ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Brevissime osservazioni sulla relazione della Commissione “della Cananea” per la riforma del processo tributario riguardanti il giudizio di legittimità
di Roberto Succio
Sommario: 1. Il ruolo e la situazione della Corte Suprema nell’ordinamento tributario - 2. La centralità attribuita al miglioramento dell’“offerta di giustizia” nel contesto della Corte Suprema - 3. La possibile e proposta introduzione di forme di definizione agevolate delle liti di fronte alla Corte di cassazione - 4. Le vere innovazioni processuali suggerite: il rinvio pregiudiziale e il ricorso nell’interesse della legge in materia tributaria - 5. Le proposte modifiche ordinamentali e organizzative: la copertura dei posti di organico in Cassazione.
1. Il ruolo e la situazione della Corte Suprema nell’ordinamento tributario
Il presente scritto intende commentare brevemente i risultati della Commissione istituita dal decreto emanato dal Ministro della giustizia e dal Ministro dell’economia e delle finanze il 14 aprile 2021, alla quale sono stati attribuiti più compiti in materia di elaborazione di proposte di riforma del processo tributario.
Detta Commissione, composta da magistrati, accademici, funzionari dei Ministeri ridetti, avvocati, e presieduta dal Prof. Giacinto della Cananea, ha redatto un documento assai interessante e per vero non adeguatamente conosciuto, a parere di chi scrive, né dagli operatori, né dai commentatori; solo recentemente – e in misura minore rispetto a quanto era legittimo attendersi – si sono infatti registrati interventi di annotazione e commento allo stesso[1].
In particolare, l’organo consultivo istituito ha avuto funzioni di tipo ricognitivo, relativamente alla legislazione vigente e al contenzioso pendente presso i giudici di merito e il giudice di legittimità, ossia la Corte di Cassazione, oltre che propositivo con riguardo ai profili di difficoltà e inefficienze di funzionamento del sistema processuale dedicato alla risoluzione delle controversie tra contribuente e amministrazione Finanziaria.
Il presente contributo si incentra solamente sulla rilevanza e sul contenuto delle considerazioni e proposte esaminate e formulate con riguardo alla funzione e all’attività della Corte di cassazione alla quale è come noto assegnata, anche in materia tributaria, dall’art. 65 Ord. Giud. quella nomofilattica.
La Commissione - sul piano delle premesse generali - prende dapprima atto, e proclama, per chi ancora ne dubitasse, che “fin dagli anni cinquanta del secolo scorso la normazione nel settore tributario è stata additata come un esempio negativo, per via della variabilità e dell’incoerenza che ne deriva. Nel corso dei decenni successivi, man mano che la pressione tributaria è salita, la complessità è aumentata. Ne sono responsabili varie concause: le innegabili difficoltà tecniche, che rendono il diritto tributario ‘speciale’ rispetto ad altri rami del diritto; la notevole diversità degli indirizzi politici impartiti dal legislatore, finanche all’interno della medesima legislatura; il frequente ricorso a norme di legge interpretative”.
In questo contesto, la normativa fiscale può essere (ed effettivamente è) d’ostacolo agli investimenti esteri in Italia: la sua complessità e incoerenza danno luogo a un ostacolo forse anche più rilevante. Come tutte le analisi internazionali segnalano, ribadisce la Commissione, “l’incertezza del diritto è uno dei principali freni alla permanenza degli investimenti in essere e in misura anche maggiore all’arrivo dei nuovi. Non hanno certamente giovato gli arretramenti rispetto allo statuto del contribuente approvato nel 2000”.
Nel concreto, quindi, la funzione istituzionale stessa della Suprema Corte, assegnatale dal già citato art. 65 ord. giud., se non compromessa, è fortemente compressa in materia tributaria.
Impressionante ed inaccettabile il quantitativo di ricorsi relativi a giudizi che si svolgono dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione. L’arretrato, in costante incremento, ha raggiunto e superato la ragguardevole soglia dei 55.000 ricorsi, alcuni dei quali (5171) sono stati presentati in primo grado da più di un decennio[2].
Le dimensioni dell’arretrato incidono evidentemente in primo luogo sulla certezza del diritto: non può certo escludersi l’insorgere di contrasti anche inconsapevoli.
Dette dimensioni incidono anche, e in modo non di rado disastroso per le aspettative delle parti, sulla complessiva durata dei procedimenti giudiziari. Nell’arco di un decennio, il tempo medio necessario per espletare il primo grado del giudizio di merito è benvero diminuito (da 903 giorni nel 2011 a 608 nel 2019); nondimeno è aumentato quello relativo al secondo grado (da 589 giorni a 906) (allegato n. II, p. 26 della Relazione della Commissione). A ciò si aggiungono specialmente, per quanto qui interessa, i quattro anni in media necessari per il giudizio di legittimità.
Quest’ultimo, secondo la Commissione “è lungo e oneroso. Penalizza oltremodo il contribuente che abbia ottenuto una pronuncia favorevole nel secondo grado di giudizio o in entrambi. Incentivando la proposizione di ricorsi anche da parte dei privati, penalizza anche gli interessi dell’erario, oltre all’interesse generale all’adeguata e sollecita composizione delle dispute”.
Tal lunga durata del processo, in sé, è del tutto opposta a ogni esigenza di certezza, per una ulteriore e assai importante ragione.
Da un lato, infatti, la Corte decide oggi questioni di diritto risalenti negli anni, che erano magari oggetto di dibattito giurisprudenziale e dottrinale all’epoca e che successivamente si sono chiarite (basti pensare alle plurime questioni inerenti il condono di cui alla L. n. 289 del 2002: Cass. civ. Sez. V, 30-11-2016, n. 24392; Cass. civ. Sez. V, 28-10-2016, n. 21872; Cass. civ. Sez. Unite, 16-01-2015, n. 643; Cass. civ. Sez. VI - 5 Ordinanza, 09-01-2014, n. 272; Corte di Cassazione sentenza 28 marzo 2006, n. 7111); contemporaneamente si pongono oggi ai giudici del merito questioni di diritto che, salvo rari casi, saranno scrutinate dalla Corte solo tra 6-8 anni.
Venendo al contenuto delle pronunce della Suprema Corte, e all’esito che le stesse producono sulle sentenze impugnate, si rileva poi da parte della Commissione come siano assai frequenti i casi in cui risultano cassate, quindi annullate, con o senza rinvio al giudice del merito, le decisioni delle commissioni tributarie regionali: “da vari anni essi sono stabilmente attestati attorno al 50 per cento, pur con oscillazioni (47 per cento nel 2020)”.
Ulteriore elemento, stavolta ordinamentale, che incrementa ancora l’incertezza, quale fattore endogeno, è poi il breve il tempo di permanenza dei magistrati all’interno della sezione tributaria istituita dalla Corte. Le ragioni sono qui numerose: la maggioranza (se non la quasi totalità) dei Consiglieri provengono da decenni di attività giudiziaria nella giurisdizione civile o penale, nelle sue anche lontane tra loro specializzazioni e non hanno in genere certo una particolare aspirazione ad occuparsi di una differente – e delicata, oltre che complessa – materia, a maggior ragione approssimandosi una età non più giovanile.
È allora evidente che solo all’interno d’una riforma strutturale si possono pienamente giustificare alcuni interventi legislativi volti a ridurre il contenzioso pendente presso la Corte di Cassazione.
2. La centralità attribuita al miglioramento dell’”offerta di giustizia” nel contesto della Corte Suprema
Va premesso che, con ottimo pragmatismo, la Commissione individua subito tra gli strumenti processuali degni di attenzione quello della “introduzione di meccanismi di definizione agevolata delle liti (discussa nel § 15)”, ma non limita a questo (sul quale risultato tornerò nel prosieguo dello scritto) il proprio sguardo, individuando sia proposte riguardanti il giudizio di legittimità sia proposte riguardanti gli aspetti dell’azione amministrativa su cui si può agire per diminuire il contenzioso, gli strumenti deflattivi e alcuni istituti processuali.
Considerate nel loro complesso, le iniziative che il Governo e il Parlamento possono adottare secondo il documento qui in nota attengono a ben sette linee direttrici individuate dal documento che si commenta.
Tra queste, per quanto interessa l’argomento di questo scritto, si individua immediatamente quella di “migliorare l’offerta di giustizia all’interno del giudizio di legittimità, relativamente alla Corte di Cassazione (§ 14)”.
Una prima considerazione personale può subito esprimersi: l’offerta di giustizia presuppone, per migliorare, un upgrade (vale a dire un miglioramento, come direbbero - e non sono citati a caso - gli informatici) in primo luogo nella disponibilità in capo alle persone e nell’uso da parte di queste delle moderne tecnologie.
È inconcepibile che il processo tributario, come quello civile, sia da tempo del tutto telematico nei gradi del merito, per poi tornare a svolgersi in forma cartacea solamente quando giunge di fronte alla Corte di Legittimità.
La recente introduzione del desk del Consigliere[3], sotto questo profilo, non sta trovando il successo sperato: il meccanismo di accesso alla consultazione dei fascicoli è lento (e lo stesso sistema wi-fi della Corte, così come le prestazioni del CED, nonostante un impegno fuori del comune delle persone che vi prestano servizio, sono del tutto inadeguate allo scopo), farraginoso (è ad ora impossibile “caricare” files da proprio PC sulla macchina virtuale nella quale si opera, con ciò costringendo il singolo magistrato a lente operazioni di copia e incolla continue e macchinose), contorto (si possono, con tempi di svariati minuti, non di qualche secondo, visualizzare gli atti di parte, ma il loro salvataggio è operazione ben più lunga e mai sicura quanto all’esito).
Senza dubbio sono anche presenti – anche se in misura per lo più inconsapevole – alcune resistenze o rigidità, umanamente comprensibili, in capo a un numero invero assai contenuto di operatori ancora “sospettosi” o poco avvezzi a strumenti ormai consolidati nei processi di merito, quali le firme digitali o le PEC; sotto questo profilo l’attività di formazione ampiamente propugnata ed attuata dal Ministero della Giustizia potrà certamente essere risolutiva.
