ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Interpretazione dell’atto amministrativo ed eccesso di potere. Nota a Tar Veneto n. 52/2021 del 14-01-2021
di Vincenza Caracciolo La Grotteria
Sommario: 1. Premessa sulla vicenda processuale - 2. Questioni sull’interpretazione dell’atto amministrativo - 3. Eccesso di potere per perplessità ed incertezza nella individuazione del potere esercitato - 4. Note conclusive.
1. Premessa sulla vicenda processuale.
La controversia oggetto della sentenza emessa dal Tar Veneto, sfociata in una pluralità di ricorsi, trae origine da una istanza presentata, nel 2003, dalla s.r.l. Delta-Scano alla Regione Veneto (Ufficio regionale del genio Civile di Rovigo), per la concessione di uno “specchio d’acqua” ricadente in località Scanno Cavallari del Comune di Porto Viro, da destinare ad attività di acqua coltura. La predetta richiesta è stata accolta, con provvedimento del giugno 2004 ma, a seguito delle reazioni e proteste degli operatori del settore, l’esecuzione della concessione é stata sospesa dal responsabile dell’ufficio del Genio civile di Rovigo.
Successivamente, il Consorzio di Gestione e valorizzazione dei molluschi bivalvi di Chioggia (COGEVO) ha proposto impugnativa avverso la concessione di cui sopra, chiedendone l’annullamento, con ricorso notificato alla società Delta-Scano, quale controinteressata. Inoltre, lo stesso consorzio ha proposto ricorso per motivi aggiunti, con il quale é stato chiesto l’annullamento, previa sospensiva, della nota del Genio civile di Rovigo, secondo cui la sospensione dell’esecuzione della concessione n. 10/2004 alla società Delta-Scano s.r.l. non impediva al concessionario di “esercitare i diritti di utilizzo dell'area in concessione”.
Successivamente è intervenuto un provvedimento di autorizzazione allo spostamento parziale della concessione originaria[1] che, con decreto n. 113/2008, è stato revocato Da qui l’impugnativa del provvedimento di revoca, cui è seguita la costituzione della Regione Veneto e l’intervento ad opponendum, a sostegno del predetto decreto di revoca, proposto da altra società e da un consorzio (AL ME CA).
Altro ricorso é stato proposto dal consorzio ALMECA e dalla stessa società agricola che avevano proposto intervento ad opponendum, per chiedere l’annullamento dell’autorizzazione in favore della società Delta-Scano a spostare parte della concessione demaniale all’interno dello sbocco a mare del Po di Levante, ossia in un’area di convergenza di interessi economici di primaria importanza, cui sono legate attività consortili e societarie che operano “nel mondo della pesca”.
Il Tar, con la decisione oggetto delle presenti note, ha accolto, entro certi limiti, il ricorso n. 980/2008, annullando il decreto n. 113/2008, emanato dal dirigente dell’unità periferica del Genio civile di Rovigo, con cui era stata revocata l’autorizzazione allo spostamento di mq 75.470 “di spazio acqueo all’interno dei moli foranei dello sbocco a mare del Po di Levante”, mentre ha rigettato il ricorso proposto dal Consorzio AL.ME.CA e dalla società agricola.
La sentenza del Tar Veneto affronta questioni processuali che scaturiscono dall’applicazione di canoni fondamentali del processo amministrativo, come quello che prescrive al ricorrente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, la previa notifica, oltre che all’amministrazione che ha emesso il provvedimento impugnato, anche ai controinteressati o, almeno, ad uno di essi, purchè ne ricorrano i presupposti.
Di particolare interesse si presenta pure la tematica concernente l’illegittimo esercizio del potere di autotutela in relazione alla natura dell’atto[2]. Il ricorso è stato accolto con riferimento a due differenti motivi concernenti l’interpretazione con riferimento al vizio di eccesso di potere, il primo per sviamento, erroneità dei presupposti e incongruità manifesta, il secondo per perplessità.
2. Questioni sull’interpretazione dell’atto amministrativo
L’interpretazione di un atto amministrativo costituisce un momento fondamentale dell’esercizio dell’azione da promuovere. Per mezzo dell’interpretazione, l’atto viene individuato rispetto alla categoria di appartenenza, con conseguenze sui relativi effetti e sulla disciplina giuridica da applicare.
Al fine di svolgere una corretta interpretazione[3], vengono utilizzati una serie di criteri analoghi a quelli applicati per l’interpretazione del contratto[4]. In particolare, è necessario fare riferimento non solo al dato letterale del testo e alla coerenza del dispositivo rispetto alla motivazione, ma, soprattutto, indagare sull’interesse che l’amministrazione intende perseguire, alla luce dei principi di buona fede, buon andamento, imparzialità e logicità[5]. A tal fine, l’interprete è chiamato a svolgere un esame approfondito non soltanto del provvedimento, ma anche di tutti gli atti del procedimento che costituiscono i presupposti in base ai quali il provvedimento è stato adottato[6]. In tal modo può essere compiuta una valutazione complessiva rispetto allo scopo che, per mezzo del provvedimento, si intendeva perseguire, con riguardo ai principi dell’azione amministrativa[7] (enunciati all’art. 1 della legge 241/1990) che devono trovare ampia applicazione quando viene svolta attività di interpretazione di tipo estensivo ed analogico. Il lavoro dell’interprete deve essere altresì focalizzato sull’obbiettivo che si intende perseguire attraverso l’emanazione dell’atto stesso, in quanto il fine indicato dalla legge si riflette nello scopo concreto del provvedimento[8].
Il ricorrente ha articolato le sue doglianze asserendo che il provvedimento di revoca della concessione demaniale (oggetto di impugnazione) era stato emesso sul presupposto che, durante il procedimento per il rilascio della concessione stessa, non risultava pronunciato il parere dell’organo tecnico consultivo competente.
L’obbligatorietà di tale parere sarebbe stata prevista da una delibera della Giunta Regionale per il Veneto (454/2002) che, mentre per un verso conferiva natura di parere obbligatorio agli atti consultivi rilasciati dalla Capitaneria di Porto e dal Comune, per altro verso, prevedeva che il parere della commissione consultiva regionale locale per la pesca e l’acquacoltura potesse essere richiesto solo a seguito della avvenuta acquisizione dell’atto consultivo favorevole da parte degli altri enti. Ne deriva che l’omissione del predetto parere non determinerebbe l’illegittimità del provvedimento, tanto più che tale atto consultivo era stato richiesto dall’Ufficio del Genio civile che, trascorso un anno dalla richiesta senza ottenere risposta alcuna, ha deciso di procedere, comunque, al rilascio del provvedimento concessorio.
Il Collegio ha accolto la doglianza del ricorrente, statuendo che la fattispecie oggetto di esame non rientra tra le ipotesi in cui è applicabile la delibera della Giunta regionale (che prevede il rilascio del parere di cui sopra), poiché mentre tale delibera si riferisce alle nuove concessioni e agli ampliamenti di precedenti concessioni, il caso in esame riguarda la variazione di una concessione precedente, in quanto si tratta di “spostamento parziale di specchio acqueo in concessione demaniale marittima”.
Tale interpretazione della delibera della Giunta Regionale sarebbe determinata anche dalla precisazione, in essa contenuta, secondo cui sono considerate nuove concessioni anche gli “incrementi di superficie autorizzati a beneficio di concessioni in essere” e resterebbe, pertanto, esclusa l’ipotesi di spostamento dell’area oggetto di concessione, che non determina l’impegno di un’area maggiore rispetto a quella già concessa, ma soltanto lo spostamento da un sito ad un altro.
Nel caso di specie, la corretta interpretazione della delibera della Giunta regionale discende dal dato testuale, perché lo stesso atto ne specifica l’applicabilità solo alle “nuove concessioni” e non anche allo spostamento di concessioni pregresse, per cui la pubblica amministrazione avrebbe potuto decidere in assenza del parere previsto nell’atto deliberativo.
Dall’errata interpretazione della delibera deriva l’illegittimità dell’atto di revoca del provvedimento, viziato da eccesso di potere per erroneità dei presupposti, in quanto i vincoli, indicati nella delibera stessa, non avrebbero dovuto trovare applicazione nella fattispecie, per cui il Collegio ha rilevato l’erroneità della individuazione da parte dell’organo decidente della disciplina applicabile al caso concreto.
3. Eccesso di potere per perplessità ed incertezza nella individuazione del potere esercitato.
Altro motivo di accoglimento del ricorso concerne l’eccesso di potere sotto il profilo della c.d. perplessità, in quanto, dal tenore dell’atto, emerge che l’amministrazione ha esercitato il potere in maniera incerta, applicando i parametri e gli elementi distintivi propri sia della revoca che dell’annullamento d’ufficio, pur avendo attribuito all’atto il nomen iuris di revoca.
L’esercizio del sindacato di eccesso di potere dei provvedimenti amministrativi si concreta in un riesame complessivo da parte del giudice amministrativo, oltre che sulla validità, sulla funzione esercitata dalla pubblica amministrazione, con particolare riferimento al fine di interesse pubblico che deve essere perseguito. È noto, infatti, che il giudice amministrativo (che si occupa del corretto esercizio del potere) individua le ipotesi di violazione del fine, che costituiscono i vizi della scelta dell’amministrazione che, pur essendo dotata di potere discrezionale, è vincolata nel fine ed è tenuta a rispettare parametri e principi elaborati via via dalla giurisprudenza.
Tra i vizi del provvedimento va annoverato l’eccesso di potere per vizio di volontà, che è espressione dell’errore in cui è incorso il decidente. La volontà costituisce un elemento fondamentale del provvedimento che si traduce in un atto volitivo dell’autorità emanante, tenuto conto dell’apporto di eventuali pluralità di soggetti che svolgono un ruolo determinante nel corso del procedimento. Ne deriva che i vizi che possano inficiare la volontà determinano l’illegittimità del provvedimento per eccesso di potere sotto il profilo delle diverse figure sintomatiche elaborate dalla giurisprudenza che, come è noto, interviene spesso ad integrare le regole previste nel nostro sistema di diritto amministrativo, fondato, essenzialmente, sui principi dell’ordinamento costituzionale ed europeo. Da qui l’importante opera dell’interprete che, alla luce dei principi generali, esplicita le norme, a volte criptiche, e ne integra i contenuti, affermando i principi fondamentali di garanzia dei cittadini, in coerenza con il quadro costituzionale. Tale attività può essere svolta senza sostituire l’azione amministrativa chiamata per prima ad interpretare ed applicare le norme certe e determinate che devono essere formulate dal legislatore, il quale deve fissare le regole attuative dei principi costituzionali[9]. Tali regole devono essere interpretate ed applicate in primis dall’amministrazione e, laddove questa abbia errato nell’esercizio del potere, dal giudice, che, mediante una interpretazione ampia, può applicare la norma senza sostituirsi al potere esecutivo né al potere legislativo. Il rispetto del principio della separazione dei poteri garantisce il sistema democratico, che rischierebbe di essere intaccato nel caso in cui venisse consentito agli esperti, tecnici del diritto, di costruire nuove norme in pieno contrasto con il principio di sovranità popolare su cui è fondato il nostro sistema. È necessario, pertanto, mantenere i limiti tra interpretazione e creazione del diritto, riconoscendo il ruolo fondamentale della norma scritta, che deve essere posta alla base delle decisioni amministrative, limitando l’overruling giurisprudenziale[10].
