, comma 3 bis c.p.p. (introdotto dall’art. 1, comma 58, della legge 22 giugno 2017, n. 103), che individua una specifica ipotesi eccezionale di ammissione delle prove, limitandone l’obbligo al caso in cui l’impugnazione sia stata proposta dal pubblico ministero.
4. Il contrasto
L’ordinanza di rimessione della IV Sezione penale n. 30858 del 20 ottobre 2020 ha ritenuto l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza della Corte in ordine all’individuazione del giudice civile o penale del rinvio e ha rimesso il ricorso al Primo Presidente per l’assegnazione all’esame delle Sezioni unite affinché si pronuncino sulla seguente questione:
«Se, in caso di annullamento ai soli effetti civili da parte della Corte di cassazione, per la mancata rinnovazione in appello di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, della sentenza che, in accoglimento dell’appello della parte civile avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, abbia condannato l’imputato al risarcimento del danno, il rinvio per il nuovo giudizio vada disposto dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello o al giudice penale».
Segnala l’ordinanza interlocutoria che l’obbligo di rinnovazione istruttoria discende letteralmente dalla disposizione di cui all'art. 603, comma 3-bis, c.p.p. (introdotto dall'art. 1, comma 58, legge 23/06/2017, n. 103) che sembra renderlo applicabile al solo caso in cui l'appello sia proposto dal pubblico ministero, obbligo che va ritenuto applicabile anche al caso in cui il rovesciamento della decisione sia stato sollecitato nella prospettiva degli interessi civili, a seguito dell'impugnazione della parte civile (come affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 27620 del 28 aprile 2016, Dasgupta, Rv. 267489)[4].
Due gli orientamenti giurisprudenziali delle Sezioni penali della cassazione che si fronteggiano in tema di individuazione del giudice del rinvio.
Da una parte, quello maggioritario, che ritiene necessario il rinvio al giudice civile e si fonda su un arresto delle Sezioni Unite penali che hanno stabilito come - nel caso in cui il giudice di appello dichiari non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato (o per intervenuta amnistia) su ricorso dell’imputato ex art. 578 c.p.p., senza motivare in ordine alla responsabilità dell'imputato ai fini delle statuizioni civili, l'eventuale accoglimento del ricorso per cassazione proposto dall'imputato, impone l'annullamento della sentenza con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, a norma dell'art. 622 c.p.p. (Sez. U, Sentenza n. 40109 del 18 luglio 2013, Pres. Santacroce Est. Conti, Imp. Sciortino). La ratio della norma si ravvisa nel “principio di economia che vieta il permanere del giudizio in sede penale in mancanza di un interesse penalistico alla vicenda” [5].
Questa rilevante decisione ritiene non percorribile la via dell'annullamento con rinvio al giudice penale (d'appello, che se avesse correttamente osservato la disposizione di cui all'art. 578 c.p.p., attraverso il pieno accertamento dei fatti ai fini della responsabilità civile, poteva pervenire ad escludere oltre alla responsabilità civile, anche quella penale, e anche ai sensi del comma 2 dell'art. 530 c.p.p., in applicazione dei principi espressi dalle Sezioni Unite 28 maggio 2009, n. 35490, Pres. Gemelli, Est: Romis, imp. Tettamanti,), né nell'ipotesi (oggetto del ricorso portato all'attenzione delle stesse Sezioni Unite “Sciortino”) di un ricorso dell'imputato che investa solo il capo relativo alla responsabilità civile “restando preclusa, in virtù del principio devolutivo, ogni incidenza sul capo penale, su cui è stata espressa una decisione irrevocabile”, né nell'ipotesi in cui l'imputato con il suo ricorso ritenga di investire formalmente anche il capo penale, dovendosi in tal caso ritenere inammissibile quest’ultimo ricorso in virtù del principio, in particolare affermato dalle citate Sezioni Unite “Tettamanti”, secondo cui “in presenza dell'accertamento di una causa di estinzione del reato non sono deducibili in sede di legittimità vizi di motivazione che investano il merito della responsabilità penale”, pena lo stravolgimento delle finalità e dei meccanismi decisori della giustizia penale, “in dipendenza da interessi civili ancora sub iudice che devono essere invece isolati e portati all'esame del giudice naturalmente competente ad esaminarli”. “In definitiva, in caso di accoglimento del ricorso per cassazione ai soli effetti civili, ai sensi dell'art. 622 c.p.p., l'annullamento della sentenza va disposto con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, perché la ratio della suddetta previsione è quella di evitare ulteriori interventi del giudice penale ove non vi sia più nulla da accertare agli effetti penali”. Tale orientamento maggioritario delle sezioni penali è rimasto immutato sino al 2019.
Dall’altra parte, l’orientamento minoritario che, attraverso un'interpretazione restrittiva dell'art. 622 c.p.p., ritiene necessario il rinvio al giudice penale anche nel caso di annullamento dei capi civili ove non vi sia stato un accertamento sull’an della responsabilità penale dell’imputato ovvero l'annullamento senza rinvio, in luogo dell'annullamento con rinvio al giudice civile previsto dalla disposizione citata.
Tale drastica soluzione si giustificherebbe sulla base del diritto costituzionalmente presidiato dell'accusato a ottenere una decisione che, anche in caso di assoluzione irrevocabile, esamini tutti gli aspetti della vicenda anche ai fini dell'accoglimento o del rigetto della domanda civile, secondo i canoni interpretativi e le regole processuali propri del diritto penale, prime fra tutte le regole, di rango costituzionale, del giusto processo, nelle sue diverse declinazioni[6]. L’interpretazione sarebbe compiuta con la valorizzazione dell’inciso “fermi gli effetti penali” e nell’attribuire alla dizione “quando occorre” un’ampia accezione volta ad escludere cioè i casi in cui non vi sia stato il definitivo accertamento sull’an della responsabilità.
In tal modo, dall’ambito dell’art. 622 c.p.p. resterebbero esclusi: l’annullamento delle sole statuizioni civili contenute in una sentenza di proscioglimento pronunciata dal giudice di appello ex art. 578 c.p.p.; l’annullamento della condanna al risarcimento pronunciata dal giudice di appello in accoglimento dell’impugnazione della parte civile proposta avverso la sentenza di proscioglimento di primo grado ai sensi dell’art. 576 c.p.p. e, infine, l’annullamento delle disposizioni civili contenute in una sentenza di condanna annullata senza rinvio anche agli effetti penali per sopravvenuta prescrizione del reato.
5. L’antefatto: l’orientamento della III Sezione civile
Il contrasto in esame presuppone la conoscenza di un recente disallineamento determinatosi tra gli orientamenti delle sezioni civili e penali della Corte di cassazione in ordine alle regole processuali e probatorie da applicare in caso di rinvio innanzi al giudice civile competente per valore in grado d'appello ex art. 622 c.p.p..
Alcune decisioni delle sezioni penali, nel rinviare al giudice civile agli effetti civili, avevano ritenuto quest’ultimo vincolato alle regole proprie del giudizio penale; emblematico il caso in cui, rinviando al giudice civile, la pronunce della Corte di cassazione penale dettavano il principio di valutazione della sussistenza o meno del nesso causale cui questi si sarebbe dovuto conformare cioè la regola penalistica dell’ “oltre il ragionevole dubbio” enunciata dalle Sezioni unite penali [7] e accadeva, invece, che il giudice civile, disattendendo il principio, giudicasse secondo la regola civilistica del “più probabile che non”, enunciata dalle Sezioni unite civili [8].
La III Sezione civile della Corte di cassazione con la sentenza n. 25918 del 15 ottobre 2019, Pres. Travaglino Est. Tatangelo, ha in proposito chiarito che il fondamento della scelta compiuta dal legislatore ex art. 622 c.p.p. nel rimettere le parti dinanzi al giudice civile, ben può essere ravvisato nella presa di coscienza del dissolvimento delle ragioni che avevano originariamente giustificato il sacrificio dell’azione civile alle ragioni dell’accertamento penale, a seguito della costituzione di parte civile. In tal modo, la scelta legislativa ha privilegiato il ritorno dell'azione civile alla sede sua propria.
Scelta che, del resto, aveva già trovato concorde consonanza nella interpretazione datane in passato dalle Sezioni Unite penali e civili; sul versante penale, con la citata sentenza “Sciortino” come veduto e, su quello civile, con una precedente pronuncia (a Sezioni Unite civili n. 1768 del 26 gennaio 2011, Pres. Vittoria, Est. Spirito) con la quale era stata già affrontata la questione dei limiti del sindacato del giudizio civile in tema di giudicato penale, affermando che la disposizione di cui all'art. 652 c.p.p. (così come quelle degli artt. 651, 653 e 654 del codice di rito penale) costituisce un'eccezione al principio dell'autonomia e della separazione dei giudizi penale e civile e come tale, soggetta ad un'interpretazione restrittiva e non applicabile in via analogica oltre i casi espressamente previsti. In tale ottica, la sola sentenza penale irrevocabile di assoluzione (per essere rimasto accertato che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima), pronunciata in seguito a dibattimento, ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni ed il risarcimento del danno, mentre alle sentenze di non doversi procedere perché il reato è estinto per prescrizione o per amnistia non va riconosciuta alcuna efficacia extra penale, benché, per giungere a tale conclusione, il giudice abbia accertato e valutato il fatto (nella specie, il giudice penale, accertati i fatti materiali posti a base delle imputazioni e concesse le attenuanti generiche, per effetto dell'applicazione di queste ha dichiarato estinto il reato per prescrizione); in quest'ultimo caso, il giudice civile, pur tenendo conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale, ha il dovere di rivalutare, interamente ed autonomamente, il fatto in contestazione (nella specie, il giudice civile, aveva proceduto ad un riparto delle responsabilità diverso da quello stabilito dal giudice penale).
Ripercorso l’iter decisorio delle due pronunce rese a Sezioni unite in materia, la III sezione civile del 2019 ha affermato che l’esegesi dell’espressione “rinvio” contenuta nell'art. 622 c.p.p., sebbene evochi i principi propri del giudizio di rinvio, non può tuttavia in alcun modo configurare una fase di “prosecuzione” del processo penale (ogni interesse penalistico dovendosi ritenere ormai definitivamente dissolto).
Il giudizio si presenta autonomo (benché sui generis), “sia in senso strutturale che funzionale”, essendosi realizzata la definitiva scissione tra le materie sottoposte a giudizio, mediante la “restituzione” dell'azione civile all'organo giudiziario cui essa appartiene naturalmente[9]. Ha ritenuto, inoltre, che detta restituzione si configura come una definitiva ed integrale translatio iudicii dinanzi al giudice civile, con la conseguenza che rimane del tutto estranea all'assetto del giudizio di rinvio la possibilità di applicazione di criteri e regole probatorie, processuali e sostanziali, tipiche della fase penale esauritasi a seguito della pronuncia della cassazione, atteso che la funzione di tale pronuncia, al di là della restituzione dell'azione civile all'organo giudiziario a cui essa naturaliter appartiene, è limitata a quella di operare un trasferimento della competenza funzionale dal giudice penale a quello civile, essendo propriamente rimessa in discussione la res in iudicium deducta, nella specie costituita da una situazione soggettiva ed oggettiva del tutto autonoma (il fatto illecito) rispetto a quella posta a fondamento della doverosa comminatoria della sanzione penale (il reato), attesa la limitata condivisione, tra l'interesse civilistico e quello penalistico, del solo punto in comune del “fatto” (e non della sua qualificazione), quale presupposto del diritto al risarcimento, da un lato, e del dovere di punire, dall'altro[10].
6. La composizione del contrasto sul problema dell’individuazione del giudice del rinvio
La sentenza Cremonini, dopo accurata interpretazione delle norme processuali coinvolte, in continuità con l’orientamento precedente (Sez. U. 27620 del 28 aprile 2016, Imp. Dasgupta, Pres. Canzio, Est. Conti e Sez. U. 28 gennaio 2019 n. 14426, Pres. Carcano, Est. Rago, Imp. Pavan) ha accolto il primo motivo di ricorso e annullato la decisione impugnata in quanto il giudice di appello, investito dall’impugnazione proposta dalla parte civile ai soli effetti civili avverso la pronuncia assolutoria di primo grado, aveva omesso di rinnovare d’ufficio l’istruttoria dibattimentale, adottando la decisione di riforma sulla base di un apprezzamento diverso sull’attendibilità di prove dichiarative ritenute decisive.
Sulla individuazione del giudice cui rinviare a seguito dell’annullamento ai soli effetti civili della sentenza di condanna pronunciata in appello, le Sezioni unite hanno optato per la necessità dell’annullamento con rinvio al giudice civile sulla base di una serie di considerazioni di carattere ordinamentale, storico e sistematico.
Sul versante ordinamentale, hanno posto in rilievo come l’attuale assetto processuale ispirato al sistema accusatorio che, rispetto al precedente sistema (inquisitorio, improntato al principio della unitarietà della funzione giurisdizionale e quindi della priorità e del primato della giurisdizione penale e della sua pregiudizialità rispetto agli altri processi) è caratterizzato dal principio della parità e originarietà dei diversi ordini giurisdizionali e della sostanziale autonomia e separazione dei giudizi. Separatezza che emerge, soprattutto e con chiarezza, dal dettato dell’art. 652 comma 1 c.p.p. che esclude l’efficacia di giudicato della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo di danno, ove il danneggiato dal reato abbia esercitato l’azione in sede civile a norma dell’art. 75, comma 2, c.p.p. In tale assetto, alla regola generale dell’accessorietà dell’azione civile nel processo penale dettata dall’art. 538 c.p.p., secondo cui il giudice penale pronuncia sulla domanda avente ad oggetto le restituzioni e il risarcimento del danno, solo se pronuncia condanna dell’imputato, corrispondono due eccezioni contenute negli artt. 576 e 578 c.p.p..
Sul versante storico, hanno ricostruito l’esegesi del processo che ha portato all’attuale formulazione dell’art. 622 c.p.p., disposizione di carattere eccezionale in cui ricadono le ipotesi, anch’esse eccezionali di cui agli artt. 576 e 578 c.p.p..
Sul piano sistematico, hanno precisato che la fattispecie in esame rientra nell’ipotesi di cui alla prima parte della stessa disposizione ove la condanna al risarcimento del danno è pronunciata dal giudice di appello in accoglimento della sola impugnazione della parte civile proposta avverso la sentenza di proscioglimento di primo grado ai sensi dell’art. 576 c.p.p. per vizio di motivazione derivante dall’omessa rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva ed in proposito, hanno richiamato le decisioni della Corte costituzionale che, dagli anni 90’ sino ad oggi, si sono espresse sotto diversi profili, per la compatibilità di tale assetto processuale in relazione ai principi costituzionali dettati dagli artt. 3 e 111 Cost..
Viene richiamata ampiamente pure la pronuncia delle Sezioni Unite penali del 2013 “Sciortino”, che, come veduto, aveva respinto l’orientamento che riteneva necessario che la corte di cassazione annullasse la sentenza con rinvio allo stesso giudice penale che aveva emesso il provvedimento impugnato e non a quello civile competente per valore in grado di appello ex art. 622 c.p.p.. La scelta normativa di rinvio al giudice civile in grado di appello era stata ritenuta soluzione equilibrata sia per il danneggiato che, in sede di rinvio, poteva sollecitare davanti al giudice civile anche il riconoscimento del danno non patrimoniale, negli ampi termini definiti dalla giurisprudenza civile, sia per l’imputato/danneggiante in quanto il perseguimento dell'interesse a un pieno accertamento della sua innocenza, anche ai fini della responsabilità civile, poteva ben essere assicurato dall'opzione di rinuncia alla prescrizione (art. 157, comma 7, c.p.) o all'amnistia (ex Corte cost., sent. n. 175 del 1971). La stessa pronuncia “Sciortino” aveva osservato che l'ampia dizione dell'art. 622 c.p.p. non ammette distinzioni di sorta in relazione alla natura del vizio che inficia le statuizioni civili assunte dal giudice penale che potranno riguardare sia vizi di motivazione in relazione ai capi o ai punti oggetto del ricorso sia violazioni di legge, comprese quelle afferenti a norme di natura procedurale, relative al rapporto processuale scaturente dall'azione civile nel processo penale.
Alla luce del richiamo alla sentenza “Sciortino”, la decisione in esame ha ribadito che l’ambito applicativo dell’art. 622 c.p.p. è quello di una norma di eccezione che legittima il coinvolgimento del giudice civile tutte le volte che siano venute meno le condizioni per radicare la decisione in capo al giudice penale, tenuto conto che l’incipit della stessa disposizione, nel dettare la locuzione “fermi gli effetti penali della sentenza”, significa che tutto ciò che riguarda il versante penale non può più essere posto in discussione, né la persistenza dell’interesse penalistico può essere giustificata ex art. 573 c.p.p. in quanto la cognizione delle questioni civilistiche passa, “quando occorre”, al giudice civile, competente per valore in grado di appello.