Essa però non può certo curare le difficoltà tecniche e il gap tecnologico abissale tuttora esistente tra le strutture della Corte di cassazione e il resto delle Amministrazioni, non solo di quelle della Giustizia: né risulta a chi scrive – allo stato – alcuna espressa e decisa iniziativa del CSM diretta, nel dialogo istituzionale con il Ministero della Giustizia, a sollecitare rapide decisioni nei confronti del fornitore del software dirette a ottenere la risoluzione di tali problemi, o in difetto l’azione giudiziaria e la sostituzione di tal soggetto con altro. Si tratta certamente di profili che, in quanto inerenti la amministrazione della Giustizia, possono e debbono vedere presente nella discussione l’organo di autogoverno della Magistratura con la sua autorevolezza e capacità propulsiva.
La stessa Relazione della Commissione Ministeriale ha ben presente la centralità che assume, nel contesto del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza[4]), l’esigenza insopprimibile di modernizzare l’attività giudiziaria, specie quella della Corte Suprema.
Il Consiglio europeo, nelle sue annuali Raccomandazioni ha costantemente e più volte sollecitato l'Italia a "ridurre la durata dei processi civili in tutti i gradi di giudizio", nonché ad "aumentare l'efficacia della prevenzione e repressione della corruzione riducendo la durata dei processi penali e attuando il nuovo quadro anticorruzione" (cfr. Raccomandazioni del 2017-2019).
La Commissione Europea, nella Relazione per Paese relativa all'Italia 2020 (cd. Country Report 2020) del 26 febbraio 2020, rileva come l'Italia abbia compiuto progressi solo limitati nel dare attuazione alle sopra citate Raccomandazioni.
Se la riforma della Giustizia costituisce, per l’Italia, come detto, un elemento ineludibile del PNRR, non stupisce che nel contesto del Piano, secondo le indiscrezioni giornalistiche alla Giustizia sia stato dato un posto assolutamente centrale di vera e propria “precondizione” per l’accesso dell’Italia ai fondi europei[5].
In questo contesto, è a mio avviso inspiegabile la mancata considerazione, nel dibattito, della possibilità per l’Amministrazione della Giustizia – proprio per adempiere all’onere appena citato - di “mutuare” (nelle forme tecniche che paiono pur possibili, ancorché non di immediata soluzione) la struttura del PTT (il processo tributario telematico) trasponendola o trapiantandola nel giudizio di Legittimità se del caso con le opportune modifiche sul piano tecnico, superando difficoltà di adattamento che per quanto presenti non sono certo insormontabili.
Ad ora non mi pare irrealizzabile la realizzazione di architetture informatiche in grado di render comunicanti tra di loro (si passi l’approssimazione) le singole CTR con la Corte Suprema, sul modello di quelle che da tempo ormai realizzano lo stesso risultato tra le singole CTP e la CTR loro giudice di appello.
Sotto questo profilo, forse, la Commissione avrebbe forse potuto sollecitare in modo più diretto i Ministeri (Giustizia ed Economia e Finanze) a prender in esame fattivamente tal possibilità, che non mi pare irrealizzabile anche se si rendessero necessarie, oltre le opportune innovazioni normative - siano esse legislative che regolamentari – ulteriori operazioni di coordinamento e concerto tra i Ministeri coinvolti.
Venendo ad altro, l’azione riformatrice secondo il documento in annotazione può utilmente concentrarsi su due punti, che ruotano attorno alla necessità di realizzare condizioni che permettano alla Corte di esercitare la funzione nomofilattica che l’ordinamento le assegna.
Si tratta della introduzione di due istituti processuali ad hoc: il rinvio pregiudiziale in cassazione e l’intervento del pubblico ministero nell’interesse della legge.
In entrambi i casi, le proposte elaborate dalla Commissione Luiso possono essere, secondo la Commissione Della Cananea riprese e applicate con successo alle controversie tributarie. Si tratta, inoltre, di proposte – fatte proprie dalla Commissione ridetta (ed inserite nell’allegato n. XX, p. 149) – di norme direttamente applicabili, senza alcun bisogno di ricorrere alla delegazione legislativa e quindi di spedita e diretta introduzione nell’ordinamento processuale tributario.
Va ancora ricordato, come si scrive nella Relazione, che non esiste, nell’Europa d’oggi né in precedenti periodi storici noti, alcuna corte di ultima istanza con un carico di lavoro paragonabile a quello della Corte di Cassazione italiana. Non esiste alcun altro giudice delle liti tributarie che abbia un arretrato anche solo lontanamente paragonabile ai più di 55.000 ricorsi pendenti. La circostanza che più di un decimo di quei ricorsi attenga a liti intraprese in primo grado da oltre un decennio può essere vista come un’eclatante rinuncia dell’ordinamento italiano a prevenire il diniego della giustizia, come un deficit di tipo sistemico, nel senso in cui l’espressione è impiegata dagli ordinamenti sovranazionali europei.
Sotto il profilo processuale, si ritiene allora opportuno fare tesoro dell’esperienza acquisita all’interno del processo amministrativo e di quello contabile circa l’utilizzo di strumenti (si tratterebbe di un terzo istituto, o di un terzo gruppo di istituti) che richiedono ai ricorrenti di ribadire entro un preciso termine la persistenza dell’interesse, pena la perenzione estintiva del giudizio. Sono certamente indispensabili alcuni adattamenti, dal momento che sia per la parte privata, sia per quella pubblica l’interesse può venir meno solo nel caso del sopravvenire di nuove disposizioni di legge o di nuove interpretazioni da parte della stessa Corte.
In tali casi, per vero, l’Amministrazione finanziaria già oggi, sia pur con i tempi che le sono propri, emana di frequente apposite direttive agli Uffici sottordinati volte all’abbandono della lite.
Tale orientamento va – secondo la Commissione – adeguatamente rafforzato e magari fatto oggetto di specifica normazione.
3. La possibile e proposta introduzione di forme di definizione agevolate delle liti di fronte alla Corte di cassazione
Anche sul piano macroeconomico, nel quale si colloca l’attribuzione delle risorse di cui al PNRR, vi è da chiedersi se le condizioni straordinarie in cui la giustizia tributaria versa richiedano un intervento legislativo straordinario, nella forma d’una definizione agevolata delle liti.
Un intervento di questo tipo sarebbe giustificato dall’interesse pubblico a una ordinata composizione delle controversie, non dall’interesse a fare cassa; esso avrebbe ad oggetto soltanto il contenzioso dinanzi alla Corte di Cassazione.
Non mancano precedenti, ai quali si può fare utilmente riferimento. Disposizioni recenti, correttamente, non hanno mai imposto soluzioni, offrendo una mera facoltà ai contribuenti.
Questo tipo di approccio può essere ripreso, secondo la Commissione, nel senso di consentire ai contribuenti di decidere – in connessione con lo strumento processuale cui è appena fatto riferimento – se intendano servirsene o meno. Possono prevedersi quindi forme d’incentivazione economica, maggiori nel caso in cui il contribuente abbia prevalso nel secondo grado di giudizio; che ci si debba chiedere se, a fronte di due sentenze sfavorevoli, la resistenza dell’amministrazione debba essere, assoggettata ad aggravamenti sul piano organizzativo o procedurale.
A tale riguardo occorre considerare che normalmente la misura del condono[6] (perché nella sostanza di una misura clemenziale si tratta, in verità) è accompagnata da una sospensione dei giudizi potenzialmente interessati; la fissazione di un limite di valore consentirebbe alla Corte di non vedere paralizzata o rallentata la sua attività (come è avvenuto in passate occasioni), potendo invece la stessa proseguire senza sospensione alcuna a vantaggio delle controversie di valore più elevato che peraltro verrebbero definite con tempi più celeri.
Ad esempio, secondo i dati disponibili alla Commissione, una definizione delle liti di valore fino ad € 100.000, interesserebbe circa il 63,89% del contenzioso pendente in Cassazione, per un totale di 33.337 controversie (probabilmente si tratta di un numero in concreto minore, dovendosi escludere le liti aventi per oggetto gli atti di mera riscossione quali ad esempio le cartelle di pagamento e le cause relative all’impugnazione dei dinieghi di rimborso).
Affinché la definizione possa avere un effetto deflattivo di rilievo, è opportuno però che – a differenza di tutti i precedenti condoni – il legislatore preveda non solo che dagli importi dovuti per condonare “si scomputano quelli già versati a qualsiasi titolo in pendenza di giudizio” (v. ad es. art. 6 comma 9 del d.L. 119/2018), ma anche che l’eventuale eccedenza debba essere restituita al contribuente (e non invece, sempre secondo l’art. 9 comma 6 citato, che “La definizione non dà comunque luogo alla restituzione delle somme già versate ancorché eccedenti rispetto a quanto dovuto per la definizione”.
Se infatti si riproponesse anche questa volta tale ultimo inciso, molti contribuenti non avrebbero alcun interesse ad aderire al condono, soprattutto quando (come avviene di norma), dopo la soccombenza in CTR sono stati tenuti a pagare l’intero importo indicato nell’atto impugnato, come previsto dall’art. 68 comma 1 lett. c) del d. Lgs. 546/1992. Tali somme infatti, anche se nettamente superiori a quelle necessarie per definire la vertenza, non verrebbero mai restituite con conseguente importante incentivo per il debitore dei tributi a proseguire la causa.
A tale riguardo la Corte di Cassazione ha affermato che “la norma in esame ha natura di disposizione eccezionale e derogatoria della previsione generale in forza della quale il condono, in quanto incide in via definitiva sui debiti tributari dei contribuenti, che vengono ad essere definiti transattivamente con il versamento delle somme a tal fine dovute, non può dare luogo a restituzione alcuna degli importi in precedenza corrisposti (cfr. Cass. S.U. 14828/08), sebbene eccedenti rispetto a quanto dovuto per il perfezionamento della definizione stessa” (Cass. 26776/2020).