D’altro canto la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione[11] ha affermato che l’interpretazione della legge “rappresenta il proprium della funzione giurisdizionale e non può, dunque, integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione da parte del giudice amministrativo”. Il giudice ha il potere-dovere di valutare la conformità dell’atto amministrativo alla legge nonché la sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto previsti dalla norma, senza sconfinare nella sfera del merito riservata alla pubblica amministrazione e può interpretare la volontà amministrativa purché il processo volitivo emerga dal contesto dell’atto.
Dinnanzi alla impugnazione per ottenere l’annullamento di un provvedimento amministrativo per eccesso di potere, il giudice può integrare l’attività interpretativa, compiuta dall’amministrazione, individuando la regola in virtù della quale doveva essere espressa la volontà. In tal guisa, nel caso in cui il decidente abbia individuato la norma regolativa del potere e abbia proceduto alla corretta applicazione commettendo un errore meramente formale, il giudice può valutare la volontà sostanziale dell’amministrazione, senza sconfinare in valutazioni di merito, di opportunità e convenienza delle scelte da operare in concreto.
Il contenuto sostanziale dell’atto costituisce l’elemento predominante che viene tenuto in considerazione a fini interpretativi, proprio perché l’interprete deve esaminare le finalità perseguite con l’adozione del provvedimento, attribuendo allo stesso il significato e la natura più attinenti all’interesse pubblico. Da qui l’esigenza di prendere in considerazione la motivazione del provvedimento, per accertare le ragioni giuridiche, tecniche e fattuali sulla base delle quali l’amministrazione è giunta ad una certa decisione precisata nel dispositivo.
Secondo la giurisprudenza ormai consolidata, ai fini interpretativi deve essere privilegiato il criterio del contenuto obiettivo del provvedimento rispetto all’intenzione del decidente e al dato letterale, per cui, nonostante la qualificazione dell’atto attribuita dal soggetto emittente, va considerato il potere in concreto esercitato
4. Note conclusive
Il Tar Veneto, nella decisione oggetto delle presenti note, applicando i criteri ermeneutici sopra rammentati, ha evidenziato che, nella motivazione dell’atto impugnato, si fa riferimento alla carenza di un parere infraprocedimentale, che avrebbe determinato un vizio del procedimento (con conseguente esercizio del potere di annullamento d’ufficio) nonché a ragioni di opportunità e di interessi da tenere in considerazione.
La presenza di valutazioni che potrebbero ricondurre sia all’annullamento d’ufficio che alla revoca, non consente l’applicazione del criterio ermeneutico sopra menzionato, secondo cui andrebbe considerato il potere effettivamente esercitato, indipendentemente dal nomen iuris indicato dall’amministrazione[12].
Tale criterio, infatti, non può essere applicato laddove, nella motivazione dell’atto, sono articolate valutazioni che riguardano sia l’opportunità delle scelte, in raffronto agli interessi in gioco, sia profili concernenti la legittimità del procedimento. In tal caso, mancando degli elementi univoci, che consentano di individuare il potere che l’amministrazione ha in concreto voluto esercitare, il Giudice non può applicare il criterio sostanziale di cui sopra, in quanto travalicherebbe i limiti del potere interpretativo e di sindacato ad esso attribuiti. Il giudice è chiamato a procedere alla qualificazione giuridica del provvedimento[13], non solo in base al tenore letterale, ma anche risalendo all’effettiva volontà dell’amministrazione ed al potere concretamente esercitato, per cui è necessario “prescindere dal nomen iuris” adoperato ai fini dell’inquadramento degli atti “all’interno delle tradizionali categorie”[14].
Tale orientamento ormai consolidato della giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato trova nella sentenza in disamina un profilo di novità in quanto il Collegio ha specificato che il predetto potere di qualificazione giuridica, attribuito al giudice, può applicarsi solo nei casi in cui sussistano degli elementi univoci, idonei a consentire l’individuazione del potere esercitato mentre non può applicarsi laddove sussista una pluralità di elementi riconducibili a differenti fattispecie astratte. Tale precisazione potrebbe costituire un nuovo limite al potere interpretativo del giudice, in controtendenza rispetto all’orientamento giurisprudenziale consolidato. Il Collegio condiziona l’attività interpretativa all’individuazione, all’interno dell’atto, di elementi certi dai quali emergano in modo oggettivo la volontà del decidente e il potere effettivamente esercitato, restringendo la capacità interpretativa del giudice. Ne consegue un controllo particolarmente debole, per cui il giudice non potrebbe compiere il sindacato pieno di legittimità mediante la corretta qualificazione dell’azione amministrativa.
[1] Nel tentativo di risolvere la complessa controversia, la società Delta-Scano ha accettato la proposta transattiva diretta ad ottenere lo spostamento parziale della concessione originaria all’interno dei moli foranei dello sbocco a mare del Po di Levante, il cui accoglimento é avvenuto con autorizzazione del 27-03-2008 dell’Ufficio regionale del Genio civile di Rovigo, condizionata al rispetto di alcune “clausole di tutela dell’interesse pubblico della navigazione”.
[2] F. Francario, Autotutela e tecniche di buona amministrazione, in A. Contieri, F. Francario, M. Immordino, A. Zito (a cura di), L’interesse pubblico tra politica e amministrazione, Edizioni Scientifiche, 2010; F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità (note a margine dell’art 6 della l. 7 agosto 2015 n.124)”, in Federalismi, n. 20/2015.
[3] M. S. Giannini, L’interpretazione dell’ atto amministrativo e la teoria giuridica generale dell’interpretazione, Milano, 1939; S. Romano, L'interpretazione delle leggi di diritto pubblico, ora in Scritti minori, Milano, 1950, I, 90 ss., 96; L. Benvenuti, Interpretazione e dogmatica nel diritto amministrativo, Milano 2002; C. Marzuoli, L’interpretazione dell'atto amministrativo nella giurisprudenza, in Studi in onore di G. Berti, Napoli, 2005, II, 1529 ss., M. Monteduro, Provvedimento amministrativo e interpretazione autentica, Padova, 2012; A. Cioffi, Il problema dell’interpretazione nel diritto amministrativo, in Dir. amm., 2020.
[4] Cass. 22.2.1954, n. 490; Cons. Stato V, 8.3.1993 n. 329; Cons. Stato V., 18.01.2006 n. 113
[5] A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, Milano, 1987, 143
[6] V Cerulli Irelli, Lineamenti del diritto amministrativo, Torino, 2021, 389.
[7] M.A. Sandulli, Introduzione. Il ruolo dei principi nel diritto amministrativo, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2017.
[8] Il principio di legalità, espresso all’art. 1 della legge n. 241/1990, impone l’obbligo di perseguire i fini previsti dalla legge, in modo che l’amministrazione, nell’esercizio del potere, non possa travalicare, i confini fissati dalla norma. Sul principio di legalità e interpretazione v. R. Cavallo Perin, Potere di ordinanza e principio di legalità, Milano, 1990, 242 ss. F. Manganaro, Principio di legalità e semplificazione dell’attività amministrativa, Napoli, 2000.
[9] A. Sandulli, Principi e regole dell'azione amministrativa: riflessioni sul rapporto tra diritto scritto e realtà giurisprudenziale, in Federalismi, n. 23/2017.
[10] T. Cocchi, L’eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento nella sfera legislativa. Ancora un'ipotesi meramente teorica? Note a margine della sentenza Cass., sez. un., 30 ottobre 2019, n. 27842, in Foro amm., 2, 2020, 169 ss.; F. Patroni Griffi, Il giudice amministrativo oggi: ruolo, etica, responsabilità, Relazione introduttiva al Primo congresso nazionale dei Magistrati amministrativi, Palazzo Spada, 7-8 giugno 2019, in www.giustizia-amministrativa.it; ; M. Luciani, L’errore di diritto e l'interpretazione della norma giuridica, in Omessa pronuncia ed errore di diritto nel processo amministrativo, a cura di F. Francario – M.A. Sandulli, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019, 63; C. Consolo, Le Sezione Unite tornano sull'overruling, di nuovo propiziando la figura dell'avvocato « internet-addicted » e pure «veggente», nota a Corte Cass.sez. Un., 11 luglio 2011 n. 15144, in Giur. Cost. n.4/2012 n. 3166; M. Mazzamuto, L’eccesso di potere giurisdizionale del giudice della giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2012, IV, 1677 ss.
[11] Cass. Civ., sez. un., 03/03/2020, n.5905.
[12] TAR Puglia, Lecce, I, n. 533/2017; TAR Puglia, Lecce, I, n. 214/2017; TAR Sicilia, Catania, IV, n. 40/2017; TAR Calabria, I, n. 514/2017.
[13] T.A.R. Palermo, (Sicilia) sez. I, 29/06/2020, (ud. 18/06/2020, dep. 29/06/2020), n.1310; T.A.R. Torino, sez. II, 12/11/2019, n. 1146, T.A.R. Genova, sez. II, 05/11/2015, n. 881, T.A.R. Catanzaro, sez. II, 22/08/2016, n. 1638
[14] Consiglio di Stato, sez. V, 15 ottobre 2003, n. 6316; Consiglio di Stato sez. IV, 05/06/2020, n.3552 secondo cui “ai fini della di una corretta qualificazione della sua natura, l'atto amministrativo va interpretato non solo in base al tenore letterale, ma soprattutto in base al suo specifico contenuto e risalendo al potere concretamente esercitato dall'amministrazione, prescindendo dal nomen iuris che gli è stato assegnato; in assenza di specifiche disposizioni, gli atti amministrativi vanno infatti interpretati secondo le regole fissate dal codice civile per l'interpretazione del contratto, sia pure adeguandole alla natura dell'atto medesimo, espressione di un potere pubblico; in particolare, ove il dato letterale non conduca ad una interpretazione univoca, sarà possibile valutare il contenuto complessivo dell'atto, applicando in via analogica i criteri interpretativi di cui agli artt. 1362 e ss. del codice civile”; cfr. Cons. Stato, sez. VI, 24 settembre 2019, n. 6378; Consiglio di Stato sez. II, 30/09/2019, n.6534; Consiglio di Stato sez. III, 24/07/2018, n.4522.