Pertanto la sentenza in esame ha ritenuto che la definitività e l'intangibilità della decisione adottata in ordine alla responsabilità penale dell'imputato, determinate dalla pronuncia con cui la Corte di cassazione annulla le sole disposizioni o i soli capi che riguardano l'azione civile (promossa in seno al processo penale), ovvero accoglie il ricorso della parte civile avverso il proscioglimento dell'imputato, provoca il “definitivo dissolvimento” delle ragioni che avevano originariamente giustificato, a seguito della costituzione della parte civile nel procedimento penale, le deroghe alle modalità di istruzione e di giudizio dell'azione civile, imponendone i condizionamenti del processo penale, funzionali alle esigenze di speditezza del procedimento.
Con l'esaurimento della fase penale, essendo ormai intervenuto un giudicato agli effetti penali ed essendo venuta meno la ragione stessa dell'attrazione dell'illecito civile nell'ambito della competenza del giudice penale, risulta – secondo la pronuncia in esame – coerente con l'attuale assetto normativo interdisciplinare che la domanda risarcitoria venga esaminata secondo le regole dell'illecito aquiliano, dirette alla individuazione del soggetto responsabile ai fini civili su cui far gravare le conseguenze risarcitorie del danno verificatosi nella sfera della vittima; l'annullamento e il conseguente rinvio al giudice civile competente comporta, in caso di riassunzione, l'assunzione della veste di attore-danneggiato della parte civile e di convenuto-danneggiante da parte di colui che nel processo penale rivestiva il ruolo di imputato.
La Corte ritiene non condivisibile il sospetto instillato dall'orientamento minoritario sull'effetto pregiudizievole derivante agli interessi della parte civile dal dover espletare dinanzi al giudice civile il proprio onere probatorio come se l'istruttoria già compiuta nella fase penale fosse stata azzerata; per sfatare tale sospetto, richiama la giurisprudenza civile di legittimità, la quale riconosce, senz’altro, al giudice civile adito per il risarcimento del danno, l'onere del riesame dei fatti emersi nel procedimento penale, pure conclusosi con sentenza assolutoria (cfr. Sezioni Unite civili, n. 1768 del 2011, cit.).
In merito alla natura del giudizio di rinvio disposto ai sensi dell’art. 622 c.p.p., la Corte compie un ampio richiamo all’orientamento di legittimità affermatosi nella giurisprudenza della III sezione civile a partire dalla citata sentenza n. 15859 del 2019 e mostra di condividerne una serie di affermazioni.
Prima fra tutte la conferma della ritenuta autonomia del giudizio civile di rinvio sia in senso strutturale che funzionale, una volta determinatasi la scissione a seguito della valutazione compiuta dal giudice nel giudizio penale; scissione, in ragione dalla quale, la Corte ritiene la non ipotizzabilità del potere della cassazione penale ex art. 622 c.p.p. di enunciare il principio di diritto al quale il giudice di rinvio deve uniformarsi, concludendo in proposito “verificatosi un giudicato agli effetti penali, appare ragionevole che all’illecito civile tornino ad applicarsi le regole sue proprie, funzionali all’individuazione del soggetto su cui, secondo il sistema del diritto civile, far gravare il costo di un danno e non la sanzione penale”.
Dall’affermata natura autonoma del giudizio civile, conseguente all’annullamento in sede penale agli effetti civili ex art. 622 c.p.p. rispetto a quello penale, discendono due ulteriori rilevanti effetti che le Sezioni unite affermano di condividere unitamente alla richiamata giurisprudenza di legittimità civile. Per un verso, la possibilità che le parti possano allegare fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno, diversi da quelli posti a fondamento di quelli in ordine ai quali si è svolto il giudizio penale, consentendo l’emendatio della domanda ai fini della prospettazione di elementi costitutivi dell’illecito penale; da ciò, a parere delle Sezioni unite penali, conseguirebbe un’attenuazione degli effetti negativi della perdita di un grado di giudizio quale conseguenza della scelta della controparte di ottenere l’annullamento. Per l’altro verso, la diversa configurazione delle regole processuali applicabili sia in tema di nesso causale sia di prove, in ragione della diversa funzione della responsabilità civile e della responsabilità penale e dei diversi fattori in gioco nei due sistemi di responsabilità.
Precisamente, sul piano del nesso di causa, viene chiarito che la regola di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio” e della garanzia costituzionale della presunzione di non colpevolezza di cui all'art. 27, comma secondo, Cost., cogente in ambito penalistico, ogniqualvolta il processo ritorni alla sede sua propria ai sensi dell’art. 622 c.p.p., non è applicabile ai giudizi risarcitori civili, i quali - in tema di accertamento del nesso causale tra condotta illecita e danno – sono governati dalla diversa regola probatoria del “più probabile che non” e ciò, tanto più ove venga richiesta in appello l'affermazione della responsabilità del presunto danneggiante (ad esempio, in caso di responsabilità da circolazione stradale, responsabilità medica, etc.).
Anche sul piano del diritto di difesa delle parti, saranno applicabili le regole processuali che governano l’istruzione probatoria nel processo civile ovvero il principio di disponibilità della prova e quello del libero convincimento del giudice che ne giustificano il prudente apprezzamento anche mediante prove cd. atipiche, idonee a concorrere all’accertamento dei fatti di causa.
Il mutamento delle regole probatorie a seguito dell’annullamento ex art. 622 c.p.p., pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dall’orientamento minoritario, “non pone problemi sotto il profilo delle esigenze difensive delle parti, danneggiato e danneggiante, che sino ad allora hanno scelto e commisurato la loro attività difensive a regole probatorie diverse”.
In conclusione, secondo le Sezioni unite penali la norma permette la restituzione della cognizione dell’azione civile al giudice naturale, confermando che il fatto integra illecito civile, così preservando le peculiarità che distinguono la responsabilità civile rispetto a quella penale.
7. La compatibilità della soluzione prescelta rispetto al diritto vivente sovranazionale e costituzionale
Con ampia e puntuale motivazione viene indagata e affermata la compatibilità di tale assetto ermeneutico concernente l’art. 622 c.p.p. rispetto alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo; in proposito viene ribadito, come già affermato dalla Corte (Sezioni Unite 29 giugno 2016 n. 46688, Imp. Schirru, Rv. 267888) che “neanche la giurisprudenza elaborata dalla Corte EDU lascia ipotizzare scenari che chiamino in causa la violazione dell'art. 117 Cost. quale parametro interposto, dovendosi considerare che, sebbene l'art. 6, § 1, della Convenzione sia stato interpretato reiteratamente come fonte di "un diritto di carattere civile" della vittima del reato a vedersi riconosciuta la possibilità di intervenire nel processo penale per difendere i propri interessi tramite la costituzione di parte civile (v. fra le molte, Corte EDU, 20 marzo 2009, Gorou c. Grecia), tuttavia, con riferimento al caso della mancata valutazione della domanda della parte civile per essersi il processo penale chiuso con provvedimento diverso dalla condanna dell'imputato, la Corte EDU non ha individuato alcuna violazione del diritto di accesso ad un tribunale: violazione che, invece, viene ritenuta ravvisabile solo quando la vittima del reato non disponga di rimedi alternativi concreti ed efficaci per far valere le sue pretese (Corte EDU, Sez. 3, 25 giugno 2013, Associazione delle persone vittime del sistema S.C. Ronnpetrol S.A. e S.C. Geonnin S.A. e altri contro Romania)”.
In relazione al caso in esame, pertanto, si sottolinea che del tutto in linea con il diritto vivente sovranazionale, l’ordinamento interno prevede la possibilità di rivolgersi al giudice civile.
Inoltre, questo meccanismo di restituzione appare rispettoso sia dei principi che governano il giusto processo che di quelli inerenti allo statuto dell’imputato-convenuto danneggiante. Sotto quest’ultimo aspetto, viene ribadito che la regola del contraddittorio permea il giudizio civile al pari di quello penale sicché nel rispetto del principio del contraddittorio avverrà il confronto tra la tesi del danneggiante e quella, avversa, del danneggiato. Sotto il profilo del giusto processo, oltre a rimarcare che, anch’esso è principio immanente sia all’ambito processuale civile sia a quello penale, la decisione in esame richiama quanto espresso dalla Corte costituzionale a proposito della compatibilità del vigente assetto con il principio di ragionevole durata del processo, in quanto “la preclusione della decisione sulle questioni civili, nel caso di proscioglimento dell'imputato per qualsiasi causa - compreso il vizio totale di mente - se pure procrastina la pronuncia definitiva sulla domanda risarcitoria del danneggiato, costringendolo ad instaurare un autonomo giudizio civile, trova però giustificazione nel carattere accessorio e subordinato dell'azione civile proposta nell'ambito del processo penale rispetto alle finalità di quest'ultimo, e segnatamente nel preminente interesse pubblico (e dello stesso imputato) alla sollecita definizione del processo penale che non si concluda con un accertamento di responsabilità, riportando nella sede naturale le istanze di natura civile fatte valere nei suoi confronti. Ciò, in linea, una volta ancora, con il favore per la separazione dei giudizi cui è ispirato il vigente sistema processuale”[11].
Conclude pertanto la decisione in commento di non condividere l’orientamento minoritario che, evocando il principio del giusto processo, ha teorizzato che il rinvio ex art. 622 c.p.p. dovesse essere necessariamente disposto al giudice penale, in quanto tenuto alla rinnovazione della prova, perché tale tesi si risolve in “una forzatura ermeneutica nell’individuazione del giudice, non supportata nel sistema processuale vigente”.
8. Notazioni conclusive
In definitiva, e con una battuta, può dirsi che il mistero che circonda l’art. 622 c.p.p. si infittisce; con tale disposizione infatti è consentito, per un verso, impugnare un capo di sentenza che non c’è, allorquando venga in appello, su richiesta della parte civile, annullata la decisione di proscioglimento dell’imputato ai soli effetti della responsabilità civile e, per l’altro, è permesso impugnare per cassazione la sentenza che, in accoglimento dell’appello della parte civile avverso la decisione assolutoria di prime cure, abbia condannato l’imputato al risarcimento del danno ai soli effetti civili, senza la rinnovazione di un’attività processuale, caso verificatosi nella specie, con la conseguenza che la prova che non c’è, perché non rinnovata secondo le regole probatorie penali, viene rimessa con rinvio all’apprezzamento del giudice civile secondo le sue proprie regole.
Al riguardo, è stato già posto in luce criticamente su questa Rivista (A. Nappi, Paradossi giurisprudenziali) come la soluzione prescelta di imporre alla Corte di cassazione l’annullamento della decisione d’appello per la violazione di una norma che non dovrà essere osservata nel giudizio di rinvio, pone una regola di dubbia utilità in quanto non vi sarebbe “alcuna logica nel censurare la violazione di una norma che non si pretende poi di vedere osservata”. La critica in realtà viene mossa al precedente (Cass., Sez. un., 28 aprile 2016, Dasgupta), condiviso dalla pronuncia Cremonini, secondo cui è necessario che “il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l'istruzione dibattimentale, anche d'ufficio”. Orientamento la cui generalizzazione a tutti i tipi di impugnazione desta perplessità, nonostante l’art. 603, comma 3 bis, c.p.p. imponga la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale soltanto nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa. In proposito, dirimente è l’assunto secondo cui la rinnovazione istruttoria deve essere considerata obbligatoria nel caso in cui l’accertamento delle responsabilità civile e penale dell’imputato sia contestuale e apprezzata dinanzi al giudice penale, non, invece, nel caso in cui sia stata chiusa definitivamente la vicenda penale e resti da accertare solo la responsabilità civile (A. Nappi, Paradossi giurisprudenziali).
Del tutto condivisibili appaiono, viceversa, le indicazioni nomofilattiche date dalla decisione in commento circa la natura autonoma del giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p., quale giudizio restitutorio e non prosecutorio rispetto a quello penale.
Da tali indicazioni discendono rilevanti conseguenze. Innanzitutto, l’aver affermato con chiarezza, componendo il contrasto tra sezioni civili e penali in proposito, l’inesistenza di un potere della Corte di cassazione penale, in sede di annullamento della sentenza penale ai soli effetti civili, di vincolare il giudice civile del rinvio ad un principio di diritto. In secondo luogo, quella di ritenere, all'esito della trasmigrazione del procedimento dalla sede penale a quella civile, cogenti le regole processuali proprie di quest’ultimo giudizio sia in tema di istruzione probatoria sia in ordine al criterio causale applicabile, tenuto conto della diversità dell'ambito entro cui l'attività difensiva viene a svolgersi, nel diverso prospettare le relative questioni (e al giudice del rinvio di deciderle) sotto il profilo non del reato, ma dell'illecito civile ex art. 2043 c.c.. Indicazioni che, come sopra accennato, possono dirsi del tutto in linea con le affermazioni rese al riguardo dall’orientamento più recente della III Sezione civile della Corte.
Echeggia sul fondo di tali rilevanti affermazioni il mai sopito dibattito inerente ai rapporti che possono insorgere tra la responsabilità civile da reato e quella da illecito civile. Moltissime le posizioni dottrinali e giurisprudenziali espresse in materia che, in questa sede, possono essere soltanto accennate.
Sul piano sostanziale, la struttura dell’illecito penale appare speculare a quella dell’illecito civile e si compone degli stessi elementi costitutivi di quella: ovvero la condotta, l’evento di danno e il nesso di causalità tra la prima ed il secondo, ma appena se ne analizzino le singole componenti sul piano probatorio processuale si scoprono differenze rilevanti; si pensi all’elemento soggettivo della condotta, ove nell’illecito civile, a differenza della responsabilità da reato, vengono previste ipotesi di responsabilità oggettiva o per fatto altrui e alle nozioni di dolo e colpa, non collimanti con quelle previste per il fatto reato. Differisce altresì la nozione di fatto che nella responsabilità penale viene tipicamente e tassativamente ricondotta all’interno di una fattispecie normativa, mentre in quella civile corrisponde ad una fattispecie atipica ovvero a qualunque fatto colposo o doloso idoneo a cagionare un danno ingiusto; ne discende una ulteriore differenza in quanto nella responsabilità penale il fatto è ex lege antigiuridico, nella responsabilità civile, invece, il requisito dell’ingiustizia è riferito al danno e non al fatto. Ulteriore terreno di disomogeneità è quello del nesso causale[12], in merito al quale le soluzioni proposte dalla giurisprudenza evidenziano che la questione non è ancora compiutamente risolta e sconta - quali fattori di criticità - la disomogeneità tra gli orientamenti adottati in ambito sia penalistico sia civilistico e la complessità di materie assai delicate, come l'infortunistica o la responsabilità professionale, le cui peculiarità specifiche hanno posto in discussione la tenuta di una ricostruzione sistematica unitaria.
Le rilevanti indicazioni date dalla sentenza in commento sul meccanismo di rinvio al giudice civile in caso di annullamento ex art. 622 c.p.p., appaiono del tutto consapevoli di tali criticità e costituiscono una tessera fondamentale ai fini della ricomposizione del mosaico. La compiuta ricostruzione di tale strumento di passaggio dal giudizio penale a quello civile appare del tutto conforme ai principi di ragionevolezza, di effettività della tutela e di bilanciamento di interessi, più volte affermati dal giudice delle leggi e dalle corti sovranazionali; difatti, apparirebbe del tutto irragionevole che il giudizio civile fosse vincolato alle regole processuali penali, una volta che questo abbia definitivamente esaurito la sua funzione [13].
In questa accezione le Sezioni unite hanno risposto agli interrogativi già posti su questa Rivista (C. Citterio, Rivive il principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale?) e hanno escluso la possibilità di protrarre l’esercizio dell’azione civile nel processo penale, pur dopo la conclusione dell’esercizio dell’azione penale, affermando con chiarezza che in tale evenienza si riespandono, intatti, i caratteri che governano l’azione civile e cioè, l’autonomia e la separatezza.
Per completezza e per dare conto delle incessanti incertezze ermeneutiche che in materia si preannunciano, de iure condendo, va segnalato l’intervento della recentissima Commissione ministeriale istituita dall’attuale ministro della giustizia, Cartabia, presieduta da Lattanzi, che ha proposto diversi emendamenti al disegno di legge A.C. 2435 recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale (presentato a firma del precedente ministro, Bonafede) che, tra l’altro e per quanto qui di interesse, propongono di incidere sull’art. 627, comma 2, c.p.p. nel prevedere quale criterio di delega che, in caso di annullamento della sentenza di proscioglimento, sia obbligatoria la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale volta ad assumere prove decisive, nonché sull’art. 622 c.p.p. nel prevedere che, in caso di annullamento della sentenza ai soli effetti civili, la Corte di cassazione annulli con rinvio al giudice civile con l’obbligo da parte di quest’ultimo di valutare le prove raccolte nel processo penale.