Tuttavia l’applicazione di tale principio da un lato (come si è detto) fa sì che molti soggetti non siano interessati a definire la vertenza; dall’altro crea una disparità di trattamento in situazioni processuali identiche, a favore dei contribuenti che non hanno spontaneamente versato quanto dovuto in sede di riscossione graduale, rispetto a quelli che hanno tempestivamente provveduto al pagamento e che, proprio per tale motivo, si trovano a dover pagare somme maggiori per usufruire del condono rispetto ai primi (per effetto della mancata restituzione della differenza).
Qualora dunque – nell’ottica di ottenere una massima adesione alla definizione agevolata – la legge non prevedesse (per la prima volta) il citato divieto di restituzione della differenza tra le somme già versate e quelle necessarie per la definizione, si amplierebbe la platea dei soggetti interessati al condono e si potrebbero anche prevedere aliquote che garantiscano un gettito adeguato.
In particolare, si potrebbe prevedere – suggerisce ancora la Commissione - che le somme da versare per ottenere l’estinzione del giudizio per condono siano pari, in via esemplificativa al 30% del tributo (senza interessi e sanzioni), qualora il contribuente sia risultato vittorioso nel giudizio davanti alla C.T.R.; al 60% del tributo (senza interessi e sanzioni), qualora il contribuente sia risultato soccombente nel giudizio davanti alla CTR.
Trattasi di importi comunque senza dubbio convenienti per i contribuenti, tenuto conto della non debenza di interessi e sanzioni, che porta spesso ad un dimezzamento dell’aliquota reale, se rapportata all’intero credito (e pertanto, di fatto, rispettivamente al 15 e 30% del valore complessivo della causa).
Non appare opportuno, secondo la Commissione, introdurre altre aliquote per i casi di c.d. doppia conforme, (cioè di vittoria del contribuente sia in primo che in secondo grado), tenuto conto da un lato che la situazione processuale è identica a quella di chi è stato vittorioso solo in CTR, e dall’altro che statisticamente non sembra vi siano evidenze secondo cui nei casi di doppia conforme gli annullamenti da parte della Suprema Corte siano in misura inferiore.
È inoltre opportuno che le aliquote per la definizione agevolata non siano troppo basse, onde evitare
rilievi sotto il profilo comunitario[7], soprattutto in materia di IVA (imposta armonizzata). Né è altrimenti pensabile escludere tale imposta dalla definizione, in quanto ciò ridurrebbe in maniera rilevante l’effetto deflattivo, tenuto conto che spesso l’IVA viene richiesta con un unico avviso di accertamento insieme alle imposte dirette. Prevedendo un condono solo per queste ultime, la causa dovrebbe comunque proseguire per l’IVA e tal circostanza costituirebbe evidente disincentivo in capo al contribuente a definirla.
Un condono strutturato come sopra, potrebbe potenzialmente comportare un abbattimento del contenzioso pregresso tra le 15.000 e 20.000 cause (riducendo l’arretrato della Corte, sotto il profilo temporale, di 1,5/2 anni).
Il complesso delle misure proposte mira dunque a restituire alla Corte di Cassazione la funzione ordinamentale centrale che le spetta ex artt. 111 Cost e 65 ord. Giud. anche quale organo di vertice delle impugnazioni nei giudizi tributari.
La Commissione sottolinea poi l’intento di tener conto delle proposte di modifica che parallelamente stava formulando la “Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti alternativi” presieduta dal Prof. Francesco Paolo Luiso, che ritiene ampiamente condivisibili: in particolare viene richiamata l’opportunità condivisa di unificare i riti camerali, attualmente disciplinati dall’art. 380-bis c.p.c. (procedimento per la decisione in camera di consiglio sull’inammissibilità o sulla manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso) e dall’art. 380-bis.1 (Procedimento per la decisione in camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice). A ciò si aggiunge la suggerita abolizione della "apposita sezione" (tabellarmente definita quale Sesta Sezione civile) di cui all’art. 376 c.p.c.
4. Le vere innovazioni processuali suggerite: il rinvio pregiudiziale e il ricorso nell’interesse della legge in materia tributaria
Si è detto come l’interpretazione autorevole quanto all’origine, sistematica nella collocazione a livello dei principi, convincente quanto ad argomenti, resa della Corte con tempestività, in poco tempo ed in concomitanza alle prime pronunzie della giurisprudenza di merito, possa svolgere un ruolo deflattivo significativo, prevenendo la moltiplicazione dei conflitti e con essa la formazione di contrastanti orientamenti nei gradi precedenti di giudizio.
Nella materia del diritto tributario, peraltro, l’esigenza appena descritta è avvertita con particolare importanza e urgenza per due ordini di ragioni: il continuo succedersi di norme di nuova introduzione, rispetto alle quali il giudice del merito non dispone all’atto della propria decisione di un indirizzo interpretativo di legittimità cui fare riferimento e la serialità dell’applicazione delle norme che si riflette sulla serialità del contenzioso: basti pensare alle frequenti controversie relative all’impugnazione di più avvisi di accertamento recanti i medesimi rilievi replicati per più periodi d’imposta.
La Commissione quindi propone pertanto due novità di tipo processuale tendenti a rendere più tempestivo l’intervento nomofilattico, con auspicabili benefici in termini di uniforme interpretazione della legge: ciò in diretta attuazione dell’art. 3 Cost. corollario è la prevedibilità delle decisioni e conseguenza del quale è la riduzione del contenzioso.
Il primo istituto, sulla scorta, peraltro, di esperienze straniere (e segnatamente dell’ordinamento francese che conosce la saisine pour avis al quale si fa espresso richiamo, sia pur con tutte le incognite in ordine al legal transplant di un istituto – specie processuale – da un sistema a un altro[8]), è denominato “rinvio pregiudiziale in cassazione”: si tratta di consentire al giudice tributario, in presenza di una questione di diritto nuova, che evidenzi una seria difficoltà interpretativa e che appaia probabile che si verrà a porre in numerose controversie, di chiedere alla Corte di legittimità l’enunciazione di un principio di diritto.
Il secondo istituto che può essere aggiuntivo o sostitutivo rispetto al primo è quello denominato “ricorso nell’interesse della legge in materia tributaria”. Tale strumento consente al Procuratore Generale presso la suprema Corte di formulare una richiesta al Primo Presidente della Corte stessa di rimettere una questione di diritto di particolare importanza che rivesta il carattere della novità o della serialità o che ha generato un contrasto nella giurisprudenza di merito in modo che venga enunciato un principio di diritto nell’interesse della legge, cui il Giudice del merito tendenzialmente deve uniformarsi, salva la possibilità di discostarsene con assunzione di responsabilità e con onere di adeguata motivazione.
I due istituti si fondano, a ben vedere, sui medesimi presupposti da intendersi alternativi tra loro.
La “novità” della questione da intendersi non solo come novità della norma che deve essere oggetto di interpretazione ma anche come assenza di precedenti espressi in termini dalla giurisprudenza di legittimità. Gli strumenti in esame potranno essere quindi utilizzati anche con riferimento a normative meno recenti o risalenti che, tuttavia, non siano state esaminate dal giudice della nomofilachia sotto lo specifico profilo oggetto di dubbio interpretativo.
Deve sussistere poi la particolare importanza della questione e la oggettiva difficoltà di interpretazione della norma, manifestate e conclamate nel formarsi di orientamenti contrastanti nella giurisprudenza di merito. Tali circostanze possono dipendere dalla oscura formulazione del testo di legge ovvero alla esistenza di disposizioni contrastanti che regolano la medesima materia, ovvero ancora alle difficoltà di coordinamento della legge nazionale con disposizioni di fonte comunitaria o internazionale.
In ultimo, deve prospettarsi quantomeno ex ante al giudice di merito remittente, la serialità della questione. Quando una determinata norma abbia generato un rilevante contenzioso o sia astrattamente idonea ad essere applicata in un numero indeterminato di controversie, in modo tale da definire in modo rapido e per quanto possibile uniforme le stesse.
Tali strumenti processuali, sin qui concordi, divergono nella concreta modalità di applicazione da parte degli operatori chiamati a darvi attuazione.
Il rinvio pregiudiziale, infatti, è rimesso al prudente apprezzamento del giudice tributario del merito e necessita quindi di un filtro particolarmente rafforzato, per evitare il rischio di un eccesso di ordinanze di rinvio che sortirebbe l’effetto opposto rispetto a quello sperato, gravando la Corte di un numero inaccettabile e inutile di ordinanze di rinvio.
Si prevede pertanto un vero e proprio filtro di ammissibilità affidato al Primo Presidente, che potrà avvalersi anche dell’Ufficio del Massimario, per una valutazione preliminare di ammissibilità che non preveda oneri motivazionali in caso di restituzione al Giudice per mancanza dei presupposti legittimanti il rinvio. Potrebbe qui risultare sufficiente, per negare l’accesso al procedimento incidentale di fronte alla Corte, il rilievo del difetto delle condizioni previste per l’instaurazione, o il mero rimando ad una pronuncia della Corte stessa che abbia medio tempore risolto la questione proposta, o ancora l’indicazione dello ius superveniens che risulti anch’esso risolutivo.
Il rischio di abuso dell’istituto qui paventato non sussiste con riferimento al secondo istituto proposto: l’affidamento dell’iniziativa alla Procura Generale della Corte di Cassazione, alla quale ben potrebbero comunque rivolgersi con apposite istanze sia il contribuente sia l’Amministrazione Finanziaria, segnalando l’opportunità di intervenire, è cautela idonea. La garanzia di equilibrio dell’Ufficio, peraltro, avrebbe potuto condurre la Commissione a prevedere la obbligatoria partecipazione, con onere di dare proprio parere, in sede di valutazione da parte del Primo Presidente in ordine all’ammissibilità del rinvio alla Suprema Corte onde consentire al decidente – nell’esercizio di una funzione del tutto monocratica – di fruire di un importante contributo dell’amicus curiae.
Altra differenza tra gli istituti dovrebbe risiedere nella diversa natura e forze del principio di diritto enunciato: ove la Corte esprima il principio di diritto richiestole, andrebbe prevista la sua natura vincolante solo nel caso del rinvio pregiudiziale e solo per il giudice che ha sollevato la questione in quei termini trattati e risolti dal Giudice della Legittimità, non diversamente da quanto accade in sede di giudizio di rinvio nel sistema ora vigente.