Magistratura onoraria e ufficio per il processo: spunti per un sistema
di Carlo Sabatini
La previsione nel PNRR di risorse dedicate alla giustizia deve servire a riavviare un servizio, che è garanzia essenziale di ogni società e che ha scontato protratte carenze di programmazione e di investimenti: si indicano possibili proiezioni “a sistema” delle nuove assunzioni, dell’Ufficio per il processo e di una nuova magistratura onoraria.
Sommario: 1. Premessa - 2. Le risorse - 3. Il sistema giurisdizionale - 4. La nuova magistratura onoraria: 4.1 accesso dall’UPP - 5. Competenze, inquadramento, retribuzione, incompatibilità (cenni).
1. Premessa
La sfida della ripartenza e del corretto e utile impiego delle risorse derivate dal PNRR offre la possibilità di profondi interventi nella, e per la, giustizia: interventi che dovrebbero articolarsi attraverso molteplici piani di azione, non essendo pensabile – per la complessità del sistema e l’interazione necessaria di tutte le sue componenti – un approccio solo per singole questioni.
Proprio per potere svolgere interventi che siano inquadrati (o gradualmente inquadrabili) in un assetto complessivo, si ritiene che debbano essere attentamente meditate le scelte più immediate: ci si riferisce all’assetto della magistratura onoraria (che a sua volta comprende problematiche assai eterogenee tra di loro) e al contempo al lancio (o rilancio) dell’Ufficio per il processo, che il legislatore ha posto al centro del recentissimo D.L. 80/21.
2. Le risorse
Si ritiene quindi in primo luogo necessario un approccio complessivo che, nel ripensare la giurisdizione e i suoi attori, si occupi in generale della struttura in cui li inserisce. Cercando di non ripetere le consuete doglianze sulla carenza delle risorse, nel momento in cui queste vengono poste al centro dell’attenzione come motore di cambiamento, non può però non rimarcarsi che la pandemia ha fatto emergere carenze e arretratezze sistemiche, ha indicato come alcune funzioni possano essere meglio gestite a livello informatico (la digitalizzazione del fascicolo, la sua integrale gestione computerizzata; la possibilità del lavoro da casa, che consentirebbe un migliore utilizzo dei lavoratori in part time, con il conseguente necessario accesso ai registri anche da remoto; la definitiva scelta anche nel penale per canali telematici di notifiche e comunicazione).
È allora evidente come un nuovo modo di lavorare, una giustizia più rapida ed efficiente non possono che passare attraverso la riqualificazione del personale in servizio, nuove mirate assunzioni a tempo indeterminato, in realtà anche ulteriori rispetto alle 16500 assunzioni per l’UPP sulle quali si tornerà infra, per colmare in maniera stabile alcune carenze. In definitiva, si deve essere consapevoli che non si possono fare riforme a costo zero, e che gli investimenti devono essere proiettati nel tempo.
3. Il sistema giurisdizionale
Passando al piano più propriamente giurisdizionale, si ritiene di partire dalla attenta distinzione svolta su questa Rivista [1]: sono state individuate
- attività di tipo preparatorio (organizzazione dell’udienza, preparazione e riordino dei fascicoli, studio preliminare di tematiche giuridiche ecc.);
- attività di tipo giurisdizionale ma non definitorio di controversie e dunque endoprocedimentale
- attività di tipo giurisdizionale, dunque decisorie, in senso pieno.
Nel prevedere le 16500 assunzioni il D.L. 80/21 sembra in qualche modo tenere conto di questa tripartizione: prevedendo che i compiti dei neoassunti siano (come indica l’all. II al D.L.) lo “studio dei fascicoli (predisponendo, ad esempio, delle schede riassuntive per procedimento); supporto il giudice nel compimento della attività pratico/materiale o di facile esecuzione, come la verifica di completezza del fascicolo, l'accertamento della regolare costituzione delle parti (controllo notifiche, rispetto dei termini, individuazione dei difensori nominati ecc.), supporto per bozze di provvedimenti semplici, il controllo della pendenza di istanze o richieste o la loro gestione, organizzazione dei fascicoli, delle udienze e del ruolo, con segnalazione all'esperto coordinatore o al magistrato assegnatario dei fascicoli che presentino caratteri di priorità di trattazione; condivisione all'interno dell'ufficio per il processo di riflessioni su eventuali criticità, con proposte organizzative e informatiche per il loro superamento; approfondimento giurisprudenziale e dottrinale; ricostruzione del contesto normativo riferibile alle fattispecie proposte; supporto per indirizzi giurisprudenziali sezionali; supporto ai processi di digitalizzazione e innovazione organizzativa dell'ufficio e monitoraggio dei risultati; raccordo con il personale addetto alle cancellerie” sembra volersi così assicurare – con meccanismi di supporto dei magistrati che tanti Paesi già da tempo hanno istituito – certamente la funzione preparatoria (con sgravio anche di funzioni del personale amministrativo), arrivando per così dire anche alla ‘soglia’ di quella che abbiamo definito funzione endoprocedimentale.
Il quesito da porre, al quale proprio questo legislatore potrebbe dare risposta nella citata ottica della completezza del sistema, è se sia possibile completare il disegno ripensando anche le fasi più propriamente giurisdizionali, ripensando quindi a consistenza e distribuzione degli organici della magistratura togata e – soprattutto – offrendo finalmente certezze sul ruolo che viene chiamata a svolgere la magistratura onoraria. Va precisato qui che ci si riferirà essenzialmente all’assetto futuro di tale funzione, ma cercando di tenere conto dell’attuale situazione che vede in situazione di protratta precarietà migliaia di magistrati onorari, ai quali va data finalmente risposta adeguata.
4. La nuova magistratura onoraria: 4.1 accesso dall’UPP
Provando allora a ripensare anche il futuro sistema della magistratura onoraria, deve innanzitutto porsi la questione del come realizzare la selezione in entrata. Un’occasione formidabile è offerta dalle già citate 16500 nuove assunzioni: figure che – superata la fase in cui come detto vengono addette all’attività più propriamente preparatoria – ben potrebbero essere proiettate anche per il futuro, verso i ruoli appunto della magistratura onoraria di pace, giudicante e requirente.
Al termine del triennio in cui si è svolto questo mix di formazione/collaborazione, si potrebbe cioè pensare di trarre le nuove figure di magistrati onorari da questa platea, che appare sufficientemente ampia per operare al suo interno una selezione per le funzioni più propriamente giurisdizionali, endoprocessuali o anche decisorie, per un periodo unico (ad esempio un ulteriore triennio) non rinnovabile. Avremmo dunque magistrati onorari che sono “emanazione” dei Tribunali in cui hanno già prestato servizio come collaboratori: in base alla relazione fatta dal magistrato al quale viene delegata la responsabilità del singolo UPP, potrebbero esservi un giudizio di idoneità dei Consigli Giudiziari (in cui già siedono rappresentati dell’Avvocatura, così coinvolta in questa valutazione) e quindi la formazione di graduatorie (anche per probabili subentri in corso, trattandosi di persone che per età anagrafica sarebbero certamente interessate a soluzioni lavorative più stabili). Questa strada consentirebbe di disegnare nei prossimi anni una nuova magistratura onoraria, che si avvale di un triennio di specifica formazione, persone già verificate sul campo per doti tecniche e per indipendenza e serietà, alle quali si offre la possibilità di svolgere un’esperienza limitata nel tempo ma fortemente qualificante, coerente con il percorso fatto e “spendibile” nel mondo del lavoro (questo accade per esempio nei Paesi nordici).
Si ritiene che questo sistema si coniughi assai bene anche con una possibile normativa transitoria: perché l’entrata a regime dei nuovi GOP/VOP avverrebbe – tenendo conto dei tempi per il bando per l’assunzione delle nuove figure, del loro primo triennio di mero impiego nell’UPP e del tempo necessario alle prime valutazioni di idoneità per i ruoli onorari – in tempi non brevi, nei quali continuerebbero ad agire secondo modalità e competenze vigenti gli attuali GOT/VPO (per i quali d’altra parte l’inserimento nell’UPP con funzioni di mero ausilio comporterebbe una ingiustificata deminutio e soprattutto una perdita di competenze).
Al riguardo, sembra essenziale effettuare una ricognizione della composizione anagrafica delle attuali categorie di onorari, perché sia possibile assicurare a chi è già in servizio il compimento del proprio percorso per maturare l’accesso a trattamenti pensionistici e previdenziali e al contempo per realizzare un graduale subentro delle nuove figure, che non crei carenze nel sistema: potrebbe richiamarsi lo stesso meccanismo di sincronizzazione (già sperimentato per i concorsi in magistratura) tra selezione/inizio tirocinio/immissione nelle funzioni: dopo l’iniziale immissione dei primi 16500,00 ogni tre anni si potrebbe cioè varare un nuovo bando (da calibrare nei numeri in base a questa prima esperienza) per le nuove assunzione nell’UPP, e contemporaneamente varare nei singoli CCGG la procedura di valutazione dei componenti che chiedano di svolgere funzioni onorarie.
4.2. Una ipotesi di accesso concorrente e alternativa: il contratto
Si è consapevoli che tale meccanismo sottende la protratta “alimentazione” dell’UPP, con periodiche assunzioni di figure analoghe a quelle previste dal DL, magari in misura inferiore purchè ne sia assicurata la regolarità: si ritiene allora necessario accennare all’ipotesi in cui invece tale figura non trovi continuità, ovvero al caso in cui tale meccanismo di formazione/impiego all’interno degli uffici con successiva proiezione nella giurisdizione risultasse nel tempo insufficiente a garantire un apporto numericamente sufficiente di magistrati onorari.
Si potrebbe allora prevedere un canale di accesso diverso e concorrente di magistrati onorari, dunque non una esperienza posta all’inizio di un percorso professionale con una inevitabile fase di formazione/collaborazione ma una esperienza affidata – comunque su base negoziale, e a tempo determinato – a professionisti che hanno già svolto attività giudiziaria. Se si ha riguardo alla situazione attuale, tale meccanismo potrebbe appunto essere riservato al momento in cui avranno terminato la loro esperienza gli attuali magistrati onorari, che hanno seguito un percorso che forse era nato proprio con le caratteristiche di essere collaterale e compatibile con altra e stabile attività lavorativa, ma che certamente nel tempo si è snaturato e complicato, in ragione di mere e non ragionate proroghe e anche con la graduale emersione di diverse e non coordinate figure.