Di sicuro rilievo, infine, per le sue implicazioni sul tema in argomento, è la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di appello di Lecce (ordinanza del 6 novembre 2020, www.Gazzettaufficiale.it) in relazione all’art. 578 c.p.p. che, valorizzando le considerazioni sul carattere accessorio e subordinato dell’azione civile quando incardinata nel processo penale - come ritenuto anche di recente dalla Corte costituzionale (sentenza n.176 del 2019) - ha osservato che la sostanziale equiparazione della sentenza di appello (che dichiarando il reato per prescrizione confermi le statuizioni civili) ad una decisione di “condanna”, operata dall’orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di revisione (Cass. pen. sez. un. 25 ottobre 2018, n. 6141 depositata il 7 febbraio 2019, Pres. Carcano, Est. Beltrami, Imp. Milanesi[14]), obbligherebbe il giudice di appello «civile» ad una rivalutazione piena della responsabilità «penale» in ordine allo stesso fatto-reato contestato - peraltro, sulla base del medesimo materiale probatorio avuto a disposizione dal giudice di prime cure - sia pure ai fini di confermare o meno le statuizioni civili disposte dal primo giudice; ciò determinerebbe un sistema non compatibile col fondamentale principio del rispetto della presunzione di innocenza di cui all'art. 6, comma 2, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, così come declinato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, da intendersi come parametro interposto ai sensi dell'art. 117 Cost.
L’enigmatica disposizione continua dunque a rappresentare oggetto di studio, di modifiche e di confronto all’interno dell’ordinamento nazionale e proietta i suoi riflessi nell’intero sistema, ponendo nuovamente un quesito di conformità costituzionale che costituirà banco di prova, di sicuro interesse, per l’evoluzione del formante interpretativo.
[1] Cordero, Procedura Penale, Milano, 2006, 1183.
[2] Cordero, op.cit., 1183 ove viene spiegato “Ad esempio, N è stato assolto «perché il fatto non sussiste »: P, parte civile, ricorre asserendo difetti nella motivazione; la Corte li verifica; e nell'ipotesi positiva giudica fuori dai soliti modelli, con un dispositivo molto atipico, togliendo al proscioglimento irrevocabile l'effetto extrapenale. Il rinvio implica un annullamento: e qui manca l'annullabile; i capi penali sono intangibili; non esistono decisioni sul danno. Né annullamento né rinvio, dunque: o meglio, quest'ultimo avviene, davanti al giudice penale, quando fosse stata negata una «prova decisiva» (sul tema penalistico) allora chiesta dall'impugnante (art. 606 lett. d); l'unico che possa acquisirla è l'organo individuato dall' art. 623. Infine, la parte civile rinviata in appello, come prevede l'art. 622, perderebbe un grado, se non fossero mai state emesse decisioni sui danni, perché ogni volta l'imputato risultava prosciolto”.
[3] Cordero, op.cit, 1183.
[4] Ove veniva posto in luce che anche in caso di ribaltamento della pronuncia di assoluzione veniva in gioco “la garanzia del giusto processo a favore dell'imputato coinvolto in un procedimento penale, dove i meccanismi e le regole sulla formazione della prova non subiscono distinzioni a seconda degli interessi in gioco, pur se di natura esclusivamente civilistica; tanto che anche in un contesto di impugnazione ai soli effetti civili deve ritenersi attribuito al giudice il potere-dovere di integrazione probatoria di ufficio ex art. 603, comma 3, cod. proc. pen.” (così, in motivazione, Dasgupta).
[5] In proposito, la sentenza “Sciortino” afferma che non può condurre a diversa conclusione neppure "la considerazione che la disciplina che rinvia al giudice civile ogni questione superstite sulla responsabilità civile nascente dal reato, rende inevitabile l'applicazione delle regole e delle forme della procedura civile, che potrebbero ritenersi meno favorevoli agli interessi del danneggiato dal reato rispetto a quelle del processo penale, dominato dall'azione pubblica di cui può ben beneficiare indirettamente il danneggiato dal reato. Si tratta però di evenienza che il danneggiato può ben prospettarsi al momento dell'esercizio dell'azione civile nel processo penale, di cui conosce preventivamente procedure e possibili esiti, comprese le eventualità che, in presenza di cause di estinzione del reato o di improcedibilità dell'azione penale, venga a mancare un accertamento della responsabilità penale dell'imputato e che in caso di translatio judici l'azione per il risarcimento del danno debba essere riassunta davanti al giudice civile competente per valore in grado di appello. Resta naturalmente fermo che, in presenza di un danno da reato, il danneggiato, in sede di rinvio, può sollecitare davanti al giudice civile anche il riconoscimento del danno non patrimoniale, negli ampi termini definiti dalla giurisprudenza civile”
[6] Il tema si ritrova in Lavarini, Azione civile nel processo penale e principi costituzionali, Torino, 2009, 155, ove l’A. interrogatasi sull'esigenza di riflettere, de iure condendo, sull'opportunità di lasciare alla competenza del giudice penale anche il giudizio di rinvio ai soli effetti civili, in linea con la strada suggerita dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 29 del 1972: osserva che questa soluzione avrebbe l'indubbio pregio di ricondurre a coerenza il sistema, al pari di quella, affatto speculare, e pure adombrata in dottrina e nei lavori preparatori del codice di rito penale, di escludere tout court la parte civile dal processo penale.
[7] Corte cass Sez. un., 1° luglio 2002, n. 30328, Pres. Marvulli Est. Canzio, Imp. Franzese, Rv. 222138 - 01
[8] Corte cass. Sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576, Pres. Carbone, Est. Segreto, Rv. 600899 - 01.
[9] Il tema si ritrova in Lavarini, Azione civile nel processo penale e principi costituzionali, Torino, 2009, 155, ove l’A. interrogatasi sull'esigenza di riflettere, de iure condendo, sull'opportunità di lasciare alla competenza del giudice penale anche il giudizio di rinvio ai soli effetti civili, in linea con la strada suggerita dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 29 del 1972: osserva che questa soluzione avrebbe l'indubbio pregio di ricondurre a coerenza il sistema, al pari di quella, affatto speculare, e pure adombrata in dottrina e nei lavori preparatori del codice di rito penale, di escludere tout court la parte civile dal processo penale.
[10] Quanto alle regole probatorie applicabili in tema di nesso causale, la stessa decisione ha affermato che “Pertanto, riassunto il processo nella sede civile, il giudice di rinvio non è affatto vincolato, nella ricostruzione del fatto, a quanto accertato dal giudice penale: se, tecnicamente, il giudizio di rinvio è regolato dagli artt. 392 - 394 cod. proc. civ., è del tutto evidente che non è per questo in alcun modo ipotizzabile un vincolo come quello che consegue all'enunciazione di un principio di diritto ai sensi dell'art. 384, secondo comma, cod. proc. civ. da parte di questa Corte: con conseguente dovere del giudice civile, nella (libera) ricostruzione dei fatti e nella loro (libera) valutazione, di applicare del criterio civilistico del "più probabile che non" nella valutazione del nesso causale, in luogo di quello tipico del processo penale dell'alta probabilità logica, e con conseguente irrilevanza, sul piano processuale, dell'eventuale, contraria indicazione contenuta nella sentenza penale di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen.”.
[11] Corte cost. sent. n. 12 del 2016.
[12] La letteratura giuridica in argomento è sterminata; per una ricostruzione sistematica completa delle teorie sul nesso di causalità, cfr. Bianca, Diritto civile, 2012, 142 e ss.
[13] Nella richiamata pronuncia Sez. III n. 15589 del 2019, si e affermato che i principi richiamati, sembrano trovare ulteriore conferma nella stessa disposizione dell'art. 187, capoverso, c.p. la quale, statuendo per i condannati per uno stesso reato l'obbligo in solido al risarcimento del danno, non esclude, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, ipotesi diverse di responsabilità solidale: si pensi ai soggetti che non siano colpiti da alcuna condanna o siano colpiti da condanna per reati diversi o siano taluni colpiti da condanna e altri no. Cfr. in proposito, inoltre, Cass., Sez. 3 15 luglio 2005, n. 15030, Est. Segreto, Rv. 584094 - 01; Cass., Sez. 3 12 marzo 2010, n. 6041, Est. Travaglino, Rv. 612075 - 01; Cass. Sez. 3, n.1070 del 17 gennaio 2019, Est. Scoditti, Rv. 652444 - 01.
[14] Pronuncia ove si è affermato che è ammissibile sia agli effetti penali che civili, la revisione richiesta ai sensi dell'art. 630, comma 1, lett. c), c.p.p., della sentenza del giudice di appello che, prosciogliendo l'imputato per l'estinzione del reato dovuta a prescrizione o amnistia, e decidendo sull'impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, abbia confermato la condanna al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile.
Attualità del giudice amministrativo di Carlo Emanuele Gallo
Sommario: 1. Pandemia covid, recovery plan e giudice amministrativo - 2. Il giudice amministrativo giudice del potere - 3. Il giudice amministrativo di fronte al diritto soggettivo - 4. I problemi della tutela in concreto - 5. I rapporti con il giudice ordinario.
1. Pandemia covid, recovery plan e giudice amministrativo. – Il diffondersi della pandemia e le iniziative pubbliche assunte dall’esecutivo per porre rimedio alla sua diffusione così come le possibilità di intervento riformatore connesse all’attuazione del recovery plan hanno rinnovato l’attenzione critica nei confronti del giudice amministrativo e del ruolo che questi svolge nell’ordinamento.
Si sono ripetute infatti considerazioni sfavorevoli sul fatto che il giudice amministrativo intervenga nei confronti di ordinanze d’urgenza o incida su provvedimenti finalizzati alla realizzazione di questo o di quell’altro intervento in tema di lavori o di servizi: l’occasione è stata colta per rimettere in discussione la funzione e l’esistenza stessa del complesso T.A.R. – Consiglio di Stato come autonoma giurisdizione.
La riflessione della letteratura scientifica e degli operatori del settore ha avuto perciò ragione di dedicare al tema un rinnovato interesse[1].
Le critiche mosse all’esistenza e al ruolo del giudice amministrativo sono ingiuste e contraddittorie. Sono ingiuste perché il giudice amministrativo è previsto dalla Costituzione a tutela del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, cosicché la sua eliminazione costituisce una obiettiva riduzione della tutela del cittadino, in quanto comporta l’eliminazione di uno specifico rimedio che il costituente ha ritenuto necessario nei confronti dei pubblici poteri[2].
Si tratterebbe di una scelta non solo sconsiderata, posto che la tutela giurisdizionale è uno dei fondamenti dello stato di diritto e la tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione lo è ancora di più, ma anche perché a livello europeo vengono mosse critiche frequenti e fondate nei confronti dei paesi che mettono in crisi il sistema di tutela nei confronti dei pubblici poteri[3], ma altresì incomprensibile ove si tenga conto che il giudice amministrativo, negli ormai oltre centotrent’anni dalla sua istituzione nell’Italia unita, con l’aiuto della giurisprudenza della Corte Costituzionale, delle opinioni della letteratura e degli interventi del legislatore ha progressivamente accresciuto la sua capacità di rendere giustizia, arrivando ad un livello di efficacia che è riconosciuto da pressoché tutti gli operatori del settore[4].
La valutazione negativa delle ipotesi abolizioniste vale non soltanto per quella di integrale soppressione del giudice amministrativo, per il vero di rarissima proposta, ma anche per quella, più sottile, che prevede la trasformazione del giudice amministrativo in una sezione specializzata del giudice ordinario: anche questa proposta infatti condurrebbe alla scomparsa dell’esperienza e del ruolo del Consiglio di Stato, così come si sono formati nei centotrent’anni richiamati, con un sostanziale arretramento del livello di protezione del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, che è quanto si è verificato per il pubblico impiego assegnato al giudice ordinario. Il ruolo del giudice amministrativo e il suo posto all’interno della tutela giurisdizionale non possono essere ridotti ma debbono anzi essere incrementati.
L’atteggiamento esasperatamente critico e soppressivo è altresì contraddittorio, poiché allorché si lamenta il pregiudizio arrecato da una sentenza di annullamento nei confronti dell’interesse pubblico perseguito dal provvedimento annullato o si lamenta il pregiudizio arrecato al soggetto aggiudicatario di un contratto allorché il medesimo venga dichiarato inefficace, si dimentica che, di fronte a questi, vi sono i soggetti pregiudicati vuoi dal provvedimento autoritativo vuoi dal contratto stipulato dalla pubblica amministrazione.
Si tratta molto spesso di soggetti, i controinteressati, che sono dal punto di vista sociologico esattamente corrispondenti a coloro che hanno proposto il ricorso.
Il che non significa, però, che il giudice amministrativo non debba rivedere il suo atteggiamento nei confronti della pubblica amministrazione, al fine di rendere la sua funzione più efficace e più garantista per il cittadino; ma questa stessa riflessione dev’essere compiuta dal giudice ordinario, che molto spesso non esercita i poteri di cui dispone nei confronti della pubblica amministrazione o assume degli atteggiamenti di protezione della medesima che non sono giustificati.
Il problema di fondo è che giudicare dell’amministrazione è delicato, poiché si rischia di amministrare e poiché il giudice, qualunque sia, consapevole delle esigenze del pubblico interesse – ed è bene che sia così – molto spesso si trova in difficoltà a scegliere la soluzione conforme al diritto.
2. Il giudice amministrativo giudice del potere. – Il giudice amministrativo è il giudice del potere amministrativo è cioè il giudice del potere che nel nostro ordinamento è riconosciuto, unico, con la caratteristica di modificare unilateralmente, in assenza di qualsivoglia precedente determinazione consensuale anche implicita, la posizione giuridica del destinatario. Questa configurazione del potere amministrativo è unica[5] perché soltanto al fine di perseguire il pubblico interesse è possibile introdurre nell’ordinamento una disparità tra soggetti dell’ordinamento generale medesimo, che altrimenti costituirebbe una violazione dell’art. 3 della Costituzione.
Per questa ragione, d’altro canto, il giudice amministrativo è stato a suo tempo istituito e la situazione non è significativamente mutata rispetto a quella denunciata da Silvio SPAVENTA nel suo discorso di Bergamo del 1880. Anche oggi occorre che il giudice amministrativo intervenga per riportare l’amministrazione pubblica al rispetto della legge ed evitare che vi possano essere scelte dissennate oppure contrastanti con la realtà di fatto e di diritto oppure ispirate a scopi non corrispondenti a quelli previsti dalla legge.
Ne consegue che il potere di annullamento è essenziale per il giudice amministrativo e che l’annullamento ove richiesto dev’essere sempre dispensato (come del resto bene ha detto l’Adunanza plenaria)[6]. È evidente che rispetto a questa impostazione, che il giudice amministrativo segue rigorosamente limitando al massimo l’esistenza degli atti politici che sono gli unici provvedimenti che sfuggono al suo sindacato, è dissonante il riconoscimento dell’esistenza di una sfera di attività di enti pubblici rispetto alla quale il potere di annullamento non può essere esercitato: il riferimento, ovviamente, è al mondo dello sport e all’ambito limitato della giustizia sportiva, che è stato legittimato in questi termini anche di recente dalla Corte Costituzionale con una pronunzia che non è in sé condivisibile e che se intesa nella sua assolutezza (non è detto che la tutela nei confronti della p.a. sia sempre una tutela di annullamento) sarebbe da respingere ma che è viceversa giustificata soltanto dal fatto che ammettere una tutela giurisdizionale in una materia nella quale la sensibilità popolare è così vivace significherebbe trascinare il giudice amministrativo perennemente nelle piazze (così come, in effetti, succedeva allorché la giustizia amministrativa poteva occuparsi di questo tipo di problematiche).
Il fatto che il potere del giudice amministrativo possa annullare i provvedimenti amministrativi non significa che egli si debba limitare a una pronunzia cassatoria poiché, come da tempo è stato riconosciuto dalla giurisprudenza sulla scorta dell’autorevole opinione di Mario NIGRO, ben più numerosi sono gli effetti del giudicato amministrativo, effetti che giungono a consentire al giudice di individuare qual è il provvedimento corretto che l’amministrazione pubblica deve assumere.