Nell’altro caso, resta fermo che l’interpretazione della Corte di Cassazione costituirà un autorevole precedente, al quale il giudice del merito potrà fare riferimento e dal quale difficilmente potrà discostarsi, sicuramente previo adempimento ad un onere motivazionale supplementare.
Infatti, una decisione del giudice di merito “difforme” dai precedenti della Cassazione, soprattutto se pronunciati dalle Sezioni Unite, “immotivata”, o “gratuita” o “immediata” può avere conseguenze anche in termini di responsabilità disciplinare a carico del giudice di merito stesso.
5. Le proposte modifiche ordinamentali e organizzative: la copertura dei posti di organico in Cassazione
La relazione della Commissione “Della Cananea” si sofferma anche sull’esigenza di coprire urgentemente i vuoti nell’organico della Corte Suprema di Cassazione, onde definire il gravoso arretrato, proprio nella Sezione Tributaria, ulteriormente incrementato dalla temporanea sospensione delle attività giudiziali durante l’emergenza sanitaria da Covid-19.
Si ritiene nel documento che tale esigenza, come si legge nella relazione illustrativa della parte a ciò dedicata, possa essere soddisfatta dall’adozione di una norma che impieghi presso la Corte di Cassazione i magistrati del Massimario che, oltre ad aver maturato un quadriennio di servizio presso
l’Ufficio (e, cioè, il minimo previsto per il tramutamento ex art. 194 ord. Giud.), abbiano già svolto le funzioni di legittimità presso la sezione tributaria per un biennio o che siano prossimi alla maturazione di tale significativa e formativa esperienza.
L’Ufficio del Massimario e del Ruolo era composto – prima della modifica apportata dall’art. 74, comma 1, lett. a), d.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla Legge 9 agosto 2013, n. 98 – da 37 magistrati, la cui attività era rivolta a supporto dell’esercizio delle funzioni di legittimità attraverso a) l’ordinata catalogazione dei precedenti della Corte Suprema (analisi dei provvedimenti e stesura delle massime), b) l’individuazione e la segnalazione di contrasti, problematiche meritevoli di attenzione, novità normative o giurisprudenziali, c) la predisposizione di relazioni e approfondimenti rivolti alle Sezioni Unite e alle Sezioni Semplici per la risoluzione delle controversie, d) l’elaborazione di rassegne periodiche tese a ricostruire l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità.
La predetta norma – aggiungendo un comma all’art. 115 Ord. Giud. – ha elevato il numero dei componenti dell’Ufficio a 67 magistrati e – fermo il principio secondo cui «Le attribuzioni dell’ufficio del massimario e del ruolo sono stabilite dal primo presidente della corte suprema di cassazione, sentito il procuratore generale della Repubblica» (art. 68, comma 3, Ord. Giud.) – ha istituito il compito di «assistente di studio», magistrato dell’Ufficio destinato alle Sezioni della Corte con compiti nuovi e con specifica facoltà di assistere alle camere di consiglio, pur senza possibilità di prendere parte alla deliberazione o di esprimere il voto sulla decisione (art. 74, comma 1, lett. b), d.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla Legge 9 agosto 2013, n. 98).
Successivamente, l’art. 1, comma 1, D.L. 31 agosto 2016, n. 168, convertito con modificazioni dalla Legge 25 ottobre 2016, n. 197, ha inciso sul già menzionato art. 115 Ord. Giud., aggiungendo ulteriori due commi e ha previsto la possibilità, per il Primo Presidente, di disporre l’applicazione dei magistrati addetti all’ufficio del massimario e del ruolo con anzianità di servizio nel predetto ufficio non inferiore a due anni, che abbiano conseguito almeno la terza valutazione di professionalità, alle sezioni della Corte per lo svolgimento vero e proprio delle funzioni giurisdizionali di legittimità.
In seguito, l’art. 1, comma 980, Legge 27 dicembre 2017, n. 205, con disposizione temporanea la cui efficacia è cessata il 31 dicembre 2020, ha stabilito che i magistrati dell’Ufficio possano essere applicati esclusivamente alla sezione tributaria (sezione quinta civile della Corte). Dal 2021, i magistrati del Massimario sono tornati a potere essere applicati anche alle altre Sezioni civili e alle Sezioni penali per lo svolgimento delle funzioni di legittimità.
L’art. 1, comma 379, della Legge 30 dicembre 2018, n. 145 ha previsto poi un aumento del ruolo organico del personale della magistratura ordinaria e aumentato il numero dei posti nella Corte di Cassazione.
La proposta normativa, analogamente a quanto operato in passato (art. 5 d. Lgs. 23 gennaio 2006, n. 24), prevede la destinazione (su domanda) dei magistrati del Massimario alla copertura delle vacanze della Corte di cassazione, la cui pianta organica è stata recentemente aumentata; costituiscono requisiti per tale destinazione 1) il possesso di una effettiva anzianità di servizio presso l'Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione di almeno 4 anni (ex art. 194 ord. Giud.), anche maturata entro un anno dall'entrata in vigore della norma; 2) lo svolgimento delle funzioni di legittimità in applicazione alla sezione tributaria per almeno due anni (requisito che identifica, tra i vari magistrati, coloro che già abbiano acquisito o che, stanti le perduranti applicazioni, acquisiscano, nell’anno successivo all’entrata in vigore della norma, la peculiare attitudine all’esercizio delle predette funzioni).
Proprio per far fronte al gravoso carico incombente sulla Sezione Tributaria si prevede che i magistrati del Massimario destinati alla copertura dei posti vacanti di consigliere della Corte di cassazione siano assegnati alla Sezione tributaria per un periodo non inferiore a quattro anni.
Ritengo sul punto che la soluzione di ricorrere ai magistrati del Massimario sia non solo coerente con la funzione di centro culturale della Corte che l’ordinamento assegna a quell’Ufficio, ma risulti anche adeguata sul piano funzionale e organizzativo.
L’Ufficio del Massimario costituisce infatti un’importante struttura ausiliaria della Corte, il cui compito tradizionale consiste nell’analisi sistematica della giurisprudenza di legittimità, poi trasfusa in una capillare attività di massimazione dei provvedimenti, nella redazione a supporto dell’attività delle Sezioni unite e delle Sezioni ordinarie di relazioni periodiche e nella effettuazione di ricerche di legislazione, dottrina e giurisprudenza.
Se quindi, come scrive autorevole dottrina la cui affermazione pienamente condivido “specializzazione e circolazione, dei saperi e delle esperienze, sono, infatti, valori e indirizzi equiordinati, da preservare religiosamente”[9], è evidente che l’ingresso nella sezione tributaria e il ritorno al Massimario garantisce proprio tali effetti sia per i magistrati del massimario che veicolano quanto è oggetto della circolazione, sia per i magistrati della sezione tributaria, che arricchiscono quanto è oggetto della propria specializzazione nel confronto con i primi.
È quindi da auspicare convintamente che la riforma, sotto questo profilo, mantenga ferma l’integrazione in parola e anzi ne valorizzi e renda sistematica l’occorrenza accogliendo con decisione la sollecitazione proposta dalla Commissione nel contributo in commento.
[1] Ampio lo spazio che dedica questa Rivista; si vedano gli articoli che precedono questo contributo a firma di Alberto Marcheselli e Luigi Salvato. Si registrano invece commenti alle più sintetiche e meno specifiche, come è naturale, “Linee programmatiche sulla giustizia” tracciate dal nuovo Ministro Guardasigilli Marta Cartabia, emerito presidente della Corte costituzionale, in data 14 marzo 2021: si veda (con il consueto tono salace) Glendi Cesare, Riforma della giustizia tributaria: (finalmente) verso un conclusivo approdo, in Diritto e pratica tributaria, n. 3 del 2021, pag. 1278 e seguenti.
[2] Chi scrive ha preso parte, nel contesto delle attività della EJTN (European Judicial Training Network, la piattaforma comunitaria che promuove la formazione e lo scambio di conoscenze tra giudici dell’Unione), a un periodo di formazione presso la UK Supreme Court, vertice delle giurisdizioni (inclusa quella Costituzionale) del Regno Unito. Quella Corte, che svolge nell’ordinamento britannico per l’appunto la funzione di Corte di cassazione, di Consiglio di Stato e di Corte Costituzionale negli ordinamenti di civil law, ha esaminato nel 2019 unicamente 83 (proprio ottantatré!) casi. In quell’ordinamento, però, tale Corte “hears appeals on arguable points of law of general public importance; concentrates on cases of the greatest public and constitutional importance maintains and develops the role of the highest court in the United Kingdom as a leader in the common law world” (sottolineatura aggiunta - https://www.supremecourt.uk/about/role-of-the-supreme-court.html).
[3] https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/875-verso-il-processo-telematico-in-cassazione
[4] https://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg18/file/Finale_PNRR.pdf
[5] https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/recovery-plan-priorita-riforma-riti-tagliare-durata-processi-ADDJbu6
[6] La Corte costituzionale in numerose occasioni si è pronunciata a favore della legittimità dei condoni fiscali (per tutte C. cost., 23.7.1980, n. 119; C. cost., 26.2.1981, n. 33; C. cost., 7.7.1986, n. 172; C. cost., 23.7.1992, n. 361; C. cost., 13.7.1995, n. 321; C. cost., 16.12.2004, n. 433; C. cost., 7.7.2005, n. 305; C. cost., 13.7.2007, n. 270), in quanto “l’istituto del condono costituisce una forma tipica di definizione del rapporto tributario, che prescinde da un’analisi delle varie componenti dei redditi ed esaurisce il rapporto stesso mediante definizione forfettaria ed immediata, nella prospettiva di recuperare risorse finanziarie e ridurre il contenzioso e non in quella dell’accertamento dell’imponibile”.
[7] https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/CJE_08_55
Sarà perdonato il rimando, sul tema, al mio Succio R., Comparazione delle procedure di soluzione dei conflitti in materia tributaria nei sistemi italiano e statunitense, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza della Università del Piemonte Orientale, Giuffrè, 2012.