5. Competenze, inquadramento, retribuzione, incompatibilità (cenni)
Si è consapevoli della complessità della materia, sulla quale sono stati spesi studi approfonditi, che non si ha la pretesa di ripercorrere [2]. Si vuole qui solo rimarcare che – se la fase “preparatoria” della decisione è assicurata soprattutto dall’UPP – il magistrato onorario (comunque sia stato selezionato) dovrebbe essere addetto invece a svolgere sia funzioni endoprocedimentali sia la gestione diretta di controversie, da definire con criteri essenzialmente valoristici e con limitate competenze per materia, anche se in questa ottica di collaborazione all’intero Ufficio (e soprattutto se si ha riguardo alle realtà dei tribunali di minori dimensioni) potrebbe essere comunque prevista una possibilità di comporre collegi in casi predeterminati.
Sarebbe interessante al riguardo accentuarne la potestà conciliativa (ad esempio, affidare tutti i procedimenti nel penale suscettibili di messa alla prova), con possibili effetti deflattivi anche sui gradi successivi di giudizio (imbuto nel quale altrimenti continuerebbero a riversarsi tutte le decisioni di primo grado): provvedendo a robuste semplificazioni dei riti, e magari ampliando (per il penale) i casi di sola sanzione pecuniaria. Va infatti chiarito un punto: se il legislatore ritiene di assicurare ancora “copertura giurisdizionale” a una serie di controversie e infrazioni “minori”, oltre che alla nutrita serie di compiti anche di altra natura che gravano sui tribunali (funzioni amministrative e certificatorie; atti di stato civile; competenze elettorali) con i numeri attuali non può che prevederne una gestione molto più semplice, una giurisdizione di stampo marcatamente conciliativo, che salvaguardi solo i tratti essenziali del contraddittorio: anche nell’ottica di salvaguardare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale (l’alternativa, assai pericolosa e poco compatibile con gli equilibri disegnati dalla nostra Costituzione, sembra quella di meccanismi di discrezionalità in base a direttive emanate dal Parlamento) potrebbe risultare assai più semplice e lineare introdurre meccanismi di giurisdizione realmente più agile e di prossimità.
Pur se eventualmente svolto su norme processuali diverse, indefettibili appaiono l’approdo al ruolo onorario unico (la distinzione GOT-GdP-VPO-Giudici aggregati in Corte di appello ecc. è stata foriera di trattamenti anche economici ingiustificatamente difformi) e l’unitarietà di gestione in capo al Presidente del Tribunale e al Procuratore della Repubblica (compito delegabile a uno o più magistrati dell’Ufficio): per assicurare comunque il coordinamento tra le varie figure espresse da quell’Ufficio, per responsabilizzare i capi degli uffici giudiziari nell’attività di selezione e formazione dei componenti onorari e al contempo per consentire loro di modularne i compiti secondo le specifiche necessità di quell’Ufficio. Si potrebbero così valorizzare le parti di DOG e Progetti organizzativi che concernono l’impiego dei magistrati onorari, perché competerebbe al dirigente dell’ufficio, in base all’organico a disposizione, calibrarne l’uso e indicando alcuni obiettivi, ai quali potrebbe anche legarsi una parte della retribuzione. Se è certamente necessario evitare ogni forma di cottimo, la scelta ad esempio – in base alle manifestate disponibilità individuali – se svolgere il proprio servizio su una o più giornate di impegno (indubbiamente con un limite massimo, determinato per legge, proprio in ragione della temporaneità della prestazione), e il come modulare tale impegno (con prevalenza dell’una o dell’altra delle funzioni che sono state indicate in premessa), potrebbero far parte del “contratto” che il dirigente e il magistrato onorario potrebbero stipulare, avendo riguardo anche al tipo di attività professionale che lo stesso svolge e intende proseguire, dunque inserendo anche le incompatibilità come elementi del contratto che viene ad essere stipulato
Non appare inutile, in conclusione, ritornare sui temi più generali, per rimarcare che l’inserimento di nuove figure, il tendenziale assorbimento nei Tribunali di tutti gli uffici giudiziari, l’auspicabile razionalizzazione degli organici e delle dotazioni strutturali, l’incremento del lavoro a distanza riportano alla indefettibilità di progetti di lunga portata e quindi di investimenti: che appaiono però fruttiferi, ove si consideri che una razionalizzazione delle strutture comporterà rilevanti risparmi di spesa e – soprattutto – che una giustizia indipendente ed efficiente, in grado di svolgere al meglio la sua funzione di garanzia di controllo, è ormai riconosciuta come uno dei principali motori della crescita di ogni società, perché i diritti riconosciuti e attuati sono certamente una ricchezza collettiva.
[1] Pasquale Serrao d’Aquino Lo “stress test” dello statuto unico del magistrato onorario (d.lgs. 116/2017) tra progetti di controriforma, compatibilità con i principi costituzionali e tutela eurounitaria del lavoratore contro l’abuso della reiterazione dei contratti a termine - Giustizia Insieme
[2] Ci si limita a richiamare nel suo insieme il Forum che questa Rivista ha dedicato al tema La riforma della magistratura onoraria: forum - Giustizia Insieme
Considerazioni sulla riforma prevista dagli emendamenti al d.d.l. n. 1662/S/XVIII: l’istituzione di un «provvedimento sommario e provvisorio con efficacia esecutiva» di Caterina Silvestri
Sommario: 1. Il quadro di riferimento delle riforme in corso - 2. Il «provvedimento sommario e provvisorio con efficacia esecutiva»: profili di riflessione.
1. Il quadro di riferimento delle riforme in corso
La riforma della giustizia civile delineata nel d.d.l. n. 1662/S/XVIII presentato al Senato il 9 gennaio 2020, per la verità di modesta prospettiva, è quanto l’attuale compagine istituzionale si è trovata a disposizione per rispondere al soverchio impegno previsto nel più ampio quadro di interventi che l’Ue chiede al nostro Paese con il programma di sostegno finanziario Next Generation EU [[1]].
La risposta dell’Italia, contenuta nel «Piano nazionale di ripresa e resilienza.#nextgenerationitalia», si snoda ridondante attraverso i risaputi limiti che da anni affliggono il funzionamento del sistema, cioè i tempi eccessivamente lunghi, e l’orizzonte di una riconquista della fiducia sia dei cittadini, sia degli osservatori e degli investitori internazionali.
Esso pone al primo posto un’impegnativa serie di riforme, tra le quali spicca quella della pubblica amministrazione e della giustizia nel suo complesso, anche ordinamentale, e una serie di missioni altrettanto ambiziose che investono molti settori: Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo (missione 1), Rivoluzione verde e transizione ecologica (missione 2), Infrastrutture per una mobilità sostenibile (missione 3), Istruzione e ricerca (missione 4), Inclusione e coesione (missione 5), Salute (missione 6) [[2]].
Con riferimento al processo civile è il Piano stesso a prevedere che il metodo destinato a governare le innovazioni sia quello dello «intervento “selettivo” » espressamente diretto a «ovviare alle aree più disfunzionali» [[3]]. Detta previsione annuncia, dunque, di per sé sola, il sopravvenire di un’azione più di riparazione che di innovazione, di limitato impatto e di rimaneggiamento del vecchio, dalla quale difficilmente potrà realisticamente provenire l’effetto sperato di alleggerimento e velocizzazione della risposta giudiziale alla richiesta di tutela. Il metodo seguito dal Piano è già stato criticato da Elena D’Alessandro con rilievi del tutto condivisibili: esso è più teso a dire ciò che non vuole, piuttosto di ciò che vuole, non muove da un’analisi empirica e statistica, nemmeno si sporge oltre confine a guardare come gli altri Paesi europei hanno affrontato i problemi analoghi ai nostri, con attenzione sia a specifici istituti, sia all’approccio complessivo al problema dell’efficienza della giustizia [[4]].
L’originario d.d.l. n. 1662 ha dovuto essere irrobustito in tempi rapidissimi, inconciliabili con l’opportunità di un rinnovamento profondo e organico che l’occasione finanziaria in gioco avrebbe consentito. Gli emendamenti proposti [[5]] si sono mantenuti fedeli alla scelta dell’intervento selettivo indicata dal Piano: essi conservano invariato l’impianto dell’attuale processo ordinario, introducono un ulteriore irrigidimento del rito e degli oneri a carico delle parti prevedendo, tra gli altri, la necessità di formulare a pena di decadenza la richiesta dei mezzi istruttori sin dall’atto introduttivo [[6]], ed enfatizzando la politica del «respingimento» [[7]], in un eterno ritorno dell’uguale [[8]].
2. Il «provvedimento sommario e provvisorio con efficacia esecutiva»: profili di riflessione
In questo quadro di conservazione e aggiustamento dell’esistente, una delle novità di maggior rilievo risiede nella previsione dell’istituzione di un «provvedimento sommario e provvisorio, con efficacia esecutiva» [[9]]. La formula, tuttavia, promette di più di quanto non sia effettivamente indicato nell’articolato.
L’art. 3, punto c-decies, dell’emendamento AS 1662, prevede «che, nel corso del giudizio di primo grado, nelle controversie di competenza del tribunale che hanno ad oggetto diritti disponibili: 1) il giudice possa, su istanza di parte, pronunciare ordinanza provvisoria di accoglimento, in tutto o in parte, della domanda proposta, quando i fatti costitutivi sono provati e le difese del convenuto appaiono manifestamente infondate». Solo l’ordinanza di accoglimento sarebbe reclamabile ex art. 669-terdecies c.p.c., non destinata ad acquistare l’autorità di cosa giudicata di cui all’art. 2909 c.c., né efficace in altri processi. L’accoglimento del reclamo condurrebbe alla prosecuzione del giudizio dinanzi a un giudice diverso rispetto a quello che ha reso il provvedimento riformato.
La previsione in questione fa il paio con quella del successivo punto c-undecies, la quale prevede di affidare al giudice, «all’esito della prima udienza di comparizione delle parti e trattazione della causa» e su istanza di parte, il potere di pronunciare una «ordinanza provvisoria di rigetto della domanda proposta» sia «quando questa è manifestamente infondata», sia «se è omesso o risulta assolutamente incerto il requisito stabilito dall’art. 163, terzo comma, numero 3 (…), ovvero se manca l’esposizione dei fatti di cui al numero 4) del predetto terzo comma». Anche questa ordinanza, che assimila il trattamento processuale del rigetto per motivi di merito e per motivi di rito della domanda e perciò destinata a sostituire il rilievo della nullità della citazione disciplinato dall’art. 164, quarto comma, c.p.c., avrebbe analoga disciplina di quella di accoglimento. Si tratta di provvedimenti delicatissimi, che meritano approfondimento e su cui mi limito a fare alcune considerazioni, certamente parziali.