Va subito detto che non si può criticare la scelta qualche volta eccessivamente interventista del giudice amministrativo: al di là del fatto che si tratta di ipotesi molto limitate, è molto meglio ed è più conforme al sistema un giudice che è più efficace[7] piuttosto che un giudice che rinunzia alla sua funzione[8]. Il giudice infatti non può arrestarsi al non liquet, che non significa, come ritiene la Corte di Cassazione, che sia legittimo scegliere per decidere la ragione più liquida, e cioè quella più facilmente individuabile, ma significa invece che il giudice non può rifiutarsi di individuare la soluzione alla questione che gli è sottoposta, ancorché la medesima sia di difficile discernimento. Molto spesso, poi, l’intervento che può sembrare sopra le righe del giudice amministrativo è conseguenza della confusione che vi è a livello normativo, che rende evanescente la distinzione tra giurisprudenza dei concetti e giurisprudenza degli interessi poiché costringe il giudice ad individuare di volta in volta in una congerie di disposizioni contraddittorie e ridondanti qual è la ratio che deve seguire alla luce della Costituzione.
Il fatto che il giudice amministrativo sia il giudice del potere e che l’annullamento sia l’elemento centrale della sua funzione non significa però che egli non debba svolgere la sua attività anche allorché l’amministrazione pubblica non procede, rimanendo inerte definitivamente o per lungo tempo ritardando l’assunzione dei provvedimenti che le spettano. Il cittadino infatti è danneggiato sia dal provvedimento illegittimo sia dall’assenza del provvedimento o dal suo tardivo intervento. La scelta della giurisprudenza, in qualche misura accompagnata dal Codice, di consentire perciò interventi incisivi è una scelta anche in questo caso da condividere e si deve ribadire che il fatto che l’amministrazione rimanga inerte non giustifica una diminuzione della tutela, potendo il giudice amministrativo nei confronti del silenzio arrestarsi soltanto laddove vi sia una valutazione assolutamente discrezionale che non è in nessun modo anticipabile in giudizio. Si tratta peraltro di ipotesi rarissime[9] di modo che, di norma, il giudice amministrativo è sempre in grado di individuare il provvedimento che dev’essere adottato (è sufficiente non dilatare le ipotesi di discrezionalità assoluta e considerare invece quanti limiti in ordine all’an, al quomodo e al quando sono previsti dal legislatore o sono stati introdotti dalla stessa amministrazione nei precedenti atti normativi o generali o nelle precedenti fasi del procedimento).
In considerazione del fatto che la Costituzione distingue le giurisdizioni sulla base della posizione soggettiva, il giudice amministrativo può conoscere della lesione di interessi legittimi, che sono la posizione soggettiva connessa all’esercizio del potere[10].
Non si tratta però di una connessione episodica, e cioè legata al singolo provvedimento, come si riteneva alla fine dell’800, e nemmeno di una connessione che sia legata soltanto all’inizio del procedimento, come in qualche misura era possibile ritenere sulla base della legge 7 agosto 1990, n. 241 ma invece di una connessione stabile, che lega il cittadino all’amministrazione pubblica ogni qualvolta la sua posizione soggettiva sia contemplata dal legislatore in relazione all’esercizio del potere amministrativo. Così, il proprietario di un terreno è legato all’amministrazione già dal momento in cui la medesima si pone il problema della pianificazione essendovi tenuta dalla legge e cioè ben prima che lo stesso procedimento di pianificazione sia attuato: la riprova sta nel fatto che è possibile al cittadino richiedere all’amministrazione di completare la pianificazione con riferimento alle zone bianche, che siano un reliquato, cosa che ovviamente non potrebbe fare se l’interesse legittimo nascesse soltanto nel momento in cui l’amministrazione avvia il procedimento di pianificazione.
Questo rapporto con l’amministrazione, che è qualificabile come rapporto giuridico amministrativo, giustifica i poteri più incisivi che il giudice amministrativo ha e anche la configurazione della giurisdizione amministrativa come giurisdizione di spettanza e cioè come giurisdizione che deve giungere, ove la domanda sia fondata, ad individuare qual è il bene della vita che spetta al cittadino. Questo è possibile però soltanto se la domanda è fondata anche con riferimento al rinnovato esercizio del potere dell’amministrazione e pertanto anche con riguardo agli eventuali margini di discrezionalità che il giudice amministrativo può ripercorrere.
Se l’azione viceversa non è fondata, questo non significa che non esista l’interesse legittimo ma semplicemente che i vizi denunciati non sussistono; l’interesse legittimo per questa ragione non ha in sé come patrimonio ineluttabile il bene della vita costituito dal provvedimento amministrativo favorevole ma ha in sé soltanto il bene della vita costituito dalla pretesa che l’amministrazione proceda nel rispetto della legge, il che può significare che giunga ad adottare il provvedimento favorevole oppure no.
È questa la differenza rispetto alla situazione in cui ci si trova avanti il giudice ordinario, che decide sul diritto soggettivo, di modo che il diritto soggettivo esiste se il bene della vita preteso spetta, non esiste se il bene della vita preteso non spetta[11].
3. Il giudice amministrativo di fronte al diritto soggettivo. – La configurazione che si è illustrata muta, come è ben noto, allorché il legislatore attribuisce al giudice amministrativo la cognizione anche del diritto soggettivo: in questo caso, infatti, il giudice amministrativo si deve comportare come un giudice ordinario, e quindi deve provvedere esattamente negli stessi termini[12].
Anche la pretesa al risarcimento del danno da lesione all’interesse legittimo corrisponde ad un diritto soggettivo, come bene ha detto la Corte di Cassazione nella nota sentenza n. 500 del 1999. L’interesse legittimo in sé non ha una pretesa risarcitoria, ma può dar luogo ad una pretesa risarcitoria od anche ad una pretesa indennitaria.
L’affermazione compiuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 204 del 2004, secondo la quale il risarcimento da lesione dell’interesse legittimo è un completamento della tutela dell’interesse legittimo stesso, è stata compiuta soltanto per contrastare l’opinione in forza della quale, poiché l’interesse legittimo è la posizione ordinaria nei confronti della pubblica amministrazione, così facendo si sarebbe riconosciuto al giudice amministrativo un caso di giurisdizione esclusiva di carattere generale, e perciò non corrispondente ai rigidi paletti introdotti dall’art. 103 Cost.. In realtà, il problema non esisteva perché il risarcimento dalla lesione degli interessi legittimi è in sé una particolare materia, diversa dal diritto soggettivo al risarcimento per la lesione di diritti soggettivi.
Non vi è comunque motivo per ridurre il numero e l’ampiezza delle materie di giurisdizione esclusiva, poiché anche oggi l’eliminazione della difficoltà in ordine all’individuazione del giudice al quale rivolgersi, inevitabile a fronte della pluralità delle giurisdizioni, è una obiettiva situazione di vantaggio. Va da sé che la giurisdizione esclusiva non può essere così dilatata da eliminare la pluralità delle giurisdizioni, ma non è nemmeno comprensibile che la funzione semplificatrice della medesima venga vanificata con l’individuazione all’interno di ogni materia delle controversie attribuite al giudice amministrativo oppure no, così come fa attualmente la Corte di Cassazione. Il sistema infatti per essere utile dev’essere accessibile.
Quanto detto in ordine alla giurisdizione esclusiva può essere confermato anche per quanto concerne la giurisdizione anche in merito, che talvolta interessa diritti soggettivi talvolta no, poiché la possibilità per il giudice amministrativo di conoscere anche dell’opportunità dell’atto e di adottare interventi sostitutivi dell’amministrazione è una possibilità che amplia la tutela del cittadino: se già alla fine dell’800 il legislatore, pur provenendo da un sistema nel quale la giurisdizione amministrativa era stata soppressa come giurisdizione del contenzioso, ha ritenuto di poter mantenere dei casi di giurisdizione anche in merito, non si vede perché, nel momento in cui l’esigenza della tutela giurisdizionale nei confronti della p.a. è più avvertita ed è garantita a livello costituzionale possa considerarsi un progresso la diminuzione di questa tutela.
La sensazione che si trae da queste opinioni è che non vi sia in realtà una volontà di incrementare il livello di protezione del cittadino ma vi sia o il perseguimento di obiettivi di riconquista di spazi giurisdizionali o la volontà di affermazione di teoriche astratte non più giustificate (da questo punto di vista il riconoscimento della possibilità di risarcimento della lesione di interessi legittimi ha tolto un argomento particolarmente significativo alle tesi di coloro che sostenevano la prevalenza della giurisdizione ordinaria come effettività di tutela).
4. I problemi della tutela in concreto. – Il ruolo del giudice amministrativo e la sua giurisdizione hanno dato origine a un sistema che pressoché tutti ritengono efficace ed apprezzabile. Questo non toglie che vi siano dei profili e degli aspetti per i quali un perfezionamento e un completamento sono necessari, e potrebbero essere anche disposti tempestivamente approfittando appunto del cantiere delle riforme che è in corso di installazione.
Il giudice amministrativo, anche per quanto concerne la verifica della correttezza dell’esercizio del potere, molto spesso si astiene non solo da una verifica puntuale del potere discrezionale, ma anche dall’accertamento specifico della realtà di fatto, sia della realtà di fatto intesa in modo semplice sia dalla realtà di fatto intesa in modo complesso (secondo la nota distinzione tra fatti semplici e fatti complessi). Non si tratta di una limitazione accettabile ed egli dev’essere stimolato a procedere oltre sulla strada dell’accertamento dei fatti e, di conseguenza, occorre eliminare le previsione restrittive sull’uso della consulenza tecnica d’ufficio e sull’assunzione dei testimoni[13].
Si tratta di innovazioni processuali che possono indurre il giudice amministrativo ad un uso più incisivo dei poteri istruttori, per l’utilizzazione dei quali potrebbe essere introdotta anche una camera di consiglio ai fini istruttori, che consenta un contraddittorio tra le parti e il giudice anche in ordine a questi provvedimenti indipendentemente dalla fissazione dell’udienza e senza rimettere il tutto al presidente che, come è noto, non è in condizioni materiale di provvedere.
Il giudice amministrativo è poi estremamente restio nell’accordare il risarcimento del danno; l’espressione è eufemistica, poiché nei fatti il giudice amministrativo non accorda il risarcimento dei danni, o individuando ogni possibile ragione per negarlo oppure semplicemente astenendosi dal fissare l’udienza per la discussione dei relativi ricorsi.
Si tratta di un atteggiamento inaccettabile, che talvolta il giudice amministrativo esplicita, e che non tiene conto del fatto che la moderna concezione dell’interesse legittimo comprende in sé l’esistenza di una connessa posizione di diritto soggettivo ai fini risarcitori.
Soltanto l’attivazione di questa possibilità può spingere l’amministrazione pubblica a comportarsi correttamente, cosicché la condanna al risarcimento può svolgere una funzione educativa, come è stato più volte ricordato.
Viceversa, l’assenza di questa condanna legittima un atteggiamento neghittoso della p.a., che non si vede esposta a rischi di nessun genere, nemmeno a livello personale in capo agli amministratori o dirigenti. Da questo punto di vista l’impostazione del giudice amministrativo deve cambiare radicalmente: anche la condanna indennitaria prevista per il ritardo dall’art. 2 bis della legge n. 241 del 1990 non ha avuto nessun successo, come è dimostrato dal fatto che quei rari casi che si individuano nella giurisprudenza sono di rigetto. Viceversa, questo tipo di possibilità dovrebbe essere esplorata con maggior disinvoltura dal giudice amministrativo poiché consente l’applicazione di un’indennità di contenuto sostanzialmente modesto ma significativa della indicazione del dovere di provvedere (e non vi è nessun ostacolo a interpretare la disposizione che ha introdotto questa ipotesi come tutt’ora vigente).
5. I rapporti con il giudice ordinario. – Se il giudice amministrativo è per certi aspetti timoroso nei confronti della pubblica amministrazione, non è più audace il comportamento del giudice ordinario[14]. Basta considerare che il giudice ordinario non utilizza mai nei confronti della pubblica amministrazione i poteri estremamente incisivi, anche costitutivi, che gli sono attribuiti in materia di controversie di lavoro, riconoscendo alla pubblica amministrazione dei poteri discrezionali insindacabili e incoercibili come se l’amministrazione pubblica fosse un datore di lavoro privato e perciò dilatando a dismisura la libertà organizzatrice dell’imprenditore pubblico, con una drastica riduzione di tutela rispetto a quella che era accordata dal giudice amministrativo[15].
Ma per il vero, la Corte di Cassazione si è comportata nello stesso modo ogni qualvolta ha dovuto confrontarsi anche indirettamente con l’esercizio del potere, basti pensare alla giurisprudenza in tema di accessione invertita o di occupazione acquisitiva[16] oppure alla individuazione dei rapporti tra l’indennità di espropriazione e i poteri di pianificazione, per estendere i quali con effetti negativi sulla prima si è dato spazio ad ogni tipo di interpretazione (con l’unico limite del cosiddetto vincolo lenticolare).
La reazione della Cassazione rispetto alle attribuzioni di giurisdizione al giudice amministrativo perciò non pare ispirata alla volontà di accordare maggior tutela ma ispirata piuttosto alla volontà di preservare lo spazio di giurisdizione assegnatole tradizionalmente dall’ordinamento. Si tratta di una vera e propria actio finium regundorum[17], che, però, si è ritorta a danno della Cassazione con la sentenza della Corte Costituzionale 18 gennaio 2018, n. 6, che ha limitato la possibilità di intervento della Corte di Cassazione nei confronti delle sentenze del Consiglio di Stato appunto alla violazione dei confini. La sentenza della Corte Costituzionale è indubbiamente andata al di là di quanto era ragionevole, poiché la valutazione in termini di sussistenza della giurisdizione non è soltanto una valutazione in relazione alla ricomprensione della controversia nelle materie assegnate ma è anche una valutazione in ordine al rispetto dei requisiti fondamentali della funzione giurisdizionale. Tra questa ipotesi potrebbe esservi anche quella della ribellione alle sentenze della Corte di Giustizia. Nel caso esaminato dall’ordinanza della Corte di Cassazione del 18 settembre 2020 n. 19598, però, la ribellione non vi è stata, anche perché nel momento in cui l’ordinanza è stata pronunciata il Consiglio di Stato già si era adeguato all’ultima pronunzia della Corte di Giustizia in merito[18]. L’ordinanza del settembre 2020, perciò, è espressione di una volontà di riconquista di un ambito da parte della Corte di Cassazione, in modo astratto, volontà di riconquista, però, che così come formulata è incompatibile con il fatto che la Corte di Cassazione designa ben tre giudici della Corte Costituzionale di modo che non ha nessun senso che contesti la pronunzia della medesima e con il fatto che, essendo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione al vertice del nostro ordinamento giudiziario, esse debbono avere la sensibilità istituzionale di non portare una disposizione della Costituzione all’esame di un giudice sovranazionale[19].
È peraltro da escludere che nel nostro sistema vi sia, come viceversa taluno ipotizza[20], una marginalizzazione del ruolo del giudice ordinario, e di conseguenza della Corte di Cassazione, nei confronti della pubblica amministrazione. I rapporti tra i due giudici non dipendono dalle norme processuali ma viceversa dalle scelte sostanziali del legislatore in ordine alla configurazione della posizione soggettiva dei cittadini nei confronti dell’amministrazione e alla qualificazione del potere e dell’azione di quest’ultima nei loro confronti (anzi, di norma, il rapporto è rovesciato, il legislatore si preoccupa prima dell’azione dell’amministrazione e solo di riflesso della posizione dei cittadini). Le vicende dello stato a diritto amministrativo hanno ovviamente un’influenza sui confini fra le giurisdizioni. Ma il giudice ordinario, al quale è assegnato un ruolo sempre centrale, anche nei confronti dei poteri pubblici, ha comunque un ampio spazio nel quale può muoversi per arricchire in concreto la tutela del cittadino, da un lato esercitando, come già più sopra si è richiesto, i suoi poteri di decisione laddove attribuitigli dall’ordinamento, dall’altro affinando le tecniche di verifica della liceità dell’azione amministrativa, riempiendo di contenuto i concetti di correttezza e buona fede, che sempre più si debbono allontanare da concetti giuridici indeterminati per assumere un contenuto articolato a somiglianza di quanto è avvenuto per l’eccesso di potere. Più il giudice ordinario sviluppa questa sua capacità di tutela, più è effettivo il suo ruolo di custode dei diritti dei cittadini. E, ancora, questa funzione del giudice ordinario viene ad agire da stimolo nei confronti del giudice amministrativo affinché anch’egli non rinunci a perfezionare le tecniche di sindacato sull’attività autoritativa dell’amministrazione che sperimenta fin dalla sua istituzione.
Anziché avviare una contesa l’un contro l’altro, i due giudici debbono cooperare perché sia sempre più garantita la tutela giurisdizionale nei confronti della p.a. che è uno dei principi fondamentali della Carta Costituzionale, nella fissazione del quale i costituenti si sono impegnati ed hanno raggiunto punti di rilievo, pur non essendone probabilmente all’epoca del tutto consapevoli.