[9] https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-tributario/1852-aspettando-godot-note-minime-e-minoritarie-a-margine-della-proposta-di-riforma-della-giustizia-tributaria-di-alberto-marcheselli
La Riforma della filiazione e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità (nota alla sentenza della Corte costituzionale n. 133 del 25.6.2021)
di Riccardo Rosetti
Sommario: 1. La sentenza della Corte costituzionale - 2. La disciplina del Codice civile e l’elaborazione giurisprudenziale successiva - 3. La Riforma della filiazione e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità - 4. Significato e limiti dell’intervento della Corte costituzionale.
1. La sentenza della Corte costituzionale.
Con la sentenza n. 133 del 25 giugno 2021 la Corte costituzionale si è pronunciata sulla disciplina dettata dalla Riforma della filiazione per l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità e ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 263, terzo comma, codice civile, come modificato dall’art. 28, comma 1, del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), nella parte in cui non prevede che, per l’autore del riconoscimento, il termine annuale per proporre l’azione di impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della non paternità. Con la stessa pronuncia la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263, terzo comma, cod. civ., come modificato dall’art. 28, comma 1, del d.lgs. n. 154 del 2013, nella parte in cui prevede che «l’azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni dall’annotazione del riconoscimento» sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della CEDU.
Si tratta di un intervento che assume rilievo nella delicata materia delle azioni di stato. Per comprendere rettamente i limiti e le conseguenze della pronuncia occorre sinteticamente ricostruire il sistema dalla disciplina originaria del codice, ai successivi sviluppi nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità, fino alle innovazioni introdotte dalla riforma della filiazione recata dal decreto legislativo n. 154 del 2013.
2. La disciplina del Codice civile e l’elaborazione giurisprudenziale successiva.
Nel sistema del Codice civile del 1942, l’articolo 263 c.c. regolava l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità e assolveva alla tradizionale finalità di rimuovere il valore accertativo dello stato di filiazione naturale recato da un falso atto di riconoscimento. La disciplina ed era caratterizzata dal riconoscimento a qualsiasi interessato della legittimazione attiva e dalla imprescrittibilità. La regolamentazione dell’azione dipendeva in larga misura dal carattere indisponibile del diritto dedotto e dall’interesse pubblico a porre un obiettivo rimedio alla antigiuridicità della mancata corrispondenza tra l’accertamento dello stato di filiazione recato dal riconoscimento e la verità biologica del rapporto di filiazione. L’azione era, per questa ragione, concessa all’autore del riconoscimento a prescindere dal suo stato soggettivo, di buona o di mala fede, e senza limiti di tempo. L’interesse dell’ordinamento a rimuovere detta antigiuridicità accertando la verità biologica del rapporto era considerato prevalente rispetto al contrapposto interesse del soggetto riconosciuto alla stabilità dello stato di filiazione.
Ben diversa era la disciplina dell’azione diretta a rimuovere lo stato di filiazione legittima, con i rigidi limiti che caratterizzavano, quanto ai presupposti e ai termini di proponibilità, l’azione di disconoscimento della paternità.
La dottrina e la giurisprudenza non mancarono di rilevare la differenza tra la stabilità dello stato di figlio legittimo e la precarietà dello stato di figlio naturale e la discriminazione che ne conseguiva.
La Corte costituzionale, più volte interpellata sul punto, aveva sempre confermato la legittimità costituzionale della disciplina nella parte in cui la stessa esponeva il figlio naturale alla rimozione del suo stato di filiazione senza limiti di tempo e per iniziativa di qualsiasi terzo, a fronte della garanzia di stabilità riconosciuta allo stato di filiazione legittima. La Corte affermava che, anche diversamente opinando, solo il legislatore avrebbe potuto stabilire la durata del termine da sostituire all'imprescrittibilità disposta dall'art. 263 (Corte cost. n. 134 del 1985). Secondo la Corte la legittimazione attiva dell’autore del riconoscimento era da considerarsi come un progresso nell’evoluzione legislativa essendosi adottato il principio di ordine superiore secondo cui ogni falsa apparenza di stato doveva cadere (Corte cost. n. 158 del 1991). La Corte escludeva ancora che potessero utilmente invocarsi, in senso contrario, il principio di solidarietà familiare discendente dall’art. 2 Cost., trattandosi di legame familiare fondato su una falsa apparenza di status, ovvero il principio della parità di trattamento con il figlio legittimo, fondandosi l’accertamento della paternità nel matrimonio sulla presunzione di cui all’art. 231 c.c. e sul favor legitimitatis. Ancora nel 2012 la Corte costituzionale rimetteva al legislatore ordinario la possibilità di effettuare una diversa scelta circa i termini di esperimento dell’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità onde garantire maggiore solidità dello status di figlio naturale (Carte cost. ord. n . 7 del 2012).
Nonostante i pronunciamenti della Corte costituzionale, la giurisprudenza e la dottrina posero, negli anni, in discussione la prevalenza dell’interesse pubblico alla verità biologica del rapporto rispetto alla tutela dell’interesse del minore alla stabilità dello stato di filiazione.
Si negava, in particolare, che la valenza costituzionale del principio del favor veritatis fosse incontrastata, rilevandosi come l’art. 30, comma quarto, della Costituzione avesse rimesso alla legge il compito di definire i limiti della ricerca della paternità, così autorizzando l’idea che l’accertamento del fondamento biologico della filiazione potesse incontrare i limiti derivanti dalla necessità di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente garantiti (Cass. 23 ottobre 2008, n. 25623; Cass. 17 marzo 2007, n. 6302; Cass. 19 settembre 2006, n. 20254).
Si poneva, altresì, in rilievo come il principio del favor veritatis non fosse prevalente sull’interesse del minore nemmeno nell’ambito dell’azione di disconoscimento di paternità: in tale prospettiva si è sottolineava come la giurisprudenza di legittimità avesse, in quel contesto, considerato prevalente l’interesse alla stabilità dei rapporti familiari negando la proponibilità dell’azione di disconoscimento di paternità al padre che avesse dato il proprio consenso alla fecondazione eterologa della moglie (Cass. 16 marzo 1999, n. 2315). Analoghi principi di valenza generale hanno trovato, poi, riconoscimento nel diritto positivo con l’entrata in vigore dell’articolo 9 della legge n. 40 del 19 febbraio 2004 recante "Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”.
La stessa Corte costituzionale giustificava i limiti alla ricerca della verità biologica della filiazione naturale sottolineando, per i figli minori infrasedicenni, come la valutazione fosse rimessa al giudice, ai sensi dell’art. 273 c.c., ogni volta che fosse emerso un interesse del minore contrario alla privazione dello stato di figlio legittimo ovvero all'assunzione dello stato di figlio naturale e comunque ogni volta che il mutamento dello status familiare avesse potuto pregiudicare l'educazione del minore (Corte cost. n. 429 del 1991 e n. 341 del 1990). La Corte costituzionale, anche nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 274 c.c. e del procedimento volto a valutare l’ammissibilità della dichiarazione giudiziale di paternità, chiariva come l’interesse del minore dovesse essere, in ogni caso, verificato nel giudizio di merito così ribadendo la centralità dell’interesse del minore nelle azioni di stato (Corte cost. n. 50 del 2006).
La Corte costituzionale ha, di seguito, dichiarato la parziale incostituzionalità della fattispecie incriminatrice di alterazione di stato prevista dall’art. 567 c.p., nella parte in cui prevedeva la automatica decadenza della potestà genitoriale per il genitore condannato, ad esempio, per la falsità del riconoscimento. La Corte affermava la necessità di una valutazione caso per caso, fondata sull’accertamento della concreta corrispondenza della sanzione agli interessi del minore, ammettendo il venir meno della pretesa punitiva pubblicistica con rinuncia all’applicazione della sanzione della decadenza dalla potestà genitoriale ogni volta che fosse verificato l’interesse al mantenimento dello stato di filiazione e di un equilibrato ambiente familiare (Corte cost. n. 31 del 2012).
Sulla scorte degli stessi principi, la giurisprudenza di merito (in tal senso Trib. Roma, 17 ottobre 2012, n. 19563, in Giur. mer., 2013, 1282; Trib. Civitavecchia, 19 dicembre 2008, in Giur. mer. 2010, 1250; Trib. Napoli, 28 aprile 2000, in Giur. Napoletana, 2000, 1277) valorizzando la norma che sancisce l’irretrattabilità del riconoscimento, giungeva ad escludere la legittimazione all’impugnazione dell’autore del riconoscimento effettuato in mala fede, con ciò ponendosi in consapevole contrasto con il contrario, risalente, orientamento della Corte di cassazione (Cass. 24 maggio 1991, n. 5886).
Alla luce di questi elementi, lo sviluppo del diritto vivente autorizzava l’idea che lo status familiare fosse sempre meno legato al vincolo meramente biologico, quanto piuttosto alla volontaria assunzione di responsabilità quale primigenia fonte della comunità familiare della quale garantire la stabilità.
3. La Riforma della filiazione e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità.
In questo contesto interveniva la Riforma della filiazione recata dalla legge 219 del 2012 che, con l’art. 2, co. 1, lettera g), affidava al legislatore delegato il compito di provvedere alla “modificazione della disciplina dell'impugnazione del riconoscimento con la limitazione dell'imprescrittibilità dell'azione solo per il figlio e con l'introduzione di un termine di decadenza per l'esercizio dell'azione da parte degli altri legittimati”.
Il criterio di delega tendeva, allora, a porre un limite alla precarietà dello stato di figlio nato fuori del matrimonio e a creare una tendenziale equiparazione tra figli nati nel matrimonio e figli nati fuori del fuori del matrimonio anche con riguardo alle azioni a rimuovere lo stato di filiazione.
La novella, in questa prospettiva, riformulava innanzi tutto i termini per l’esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità: salva l’imprescrittibilità per il figlio, che rimaneva titolare del diritto di disporre in ogni tempo del suo status, il decreto legislativo confermava i consueti brevi termini di decadenza degli altri legittimati, con le differenti regole circa la decorrenza, ma introduceva un termine quinquennale di proponibilità dell’azione a tutela dell’interesse del figlio alla stabilità del rapporto di filiazione ormai consolidatosi.