L’emissione del provvedimento di accoglimento è modellata sulla tecnica della condanna con riserva delle difese del convenuto, come precisa la Relazione illustrativa che pure l’accosta al référé provision francese o al summary judgement inglese. L’associazione non è particolarmente felice, atteso che né il primo né il secondo presentano un impianto anche lontanamente equiparabile alla condanna con riserva. Il rilievo non è di secondo momento, atteso che il modello organizzato dall’emendamento in questione altera, rispetto ai modelli stranieri evocati, il rapporto che in quelli intercorre tra la struttura processuale e il tipo di rimedio, modificandone conseguentemente la funzionalità. Il référé provision [[10]] non è fondato sulla disarticolazione tra fatti costitutivi ed eccezioni, perché la tipizzazione dei fatti non è utilizzata in Francia quale criterio per la distribuzione degli oneri processuali tra le parti [[11]]; in esso il giudice compie una valutazione d’insieme della lite, condotta sulla ricorrenza della «percepibilità» di una situazione di «manifesta» fondatezza, infondatezza, o illiceità afferente al contenzioso, tanto da essere definito il giudice dell’evidente e dell’incontestabile; inoltre, deve rammentarsi che il référé è, soprattutto, un procedimento. Esso è autonomo rispetto al processo ordinario, deformalizzato e trova il suo più vicino parente nel nostro sistema, nel processo cautelare. Il summary judgment, dal canto suo, è essenzialmente basato sulla natura non contestata dei fatti rilevanti, anch’essi privi di una tipizzazione analoga a quella rinvenibile nell’art. 2697 c.c. Alla luce di queste diversità, che riflettono un approccio al processo meno formale e meno dogmatico, è difficile pensare a questi istituti anche solo come fonti di ispirazione per il provvedimento oggetto dell’emendamento di cui all’art. 3, c-decies.
Meglio, allora, trattare la condanna con riserva quale espressione tradizionale del nostro sistema. La tecnica in questione, come noto, conosce applicazioni che si esprimono al meglio, sia pure entro diverse strutture processuali, nella convalida di sfratto e nel procedimento ingiuntivo, le quali hanno quale comune caratteristica la «tipicità» dell’ambito di applicazione. Qualche dubbio può sorgere sulla idoneità alla generalizzazione di questa modalità di sommarizzazione e sulla sua capacità di rispondere al bisogno di misure endoprocessuali [[12]] sentita da tempo (e già frustrata dalla deludente performance delle ordinanze di cui agli artt. 186-bis-ter-quater, c.p.c.). Bisogno, per la verità, che non si esaurisce in un provvedimento di accoglimento o di rigetto, ma che è ampio tanto quanto le variabili esigenze di tutela che ciascuna fattispecie può presentare: misure di attesa [[13]] e/o di conservazione e/o di anticipazione di tutto o parte della domanda, che il giudice potrebbe adottare su istanza di parte con una semplice ordinanza provvisoria, revocabile e modificabile, reclamabile, in grado anche di rispondere a esigenze di tipo propriamente cautelare, senza attivare il relativo sub procedimento, come accade adesso per le misure di questa natura richieste a processo pendente. La previsione c-decies interpreta l’esigenza di accelerazione della tutela endoprocessuale in maniera riduttiva, costringendola a un aut aut tra accoglimento o rigetto, forzando il primo entro il rigido schema della condanna con riserva.
Perché non cogliere questa occasione riformatrice per dotare anche il nostro sistema processuale di uno strumento più duttile, che possa condurre all’emissione di provvedimenti il cui contenuto risponda alle specifiche esigenze della lite pendente, proprio come avviene nel processo civile francese, tanto spesso evocato nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, in cui il giudice del merito può ordinare tutte le misure di cui la lite manifesti di avere bisogno, compresi i provvedimenti ordinabili con l’autonomo procedimento di référé.
La previsione del c-undecies desta, a sua volta, qualche preoccupazione sotto perlomeno un paio di profili. Il primo di questi riguarda l’utilizzo dell’ordinanza di rigetto a fronte di un vizio procedimentale, per il quale non v’è più possibilità di rinnovazione, ma solo di reclamo, in un’ottica che Capponi ha efficacemente definito di respingimento. Si tratta di un irrigidimento formale, temibilmente destinato a ingombrare i ruoli anziché ad alleggerirli proprio per il necessario impiego del reclamo che, ove confermato, costringerebbe la parte a riproporre la domanda dopo l’inutile, lungo e costoso esperimento delle vie giudiziali, sfociato in una pronuncia di puro rito (danni forse recuperabili attivando la responsabilità professionale dell’avvocato?). Dalla previsione così come formulata nell’emendamento, il processo esce ridotto nelle sue aspirazioni di essere utile strumento di tutela, mirante a un provvedimento di merito e che a tal fine organizza al suo interno meccanismi di rinnovazione che consentano il recupero di eventuali errori formali, giacché il processo non può assumere l’infallibilità degli umani che ne sono protagonisti.
Il secondo fronte di perplessità della previsione c-undecies concerne l’ordinanza di rigetto per manifesta infondatezza e tocca questioni di adeguatezza costituzionale, ma anche di carattere tecnico, che qui mi limito ad accennare. Sul piano costituzionale, v’è da chiedersi se possa considerarsi coerente con la previsione dell’art. 24 Cost., e per certi versanti anche con l’art. 3 Cost, una norma come quella in discorso che, in sostanza, si traduce nella necessità di provare il fumus della fondatezza della domanda giudiziale per accedere alla tutela ordinaria; necessità che, per certe liti, si annuncia particolarmente impegnativa, tanto da poter frustrare la pratica accessibilità al giudice come, per esempio, nei contenziosi complessi sul piano fattuale o caratterizzati da asimmetrie informative. Sul versante tecnico, la previsione si riferisce esclusivamente alla domanda di parte attrice (tanto che disciplina anche i vizi dell’edictio actionis), ma tace del tutto sui problemi connessi alla presenza di una domanda riconvenzionale, a partire dall’applicabilità alla stessa del rigetto per manifesta infondatezza.
È auspicabile il ripensamento di questi profili e l’articolazione di una modalità accelerativa esperibile sia all’interno del processo ordinario sia autonomamente a esso, deformalizzata, atipica, provvisoria, reclamabile.
[[1]] Disponibile all’indirizzo https://ec.europa.eu/info/business-economy-euro/recovery-coronavirus/recovery-and-resilience-facility_it.
[[2]] Il piano è disponibile all’indirizzo https://www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR.pdf.
[[3]] Così si legge a pag. 57 del Piano nazionale, cit., alla nota precedente.
[[4]] E. D’Alessandro, La riforma della giustizia civile secondo il Piano nazionale di ripresa e resilienza e gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII. Riflessioni sul metodo, in questa Rivista, consultabile al link: https://www.giustiziainsieme.it/it/news/121-main/processo-civile/1758-la-riforma-della-giustizia-civile-secondo-il-piano-nazionale-di-ripresa-e-resilienza-e-gli-emendamenti-governativi-al-d-d-l-n-1662-s-xviii-riflessioni-sul-metodo-di-elena-d-alessandro.
[[5]] Gli emendamenti al disegno di legge AS 1662 e la Relazione Illustrativa degli stessi, sono leggibili in calce al saggio di B. Capponi, Prime note sul maxi-emendamento al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, in questa Rivista, consultabile al seguente link: https://www.giustiziainsieme.it/it/news/121-main/processo-civile/1736-prime-note-sul-maxi-emendamento-al-d-d-l-n-1662-s-xviii-di-bruno-capponi.
[[6]] Così, in particolare, G. Scarselli, Osservazioni al maxi-emendamento 1662/S/XVIII di riforma del processo civile, in questa Rivista, consultabile al link https://www.giustiziainsieme.it/it/news/121-main/processo-civile/1747-osservazioni-al-maxi-emendamento-1662-s-xviii-di-riforma-del-processo-civile.
[[7]] Così B. Capponi, Prime note sul maxi-emendamento al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, cit., p. 5, cui appartiene l’espressione virgolettata: con essa l’A. si riferisce alla prevista abrogazione dell’art. 164, comma 4, c.p.c., e alla pronuncia di un’ordinanza provvisoria di rigetto della domanda senza possibilità per la parte attrice di rinnovare l’atto introduttivo; analoga affermazione può farsi con riferimento al giudizio di appello, per il quale è previsto un irrigidimento dei filtri di inammissibilità.
[[8]] Capponi, Prime note sul maxi-emendamento al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, cit., p. 4, osserva come il maxi emendamento giochi «la carta del principio di eventualità indiscriminato». Sull’accoglimento del modello processuale dell’eventualità la dottrina si interrogò, come noto, già al momento delle riforme del processo civile di cui alla l. n. 353 del 1990; tra questi anche P.F. Luiso, Principio di eventualità e principio della trattazione orale, in Scritti in onore di Fazzalari, II, Milano, 1993, p. 207, presidente della Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti alternativi, consultabile al link ink https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_36_0.page?facetNode_1=0_10&contentId=COS334499&previsiousPage=mg_1_36.
[[9]] Questa l’espressione utilizzata dalla proposta della Commissione Luiso, cit., p. 33, ripresa pedissequamente dalla Relazione Illustrativa agli emendamenti al disegno di legge AS 1662.
[[10]] Non più all’art. 809 del Code de procédure civile come si legge nella Relazione illustrativa del maxi emendamento, cit., ma all’art. 835, c.p.c., a seguito della riforma introdotta con i decreti attuativi della loi n. 2019-222 de programmation 2018-2022.
[[11]] Esiste in Francia la sola teorizzazione del fatto generatore del diritto in Motulsky, la quale, tuttavia, non trova applicazione pratica nel processo; su questi aspetti mi permetto di richiamare C. Silvestri, Il fatto e la domanda in giudizio. Profili ricostruttivi, Napoli, 2020, p. 105 ss.
[[12]] Dubbi che già esprimeva A. Proto Pisani, Appunti sulla giustizia civile, Bari, 1982, p. 342, il quale con riferimento alla prospettiva de iure condendo di prevedere un sistema in grado di evitare l’abuso del diritto di difesa da parte del convenuto, riteneva «Sconsigliabile il ricorso alla tecnica della condanna con riserva delle eccezioni» auspicando anche un riesame delle ipotesi già presenti nel c.p.c.; sul tema significativa anche l’analisi di G. Scarselli, La condanna con riserva, Milano, 1989, p. 75 ss. Si ricorderà, tuttavia, che lo stesso Proto Pisani, Per un nuovo codice di procedura civile, in Foro it., 2009, V, c. 31, prevedeva all’art. 2.28 la «Ordinanza di condanna con riserva» che attribuiva al giudice, su istanza di parte, di emettere «ordinanza di condanna all’adempimento della prestazione richiesta» quando i fatti costitutivi fossero incontestati o pienamente provati. Essa, tuttavia, si inseriva in un contesto molto più ricco di provvedimenti acceleratori, rispetto a quelli previsti dal nostro attuale c.p.c., e anche in una più ricca articolabilità del rito a seconda delle necessità della lite (artt. 2.19 e ss.).
[[13]] Con questa espressione mi riferisco a provvedimenti quali, per esempio, la nomina di un amministratore provvisorio, di un tutore, di un custode.