È evidente che i rapporti fra il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione comunque incontrano dei momenti di frizione ed è necessario che queste frizioni vengano ricondotte il più possibile alla normalità delle vicende processuali[21], dovendosi tener presente che stante le diverse opinioni la stessa funzione nomofilattica è tendenziale[22].
Probabilmente, la soluzione potrebbe essere quella di un tribunale dei conflitti, che però, proposto già dagli inizi del ‘900 non è mai stato istituito per le varie resistenze che ciascuno dei soggetti coinvolti frappone ad ogni profonda modificazione. L’istituzione di un organo a ciò dedicato potrebbe essere effettuata anche in assenza di una riforma costituzionale, se la si configurasse come una particolare modalità di composizione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione allorché giudicano su questioni di giurisdizione[23]. La composizione delle Sezioni della Corte di Cassazione, ed anche delle Sezioni Unite, infatti, è contenuta in una legge ordinaria, la legge sull’ordinamento giudiziario, e la presenza dei Consiglieri di Stato nelle Sezioni Unite, unitamente ai magistrati della Corte dei Conti, non può certo costituire una violazione dell’art. 102 della Costituzione.
Va considerato infatti che quella previsione era volta ad evitare che all’interno della giurisdizione ordinaria potessero essere istituiti giudici speciali o straordinari, non certo ad evitare che giudici forniti delle medesime garanzie appartenenti ad organi giurisdizionali che la Costituzione espressamente salvaguarda (il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti) dovessero essere radicalmente esclusi dal partecipare a specifiche funzioni del giudice ordinario. La Carta Costituzionale, infatti, ammette che, con determinate garanzie, addirittura cittadini estranei alla magistratura possano prendere parte all’amministrazione della giustizia, a’ sensi del secondo comma dell’art. 102, e che soggetti estranei, ma qualificati, e cioè gli avvocati e i professori universitari, possano essere nominati consiglieri di Cassazione a’ sensi del successivo art. 106. I giudici del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, perciò, proprio per il loro status e la loro funzione, ben possono essere coinvolti in specifiche funzioni presso la Corte di Cassazione, anche soltanto in forza di una legge ordinaria.
Le Sezioni Unite a questo fine potrebbero essere composte da nove magistrati, tre dalla Cassazione, tre del Consiglio di Stato e tre della Corte dei Conti e la presidenza potrebbe essere assegnata a turno al magistrato più anziano del plesso giurisdizionale non coinvolto nella questione di giurisdizione. Le Sezioni Unite dovrebbero risolvere la questione di giurisdizione e rimettere ad altra composizione la soluzione delle altre questioni eventualmente connesse.
Un organo di questo tipo, che non costituirebbe un apparato apposito con tutti i costi e gli inconvenienti conseguenti, potrebbe stemperare i rapporti tesi che periodicamente insorgono tra le giurisdizioni[24], ferma restando la necessità che si affermi uno spirito di collaborazione, già auspicato nel memorandum del 15 maggio 2017 e favorito dagli studi comuni recenti[25].
[1] Il riferimento è, in particolare, al numero 1 del 2021 della rivista Questione Giustizia, interamente dedicato al tema, ed aperto da un pensoso editoriale di N. ROSSI, Il policentrismo giurisdizionale e la coesistenza di sistemi di tutela giurisdizionale diversi ed equiordinati, che ritiene la coesistenza necessaria, pur con reciproche criticità.
[2] Sottolinea il ruolo del sindacato giurisdizionale per evitare deviazioni e disfunzioni in fase di attuazione delle leggi G. NAPOLITANO, Giustizia amministrativa e logica del diritto amministrativo (anche alla luce della pandemia), in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[3] Del resto, a livello europeo la presenza di giurisdizioni dedicate alla tutela nei confronti della p.a. è cresciuta, come rileva A. PAJNO, Ricostituzione della fiducia e dialogo fra le giurisdizioni, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[4] Significativamente, F. G. SCOCA, Processo amministrativo e giusto processo, in Dir. e proc. amm., 2021, p. 1 ss, afferma che è “indiscutibile”che il processo amministrativo si sia profondamente evoluto fino ad essere almeno in potenza uno strumento pienamente efficace di tutela nei confronti della pubblica amministrazione. Anche nella pandemia il giudice amministrativo ha fornito una risposta adeguata, come sottolinea M. A. SANDULLI, Il giudice amministrativo come giudice dell’emergenza, in Giustizia Insieme, 21 aprile 2021.
[5] Evidenzia questa specificità F. PATRONI GRIFFI, Contributo al dibattito sul giudice amministrativo come risorsa, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[6] Ed è significativo che da ultimo l’appellabilità del decreto cautelare presidenziale sia stata ammessa se i tempi del decidere altrimenti lasciano spazio soltanto al rimedio risarcitorio: Cons. Stato, Sez. II, decreto 4 maggio 2021, n. 2289, commentata da I. GENUESSI, Sull’appellabilità del decreto cautelare monocratico: tra esigenze di tutela conseguenti alla pandemia e orientamenti giurisprudenziali contrastanti, in Giustizia Insieme, 20 aprile 2021.
[7] L’accresciuta efficacia del sindacato del giudice amministrativo è riconosciuta da G. MONTEDORO – E. SCODITTI, Il giudice amministrativo come risorsa, e da G. SEVERINI, Attualità e qualità della giustizia amministrativa tra trasformazione del potere pubblico e strumentazioni processuali, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[8] Il che non significa avallare ogni scelta interpretativa creatrice della giurisprudenza, come ben sottolinea M. A. SANDULLI, Incostituzionalità dell’interpretazione analogica “creativa” in malam partem (nota a Corte Cost. 14 maggio 2021, n. 98), in Giustizia Insieme, 31 maggio 2021.
[9] Ne individua talune D. U. GALETTA, L’azione amministrativa e il suo sindacato: brevi riflessioni in un’epoca di algoritmi e crisi, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[10] L’approfondita ricostruzione dell’istituto è in F. G. SCOCA, L’interesse legittimo – Storia e teoria, Torino, Giappichelli, 2017, che a pag. 399 ss. esamina la situazione attuale del problema. L’opinione qui espressa è più ampiamente argomentata in C. E. GALLO, Attualità dell’interesse legittimo, in Studi in memoria di A. ROMANO TASSONE, Editoriale Scientifica, II, Napoli, 2018, p. 1285 ss..
[11] Anche nel dibattito attuale vi sono diverse posizioni circa la natura delle due posizioni soggettive. Ritengono che si debba distinguere F. FRANCARIO, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria e M. FRACANZANI, Per un giudice amministrativo veramente speciale, mentre sostiene la piena equiparazione L. FERRARA, Il giudice amministrativo come risorsa o come problema?, tutti in Questione Giustizia, n. 1/2021 (lo scritto di F. FRANCARIO è anche in Giustizia Insieme, 24 maggio 2021.
[12] Così anche M. LIPARI, La giustizia amministrativa italiana: una risorsa di qualità tra criticità e nuove prospettive, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[13] Insiste sulla necessità del pieno accertamento del fatto M. A. SANDULLI, La “risorsa” del giudice amministrativo, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[14] M. CLARICH, Riflessioni sparse sul dualismo giurisdizionale non paritario, in Questione Giustizia, n. 1/2021, correttamente osserva che il giudice amministrativo ha meno familiarità con le questioni risarcitorie mente il giudice ordinario ha meno familiarità nell’apprezzare gli atti amministrativi.
[15] Si vedano, per la limitata possibilità di una sentenza costitutiva, Cass., Sez. Lav., 23 giugno 2020, n. 12368 e viceversa, per una più incisiva pronunzia indennitaria, Cass., Sez. Lav., 9 marzo 2021, n. 6485.
[16] Vicenda complicatissima anche nelle più recenti configurazioni: G. TROPEA, Giurisdizione e acquisizione sanante: l’ennesima sciarada (nota a Cass., Sez. I, ord. n. 29625/2020, in Giustizia Insieme, 27 gennaio 2021.
[17] Criticata anche da L. VIOLANTE, Per una concezione “non proprietaria” della giurisdizione, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[18] Un atteggiamento più prudente è stato assunto da una successiva pronuncia commentata da P. BIAVATI, Il rilievo della questione pregiudiziale europea fra processo e giurisdizione (nota a Cass., Sez. un., 30 ottobre 2020, n. 24107, in Giustizia Insieme, 14 gennaio 2021.
[19] Questo non significa ovviamente che non sia possibile alla Corte di Cassazione rappresentare ai giudici sovranazionali opinioni diverse da quelle accolte dalla Corte Costituzionale, come del resto spesso fa lo stesso giudice amministrativo: si veda, in proposito, il commento di R. PAPPALARDO, La corsa al dialogo nella discordia sulla giurisdizione (nota a Cons. St., ord. 18 marzo 2021, n. 2377), in Giustizia Insieme, 5 aprile 2021, a proposito della rimessione alla Corte di Giustizia della questione circa l’impossibilità di esperire un ricorso in revocazione nel caso di successiva pronunzia dissonante della Corte di Giustizia.
[20] Si veda la posizione espressa da A. LAMORGESE, La maionese impazzita delle giurisdizioni, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[21] Anche se ogni criterio di riparto crea problemi, il pluralismo giurisdizionale è una ricchezza: così M. RAMAJOLI, Pluralismo giurisdizionale e situazioni soggettive sostanziali, in Questione Giustizia, n. 1./2021.
[22] Così pure A. TRAVI, Il giudice amministrativo come risorsa!, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[23] Ipotesi che pare ritenere praticabile R. RORDORF, Il ragno e la tela: note a margine di uno scritto di Scoditti e Montedoro sulla pluralità delle giurisdizioni, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[24] Favorevole ad eterointegrazioni reciproche degli organi di vertice delle giurisdizioni, ma previa modificazione del testo costituzionale, pare anche L. ROVELLI, Riflessioni sul tema del pluralismo delle giurisdizioni, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[25] Iniziative sulle quali insiste, proponendone anche una istituzionalizzazione, A. COSENTINO, Qualche riflessione su pluralità delle giurisdizioni e nomofilachia, che si dichiari invece contrario ad una composizione mista delle Sezioni Unite, della quale ricorda analiticamente le precedenti proposte.
Prosegue ancora la riflessione di Giustizia insieme sul Programma di gestione per l'anno 2021 della Corte di Cassazione. Agli interventi di Renato Rordorf - Commento al punto 11: “La motivazione dei provvedimenti” - di Bruno Capponi - Lampeggi sulle motivazioni - e dell'Avv. David Cerri su Chiarezza e concisione nel linguaggio del giudice (e delle parti) - si aggiunge, oggi, il contributo di Marco Dell’Utri sul tema degli stereotipi nel ragionamento giuridico.
Sugli stereotipi nel ragionamento giuridico
di Marco Dell’Utri
La Relazione illustrativa del Primo Presidente della Corte di Cassazione sul programma di gestione per l’anno 2021 dedica un significativo passaggio al tema dell’uso degli stereotipi (e, in particolare, di quelli di genere) nei provvedimenti del giudice.
Muovendo da questo spunto, il saggio propone una particolare riflessione sulle radici del pregiudizio (di cui lo stereotipo rappresenta una delle forme più tipiche di manifestazione), e sembra rinvenire, lungo il proprio cammino (dalla relazione uomo-donna, alle più recenti questioni dell’affettività delle coppie same sex e del relativo accesso ai procedimenti di procreazione medicalmente assistita o al sistema delle adozioni dei minori, fino ai temi più controversi posti dal transessualismo), i segni dell’antica, e mai sopita, disputa sui rapporti tra diritto e natura.
E con le profonde ragioni di quella disputa, chiama il giurista (e il giudice in primo luogo) – già nella composizione e nello stile formale della propria pagina – a misurarsi con umiltà e consapevolezza.
Sommario: 1. Sul linguaggio delle sentenze - 2. Linguaggio giuridico e stereotipi di genere - 3. La natura del pregiudizio - 4. Dell’“ordine naturale delle cose” - 5. Stereotipi di genere e dimensione sovranazionale - 6. Il diritto tra “ordine naturale” e artificio - 7. Per una lettura del “programma”.
1. Sul linguaggio delle sentenze
Si segnala come un invitante richiamo, tra le righe di un documento di prevalente destinazione burocratica, il passaggio della relazione sul “programma di gestione” redatta dal Primo Presidente della Corte di cassazione dedicato alla motivazione delle sentenze.[1]
Il tema, sviluppato lungo l’intero par. 11, è affrontato, in primo luogo, sotto il profilo della chiarezza e della comprensibilità del linguaggio dei provvedimenti del giudice che si rivendica come segno di un patrimonio professionale, e quindi della necessaria sinteticità, cui pure è associato il richiamo erudito alla concinnitas di derivazione ciceroniana; si tratta, con riguardo a ciascuna di tali caratteristiche, di qualità destinate ad assolvere al compito di agevolare la “progressione logica del ragionamento”; di scongiurare il rischio di “inutili ripetizioni”; di favorire “un confronto costruttivo tra le parti e tra queste e il giudice”, nell’incontro con l’altrettanto auspicata agilità o funzionalità dello stile che si prospetta come destinato a caratterizzare anche gli scritti che provengono dalle parti.
La riflessione teorica del ceto giudiziario sui temi dello stile e del linguaggio delle sentenze ha conosciuto nel tempo – segnatamente attraverso l’impulso delle strutture tradizionali della formazione (il Consiglio superiore della Magistratura nelle sue articolazioni interne, prima, la Scuola superiore della Magistratura, più di recente) – momenti di significativo approfondimento, tanto in chiave storico-culturale, quanto più strettamente sul piano dell’analisi delle tecniche redazionali dei provvedimenti giudiziari: un percorso di ricerca destinato a portare alla luce i significati che si nascondono nei diversi modi di giustificare la decisione; un discorso che appartiene alla storia delle idee e delle concezioni proprie sull’autorità o sul potere, nelle diverse latitudini geografiche o secondo le sensibilità proprie di aree nazionali o culturali di differente estrazione.
Non costituisce dunque un elemento di particolare originalità, in tal senso, il ritorno, da parte del documento di programmazione gestionale della nostra Corte Suprema, ai temi dello stile e del linguaggio dei provvedimenti, specie se collocato sullo sfondo di un prospettato recupero di funzionalità complessiva che l’adozione di modelli di più sobria o agile composizione formale consentirebbe di realizzare.[2]
2. Linguaggio giuridico e stereotipi di genere
Una questione di ben altro respiro o profondità culturale sembra, viceversa, potersi cogliere con riguardo al passaggio della relazione sul programma di gestione che si spinge a considerare il “non sufficientemente esplorato” aspetto dell’uso degli stereotipi, e “in particolare, di quelli di genere”, come punto critico di caduta della qualità o della stessa credibilità del discorso del giudice. Il documento sottolinea come la lingua manifesti e, allo stesso tempo, condizioni il nostro modo di pensare: “essa incorpora una visione del mondo e ce lo impone. Il linguaggio, quindi, non è soltanto uno strumento di informazione e comunicazione, ma rappresenta uno dei più importanti sistemi simbolici a nostra disposizione e uno degli strumenti privilegiati per la costruzione della soggettività individuale, compresa l’identità di genere”. Della lingua si sottolinea l’idoneità, non solo a rispecchiare i valori che si affermano in un determinato contesto sociale, ma a concorrere alla loro determinazione: “il linguaggio, sia esso quello storico-naturale che quello giuridico, racchiude la sedimentazione di tutti i significati individuali e collettivi attribuiti alle parole nel corso del tempo, nonché delle idee, dei giudizi di valore, dei comportamenti elaborati a livello formativo e sociale”. Da questa prospettiva, la relazione sul programma di gestione dichiara apertamente di fare proprio il contributo del Comitato per le pari opportunità, ritenendo “non più procrastinabile l’approfondimento sulla costruzione del ragionamento giuridico, sulle categorie da esso utilizzate, sul linguaggio, sulla loro “permeabilità” ai cambiamenti e alle nuove sensibilità maturate nella società con riferimento al tema del pregiudizio di genere e di ogni forma di discriminazione”.[3]
Poco più di un anno fa, questa rivista aveva segnalato, attraverso una delle sue “interviste”, la necessità di tornare a riflettere sul tema, significativo, del lessico di genere.[4] Si pose in evidenza, allora - sulle tracce del discorso heideggeriano sul linguaggio[5], e sull’attitudine “archeologica” e “decostruttiva” della ricerca sul potere (nel significato assunto da tali termini secondo le proposte teoriche di Foucault e Derrida[6]) - come l’ordine del discorso non sia mai innocente, spettando a ciascuno, nella misura in cui si nutre o si serve del linguaggio, porsi l’interrogativo radicale sulle origini, la funzione e lo scopo dello strumento comunicativo adoperato, di demistificarne l’aura quasi-sacrale, di decostruirlo appunto, affinché abbia a emergere la tessitura complessa dei poteri e delle culture che ne hanno, nel tempo, forgiato le forme e i contenuti simbolici. Si ammonì, allora, come nel quadro dei poteri che percorrono (talora apertamente, più spesso sotterraneamente) la struttura delle relazioni della vita quotidiana, quello che innerva i rapporti di genere appaia, singolarmente, quello più presente (o evidente) alla riflessione comune, ma, insieme (e contemporaneamente), quello più nascosto e insidioso.