Sulla base di queste stesse premesse l’art. 263 c.c. era riformulato dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 nei termini seguenti.
Il primo comma riproduceva il testo della norma previgente senza alcuna modifica: la legittimazione attiva era riconosciuta al figlio, all’autore del riconoscimento e, in ogni caso, a chiunque vi abbia interesse. Si confermava, sotto questo profilo, una differenza con la disciplina che l’azione di disconoscimento della paternità riserva al figlio nato nel matrimonio, per il quale la legittimazione è limitata ai genitori e al figlio stesso. La delega della legge 219 del 2012, tuttavia, non autorizzava modifiche in materia e la differenza, nella prospettiva del legislatore, non determinava una disparità tra figli nati nel matrimonio e figli nati fuori del matrimonio ma si giustificava piuttosto in ragione della differente tutela riservata alla famiglia fondata sul matrimonio. La pubblicità del vincolo, l’obbligo di fedeltà tra i coniugi, l’operatività della presunzione di paternità consigliavano di riservare ai membri della famiglia la legittimazione attiva all’azione di rimozione dello stato di figlio nato nel matrimonio.
Tali elementi non si riscontrano nella filiazione fuori del matrimonio laddove non si tratta di verificare la paternità del figlio generato da una donna coniugata ma di verificare se il riconoscimento è conforme alla realtà biologica del rapporto di filiazione.
In attuazione del criterio di delega già citato, il nuovo secondo comma dell’art. 263 limita al figlio l’imprescrittibilità dell’azione, unico legittimato attivo abilitato a disporre senza limiti dello stato di filiazione.
Con riguardo al padre e alla madre, autori del riconoscimento, il terzo comma della disposizione prevedeva un termine di decadenza di un anno che decorre dal giorno dell’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. La norma – prima dell’intervento della Corte costituzionale in commento - prevedeva che il termine decorresse anche dal momento, eventualmente successivo, in cui il padre ovvero la madre avessero avuto conoscenza dell’impotenza paterna. Per il padre autore del riconoscimento non era prevista altra ragione di deroga alla decorrenza del termine dal giorno dell’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita.
Non era, in altre parole, riconosciuta la possibilità di proporre l’impugnazione nel termine di un anno dalla eventuale scoperta della circostanza che la madre avesse intrattenuto rapporti sessuali con altri uomini all’epoca del concepimento. Tale ipotesi di dilazione del termine era riservata dal legislatore alla sola azione di disconoscimento perché, essendo fondata sulla violazione del vincolo di fedeltà nascente dall’art. 143 c.c., non si giustificava, nella prospettiva del legislatore, al di fuori del matrimonio. Il padre del figlio nato fuori del matrimonio era considerato autore volontario dell’atto di riconoscimento e non mero destinatario degli effetti della presunzione di paternità tipica della filiazione nel matrimonio.
Il quarto comma dell’art. 263 dispone che “l’azione di impugnazione da parte degli altri legittimati deve essere proposta nel termine di cinque anni che decorrono dal giorno dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita”. Onde garantire la stabilità del rapporto di filiazione è stabilito un termine finale di proponibilità dell’azione per gli altri legittimati all’impugnazione diversi dal figlio: tale termine è fissato in cinque anni dalla annotazione del riconoscimento a margine dell’atto di matrimonio e ciò a prescindere dalla ragione dell’impugnazione e del ritardo. Si tratta di un termine non prorogabile, volto a presidiare l’interesse insopprimibile del minore alla stabilità del rapporto di filiazione che, costituito in ragione del riconoscimento dei genitori, deve trovare nel - più che congruo - periodo fissato dal legislatore una definitiva intangibilità. Per non determinare discriminazione con i figli nati nel matrimonio – come rilevato - il legislatore ha fissato analogo termine per il disconoscimento di paternità, sussistendo la medesima esigenza di definire una linea oltre la quale lo stato di filiazione diviene incontestabile e il contrapposto interesse, proprio dell’ordinamento e dei legittimati attivi, a verificare la corrispondenza con la verità biologica del rapporto viene a cadere.
Il termine quinquennale si applica solo per gli altri legittimati, mentre per entrambe le azioni la Riforma ha previsto l’imprescrittibilità con riguardo all’azione del figlio che mantiene per sempre la disponibilità del proprio stato di filiazione.
4. Significato e limiti dell’intervento della Corte costituzionale.
Con la pronuncia in commento la Corte ha, allora, innanzi tutto, affermato la legittimità del termine quinquennale di proponibilità delle azioni dirette alla rimozione dello stato di filiazione.
La Corte ha, così, riconosciuto alla norma la funzione di essenziale punto di equilibrio tra la ricerca della verità biologica della filiazione e l’interesse del figlio alla stabilità dello stato di filiazione. La Corte ha ritenuto che detto limite alla proponibilità dell’azione da parte degli altri legittimati, benché si affermino non consapevoli dei fatti che valgano ad escludere la paternità, debba andare esente da censure anche se valutato alla luce delle pronunce della CEDU intervenute in materia: “Un così lungo decorso del tempo (cinque anni dal riconoscimento) radica il legame familiare e sposta il peso assiologico, nel bilanciamento attuato dalla norma, sul consolidamento dello status filiationis, in una maniera tale da giustificare che la prevalenza di tale interesse sia risolta in via automatica dalla fattispecie normativa. Nessuna censura di non proporzionalità può, dunque, muoversi – anche nel coordinamento fra l’interpretazione dell’art. 8 CEDU, offerta dalla Corte EDU, e il quadro dei principi costituzionali – alla scelta operata dal legislatore che, nella sua discrezionalità, ha ritenuto di sacrificare l’interesse dell’autore del riconoscimento, a far valere in via giudiziale l’identità biologica, a beneficio dell’interesse allo status filiationis consolidatosi dopo cinque anni dal suo sorgere. Da ultimo, deve, peraltro, rilevarsi che l’interesse a far valere la verità biologica non risulta in assoluto estromesso dal giudizio, in quanto esso può essere fatto valere dallo stesso figlio, per il quale l’azione di impugnazione del riconoscimento risulta imprescrittibile”.
La Corte ha, invece, dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 263 c.c. nella parte in cui non prevede che, per l’autore del riconoscimento, il termine annuale per proporre l’azione di impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della non paternità. Secondo la Corte “la norma censurata comporta una irragionevole disparità di trattamento anche nel confronto tra le regole dettate per il padre che intenda far valere la verità biologica, impugnando il riconoscimento, e quelle previste per il padre che agisca per il disconoscimento di paternità. Il padre non coniugato può dimostrare solo l’impotenza, onde far decorrere il termine annuale di decadenza da un dies a quo diverso rispetto all’annotazione del riconoscimento; il padre coniugato può, invece, avvalersi anche di altre prove, tra cui quella dell’adulterio, onde sottrarsi al dies a quo che altrimenti decorre dalla nascita. Anche a fronte di tale diversità di trattamento, che finisce per rendere più stabile lo status filiationis sorto al di fuori del matrimonio rispetto a quello del figlio concepito o nato durante il matrimonio, deve, dunque, ritenersi fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263, terzo comma, cod. civ. (..)”.
In questa prospettiva la Corte ha ammesso la proponibilità dell’impugnazione del riconoscimento entro un anno dalla conoscenza di qualsiasi fatto idoneo ad escludere la paternità, ritenendo irragionevole la distinzione che il legislatore aveva introdotto rispetto ai termini di decorrenza per la proposizione dell’azione di disconoscimento di paternità.
Per giungere a tale conclusione la Corte ricostruisce la genesi del testo dell’art. 263 c.c. come introdotto dalla Riforma della filiazione e la definisce come una “trasposizione meramente parziale delle regole dettate dal legislatore per il disconoscimento di paternità del figlio nato nel matrimonio” cioè come una riproduzione solo parziale dell’art. 235 c.c. come modificato, prima della Riforma, dalle pronunce di incostituzionalità additive. Tanto determina, secondo la Corte, una disparità di trattamento a danno dell’autore del riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio che non sia in condizione di impotenza a generare e che non possa essere ammesso a provare le circostanze, diverse, che escludano la sua paternità. Secondo la Corte, in definitiva, la prova deve essere sempre ammissibile se diretta a dimostrare la mancata paternità biologica (e non solo se diretta a dimostrare l’impotenza) e il termine deve decorrere dalla scoperta di ogni circostanza che valga ad escludere la paternità.
Il ragionamento della Corte offre, tuttavia, da una lettura parziale delle ragioni dell’intervento del legislatore della Riforma.
Secondo il legislatore della Riforma l’azione di disconoscimento della paternità e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità meritavano, sotto questo profilo, una disciplina differente in ragione delle differenti regole che presiedono, nei due casi, alla formazione dello stato di filiazione.
Nella filiazione nel matrimonio la paternità è attribuita con la formazione dell’atto di nascita che discende dalla applicazione in via automatica della presunzione di paternità. Il marito, che in via generale può confidare sull’obbligo di fedeltà della moglie quale obbligo nascente dal matrimonio e che si vede attribuita la paternità senza alcun contributo volontario, può esercitare l’azione di disconoscimento dal momento in cui abbia avuto conoscenza di tutti i fatti che valgano ad escludere la sua paternità come l’impotenza a generare e come anche l’adulterio della moglie. In ragione della operatività della presunzione di paternità e della tutela della famiglia fondata sul matrimonio, il legislatore ha limitato la legittimazione attiva all’azione di disconoscimento di paternità, che rimane riservata alla moglie, al marito, al figlio maggiorenne e, nei casi previsti dall’art. 244, ultimo comma, c.c. ad un curatore del figlio minore, con esclusione del presunto padre.