Ripudio islamico: riflessioni - anche extravagantes - a proposito di vulnerabilità
di Maria Giovanna Ruo
Sommario:1. Donne ripudiate: soggetti vulnerabili e violazione dei diritti fondamentali. - 2.Il caso concreto. - 3.L’iter argomentativo della Suprema Corte-Cass.n. 16804 del 7 agosto 2020 - 4.Corte di giustizia e ripudio. - 5.Ripudio e contrarietà all’ordine pubblico. - 6.Islam, matrimonio, ripudio, diritti delle minoranze, inconciliabilità di sistemi. - 7. I cd. “divorzi d’argento”: vulnerabilità delle donne anziane divorziate e necessità di tutela rafforzata.
1. Donne ripudiate: soggetti vulnerabili e violazione dei diritti fondamentali.
Talaq…talaq…talaq: con questa formula sacramentale, scandita per tre volte (o in alcuni ordinamenti anche una sola volta), in molti Paesi islamici il marito, esercitando il diritto potestativo che gli viene attribuito dalla sharia, può sciogliere il matrimonio dalla moglie; questa non sono non può opporsi ma, secondo leggi e tradizioni di alcuni tra tali Paesi, può anche non esserne consapevole, potendo avvenire il tutto senza che lei ne sia nemmeno informata.
Le formule possono variare ma, contenendo espressamente il termine talàq (o simili), esprimono la chiara volontà del marito di porre fine al matrimonio che, secondo ordinamenti sharaitici, comporta l’autorità maritale sulla sposa. Si tratta quindi di atto unilaterale di volontà del marito che può delegare a terzi -e persino alla moglie nel contratto matrimoniale, concedendole che sia lei stessa autoripudiarsi- a porre fine al matrimonio. Ma nulla di simile per la donna, cui non è riconosciuto analogo diritto.
L’autorità giudiziaria -quando interviene (e si tratta per lo più di tribunali religiosi)- si limita a prendere atto, a omologare, prescindendo dalla vocatio della moglie soggetto vulnerabile alle mercè della volontà del marito cui non è nemmeno riconosciuta alcuna possibilità di tutelarsi e difendersi.
Quale rilevanza ed efficacia tali atti e provvedimenti possono avere nel nostro ordinamento i cui cardini sono i principi di uguaglianza, pari dignità dei coniugi, contraddittorio e diritti di difesa?
La Suprema Corte è tornata sulla questione con la sentenza n. 16804 del 7 agosto 2020 che conclude l’iter giurisprudenziale ormai consolidato da anni, affermandone infatti inefficacia e irrilevanza, in ragione alla loro contrarietà all’ordine pubblico per violazione di principi costituzionali e di diritti fondamentali della persona sia sul piano sostanziale sia su quello processuale.
2.Il caso concreto.
La vicenda esistenziale e processuale alla base del provvedimento di riferimento riguarda due cittadini, entrambi italiani e giordani, la cui unione era stata celebrata con rito sharaitico nel loro paese di provenienza. Il marito era poi comparso dinanzi al giudice del Tribunale religioso di Nablus occidentale, perchè venisse “registrato il divorzio di primo grado” dalla moglie. Tale domanda di divorzio consisteva nella registrazione, assente la moglie, di una domanda formulata dal marito alla presenza di due testimoni; veniva quindi emessa sentenza non definitiva di scioglimento del matrimonio, con l’avvertimento che, decorso il periodo legale in difetto di decisione del marito di “risposare” la donna (ovvero di riunirsi a lei con nuovo contratto di matrimonio), il divorzio sarebbe divenuto definitivo. Successivamente la moglie, informata dell’ “istanza di divorzio di primo grado” del coniuge, si era presentata accompagnata dalla madre; le era stata personalmente comunicata la richiesta del marito. Decorsi tre mesi, il divorzio “senza presenza o accettazione della moglie”, era divenuto definitivo, a seguito di pronuncia, del medesimo Tribunale sharaitico ed era stato rilasciato al marito il nulla osta al nuovo matrimonio.
Il provvedimento non definitivo, con il quale il Tribunale di Nablus aveva pronunciato lo scioglimento del matrimonio, era stato poi trascritto nei Registri di Stato Civile di Roma su richiesta dell’uomo. La moglie aveva quindi adito la Corte di Appello capitolina per ottenere la cancellazione della trascrizione del provvedimento dai registri dello stato civile, a motivo delle sue non definitività e contrarietà all’ordine pubblico e del contrasto del ripudio islamico con i principi della nostra Carta costituzionale. La Corte d’Appello aveva accolto il ricorso, ordinando all’Ufficiale di Stato civile di cancellare la trascrizione della sentenza. Il marito aveva quindi presentato ricorso per Cassazione per 4 motivi, esaminati congiuntamente dalla Suprema Corte in quanto connessi. Erano state presentate conclusioni scritte dal Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione, dott.ssa Luisa De Renzis, che aveva chiesto il rigetto del ricorso. La Suprema Corte, dopo aver disposto approfondimenti circa la normativa palestinese applicabile, ha rigettato il ricorso.
3.L’iter argomentativo della Suprema Corte-Cass.n. 16804 del 7 agosto 2020-.
La Cassazione, nell’esaminare congiuntamente i quattro motivi di ricorso in quanto connessi, ricostruisce l’istituto del “ripudio”, sottolineando come anche negli stati in cui è stato proceduralizzato -perdendo il suo carattere meramente negoziale- tuttavia l’Autorità che interviene ha funzioni di omologazione, talvolta decisorie, ma comunque “limitate a recepire la volontà unilaterale del marito” con l’emanazione di un provvedimento che incorpora il ripudio con funzioni di omologa e presa d’atto. Esamina le norme interne rilevanti (artt. 64 e 65 l. 218/1995 e art. 18 D.P.R. 396/2000) ai fini del riconoscimento di efficacia nel nostro ordinamento di provvedimenti stranieri. Ricostruisce la giurisprudenza interna ed europea in materie di riconoscimento di provvedimenti stranieri di scioglimento del matrimonio.
Il riconoscimento dei provvedimenti stranieri è infatti regolato dagli artt. 64 e sgg. della l. 218/1995. Per i provvedimenti stranieri in materia personale e familiare, occorre l’annotazione in pubblici registri in Italia. L’autorità preposta “dovrà operare un giudizio, ancorché non tecnicamente delibativo, di riconoscibilità a fini attuativi”: dovrà, cioè, verificare la sussistenza dei requisiti previsti dalla L. n. 218 del 1995 cit., artt. 64 e 65. Per le sentenze (art. 64: non contrarietà all’ordine pubblico e dei diritti di difesa); per gli altri provvedimenti in materia personale o familiare (art. 65: anche che assunti dalle autorità dello Stato la cui legge sia quella richiamata dalle norme di conflitto: Cass. 17463/201), assume altresì rilievo il D.P.R. 396/2000, art. 18 secondo cui “gli atti formati all’estero non possono essere trascritti se sono contrari all’ordine pubblico”. Se l’Ufficiale di stato civile rifiuta la trascrizione, l’interessato “deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l’ufficio dello stato civile… presso il quale si chiede che sia eseguito l’adempimento”. Nella fattispecie, peraltro, l’Ufficiale di stato civile aveva invece proceduto all’annotazione della sentenza non definitiva di divorzio, non ravvisando contrarietà all’ordine pubblico.
Necessaria quindi la verifica della compatibilità del provvedimento straniero di cui viene richiesta la trascrizione con l’ordine pubblico: a tale fine -secondo la Suprema Corte- è richiesta una “valutazione ampia, comprensiva non solo dei principi fondamentali della Costituzione e dei principi sovranazionali ma anche delle leggi ordinarie e delle norme codicistiche”. Tale operazione ermeneutica che, necessariamente procedendo dal caso singolo, deve però approdare ad un inquadramento sistematico, per consentire un ordine di priorità nell’equo bilanciamento dei valori in gioco (Cass., SS.UU., sent. n. 12193/2019).
4.Corte di giustizia e ripudio.
Ricostruita la propria giurisprudenza in materia di riconoscimento di provvedimenti stranieri di divorzio, e rilevato come la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non si sia ancora pronunciata in materia relativamente alla parità di condizioni tra i coniugi nel divorzio, la Cassazione si sofferma su Corte di Giustizia, 20 dicembre 2017, resa nel procedimento Soha Sahyouni contro Raja Mamisch. La questione riguardava una coppia di cittadini con doppia cittadinanza sia siriana che tedesca, i quali avevano contratto matrimonio islamico in Siria. Il marito aveva ottenuto da un tribunale sharaitico provvedimento dichiarativo dello scioglimento del matrimonio, in forza della sua dichiarazione unilaterale di divorzio e ne richiedeva il riconoscimento nell’ordinamento tedesco. In quel caso la moglie aveva anche sottoscritto un documento che attestava l’avvenuto adempimento nei suoi confronti degli obblighi del marito dipendenti dal contratto di matrimonio e dalla dichiarazione di ripudio, quasi accettandolo implicitamente. Il riconoscimento degli effetti civili della pronunzia di divorzio siriana era stato concesso dal Tribunale competente di Monaco di Baviera. I giudici d’appello hanno ritenuto di proporre rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia in ordine, anzitutto, all’applicazione del Regolamento n. 1259/2010 anche al c.d. divorzio privato, pronunciato dinanzi ad un tribunale religioso sulla base della Sharia. In caso di risposta affermativa alla prima questione e quindi di ritenuta applicazione del regolamento (Reg. n. 1259/2010), si sarebbero poste ulteriori questioni: a) se occorra fondarsi in astratto su un confronto dal quale risulti che la legge applicabile a norma dell’art. 8 riconosce il diritto di accedere al divorzio anche all’altro coniuge, ma lo subordina – in ragione del sesso di tale coniuge – a condizioni procedurali e sostanziali diverse da quelle valevoli per l’accesso al divorzio del primo coniuge, oppure b) se l’applicabilità della disposizione sia subordinata alla condizione che l’applicazione della legge straniera astrattamente discriminatoria sia anche nel singolo caso – in concreto – discriminatoria; c) in caso di risposta affermativa alla seconda alternativa della seconda questione, se il consenso al divorzio prestato dal coniuge discriminato – anche mediante la sua accettazione di prestazioni compensative – costituisca già un motivo per disapplicare la disposizione sopra citata”. La Corte di giustizia aveva escluso l’applicabilità dei citati Regolamenti europei a provvedimenti di Tribunali religiosi, pur essendo le loro pronunce riconosciute dall’ordinamento dello Stato in cui operano, cosicché le questioni subordinate non avevano ricevuto risposta. Tuttavia la Suprema Corte richiama sulle stesse le conclusioni dell’Avvocato generale, il quale aveva rilevato come sia sufficiente ad impedire l’applicabilità della legge straniera negli ordinamenti europei la violazione astratta del principio di non discriminazione e che nemmeno l’accettazione dell’indennità connessa al ripudio da parte della donna discriminata abbia valore ai fini di tale applicabilità, in quanto il principio di non discriminazione deve intendersi sottratto alla libera disponibilità delle parti (in ragione di ciò l’Avvocato generale aveva concluso nel senso dell’irrilevanza, sull’applicabilità del divieto di cui all’art. 10 del Regolamento, della circostanza che il coniuge discriminato avesse accettato l’indennità).