L’invito del documento programmatico qui richiamato, come spunto e avvio di una comune riflessione sul senso del linguaggio giudiziario nella prospettiva delle questioni di genere, chiede dunque di essere inteso, non già - come solo brutalmente potrebbe intendersi - alla stregua di una surrettizia imposizione di orientamenti culturali predeterminati (evidentemente fuori luogo o comunque incompatibile con il senso o la funzione di un testo come quello in esame), bensì come indispensabile richiamo del giudice alla necessità di affinare i propri strumenti di consapevolezza critica dei ragionamenti posti a fondamento delle decisioni e dei linguaggi destinati a renderne conto sul piano formale. Si tratta, in breve, di un’ammonizione che guarda al pregiudizio (di cui lo stereotipo rappresenta una delle forme più tipiche di manifestazione) come a uno dei fattori di più frequente mortificazione, sul piano sociale, dei legittimi percorsi di costruzione delle identità individuali (compresa quella di genere) al di fuori da ogni indebita o illecita discriminazione.[7]
3. La natura del pregiudizio
In un’indimenticata lezione torinese della fine degli anni Settanta[8], Norberto Bobbio aveva avuto modo di soffermarsi sulla natura del pregiudizio, definito come “un’opinione e un complesso di opinioni, talora anche un’intera dottrina, che viene accolta acriticamente e passivamente dalla tradizione, dal costume oppure da un’autorità i cui dettami accettiamo senza discuterli”[9]. Il carattere acritico e passivo dell’accettazione senza verificazione sta a significare il rifiuto di ogni confutazione che venga fatta ricorrendo ad argomenti razionali. Per questo si dice, a buon diritto, che il pregiudizio appartiene alla sfera del non razionale, il complesso di quelle credenze che non nascono dal ragionamento e si sottraggono a qualsiasi confutazione fondata su un ragionamento. Proprio l’appartenenza del pregiudizio alla sfera delle idee refrattarie ad essere sottoposte al controllo della ragione serve a distinguerlo da qualsiasi altra forma di opinione erronea: il pregiudizio è un’opinione erronea creduta fortemente per vera che si distingue da tutte le altre forme suscettibili di essere corrette attraverso le risorse della ragione e dell’esperienza. Proprio in tal senso, “poiché non è correggibile o è meno facilmente correggibile, il pregiudizio è un errore più tenace e socialmente più pericoloso”[10]. Questa singolare tenacia del pregiudizio, proseguiva Bobbio, dipende generalmente dal fatto che “il credere vera un’opinione falsa corrisponde ai miei desideri, sollecita le mie passioni, serve ai miei interessi. Dietro la forza di convinzione con cui crediamo a ciò che il pregiudizio ci vuol far credere sta una ragione pratica, e quindi, proprio in conseguenza di questa ragione pratica, una predisposizione a credere nell’opinione che il pregiudizio tramanda”[11].
Il nesso di implicazione immediata tra pregiudizio e discriminazione si fonda sulle particolari modalità attraverso le quali l’opinione discriminatoria si forma e si radica nelle convinzioni comuni. Al giudizio di fatto, che ordinariamente accompagna la naturale constatazione delle diversità, la discriminazione accosta il giudizio di valore che sancisce la superiorità (morale, civile, intellettuale) dell’un termine della comparazione rispetto all’altro. Si tratta di criteri normalmente tramandati in modo acritico nell’ambito di un certo gruppo e che come tali si reggono sulla forza della tradizione o su un’autorità riconosciuta. Ma ciò che più ancora rileva, nei processi di formazione del pensiero discriminatorio, è che il trattamento da riservare al gruppo di cui è sancita la superiorità rispetto all’altro deve necessariamente tradursi nel comando, nel dominio, nella sopravvivenza contro la soppressione; in breve, nel privilegio del primo rispetto all’inevitabile soccombenza dell’altro.
L’esigenza di una particolare attenzione, o di una più avvertita sensibilità del giudice sul tema delle discriminazioni, discende, in primo luogo, dal principio fondamentale sancito dall’art. 3 della Costituzione, che notoriamente riconosce la pari dignità sociale di ogni cittadino dinanzi alla legge, “senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
A questo specifico riguardo, converrà fermare l’attenzione (ancora una volta sulle orme della riflessione raccomandata da Norberto Bobbio) su quella - tra le diverse forme di distinzione delle diseguaglianze - che suole compiersi tra le diseguaglianze naturali e quelle sociali: “si tratta di una distinzione relativa e non assoluta. Però è una distinzione che entro certi limiti ha un fondamento. [...] La distinzione fra queste due specie di diseguaglianze ha avuto una grande importanza in tutta la storia del pensiero politico. Una delle costanti aspirazioni degli uomini è di vivere in una società di eguali. Ma è chiaro che le diseguaglianze naturali sono molto più difficili da vincere che quelle sociali. Ragione per cui coloro che resistono alle richieste di maggiore eguaglianza sono portati a ritenere che la maggior parte delle diseguaglianze siano naturali e, come tali, invincibili o più difficilmente superabili. Al contrario, coloro che lottano per una maggiore eguaglianza sono convinti che la maggior parte delle diseguaglianze siano sociali o storiche. [...] La differenza fra diseguaglianza naturale e diseguaglianza sociale è rilevante per il problema del pregiudizio per questa ragione: spesso il pregiudizio nasce dal sovrapporre alla diseguaglianza naturale una diseguaglianza sociale senza riconoscerla come tale, senza riconoscere che la diseguaglianza naturale è stata aggravata dal sovrapporsi di una diseguaglianza creata dalla società, e che non essendo riconosciuta come tale viene considerata ineliminabile. Nella questione femminile proprio questo è avvenuto. Che fra uomo e donna vi siano differenze naturali è evidente. Ma la situazione femminile che i movimenti femministi rifiutano è una situazione in cui alla diversità naturale si sono aggiunte differenze di carattere sociale e storico, che non sono giustificate naturalmente e che, essendo un prodotto artificiale della società retta dai maschi, possono (o debbono) essere eliminate”.[12]
4. Dell’ “ordine naturale delle cose”
La distinzione tra origine naturale o culturale delle disuguaglianze può legittimamente ritenersi discutibile o controvertibile, e del resto lo stesso Bobbio invitava a non sopravvalutarla, preferendo ricondurne il richiamo a un’esigenza di carattere eminentemente retorico: “questa differenza tra diseguaglianze naturali e sociali deve essere presa con molta cautela, per quanto sia legittima. Però serve a far capire che il pregiudizio è un fenomeno sociale, è il prodotto della mentalità di gruppi formatasi storicamente, che proprio in quanto tale può essere eliminato”.[13]
La rievocazione di due diverse pronunce (una della Corte costituzionale dei primissimi anni ‘60, l’altra di una Corte d’appello di non molti anni fa) aiuta a rendere più agevolmente comprensibile il senso concreto del discorso che si conduce.
Nel 1961, la Corte costituzionale[14], rigettando la questione di incostituzionalità dell’art. 559 c.p. che prevedeva come reato unicamente l’adulterio della moglie e non anche quello del marito, giustificava tale decisione sostenendo come sia innegabile che anche l’adulterio del marito possa “in date circostanze, manifestarsi coefficiente di disgregazione della unità familiare; ma, come per la fedeltà coniugale, così per la unità familiare il legislatore ha evidentemente ritenuto di avvertire una diversa e maggiore entità della illecita condotta della moglie, rappresentandosi la più grave influenza che tale condotta può esercitare sulle più delicate strutture e sui più vitali interessi di una famiglia: in primo luogo, l’azione disgregatrice che sulla intera famiglia e sulla sua coesione morale cagiona la sminuita reputazione nell’ambito sociale; indi, il turbamento psichico, con tutte le sue conseguenze sulla educazione e sulla disciplina morale che, in ispecie nelle famiglie (e sono la maggior parte) tuttora governate da sani principi morali, il pensiero della madre fra le braccia di un estraneo determina nei giovani figli, particolarmente nell’età in cui appena si annunciano gli stimoli e le immagini della vita sessuale; non ultimo il pericolo della introduzione nella famiglia di prole non appartenente al marito, e che a lui viene, tuttavia, attribuita per presunzione di legge, a parte la eventuale – rigorosamente condizionata – azione di disconoscimento”.
Sette anni dopo la Consulta, con un radicale revirement (segno dell’iniziale incidenza delle ragioni che pochi anni più tardi avrebbero condotto alla riforma del diritto di famiglia), dichiarò l’incostituzionalità della norma[15], testimoniando il più generale progresso nella comprensione del principio di uguaglianza tra i sessi nonché dei rapporti sociali tra uomini e donne, restando tuttavia da intendere – ricorda l’autore di uno dei più recenti studi giuridici sugli stereotipi di genere – “se e fino a che punto le immagini patriarcali e stereotipate delle donne contenute nel passaggio della sentenza […] siano realmente sparite, e quali strascichi invece persistano nella nostra società odierna e nel nostro diritto.[16]
Quanto quel timore, manifestato solo pochi anni fa, non apparisse privo di ragioni sembra testimoniato dalla vicenda sottoposta, alla fine del 2014, all’esame della Corte di cassazione, nel quadro di un’ordinaria questione di carattere risarcitorio avanzata da due coniugi.
In quel caso, a seguito di un sinistro stradale che coinvolse una coppia di coniugi, il marito riportò gravi lesioni che lo costrinsero a una lunga assenza dal lavoro, durante la quale venne assistito dalla moglie. I coniugi adirono di conseguenza il Tribunale di Venezia per vedersi risarciti i danni patiti dai responsabili dell’incidente. Tra questi, il marito rivendicò il risarcimento del danno da perdita della capacità di lavoro, ivi compreso quello domestico; pretesa a cui la moglie associò la richiesta del risarcimento, tanto del danno non patrimoniale derivatole indirettamente dalle sofferenze patite dal coniuge, quanto del danno patrimoniale provocato dalla forzosa rinuncia allo svolgimento delle attività domestiche, causata dalla necessità di assistere il marito infermo a causa del sinistro.[17]
Tanto il Tribunale quanto la Corte d’Appello di Venezia, accogliendo parzialmente le domande dei due coniugi, respinsero quelle relative all’incapacità lavorativa domestica del marito e del conseguente danno patrimoniale riflesso della moglie. In particolare, la Corte d’Appello motivò il rigetto della domanda del marito affermando come non rientrasse “nell’ordine naturale delle cose[18] che il lavoro domestico venisse svolto da un uomo”. Quanto alla domanda della moglie, il relativo rigetto trasse motivo, vuoi dalla già avvenuta considerazione del danno indiretto nella liquidazione del danno non patrimoniale, vuoi dalla mancata dimostrazione che, a causa della malattia del marito, la stessa dovette abbandonare “completamente e quotidianamente” le occupazioni domestiche.[19]
Al di là degli aspetti critici messi in evidenza dal severo monito della nostra Corte suprema[20], spicca, nel quadro del discorso composto dalla Corte veneziana, il riferimento al carattere normativo dell’ordine naturale delle cose, che il giudice lagunare richiama, nella propria argomentazione, come un fatto da assumere alla stregua di un dato di indiscutibile rilievo, non bisognoso di alcuna particolare dimostrazione.
Si tratta, come è evidente, della plastica riproposizione di quel pregiudizio (ben descritto dal discorso bobbiano) originato dalla sovrapposizione, alla naturale disuguaglianza tra uomini e donne, di una diseguaglianza sociale non riconosciuta come tale; di un’analisi incapace di riconoscere come la diseguaglianza naturale sia indebitamente aggravata – proprio in forza della riproposizione di uno stereotipo – dal sovrapporsi di una diseguaglianza di origine socio-culturale che, inconsapevole di sé, viene considerata ineliminabile.
5. Stereotipi di genere e dimensione sovranazionale
Si è in precedenza accennato al testo della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, approvata il 18 dicembre 1979 dall’Assemblea generale dell’ONU (CEDAW), e ai riferimenti positivi (artt. 5 e 10) che, con immediatezza, individuano, in quel documento, la grave incidenza ritardante, sullo sviluppo e l’affermazione di una cultura realmente non discriminatoria, degli stereotipi destinati a tramandare le convinzioni fondate sull’inferiorità o la superiorità dell’uno o dell’altro sesso, o sull’idea di una rigida ripartizione dei ruoli che, di necessità, accompagnerebbero l’esperienza di vita di uomini e donne.
Più di recente, nel quadro delle attività connesse al monitoraggio sull’attuazione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (la c.d. “Convenzione di Istanbul”), il “Gruppo di esperti/e sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica” (GREVIO)[21] ha rilasciato un “Rapporto di Valutazione” riguardante l’Italia, sulle misure legislative e di altra natura da adottare per dare efficacia alle disposizioni della Convenzione di Istanbul.[22]
In tale rapporto, si menzionano gli stereotipi di genere tra le “cause alla radice della violenza contro le donne” (pag. 9); se ne registra la “persistente” presenza nelle decisioni dei tribunali sui casi di violenza domestica (pag. 14)[23]; se ne segnala la permanente problematicità nella cultura italiana[24]; si evidenzia, degli “stereotipi patriarcali”, l’idoneità a favorire l’accettazione della violenza e la tendenza a colpevolizzare le donne (pag. 36); il relativo contributo ad esporre le donne a una vittimizzazione secondaria (pagg. 42, 58 e 70), con particolare riguardo all’esperienza dei tribunali penali, spesso responsabili “di discriminazioni nei confronti delle donne”, di sottovalutazione delle “conseguenze e [de] i rischi della violenza basata sul genere”, oltre che di fomentare “pregiudizi e stereotipi sessisti” (pag. 70).
Il “Rapporto” riprende talune denunce delle organizzazioni femminili inclini a sottolineare l’estrema difficoltà di “erodere gli stereotipi negativi sessisti all’interno delle aule di tribunale”, mentre “le forze dell’ordine, i magistrati e gli avvocati dovrebbero ricevere una maggiore formazione e sensibilizzazione su questi temi” (pag. 75).
Il contenuto di tali documenti è improvvisamente riapparso, rapidamente ripreso dalle cronache degli ultimi giorni, tra le righe di una decisione con la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu) ha condannato l’Italia a seguito dell’emissione, da parte di una corte d’appello fiorentina, di una sentenza di assoluzione di taluni imputati da un’accusa di stupro di gruppo.[25]
Nel ricorrere contro il nostro paese, la ricorrente – a seguito del procedimento penale seguito alla denuncia di uno stupro di gruppo dalla stessa presentata e conclusosi con l’assoluzione dei suoi presunti aggressori – aveva contestato l’avvenuta violazione, da parte dello Stato italiano, dei doveri di protezione sullo stesso incombenti in relazione al diritto alla privacy e all’integrità personale della donna (di cui agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo) in occasione del processo.
Nella sua iniziativa dinanzi ai giudici europei, la ricorrente ha evidenziato come i suoi diritti di presunta vittima non fossero stati sufficientemente protetti nel procedimento per stupro contro i suoi presunti aggressori; ha spiegato come l’intera procedura fosse stata lunga e dolorosa; ha sostenuto di essere stata sottoposta a continue e ingiustificate interferenze nella sua privacy da parte delle autorità; ha rilevato come la corte d’appello fiorentina avesse deciso di assolvere gli imputati sulla base di una valutazione soggettiva delle sue abitudini sessuali e delle sue scelte intime e personali, e non sulla base di prove oggettive, riproducendo un concetto restrittivo e superato di violenza sessuale. Ha inoltre affermato di essere stata interrogata più volte su dettagli della sua vita privata e sessuale non collegati all’aggressione (come la storia delle sue performance artistiche, o delle sue relazioni sessuali) allo scopo di dimostrare il carattere “anormale” del proprio stile di vita e del proprio orientamento sessuale.
La Corte europea, dopo aver sottolineato di non essere chiamata a pronunciarsi su eventuali errori od omissioni dei giudici italiani (non potendo sostituirsi ad essi nella valutazione dei fatti relativi al caso specifico), ha comunque rilevato l’effettiva violazione, da parte delle autorità giudiziarie italiane, delle ragioni della donna. E tuttavia, non già in relazione ai modi con i quali sarebbero state condotte le indagini preliminari, o governato il dibattimento, bensì (e il rilievo vale a inserirsi nel quadro delle riflessioni qui rapidamente raccolte) per essersi i giudici italiani ingiustificatamente riferiti, nei diversi passaggi della sentenza di assoluzione degli imputati, ad aspetti propri della persona o della vita della presunta vittima del tutto privi di concreta rilevanza rispetto alle esigenze del giudizio.