Nella filiazione fuori del matrimonio non opera alcuna presunzione di paternità, mancando il matrimonio e l’obbligo di fedeltà, e la paternità discende dall’atto volontario di chi si affermi padre e cioè dal riconoscimento. Il riconoscimento può essere impugnato da chiunque vi abbia interesse perché l’ordinamento preserva l’accertamento della verità biologica della filiazione a fronte di falsi riconoscimenti. La stabilità dello stato di filiazione è garantita essenzialmente dal termine quinquennale di proponibilità dell’azione che vale, come rilevato, per tutti i legittimati e con esclusione del solo figlio. Con riguardo all’autore del riconoscimento la Riforma poneva chiari limiti all’impugnazione, esercitabile solo entro un anno dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita ovvero solo entro un anno dalla scoperta dell’impotenza dell’autore. Per questa via il legislatore aveva ammetteva che l’autore del riconoscimento potesse far valere la propria impotenza perché si tratta di una circostanza comunque idonea ad escludere in radice la paternità e tale da poter essere anche incolpevolmente ignorata, mentre aveva escluso che l’autore del riconoscimento potesse far valere la sussistenza di rapporti sessuali della madre con altri uomini all’atto del concepimento e tanto perché in mancanza di un matrimonio e spesso anche di una relazione stabile, la circostanza contraria, e cioè l’insussistenza di rapporti tra la madre e altri uomini, non poteva ragionevolmente presumersi e non riposava su alcun obbligo giuridico legato ad una formalizzazione dell’unione. Secondo la prospettiva del legislatore della Riforma, la possibilità che la madre avesse intrattenuto rapporti con diversi uomini all’epoca del concepimento andava considerata prima del riconoscimento e doveva indurre ad un esercizio consapevole dell’atto di attribuzione della paternità che così profondamente vale a incide sulla dignità del figlio. Il legislatore ha, in tal senso, considerato come allo stato attuale delle conoscenze scientifiche la certezza sulla paternità biologica possa essere acquisita con estrema rapidità e con esami tutt’altro che invasivi, tanto da poter assicurare all’autore del riconoscimento la certezza circa il fondamento biologico della paternità prima del compimento dell’atto volontario idoneo a fondare lo stato di filiazione. La Riforma aveva, allora, inteso valorizzare l’assunzione di responsabilità dell’autore del riconoscimento e assicurare la stabilità dello stato di figlio anche a fronte di riconoscimenti compiuti in mala fede o in modo compiacente ovvero in modo superficiale.
La decisione della Corte ha inteso rideterminare l’equilibrio tra ricerca della verità biologica della filiazione e stabilità dello stato di filiazione, assicurando maggiore tutela all’autore del riconoscimento che dimostri di aver proceduto al riconoscimento in buona fede e senza conoscere della sussistenza di rapporti della madre con altri uomini al momento del riconoscimento: si tratta, tuttavia, di una prova che, per sua natura, si presta a strumentalizzazioni anche da parte di chi abbia effettuato un riconoscimento nella consapevolezza di non essere padre e, piuttosto, per affermare la stabilità del rapporto con la madre e che, di seguito, impugni il riconoscimento in ragione del mutare dei rapporti con la stessa madre, con sostanziale violazione del principio dell’irretrattabilità del riconoscimento dettato dall’art. 256 c.c..
La decisione della Corte va, ad ogni modo, valutata come un ulteriore capitolo nella ricerca di un difficile punto di equilibrio tra l’esigenza di tutela del principio di verità della filiazione e l’esigenza di tutela dell’interesse del figlio; in questo caso è riaffermata la prevalenza dell’interesse alla verità biologica della filiazione ma l’interesse del minore alla stabilità dello stato di figlio rimane tutelato dalla decorrenza del termine quinquennale di proponibilità dell’azione del quale la Corte ha confermato la legittimità costituzionale.
Si considerino, nella medesima prospettiva, i principi affermati dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 127 del 2020. Detta pronuncia ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riguardo all’art. 263 c.c. nella parte in cui non esclude la legittimazione ad impugnare il riconoscimento del figlio in capo a colui che abbia compiuto tale atto nella consapevolezza della sua non veridicità. In questa occasione la Corte ha confermato la legittimità della norma rimettendo, comunque, al Giudice la valutazione dell’interesse del minore ed escludendo che la disposizione valga ad ammettere comunque l’impugnazione da parte dell’autore del riconoscimento in mala fede e senza adeguata valutazione dell’interesse del minore.
La corte ha affermato che: “nel caso dell’impugnazione del riconoscimento consapevolmente falso da parte del suo autore, il bilanciamento tra il concreto interesse del soggetto riconosciuto e il favore per la verità del rapporto di filiazione non può costituire il risultato di una valutazione astratta e predeterminata e non può implicare ex se il sacrificio dell’uno in nome dell’altro. L’esigenza di operare una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti, impone al giudice di tenere conto di tutte le variabili del caso concreto, sotteso alla domanda di rimozione dello status di cui all’art. 263 cod. civ. È appena il caso di aggiungere che di tale apprezzamento giudiziale non può non far parte la stessa considerazione del diritto all’identità personale, correlato non soltanto alla verità biologica, ma anche ai legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno della famiglia. In conclusione, anche nell’impugnazione del riconoscimento proposta da chi lo abbia effettuato nella consapevolezza della sua falsità, «la regola di giudizio che il giudice è tenuto ad applicare in questi casi [deve] tenere conto di variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso. Tra queste variabili, rientra sia il legame del soggetto riconosciuto con l’altro genitore, sia la possibilità di instaurare tale legame con il genitore biologico, sia la durata del rapporto di filiazione e del consolidamento della condizione identitaria acquisita per effetto del falso riconoscimento, sia, infine, l’idoneità dell’autore del riconoscimento allo svolgimento del ruolo di genitore. Pertanto, nel caso dell’impugnazione del riconoscimento consapevolmente falso da parte del suo autore, il bilanciamento tra il concreto interesse del soggetto riconosciuto e il favore per la verità del rapporto di filiazione non può costituire il risultato di una valutazione astratta e predeterminata e non può implicare ex se il sacrificio dell’uno in nome dell’altro. L’esigenza di operare una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti, impone al giudice di tenere conto di tutte le variabili del caso concreto, sotteso alla domanda di rimozione dello status di cui all’art. 263 cod. civ. È appena il caso di aggiungere che di tale apprezzamento giudiziale non può non far parte la stessa considerazione del diritto all’identità personale, correlato non soltanto alla verità biologica, ma anche ai legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno della famiglia”.
Metodologia dei metodi e metodologia dei risultati. Per una riforma dell’art. 12 delle preleggi al codice civile [1]
di Angelo Costanzo
Sommario: 1. Metodologia dei metodi e metodologia dei risultati. La gerarchia dei metodi - 2. L’origine storica dell’art. 12 delle preleggi al codice civile - 3. Rilettura dell’art. 12 delle preleggi nel sistema costituzionale - 4. La metodologia del risultato nella ricostruzione dei fatti.
1. Metodologia dei metodi e metodologia dei risultati. La gerarchia dei metodi
1.1. Dentro la stessa cultura giuridica, i giuristi e i giudici svolgono due ruoli differenti: i primi rispondono a domande del tipo “quale significato può essere attribuito all’enunciato X?”; i secondi rispondono a domande del tipo “quale significato deve essere attribuito all’enunciato X ?” [2].
Entrambe le categorie e, in generale, tutti gli interpreti del diritto si trovano a affrontare il problema nodale della scelta dei criteri interpretativi, che magari non conducono ai 144 modi diversi di interpretare una stessa disposizione − tramite l’applicazione combinata dei vari criteri (letterale, sistematico, storico, a contraris, a fortiori, ab exemplo, psicologico, teleologico, analogico, della sedes materiae, et cetera) calcolati da Lombardi Vallauri − ma certamente sono plurimi.
Molti codici civili e qualche codice penale tentano di limitare la discrezionalità degli interpreti nelle scelte esegetiche con disposizioni sulle tecniche che possono e/o debbono essere impiegate nell’applicazione delle leggi.
Si è osservato, al riguardo, che l’interpretazione è «un’attività mentale, in quanto tale non suscettibile di regolamentazione», sicché, malgrado le apparenze, le disposizioni che pretendono di disciplinarla sono, in realtà, non già regole sull’interpretazione, ma piuttosto regole sull’argomentazione dell’interpretazione prescelta, quale che sia il processo mentale (del resto inconoscibile) attraverso cui l’interprete è pervenuto a quella conclusione»[3].
Inoltre, in alcuni ordinamenti i giudici sono autorizzati a usare più tecniche senza seguire una gerarchia, per cui il tentativo di circoscrivere e indirizzare la loro discrezionalità risulta inefficace, tanto più che spesso i metodi dell'interpretazione sono defettibili perché implicitamente ammettono delle eccezioni che non possono essere enumerate in anticipo: a ogni criterio è possibile opporne un altro che condurrebbe a una conclusione interpretativa differente.
1.2. In realtà, ancora prima che fra i diversi criteri interpretativi, l’interprete deve scegliere tra la metodologia dei metodi e la metodologia dei risultati.
La metodologia dei metodi presuppone una scelta fra i metodi fondamentalmente sulla base del ruolo istituzionale che l’interprete si riconosce rispetto al diritto legislativo. In altri termini, questa scelta non poggia su argomenti che non strettamente giuridici ma lato sensu politici (la certezza del diritto, la separazione dei poteri, l’efficacia della normazione, et cetera) che inducono gli interpreti a sottacere il criterio metodologico che indirizza le loro argomentazioni. Una importante conseguenza di questa condizione è che i ragionamenti risultano non stringenti perché le maglie delle inferenze basculano, o saltano: la componente deduttiva del ragionamento si riduce e l’argomentazione si fa entimematica[4]. Invece, proprio questi nodi originari dei ragionamenti andrebbero sciolti con un linguaggio chiaro che renda esplicita l’assunzione di responsabilità ermeneutica[5].
La metodologia dei risultati sceglie il metodo sulla base degli obiettivi da realizzare volta per volta nella singola decisione. Poiché i criteri interpretativi risultano tra loro complementari e variamente intrecciabili, la preferenza conferita all’uno invece che un altro si fonda su ciò che nel singolo caso un determinato criterio interpretativo può offrire come risultato.