5.Ripudio e contrarietà all’ordine pubblico.
In concreto, nel caso in esame alla Suprema Corte di Cassazione rileva come, anche se era stata prevista nel territorio giordano-palestinese una legge più garantista (legge n. 3 del 2011 che avrebbe rinnovato l’istituto con un sostanziale riequilibrio delle posizioni dei coniugi all’interno del procedimento ma che non era formalmente entrata in vigore), non era però stata applicata al caso concreto cui, viceversa, era stata applicata la normativa di cui alle leggi n. 31 del 1959, n. 61 del 1976, prive di garanzie per la donna ripudiata.
Nella fattispecie la domanda di divorzio del marito era stata accolta dal Tribunale shariatico o sharaitico, sulla base della semplice presa d’atto della di lui volontà; la pronuncia era divenuta definitiva successivamente alla notifica del provvedimento alla moglie e decorso del termine di legge. Si tratta quindi -secondo la Cassazione- di un atto di autonomia privata autenticato o certificato dall’autorità religiosa competente, la cui contrarietà all’ordine pubblico internazionale è evidente, sia sotto il profilo sostanziale (sperequazione delle posizioni dei due coniugi con evidente sbilanciamento in sfavore della donna, oggetto del ripudio e non facoltizzata all’esercizio di diritto equivalente; assenza di valutazione della cessazione della comunione materiale e spirituale) e processuale (assenza di contraddittorio e di diritti di difesa).
In rapida successione, la Cassazione è tornata a occuparsi di “ripudio” questa volta -per analoghi motivi- accogliendo invece il ricorso di un uomo in un caso di divorzio iraniano, cassando la sentenza della Corte di appello di Bari e rinviando alla stessa in diversa composizione. Anche nel caso di cui si occupa la Suprema Corte nella sentenza 17170 del 14 agosto 2020, la Corte di appello baresina aveva ordinato la cancellazione della sentenza del tribunale iraniano, ma la Cassazione censura il provvedimento sotto il profilo motivazionale, espressamente richiamando la propria giurisprudenza in materia di ordine pubblico internazionale e affermando che il giudice della delibazione, nel riconoscere le sentenze nell’ordinamento interno, deve verificare se siano stati soddisfatti “i principi sostanziali dell’ordinamento relativi anche al procedimento anche relativi al procedimento formativo della decisione” e quindi se nel procedimento dinnanzi al giudice straniero siano stati rispettati i diritti della difesa. La Corte di appello di Bari si era limitata ad affermare che il divorzio iraniano per il suo carattere unilaterale e arbitrario non si discosta dal ripudio, senza espresso riferimento agli effetti dell’atto nell’ordinamento interno individuando correttamente il limite dell’ordine pubblico che, nell’attuale fase storico-sociale “si identifica nel complesso dei valori discendenti dalla Costituzione e dalle fonti internazionali e sovranazionali dettati a tutela dei diritti fondamentali per il modo in cui essi si attuano attraverso il diritto vivente…” Cass., 19599/2016). Insomma non è la non coincidenza degli istituti stranieri con quelli italiani che costituisce il limite dell’ordine pubblico internazionale ma il conflitto con i valori fondanti.
6.Islam, matrimonio, ripudio, diritti delle minoranze, inconciliabilità di sistemi.
I gruppi di mussulmani che si stanziano in Italia hanno una forte identità culturale e religiosa e, come ricorda M. E. Ruggiano (Il ripudio della moglie voluto dalla Sharia e la contrarietà al diritto italiano, in Familia) citando a sua volta M. Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, Bologna, 2006, “L’Islam rappresenta una cultura, un assetto di potere, una ideologia ampia e articolata e per questo definita «una concezione della vita, del mondo, della società, della natura, dell’uomo e di Dio olistica e onnicomprensiva» ma è anche una religione che contiene regole sia di tipo spirituale che temporale e che, grazie a queste ultime, ha elaborato, nel tempo, un ordinamento giuridico”.
Il diritto matrimoniale islamico si fonda su principi inconciliabili con il nostro sistema che sono all’origine del problema del ripudio. Per il diritto islamico, pur nelle sue diversificazioni che dipendono da una serie di fattori storici e sociali, il matrimonio trae origine da un contratto bilaterale nel quale però diritti e doveri sono sbilanciati o, meglio, nella prospettiva di tale cultura, hanno un equilibrio particolare, alieno dalla prospettiva della nostra sensibilità giuridica. Con tale contratto il marito acquisisce infatti diritti sulla persona della moglie (godimento sessuale e autorità maritale) mentre la moglie godrà dei donativi obnuziali obbligatori e del soddisfacimento dei bisogni materiali. Tale disuguaglianza di posizioni si estrinseca quindi anche e proprio nel ripudio, in cui il marito può porre fine al vincolo coniugale con una semplice dichiarazione verbale, nonostante il Corano veda con sfavore il ripudio (Maometto lo definisce “la cosa più odiosa al cospetto di Dio”). Vi è da ricordare che tale istituto islamico, anche nei sistemi sharaitici, non è l’unico istituto in ragione del quale il matrimonio possa venir meno: oltre ai casi di nullità, vi sono anche divorzio giudiziale e divorzio per mutuo consenso.
All’interno delle comunità mussulmane vi è la forte consapevolezza della propria identità, da custodire gelosamente, anche quando tale identità confligge con l’assetto culturale del Paese ospitante. Chi ha avuto la possibilità di incontrare dal proprio tavolo di lavoro difensivo (ottimo punto di osservazione) tali fenomeni, ha constatato una duplice tensione nelle donne mussulmane: il desiderio di integrazione e di “occidentalizzazione” nella parità dei diritti, accanto al desiderio di forte affermazione della propria identità religiosa, giuridica, culturale. Si verifica nella realtà esistenziale delle donne mussulmane migrate in Italia -e soprattutto nelle cd. “seconde generazioni” nate in Italia e vissute nel nostro Paese accanto a coetanei con (identità religiosa ormai estremamente “sfumata” ma) forte senso dei propri diritti e consapevolezza della propria libertà personale- da una parte quasi la necessità di differenziazione nella proclamazione della propria identità religiosa e culturale, dall’altra altrettanta necessità di omologazione nel godimento dei diritti fondamentali.
Tutto ciò porta a interrogarsi, con l’incremento dei fenomeni migratori, sui temi dell’identità etnica, culturale e religiosa, anche avendo presente il fatto che i mussulmani possono essere definiti minoranza vulnerabile in Italia. Da una parte i valori irrinunciabili della nostra società democratica. Dall’altra i diritti all’identità etnica, culturale e religiosa di migranti che si stanziano in un Paese dalle tradizioni e dall’attualità culturale divaricante rispetto alle loro.
Nel Rapporto di monitoraggio della protezione minoranze nell’Unione Europea, realizzato da >span class="spelle">Eumap e presentato nel nostro Paese d’intesa con “A Buon Diritto. Associazione per le libertà” si legge che in Italia i musulmani – circa 700mila persone - vivono “difficoltà quotidiane nel cammino dell’integrazione… il fatto che sul piano giuridico e normativo l’Italia si trovi in buona posizione verso l’applicazione della Direttiva Ue sulla parità di trattamento indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica non basta”, nota il Rapporto Osi curato dal professor Silvio Ferrari, precisando che “la legislazione in vigore non viene applicata in maniera soddisfacente per molte ragioni: tra esse, il fatto che le sue norme sono poco conosciute sia dalle comunità di immigrati che dai diversi apparati e funzionari dell’amministrazione. Inoltre, l’assenza di una Intesa – ovvero di un accordo formale tra Stato e comunità islamiche - rende assai difficile la piena espressione della propria identità religiosa”. Non è inoltre da sottovalutare il fatto che secondo una scuola di pensiero -se non dominante tuttavia statisticamente rilevante- gli immigrati (quelli musulmani, in particolare) rappresentino una minaccia per l’identità nazionale; siano responsabili – nel loro insieme - di un deterioramento della sicurezza pubblica; non siano integrabili nella società italiana” (http://www.edscuola.it/archivio/handicap/mussulmani_in_italia.htm). Recenti tragici eventi hanno riportato in emersione radicali differenze strutturalmente inconciliabili con l’attuale assetto valoriale della nostra società: l’uccisione di giovani donne da parte delle loro famiglie integraliste islamiche punite per aver rifiutato il matrimonio precoce e combinato (peraltro espressamente vietato anche dalla Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne -detta Convenzione di Istanbul- adottata dal Consiglio d’Europa l’11 maggio 2011 come pratica di violenza di genere).
Afferma però sempre il citato rapporto che “L’insufficiente conoscenza della straordinaria diversità delle comunità musulmane presenti nel Paese fa sì che la maggioranza della popolazione italiana non distingua, quando parla di Islam, tra i diversi gruppi musulmani”. Peraltro, comportamenti violenti e inaccettabili hanno come conseguenza la crescente “islamofobia” che a sua volta può contribuire a produrre il risultato, non voluto ma comunque negativo, di rafforzare l’identità musulmana attorno a un sentimento condiviso di vulnerabilità, esclusione e incomprensione da parte della società di accoglienza accentuando fenomeni di fanatismo.
Vi è da sottolineare che proprio il pensiero laico porta a distinguere tra fede e fanatismo e integralismo religioso e che è sempre da tenere presente che l’omologazione tra questi due piani è mistificante e foriera di lacerazioni pregiudizievoli per la società civile e democratica. Fenomeni di fanatismo (come la caccia alle streghe, per parlare di questioni che investono da vicino la storia dei Paesi europei) non qualificano l’identità religiosa, ma ne costituiscono deviazioni patologiche.
Tutto ciò -ovviamente- non assorbe e tantomeno annulla il fatto che il ripudio per la sua intrinseca natura sia inconciliabile con il nostro sistema giuridico perché violativo di suoi valori fondanti e che provvedimenti discriminatori e violativi di diritti fondamentali della donna ripudiata -soggetto vulnerabile calpestato nella sua dignità e identità, privata del suo status senza nemmeno aver diritto ad essere informata di quanto sta avvenendo- non possano trovare ingresso nel nostro sistema, ma suscita riflessione sulle possibili modalità di integrazione e convivenza tra persone e sistemi: il confine tra ciò che è accettabile e ciò che invece fa parte dei principi non negoziabili e le modalità di tradurre tutto ciò in una società e una cultura non escludenti ma accoglienti, terreno necessario per una pacifica convivenza.