I giudici di Strasburgo ricordano, a tale riguardo, i riferimenti alla lingerie rossa “mostrata” (non già “indossata” o “inavvertitamente rivelatasi”) dalla ricorrente durante la serata in occasione della quale si svolsero i fatti del processo; i commenti sulla bisessualità della donna o sulle sue relazioni sessuali occasionali di poco precedenti la relazione di gruppo oggetto della denuncia; il carattere inappropriato delle considerazioni dei giudici italiani sull’atteggiamento ambivalente della ricorrente nei confronti del sesso o sulla circostanza che la stessa avesse partecipato, in passato, come attrice, a un cortometraggio dai contenuti violenti ed esplicitamente sessuali; la valutazione della decisione della ricorrente di denunciare i fatti che, secondo la corte d’appello, era il risultato di una volontà della donna di “stigmatizzare” e sopprimere un “discutibile momento di fragilità e debolezza”; il finale riferimento alla sua “vita non lineare”.
La circostanza che il complesso di tali elementi non fosse in alcun modo utile ai fini della valutazione della credibilità della donna (già esaminabile alla luce delle numerose altre risultanze oggettive del procedimento) era valsa a tradursi in un’illecita divulgazione di informazioni e dati personali della ricorrente non correlati all’oggetto del processo, e tale da costituire un’ingiustificata interferenza nella sua vita privata.[26]
Nel richiamare il rilievo (già presente nel rapporto sull’Italia del Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione contro le donne e nel già citato rapporto GREVIO riferito all’Italia) relativo alla persistente iterazione degli stereotipi sul ruolo delle donne e la resistenza della società italiana alla causa dell’uguaglianza di genere, la Corte di Strasburgo ha sottolineato come il linguaggio e gli argomenti utilizzati dalla Corte d’appello di Firenze avessero finito col veicolare nuovamente i pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana, come tali suscettibili di impedire l’effettiva protezione dei diritti delle vittime di violenza di genere, al di là dell’eventuale apprezzabilità del quadro legislativo nazionale. Si tratta dell’ennesimo ricorso, attraverso la riproduzione di stereotipi nelle decisioni giudiziarie (suscettibili di minimizzare la violenza di genere), di forme di vittimizzazione secondaria, frutto di un linguaggio colpevolizzante e moraleggiante capace di scoraggiare la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario (v. parr. 140 e 141).[27]
6. Il diritto tra “ordine naturale” e artificio
Se il superamento di sedimentazioni culturali così marcatamente inadeguate (sul piano civile, prim’ancora che su quello culturale) può ritenersi operazione storicamente definita in relazione ai rapporti sociali di genere, assai più incerto e inquietante deve intendersi il percorso che attende la riflessione collettiva sul terreno della rivisitazione delle convinzioni che ancora oggi, con estrema difficoltà, il discorso razionale affronta, nel tentativo di misurarsi con i riflessi d’indole emotiva o passionale che pure agitano o turbano i riferimenti più consolidati della coscienza sociale.
Si tratta di questioni che toccano nel profondo le persuasioni più radicate sul senso stesso dell’esperienza umana, sull’origine della vita, sulla strutturazione delle relazioni parentali, sul significato della genitorialità, sulla declinazione, attorno a ciascuno di tali temi, del ruolo del “sesso”, come estremo identificativo rilevante sul piano strettamente biologico e, insieme, del “genere”, come dimensione identificativa della persona su cui incidono, con determinante rilievo, il peso delle più libere latitudini del discorso culturale e gli schemi che si affermano, riflessivamente, sul terreno sociale e comportamentale.
Sono i temi che il discorso pubblico, spesso frettolosamente, considera nell’affrontare, tra le altre, le vicende dell’affettività delle coppie same sex; del relativo accesso ai procedimenti di procreazione medicalmente assistita o dell’apertura, in forma più o meno completa, al sistema delle adozioni dei minori; del transessualismo e dell’irrilevanza, ai fini della concreta rettificazione del sesso nei registri dello stato civile, dell’intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari.[28]
Torna ad affacciarsi, nell’accostamento dialettico tra “sesso” e “genere” (nella loro dimensione identificativa e costitutiva della persona), lo spettro antico della contrapposizione tra “natura” e “cultura”, tra l’ordine naturale che esige il debito dell’osservanza (il diritto naturale; l’astratta deduzione della regola), e l’attitudine ‘costruttiva’ della politica e della cultura (il diritto come sedimentazione politico-culturale in perenne divenire).
In questo senso, l’allusione alla figura dello stereotipo legata alle questioni di genere, convoca, all’orizzonte della riflessione, l’intero percorso della costruzione moderna e contemporanea sul tema dell’identità personale e della soggettivazione, dalla lettura metafisica e sostanzialista di origine cartesiana, fino alle più recenti proposte di dissoluzione della idea stessa dell’identità personale come di un processo di ricerca meramente autoreferenziale, per intenderla, piuttosto, alla stregua di una costruzione dipendente, in modo determinante, dalla qualità delle relazioni istituite con la società e l’ambiente.
Si è detto dell’estrema difficoltà di affrontare con la necessaria nettezza la tradizionale distinzione tra origine naturale o culturale delle disuguaglianze; e si è rilevato il carattere paradossale di un uso spregiudicato o irriflesso dell’espressione che allude all’“ordine naturale delle cose” al fine di desumerne valide conseguenze sul piano normativo.
Al tema dell’“ordine naturale delle cose”, uno tra i nostri giuristi civilisti di più apprezzata e raffinata cultura, aveva ricondotto non molti anni fa – quasi come a un comune denominatore – l’ispirazione di talune, ricche, riflessioni dedicate ai più diversi temi (come la soggettività, l’uguaglianza, le biotecnologie, il multiculturalismo), tenendo sullo sfondo il dilemma da sempre iscritto nelle dispute, mai sopite, sul rapporto tra diritto e natura.[29]
La storia delle dottrine del diritto naturale, si ammonisce, è la nostra storia intellettuale, che prende vita dall’esperienza presocratica, con la proiezione, nella natura, di principi e affermazioni di valore tratti dall’esperienza delle relazioni sociali, e l’annuncio dell’apertura del pensiero, con l’abbandono della magia, a ciò che diverrà, in progresso di tempo, il senso della causalità scientifica. Una storia lunghissima, coerentemente misurabile fino alle reazioni opposte, in un tempo a noi più vicino, agli orrori delle dittature del ‘900, con la dichiarazione dei diritti universali dell’uomo e la creazione di una dimensione giuridica sovra-nazionale e sovra-statuale.
E tuttavia, pur quando così ben strutturato sulla trama elegante dell’“ordine naturale delle cose”, nessuno steccato immaginario ha mai potuto preservare l’esperienza delle nostre comunità dalle istanze del pluralismo, dal bagno della concretezza, dalla dilagante problematicità del reale. Su quelle forze “dis-ordinanti” ancora registriamo oggi, come esiti politico-culturali di un secolare tragitto, la permanente espropriazione, da parte degli esecutivi (in nome dell’urgenza e del tecnicismo delle decisioni), della funzione legislativa; la liquidazione della legge; la trasformazione della politica da rappresentanza in rappresentazione; il giudizio politico, morale, e perfino quelli storico e giuridico, veleggianti verso approdi conformisti, ludici, puramente estetici.[30]
Cospira a questi effetti, senza alcun dubbio e paradossalmente, “il progresso della conoscenza, che con la vertigine della storia genera anche quella di un’infinita complessità. Si direbbe che l’uomo contemporaneo sia meno in grado di ogni suo predecessore di reggere il fardello – di sopportare quello che sa. Come è solito nascondersi l’umanità della legge giuridica, così amerebbe non aver scoperto che è rivedibile la legge naturalistica, e che l’ordine si presenta in entrambi i sensi come un prodotto instabile della mente. […] Nell’era dell’onnipotenza tecnologica, l’idea dell’ordine naturale tradisce, attraverso brandelli di antiche dottrine, il suo sembiante di gran lunga più ingenuo: la vita ‘secondo natura’ – ed in essa un individualismo “debole”, sordo e muto – come abbandono al corso delle cose, come scelta di non scegliere, la cui sola evocazione è sufficiente a candidarla come la migliore delle scelte possibili. Se natura è ciò che è intatto da manipolazione – in contrapposto all’artificio – abbiamo oggi ogni elemento per affermare che, quale criterio dell’azione, non c’è da farvi affidamento. […] Anche le abitudini che troviamo, per la loro diffusione e familiarità, massimamente naturali – le nostre maniere di lavorare, abitare, nutrirci, quelle di amarci con anime e corpi – conosciamo come il risultato di una lunga evoluzione umana nella storia. Ci sappiamo insomma, anche se stentiamo a dichiararlo, inchiodati senza scampo a una cultura sovrapposta alla natura: le opzioni dell’etica non sono mai tra natura e cultura, ma fra diverse possibilità aperte nel contesto culturale in cui viviamo”.[31]
Rivista da questo punto di vista, la moralità del diritto risiede tutta nell’artificialità, e il nichilismo appare non un suo nemico, ma un suo intimo e naturale alleato: secondo l’ammonimento di Gustavo Zagrebelski (significativamente maturato all’interno della “classica” rimeditazione dell’Antigone sofoclea), “lo Stato giusto e, alla fine, duraturo è quello che assume come suo fondamento l’uguaglianza dell’uomo nella nullità del suo valore, l’uomo destinato al regno di Ade. […] Solo la fondamentale uguaglianza degli uomini nella loro intrinseca mancanza di valore di fronte alla morte può dare un senso alla vita dell’essere umano”.[32]
Appartandoci nello studio delle leggi positive, delle retrostanti forme geometriche, di invarianti ontologiche o di verità teologiche, ritiriamo il nostro sguardo dalla nostra umanità, e con essa dalla nostra finitezza: esprimiamo, dietro l’uno e l’altro atteggiamento, la medesima paura di conoscere.[33]
La formula del diritto naturale, con tutta la sua antica vocazione di argine all’ingiustizia, rischia più che mai nel mondo attuale di risuonare come un’abiura al pensiero critico, parola d’ordine delle divisioni culturali e religiose, grido di intolleranza, invito alla chiusura, alla discriminazione, perfino alle armi.[34]
Ma ancora una volta, come un vertiginoso nuovo capovolgimento, il sentimento del nostro darci con il mondo, dell’appartenenza a quello sfondo mobile cui di natura diamo il nome, la progettazione del dover essere in base all’essere (alle regolarità e ai nessi causali che si riscontrano nei nostri rapporti reciproci nel contesto in cui hanno luogo) sembrano tornare a offrirci le condizioni necessarie perché il diritto, mantenendo la propria struttura ambigua, non cessi di manifestarsi come tale, transustanziando in cieco scontro di forze.[35]
In questa enigmatica ambiguità, la suggestione dell’ordine naturale delle cose “ha un che di simile al meccanismo della rimozione, che combattiamo con profitto, ma dal quale non possiamo uscire senza negare noi stessi. Difficilmente rifiuteremmo alla sequenza delle sue innumeri sconfitte il senso generale di un progresso. La fantasia del suo superamento, nondimeno, è fantasia di un mondo regredito, impoverito: di un universo dal quale è assente ciò che chiamiamo scienza giuridica, e molto altro”.[36]
Come in un’ideale trasposizione di letture “leviane”[37], la coltivazione degli studi giuridici ci insegna a muoverci verso un “futuro dal cuore antico”; a progettare l’idea dell’“allontanamento” e, dunque, a disegnare con precisione il punto dal quale, sempre, ogni cammino ha da partire.
7. Per una lettura del “programma”
Dietro l’invito (o il proponimento) sollecitato dal documento programmatico da cui hanno preso le mosse le brevi riflessioni che si propongono al lettore, sembrano dunque profilarsi le linee di un habitus professionale e intellettuale che al giudice è chiesto di affidare, oltre al tempo della meditazione, allo stile formale della propria pagina: la coltivazione, incessante, del dubbio metodico; il riferimento, saldo, all’incedere del pensiero critico; il coraggio di mettere in gioco il valore identitario delle proprie memorie culturali; e, infine, il recupero, umile ma ineludibile, del senso originale della vita che a ciascuno spetta di scoprire per sé.
Si tratta di un appello che richiama il giurista (e il giudice in primo luogo) al compito di restituire alla parola, e alla scrittura che pubblicamente la diffonde, il “peso culturale” del tempo e la sua antica vocazione, che è propria anche del diritto, alla causa dell’uomo.
[1] Si tratta della Relazione illustrativa del Presidente della Corte di Cassazione, Pietro Curzio, sul programma di gestione per l’anno 2021 dei procedimenti civili e penali ex art. 37 D.L. 6.7.2011 n. 98, convertito in L. 15.7.2011, n. 111.
[2] Sul punto, possono ricordarsi: la Magna Carta dei giudici europei del 17/11/2010 (par. 16) e la Raccomandazione 12/2010 del 17/11/2010 Com. Min. CE (par. 63), per cui la motivazione dei provvedimenti va redatta in un “linguaggio semplice, chiaro e comprensibile”; le delibere del CSM del 5/7/2017 e del 20/6/2018 sulle modalità stilistiche di redazione dei provvedimenti; i decreti del primo Presidente della Corte di cassazione n. 84 e n. 136/2016, sulla motivazione semplificata o sintetica dei provvedimenti; i Protocolli d’intesa fra la Corte di cassazione, il CSM e il CNF, in merito alle regole redazionali degli atti, ispirate a criteri di chiarezza, sinteticità e comprensibilità. Lo stesso codice del processo amministrativo, art. 3 comma 2, stabilisce che “Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica”, mentre, secondo la Corte di cassazione (Sez. un. civ., n. 642/2015 e n. 964/2017; Sez. un. pen., n. 40516/2016, par. 9), i doveri di specificità, chiarezza e sinteticità degli atti costituiscono “un principio generale del diritto processuale”.
[3] Il concetto di “stereotype”, nel suo moderno significato socio-psicologico, venne introdotto da Lippmann nel 1922, nella sua opera W. Lippmann, Public Opinion, (New York, 1922). L’opera di riferimento nel campo giuridico, invece, è quella più recente di Rebecca Cook e Simone Cusack, Gender Stereotyping: Transnational Legal Perspectives (Philadelphia, 2010). Le autrici di questa monografia definiscono come gender stereotypes tutte le costruzioni sociali e culturali che distinguono uomini e donne sulla base di criteri fisici, biologici, sessuali e delle loro funzioni sociali.
Sul piano normativo, varrà ricordare, nell’ambito delle attività delle Nazioni Unite, gli artt. 5, lett. a), e 10, lett. c), della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, approvata il 18 dicembre 1979 dall'Assemblea generale dell'ONU (Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women, CEDAW), secondo cui “Gli Stati parte prendono ogni misura adeguata: a) al fine di modificare gli schemi e i modelli di comportamento socio-culturale degli uomini e delle donne e giungere ad una eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie o di altro genere, che siano basate sulla convinzione dell’inferiorità o della superiorità dell’uno o dell’altro sesso o sull’idea di ruoli stereotipati degli uomini e delle donne” (art. 5), nonché “Gli Stati parte prendono tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti delle donne al fine di assicurare loro gli stessi diritti degli uomini per quanto concerne l’educazione e, in particolare, per garantire, su basi uguali tra l’uomo e la donna: […] c)l’eliminazione di ogni concezione stereotipata dei ruoli dell’uomo e della donna a tutti i livelli ed in ogni forma di insegnamento, incoraggiando l’educazione mista e altri tipi di educazione che tendano a realizzare tale obiettivo e, in particolare, rivedendo i testi ed i programmi scolastici ed adattando i metodi pedagogici in conformità” (art. 10).
[4] M. Dell’Utri, Lessico di genere, intervista a S. Governatori, M.R. Marella, E. Resta, C. Robustelli, J. Visconti, v. https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/844-lessico-di-genere.
[5] Su cui v., tra gli altri, i testi raccolti in M. Heidegger, In cammino verso il Linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Milano, Mursia, 2019.
[6] Di cui v. M. Foucault, L’ordine del discorso, Torino, Einaudi, 2004 [ma v. 1972] e J. Derrida, La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 2002 [ma v. 1971].