7. I cd. “divorzi d’argento”: vulnerabilità delle donne anziane divorziate e necessità di tutela rafforzata
A chi scrive è capitato anche di domandarsi se talvolta nella nostra stessa società, per una singolare eterogenesi dei fini, attraverso percorsi giuridici completamente diversi, non si verifichino fenomeni che, nella sensibilità delle fragili protagoniste, sono vissute come omologhe al ripudio. Mi riferisco ai cd. “divorzi d’argento” e cioè a quel fenomeno di separazioni e divorzi in età molto matura, oltre i 60 anni, in crescente diffusione, dovuto all’allungarsi dell’età media e quindi del prolungarsi della vita di coppia oltre i precedenti traguardi pluriennali. Il nido vuoto (la fuoriuscita dei figli dalla vita familiare) acuisce il senso di disagio interno alla coppia coniugale, la perdita di senso e può, sempre con maggiore frequenza, portare i protagonisti maschili a rivolgersi al di fuori cercando nuove compagnie, più giovani, attraenti, stimolanti. Molte donne subiscono così il trauma di un divorzio nella terza e talvolta quarta età vissuto come vero e proprio abbandono, avvertito esistenzialmente come ripudio, senza rimedio, dopo una vita di affidamento nella storia di coppia.
Certo si è ben consapevoli che si tratta di fenomeni assolutamente non assimilabili al ripudio sul piano giuridico: la donna ultrasessantenne ha diritti sostanziali e processuali identici a quelli dell’uomo. Libera di ricostruirsi una vita esattamente come lui. Il tutto avviene in esito a un processo in cui entrambi hanno pari diritti di difesa e possono contraddire, eccepire, articolare, chiedere, argomentare; un universo giuridico e umano sideralmente distante da quello del ripudio. Tuttavia è nozione consolidata che il principio di uguaglianza non si traduca in pari opportunità se queste sono previste solo astrattamente e, di fatto, le condizioni di base siano così tanto diverse da renderne la previsione astratta inattuabile nel concreto: in questi casi nella sostanza il riconoscimento di pari diritti si tradurrebbe in una vuota formalità. E nel concreto la natura è discriminatoria: le donne ultrasessantenni divorziate per iniziativa e scelta dell’ex marito, il cui libero esercizio è principio che non tollera opposizione e limiti, non hanno le sue stesse opportunità di ricostruirsi un’esistenza affettiva e, avendo fatto affidamento sull’unione coniugale in una prospettiva durevole per tutta la vita, si ritrovano sole e reiette negli anni difficili dell’anzianità, della fragilità, della solitudine.
Una prospettiva da tenere presente nella riforma dell’assegno divorzile, laddove la durata del matrimonio e dell’età degli ex coniugi nei cd. “divorzi d’argento” dovrebbero essere elementi necessariamente considerati e valorizzati in quella “terza via” per l’assegno divorzile di cui parlava Mirzia Bianca nel suo saggio in questa stessa rivista qualche settimana fa (Giustizia insieme, 14 maggio 2021).
Paradossi giurisprudenziali
di Aniello Nappi
La parte civile costituita in un processo penale per infortunio sul lavoro propone appello contro la sentenza del tribunale che ha assolto per insussistenza del fatto l’imprenditore imputato.
La corte d’appello riconosce alla testimonianza della persona offesa l’attendibilità negata dal tribunale; e condanna l’imputato ai soli effetti civili, senza previa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
Ricorre per cassazione l’imputato e deduce violazione dell’ art. 603, comma 3 bis c.p.p., lamentando che il giudice di appello abbia ribaltato la decisione assolutoria di primo grado sulla base di una diversa valutazione di attendibilità della deposizione testimoniale della persona offesa, senza previa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
Del giudizio di legittimità vengono investite le Sezioni unite penali, perché, indiscussa l’applicabilità dell’art. 603, comma 3 bis c.p.p. anche nel caso di appello ai soli effetti civili, è controverso se il conseguente annullamento della decisione assunta senza previa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale debba essere disposto con rinvio al giudice penale, a norma dell’art. 623 c.p.p., o al giudice civile a norma dell’art. 622 c.p.p.
Secondo una parte della giurisprudenza, infatti, il rinvio va disposto al giudice civile a norma dell’art. 622 c.p.p. in ogni caso in cui non sia più in discussione la responsabilità penale dell’imputato.
Secondo altro orientamento giurisprudenziale invece il rinvio va disposto al giudice penale a norma dell’art. 623 c.p.p. anche quando sia in discussione la responsabilità solo civile dell’imputato, che va accertata nel rispetto delle norme che regolano il giusto processo penale.
Dopo una puntuale ricostruzione della giurisprudenza e delle sue implicazioni, le Sezioni unite hanno ritenuto fondato il primo orientamento.
Cass., sez. un., 28 gennaio 2021, Cremonini, depositata il 4 giugno 2021, ha infatti enunciato il seguente principio di diritto: «in caso di annullamento ai soli effetti civili, da parte della Corte di cassazione, per la mancata rinnovazione in appello di prova dichiarativa ritenuta decisiva, della sentenza che in accoglimento dell'appello della parte civile avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, abbia condannato l'imputato al risarcimento del danno, il rinvio per il nuovo giudizio va disposto dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello». E ha altresì precisato che dinanzi al giudice del rinvio vanno applicate le norme del codice di procedura civile.
Sennonché questa giurisprudenza è palesemente paradossale, laddove impone alla Corte di cassazione di annullare la decisione d’appello per la violazione di una norma che non dovrà essere osservata nel giudizio di rinvio. Non v’è infatti alcuna utilità né alcuna logica nel censurare la violazione di una norma che non si pretende poi di vedere osservata.
E’ in questi paradossi che si smarrisce il senso della amministrazione della giustizia nel nostro paese.
Tuttavia non è neppure ragionevole l’orientamento giurisprudenziale opposto, laddove pretende di trattenere davanti al giudice penale una controversia che ha ormai connotazioni esclusivamente civilistiche. Non è discutibile infatti che la "ratio" dell’art. 622 c.p.p. sia appunto quella di evitare ulteriori interventi del giudice penale ove non vi sia più nulla da accertare agli effetti penali.
All’origine di questa impasse interpretativa non può dunque esservi che un “errore”: vale a dire l’affermazione che «il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l'istruzione dibattimentale, anche d'ufficio» (Cass., sez. un., 28 aprile 2016, Dasgupta, m. 267489).
Come si è già rilevato in questa rivista ( C. Citterio Rivive il principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale?), in realtà, l’art. 603, comma 3 bis c.p.p. prevede espressamente che solo «nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale». L’affermazione di Cass., sez. un., 28 aprile 2016, Dasgupta, m. 267489, come quella conforme di Cass., sez. un., 19 gennaio 2017, Patalano, m. 269787, precede l’inserimento nell’art. 603 c.p.p. del comma 3 bis (che si applica a decorrere dal 3 agosto 2017). Ed è stata ribadita dalla giurisprudenza successiva solo in ragione dell’affermazione che «il disposto dell'art. 603, comma 3-bis, c.p.p., nel disciplinare il caso di riforma della decisione di primo grado su appello del pubblico ministero, non esclude la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale nel caso di ribaltamento di tale decisione ai soli effetti civili» (Cass., sez. VI, 12 febbraio 2019, Caprara, m. 275167, Cass., sez. V, 4 aprile 2019, Clemente, m. 276933, Cass., sez. V, 15 aprile 2019, Gatto, m. 277000).
Sennonché qui non si tratta di stabilire se la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale sia possibile anche in caso di appello ai soli fini civili. Si tratta invece di stabilire se la rinnovazione possa essere considerata obbligatoria, in mancanza di qualsiasi base normativa di un tale obbligo.
E’ vero che viene qui «in rilievo la garanzia del giusto processo a favore dell'imputato coinvolto nel procedimento penale, dove i meccanismi e le regole di formazione della prova non conoscono distinzioni a seconda degli interessi in gioco, pur se di natura esclusivamente civilistica» (Cass., sez. V, 18 febbraio 2020, Menna, m. 279255). Ma questo argomento vale quando l’accertamento delle due responsabilità sia contestuale; non quando sia in discussione solo la responsabilità civile.
Le sezioni unite ricordano anche che è controverso se la sentenza di annullamento ex art. 622 c.p.p. abbia effetti vincolanti nel giudizio civile di rinvio, come afferma la giurisprudenza penale (Cass., sez. IV, 17 gennaio 2019, Borsi, m. 275266, Cass., sez. IV, 16 novembre 2018, De Santis, m. 274831), o non ne abbia, come afferma la giurisprudenza civile, per cui il giudice civile «applica le regole processuali e probatorie proprie del processo civile e, conseguentemente, adotta, in tema di nesso eziologico tra condotta ed evento di danno, il criterio causale del "più proba-bile che non" e non quello penalistico dell'alto grado di probabilità logica, anche a prescindere dalle contrarie indicazioni eventualmente contenute nella sentenza penale di rinvio» (Cass., sez. III, 12 giugno 2019, n. 15859, m. 654290, Cass., sez. III, 25 giugno 2019, n. 16916, m. 654433).
Sembrerebbe tuttavia ragionevole che, ferma l’efficacia vincolante della sentenza di cassazione, il rito debba essere quello del processo civile, ma i parametri di responsabilità debbano essere quelli del codice penale, considerato che non sono diversi da quelli del codice civile.
Secondo la giurisprudenza civile, infatti, anche ai fini della responsabilità civile la causalità va definita in termini condizionalitici. Sicché «un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo» (Cass., sez. I, 30 aprile 2010, n. 10607, m. 612764). Si è così riconosciuto che anche ai fini della «responsabilità civile aquiliana, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p.», secondo la teoria della condicio sine qua non (Cass., sez. I, 8 luglio 2010, n. 16123, m. 613967).
Ciò nondimeno questa stessa giurisprudenza ammette una «diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell'accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", mentre nel processo pe-nale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dub-bio"»(Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576, m. 600899.).
Tuttavia, come s'è ben chiarito in dottrina, quando si discute di responsabilità, occorre accertare sempre tre fatti: il fatto causante, il fatto causato e la legge di copertura, il criterio di inferenza e di giudizio che permette di affermare che fu proprio il supposto fatto causante a produrre il fatto dannoso, l'evento indesiderato(M. TARUFFO, La prova del nesso causale, in Riv. crit. dir. priv., 2006, p. 101 e s.).
Sicché la sentenza penale di annullamento con rinvio a norma dell’art. 622 c.p.p. non potrà ovviamente vincolare il giudice civile per le modalità di accertamento di questi fatti, ma potrà certamente vincolarlo quanto alla nozione di causalità.
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