[7] Sul tema del ruolo dello stereotipo nell’analisi giuridica, v. il lungo saggio di M.R. Marella, G. Marini, La costruzione sociale del danno, ovvero l’importanza degli stereotipi nell’analisi giuridica, in Riv. crit. dir. priv., 1999, pp. 3 ss.; v. altresì, sul terreno giuridico-sociologico, A. Lollini, La rilevanza degli stereotipi sociali nella giurisprudenza minorile sullo stato di abbandono, in Riv. crit. dir. priv., 1999, 525 ss.; V. Mazzarelli, Diritti umani, convinzioni imposte e stereotipi, in I diritti dell’uomo, 2002, 89 ss.; U. Santina, Scienze sociali, mafia e crimine organizzato, tra stereotipi e paradigmi, in Studi sulla questione criminale, 2006, pp. 99 ss.; G. Borelli, Massime di esperienza e stereotipi socioculturali nei processi di mafia. La rilevanza penale della contiguità mafiosa, in Cass. pen., 2007, pp. 1074 ss.; E. Larrauri, Cinque stereotipi sulle donne vittime di violenza. Alcune risposte del femminismo ufficiale, in Studi sulla questione criminale, 2008, pp. 65 ss.; X. Lacroix, La famiglia oltre gli stereotipi, in Aggiornamenti sociali, 2013, pp. 466 ss.; O. Giolo, Norme, prassi e stereotipi nel diritto sessuato dell’immigrazione, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2014, pp. 34 ss.; M. Di Masi, Danno patrimoniale da perdita del lavoro domestico maschile: la Cassazione contro gli stereotipi di genere in famiglia, in Danno e resp., 2015, pp. 814 ss.; M. Möschel, La tutela giuridica contro gli stereotipi di genere, in Riv. crit. dir. priv., 2015, pp. 443 ss.; F. Colombo, La vecchiaia non è un destino. Stereotipi e ideologie dell’età avanzata, in Problemi dell’informazione, 2017, pp. 57 ss.; G. Ramaccioni, Faccia da casalinga. Il lavoro domestico e gli stereotipi sociali, in Riv. crit. dir. priv., 2017, pp. 151 ss.; (2017) M.C. Giorda, A. Cuciniello, M. Santagati, Nuove generazioni e radicalismo violento. Stereotipi e antidoti, in Rass. ital. di criminologia, 2017, pp. 228 ss.; S. Viciani, Il riconoscimento del danno non patrimoniale alla salute sessuale della persona, libero dagli stereotipi di genere, in Nuova giur. civ. comm., 2017, pp. 1646 ss.; M. Caruso L. Cerbara A. Tintori, Stereotipi, bullismo e devianza a scuola. Identikit degli studenti italiani, in MinoriGiustizia, 2019, pp. 133 ss.; A. Arace, Stereotipi e disuguaglianze di genere nell’istruzione scolastica, in MinoriGiustizia, 2020, pp. 23 ss.; I. Acocella, Giovani donne musulmane in Italia oltre gli stereotipi, in Aggiornamenti sociali, 2020, pp. 849 ss.; M.L. Piga, Erving Goffman gli stereotipi di genere nella pubblicità commerciale italiana (1982-2017), in Studi di sociologia, 2020, pp. 325 ss..
[8] Si tratta della lezione svolta da N. Bobbio nel quadro del corso La natura del pregiudizio, tenuto all’Istituto tecnico industriale Amedeo Avogadro di Torino dal 5 novembre al 17 dicembre 1979. Il corso era parte del programma Torino Enciclopedia - Le culture della città, organizzato dalla Città di Torino e dalla Regione Piemonte. Il testo fu raccolto nel volume La natura del pregiudizio, Torino, Città di Torino, Regione Piemonte, s.d., pp. 2-15, riprodotto nel volume Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, Linea d’ombra, 1994, pp. 123-139, e infine in Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, Nuova Pratiche Editrice, 1998, pp. 107-122 (da cui sono tratti i riferimenti delle citazioni richiamate nel testo).
[9] N. Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, Nuova Pratiche Editrice, 1998, p. 107.
[10] Op. ult. cit., p. 108.
[11] Loc. ult. cit.
[12] N. Bobbio, Elogio della mitezza, cit., pp. 116-118.
[13] Op. ult. cit., pp. 118-119.
[14] Corte Cost., sentenza n. 64/1961, richiamata anche da M. Möschel, La tutela giuridica contro gli stereotipi di genere, cit., p. 443.
[15] Corte cost., sentenza n. 126/1968.
[16] M. Möschel, La tutela giuridica contro gli stereotipi di genere, cit., p. 444.
[17] V. Cass. civile, Sez. 3, 18 novembre 2014, n. 24471, in Danno e resp., 2015, pp. 812 ss., su cui M. Di Masi, Danno patrimoniale da perdita del lavoro domestico maschile: la Cassazione contro gli stereotipi di genere in famiglia, cit., pp. 814 ss.
[18] Corsivo mio.
[19] V. M. Di Masi, Danno patrimoniale, cit., p. 814.
[20] Affidato a un triplice ordine di considerazioni, rispettivamente, di tipo filosofico-culturale, giuridico e pragmatico. Scrive la Corte: “Tale motivazione è illogica per tre ragioni. La prima ragione di illogicità è che (a prescindere da qualsiasi considerazione circa l’esistenza o meno d’un ordine ‘naturale’ delle cose: felix qui potuit rerum cognoscere causas) non è certo madre natura a stabilire i criteri di riparto delle incombenze domestiche tra i coniugi. Tale riparto è ovviamente frutto di scelte soggettive e di costumi sociali, le une e gli altri nemmeno presi in considerazione dalla Corte d’appello. La seconda ragione di illogicità consiste nel fatto che l’affermazione della Corte d’appello è contraria al fondamentale principio giuridico di parità e pari contribuzione dei coniugi ai bisogni della famiglia, sancito dall’art. 143 c.c., commi 1 e 3: ed in mancanza di prove contrarie, che sarebbe stato onere dei convenuti addurre e che non furono addotte, è ragionevole presumere che i cittadini conformino la propria vita familiare ai precetti normativi, piuttosto che il contrario. La terza ragione di illogicità della motivazione della Corte d’appello consiste nel fatto che secondo l’id quod plerumque accidit qualunque persona non può fare a meno di occuparsi di una certa aliquota del lavoro domestico: non foss’altro per quanto attiene le proprie personali esigenze. Pertanto dal fatto noto che una persona sia rimasta vittima di lesioni che l’abbiano costretta ad un lungo periodo di rilevante invalidità, è possibile risalire al fatto ignorato che a causa dell’invalidità non abbia potuto attendere al menage familiare. La Corte d’appello, invece, ha capovolto tale deduzione logica, assumendo che dal fatto noto del sesso (maschile) dell’infortunato fosse possibile risalire al fatto ignorato che egli si disinteressasse completamente di qualsiasi attività domestica”.
[21] Il GREVIO è un organismo indipendente di controllo dei diritti umani avente il compito di monitorare l’attuazione della Convenzione di Istanbul da parte degli Stati membri che l’hanno sottoscritta. Il gruppo si compone di 15 tra esperti ed esperte indipendenti e imparziali, nominati sulla base delle loro competenze nel campo dei diritti umani, dell’uguaglianza di genere, della violenza nei confronti delle donne e/o del supporto e della protezione alle vittime. Le attività istituzionali del GREVIO comprendono un monitoraggio Paese per Paese della Convenzione di Istanbul (procedura di valutazione), l’avvio di indagini su una delle parti contraenti della convenzione (procedura d’indagine) e l’adozione di raccomandazioni generali sugli argomenti ed i concetti espressi dalla convenzione.
[22] Il testo della “Relazione” è stato adottato il 15 novembre 2019 e pubblicato il 13 gennaio 2020.
[23] Con la tendenza a “ridurre la violenza nelle relazioni intime a un conflitto: a considerare a priori entrambe le parti responsabili della violenza, ignorando lo squilibrio di potere generato dall’uso della violenza stessa, [con] una tendenza a dare credito agli stereotipi ed ai luoghi comuni che vedono la relazione intima intrinsecamente basata sulla sottomissione/dominio, la possessività; secondo cui automaticamente una moglie/partner che si avvia verso la separazione è una donna che vuole vendicarsi, che cerca di danneggiare e punire il partner” (pag. 14).
[24] “Nelle sue Osservazioni conclusive nel settimo rapporto periodico sull’Italia, il Comitato CEDAW, a tal riguardo, ha posto l’accento sui “consolidati stereotipi relativi al ruolo e alle responsabilità delle donne e degli uomini all’interno della famiglia e della società, che perpetuano la visione tradizionale delle donne come madri e casalinghe, pregiudicando la loro posizione sociale e le loro prospettive educative e di carriera”, ma anche sulla “crescente influenza delle organizzazioni maschili all’interno dei mass-media, che rappresentano le donne con stereotipi negativi”.
[25] Si tratta dell’affaire J.L. c. Italie (Requête no. 5671/16) deciso a Strasburgo il 27 maggio 2021 (reperibile su https://hudoc.echr.coe.int/fre#{%22itemid%22:[%22001-210299%22]})
[26] Sul punto, la Corte di Cassazione italiana ha già da tempo sottolineato come “gli specifici e riconoscibili elementi atti a rendere fondato il sospetto che la vittima di reati sessuali dichiari il falso non possono consistere nelle sue abitudini sessuali, nel suo modo di vivere la propria corporeità, di concepire il sesso e la vita sessuale in generale, in una parola: nei suoi costumi sessuali. Si tratta di regola di giudizio espressamente vietata in quanto tale. È vero che la vita privata e la sessualità della persona offesa rilevano se/e quando ciò sia necessario alla ricostruzione del fatto (art. 472, comma 3-bis, cod. proc. pen.) ma su questo punto bisogna evitare equivoci: nella ricostruzione del fatto, la vita sessuale della persona offesa non può mai essere utilizzata quale argomento di prova dell’esistenza, reale o putativa, del consenso. Il consenso all’atto deve essere reale, non può essere presunto, deve permanere per tutta la durata dell’atto stesso e le modalità della sua espressione non possono essere modulabili in base ai costumi sessuali della vittima (Cass. pen., Sez. 3, Sentenza n. 46464 del 09/06/2017).
Altrove, la nostra Corte Suprema ha sottolineato come, ai fini della valutazione della credibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa che denuncia atti di violenza, il giudice non può dar rilievo al suo aspetto fisico, trattandosi di elemento del tutto irrilevante e non decisivo per vagliarne l’attendibilità (Cass. pen., Sez. 3, n. 15683 del 05/03/2019), finendo col ricondursi al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui deve ritenersi affetta da vizio di motivazione la decisione del giudice di merito che, fondandosi apparentemente su una massima di esperienza, in realtà valorizza un mero convincimento soggettivo (cfr. Cass., pen., Sez. 4, n. 23093 del 02/02/2017).
[27] Non sarà inutile ricordare come, in calce alla sentenza della Corte di Strasburgo, sia stata riprodotta la dissenting opinion dell’unico giudice (su sette) contrario alla decisione di condanna dell’Italia (il giudice Krzysztof Wojtyczek). Nel suo testo, il giudice Wojtyczek ha rilevato una contraddittorietà logica nella decisione della corte europea (l’affermazione che le autorità nazionali “non hanno protetto la ricorrente dalla vittimizzazione secondaria nel corso del procedimento, è in contraddizione logica con la […] frase, che afferma che le autorità nazionali hanno assicurato in questo caso che l'indagine e il procedimento sono stati condotti nel rispetto degli obblighi positivi derivanti dall'articolo 8 della Convenzione”); e ha evidenziato come “i giudici nazionali hanno dovuto stabilire circostanze di fatto di grande complessità, che per loro natura erano di natura privata, e valutare la questione del consenso della presunta vittima. Dovevano anche definire, prima di tutto, il perimetro delle circostanze rilevanti del caso. Esercitando il suo potere in questo senso, la Corte d'Appello di Firenze ha ritenuto che per esaminare la causa penale era essenziale stabilire alcuni elementi di fatto appartenenti a un contesto più ampio, comprendente eventi precedenti o successivi agli atti in questione, come indicato nelle accuse. Inoltre, la Corte d’appello ha dovuto valutare i fatti del caso nel loro specifico contesto culturale, quello della società italiana contemporanea. […] L’approccio del giudice nazionale non sembra essere viziato da arbitrarietà. Le osservazioni lamentate devono essere lette nel contesto dell'insieme degli argomenti su cui si basano le motivazioni della sentenza di assoluzione. L’approccio adottato dalla maggioranza può portare a mettere in discussione i diritti della difesa, che può avere un interesse legittimo, in vista di una decisione giudiziaria favorevole, a stabilire nel corso del procedimento alcuni elementi di fatto molto sensibili relativi alla vita privata e a farli confermare nella motivazione della sentenza pronunciata. […] La maggioranza ha criticato i giudici italiani (paragrafo 140 della sentenza) per il linguaggio e gli argomenti usati dalla Corte d'appello che trasmettono i pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana. Tuttavia, questa critica non è supportata da alcun argomento. In particolare, non si spiega quali pregiudizi sul ruolo delle donne siano trasmessi dalla Corte d’appello. Noto, inoltre, che nel caso in questione la Corte d'appello di Firenze si è pronunciata in un collegio di tre giudici che soddisfano i criteri di equilibrio di genere (due donne, compreso il giudice relatore, e un uomo). […] Nel paragrafo 141, la maggioranza critica le affermazioni colpevolizzanti e moraleggianti che possono scoraggiare la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario. Questa critica dà luogo a due osservazioni. In primo luogo, le dichiarazioni lamentate (citate nel paragrafo 136, ma prese fuori contesto) sono proposizioni di fatto e non giudizi di valore. La maggioranza non spiega perché queste affermazioni fattuali sono descritte come colpevolizzanti e moraleggianti. In secondo luogo, le espressioni usate dalla Corte sono di per sé dichiarazioni colpevolizzanti e moralizzatrici, questa volta rivolte ai giudici italiani. Inoltre, non favoriscono la fiducia nella giustizia”. Polemicamente, il giudice Wojtyczek conclude: “la Corte continua ad esprimere la sua scelta a favore della cultura della pena come strumento principale per combattere varie violazioni dei diritti umani (si confronti anche il paragrafo 20 dell’opinione in parte dissenziente e in parte concurring del giudice Koskelo, unita ai giudici Wojtyczek e Sabato, allegata alla sentenza Penati c. Italia, n. 44166/15, 11 maggio 2021). L’approccio adottato amplifica il vento illiberale che soffia a Strasburgo, brillantemente denunciato dal giudice Pinto de Albuquerque nel suo parere separato allegato alla sentenza Chernega e altri c. Ucraina, n. 74768/10, 18 giugno 2019”.
[28] Su cui v. Cass. civ., sez. 1, 20 luglio 2015, n. 15138, in Giur. It., 2016, 1, pp. 63 ss., con nota di L. Attademo, La rettificazione del sesso non presuppone l'adeguamento dei caratteri sessuali primari. Sulla medesima pronuncia v. i commenti di G. Casaburi, La Cassazione sulla rettifica di sesso senza intervento chirurgico "radicale". Rivive il mito dell’ermafroditismo? in Foro It., 2015, 1, pp. 3138 ss.; P. Cavana, Mutamento di sesso o di genere? Gli equivoci di una sentenza, in Dir. fam, pers., 2015, 1, pp. 1279 ss.; F. Bartolini, Per la rettificazione anagrafica del sesso l’intervento chirurgico non è più necessario, in Dir. civ. contemporaneo, 2015, fasc. 3; D. Amram, Cade l'obbligo di intervento chirurgico per la rettificazione anagrafica del sesso, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 1, pp. 1068 ss.; F. Bartolini, Rettificazione del sesso e intervento chirurgico: la soluzione in un'interpretazione ‘costituzionalmente orientata’, in Corr. Giur., 2015, pp. 1349 ss.; E. Marmocchi, Identità di genere, identità personale e identificabilità, in Notariato, 2016, pp. 129 ss.
[29] D. Carusi, L’ordine naturale delle cose, Torino, Giappichelli, 2011.
[30] Op. ult. cit., pag. 127.
[31] Op. ult. cit., pp. 127 ss. I passaggi in corsivo sono tratti da U. Scarpelli, Bioetica laica, Milano, Baldini e Castoldi, 1998, pp. 44 s.
[32] G. Zagrebelsky, Il diritto di Antigone e la legge di Creonte, in M. Cacciari - L. Canfora - G. Ravasi - G. Zagrebelsky, La legge sovrana, Milano, Rizzoli, pp. 36 s.
[33] D. Carusi, op. cit., p. 130. Nel testo si richiama il titolo del saggio di P.A. Boghossian, Fear of knowledge. Against relativism and constructivism, Oxford, Oxford University Press, 2006, trad it. A. Coliva, Paura di conoscere. Contro il relativismo e il costruttivismo, Roma, Carocci, 2006.
[34] D. Carusi, loc. ult. cit.
[35] Loc. ult. cit.
[36] Op. ult. cit., pp. 132-133.
[37] Carlo Levi, Il futuro ha un cuore antico, Torino, Einaudi, 1956.
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