Certamente la parificazione dei diversi metodi è la condizione più funzionale alla scenografia legalistica caratterizzante l’approccio giuspositivista (che permette di trarre risultati interpretativi fra loro divergenti basandosi sulle stesse regole legislative) e la scelta di una strategia esegetica eclettica, si rivela tanto più efficace nel produrre il risultato mirato quanto più è mantenuta criptica.
1.3. Invece, ciò che legittima l’attività giurisdizionale e, in generale, quella degli interpreti qualificati del diritto è la chiara determinazione del perimetro del ruolo istituzionale secondo il quale si svolge.
Rispetto a questa determinazione vale l’esigenza fondamentale di frenare − ricorrendo alle risorse che la tecnica legislativa può offrire − la surrettizia inserzione di valori personali (travestiti da principi normativi in realtà inesistenti) nel percorso della interpretazione dei dati normativi.
Ne deriva la seguente questione: è possibile creare le condizioni per una metodologia dei metodi che non si risolva in una metodologia dei risultati?
Non si può affermare con sicurezza (anche se qualcuno lo fa[6]) se nelle prassi la seconda metodologia sia quella più comunemente adottata per giungere alle decisioni, ma è comunque facilmente riscontrabile che i criteri interpretativi adottati nelle motivazioni delle sentenze sono ordinariamente utilizzati senza gerarchie che diano loro un ordine. Si va dal criterio letterale, a quello storico, dalle valutazioni di sistema a quelle teleologiche ristrette alla singola norma, dall’interpretazione conforme (alla Costituzione, alla Convenzione EDU, al diritto UE) a opzioni di natura pragmatica, seguendo argomentazioni spurie.
Può presumersi che anche molte delle difficoltà della Corte di cassazione a esprimere orientamenti uniformi non dipendono soltanto dall’eccessivo numero dei ricorsi e dai limiti della sua organizzazione interna ma dalle stesse ragioni culturali che indeboliscono la metodologia delle decisioni di merito.
Questa condizione è aggravata dalla crisi della democrazia rappresentativa, che nel ridimensionare il ruolo del potere legislativo influisce anche sulla legittimazione del potere giudiziario a esercitare la sua funzione che nel nostro ordinamento si fonda sull’essere interpreti della volontà del legislatore, che deve essere a sua volta espressione della volontà dei cittadini[7].
2. L’origine storica dell’art. 12 delle preleggi al codice civile
Nel nostro ordinamento, il legislatore ha disciplinato disciplina l’attività ermeneutica con gli artt. 12 e 14 disp. prel. cod. civ.
L’articolo 12 delle preleggi – che nella rubrica è denominato interpretazione della legge, mentre nel suo testo si riferisce all’applicazione della legge – fra i criteri ermeneutici considera solo quello letterale, quello dell’intenzione del legislatore e quello analogico (in entrambe le sue forme: analogia legis e analogia iuris).
Tuttavia, come ogni altra disposizione, anche l’art. 12 disp. prel. cod. civ. deve essere interpretato.
Soprattutto va inteso secondo il contesto storico in cui fu posto.
In un suo insostituibile saggio del 1969, Gino Gorla spiegò, sulla base di una ricca analisi storica di precedenti disposizioni analoghe, che l’art. 12 delle preleggi al codice civile non tratta dell’interpretazione della legge in generale[8].
In realtà, con questa disposizione si intese circoscrivere i modi di applicare le norme espresse per i vari casi alla risoluzione delle controversie demandate ai giudici.
In effetti, l’art. 12 delle preleggi riguarda fondamentalmente l’applicazione del codice civile alle controversie.
L’opinione tralaticia che gli artt. 12 e 14 delle preleggi pongano e risolvano il problema delle regole di interpretazione della legge costituisce una estrapolazione che risulta indebita nel suo prolungarsi oltre il campo normativo delineato da codice civile, ossia da un testo legislativo, dotato di una solida architettura concettuale, nel quale le questioni inerenti alla individuazione delle rationes e alla interpretazione sistematica sono state oggetto di precise e ponderate scelte legislative che le hanno in gran parte impostate e già risolte.
Se questo è vero, l’art. 12 delle preleggi al codice civile del 1942 non pone e (quindi) non risolve tutte le principali questioni che sorgono circa l’interpretazione dei dati legislativi in generale (che sia così, del resto, lo mostrano, con evidenza, le differenti prassi ermeneutiche nei vari settori del diritto). Esso è costruito fondamentalmente in relazione al problema della lacune delle norme ma non fornisce indicazioni circa i percorsi da compiere per comporre fra loro le norme secondo corretti criteri logico-giuridici. Né aveva la necessità di farlo all’interno di una architettura normativa ben composta qual è quella del codice civile italiano del 1942.
Certamente gli articoli 12 e 14 delle preleggi restano dei prismi che rifrangono importanti questioni relative alla interpretazione della legge e al rapporto fra il legislatore e i giudici. Tuttavia, non risultano adeguati rispetto alle attuali questioni interpretative che non riguardano tanto l’interpretazione di singole disposizioni all’interno di un testo legislativo ordinato concettualmente ma la loro interpretazione sistematica (plurisussunzione) in un contesto normativo in larga parte decodificato e caratterizzato da una pluralità di fonti eterogenee poste a diversi livelli e non sempre secondo una gerarchia ben definita.
In quei coacervi di testi legislativi che compongono gli ordinamenti giuridici contemporanei, il significato di una disposizione-norma non deriva soltanto dal singolo enunciato ma dal discorso generale entro cui si inserisce (norma-ordinamento). Anzi, in un tale contesto, la scelta interpretativa fondamentale spesso sta nell’individuare l’articolarsi delle fonti del diritto pertinenti al caso da trattare.
3. Rilettura dell’art. 12 delle preleggi nel sistema costituzionale
3.1. La Costituzione e, per via diversa, il diritto comunitario hanno rimodellato l’ordinamento giuridico e la coerenza dell’interpretazione giuridica va ora cercata anzitutto rispetto ai principi costituzionali − che costituiscono i principali fattori dell’unità dell’ordinamento − sicché acquistano nuova forza gli argomenti fondati sulle rationes.
La Corte costituzionale afferma il dovere del giudice di adottare, tra più possibili interpretazioni di una disposizione, quella idonea a fugare ogni dubbio di legittimità costituzionale (dovendo sollevare la questione di legittimità costituzionale solo quando la lettera della norma sia tale da precludere ogni possibilità ermeneutica idonea a offrirne una lettura conforme a Costituzione).
Per questa via introduce un canone ermeneutico che si incentra sulle rationes delle norme.
L'interpretazione alla luce della ratio, che non sia in contrasto inconciliabile con il significato letterale della disposizione (Corte cost. n. 692 del 1988, Sez. Un. civ. n. 6518 del 1987), si fonda sull’argomento della razionalità, secondo il quale, tra più significati possibili, deve preferirsi quello che corrisponde alla ratio sia della specifica norma sia del sistema che la contiene e una regola conforme alla sua ratio supera un primo vaglio di costituzionalità nel senso che è conforme al principio (costituzionale) di razionalità normativa.
In questa prospettiva è evidente che l’interpretazione fondata sulla ratio e l’interpretazione sistematica si interpenetrano[9].
Su queste basi può affermarsi che il sopravvenire (rispetto all’art. 12 delle preleggi al codice civile) dei principi costituzionali e della giurisprudenza della Corte costituzionale, conduce a reinterpretare, a sua volta, lo stesso l'art. 12 delle preleggi nel senso di privilegiare la «connessione» delle parole legislative rispetto al dato letterale)[10].
L’esito può anche essere una interpretazione antiletterale che assume che l’interpretazione letterale è necessaria ma non sufficiente per individuare il significato di un testo linguistico perché la considerazione del contesto nel quale si inserisce una disposizione normativa può condurre a una sua interpretazione (almeno apparentemente) antiletterale (Cass. civ., Sez. 5, n. 14376 del/06/2007, Publiemme, Rv. 599325). L’idea – espressa nella sentenza – e che il valutazione di chiarezza circa un testo e la necessità di una sua interpretazione non sono antitetiche: non basta che un testo sia chiaro perché esso non richieda di essere interpretato quando non vi è accordo sul suo significato nel contesto in cui si colloca. Nella stessa sentenza si osserva: «il contesto nel quale s'inserisce una disposizione normativa è un fenomeno più vasto e più complesso di quello fissato dalla connessione delle parole in una proposizione. Il contesto normativo è l'insieme delle disposizioni normative di un ordinamento giuridico e delle formule non poste, cioè della formule prodotte dalle fonti non scritte. Nell'interpretazione normativa si deve tener conto anche di questo secondo contesto e non si può escludere che, utilizzando le molteplici e complesse tecniche elaborate dalla dottrina giuridica e dalla giurisprudenza, non si possa e non si debba giungere sia ad estrarre più significati dalla stessa formula letteraria, a seconda del contesto nel quale si opera, sia a giungere addirittura ad un'interpretazione antiletterale o solo apparentemente antiletterale»[11].
In queste condizioni si innestano operazioni come la re-interpretazione (Re-interpretation, Umdeutung) − un processo di interazione tra testo e interprete dove questi ha il problema di trovare un senso coerente e compiuto nel quale integrare l'interpretazione dell'elemento di disturbo, del segmento incompatibile con gli altri, tramite una retroazione ermeneutica con la quale si abbandona una precedente interpretazione in actu di un anteriore segmento di un testo − o come la selezione retroattiva di senso, che attualizza una delle interpretazioni compossibili di un dato normativo, interpretazioni in potentia nessuna delle quali ancora attuata[12].
Nel campo del diritto penale sostanziale questo tipo di operazioni a volte incontra delle inibizioni in posizioni come quella espressa nella massima (non recente) secondo la quale «il criterio della individuazione del bene giuridico protetto non può valere ad inficiare principi essenziali, come quelli di legalità e tassatività, che costituiscono la chiave di volta del sistema penale. Non è pertanto consentito all'interprete ridurre sia pure in bonam partem, il contenuto della previsione normativa, introducendo in essa un elemento estraneo, mutuato dalla identificazione, spesso problematica, del bene giuridico, del quale la medesima costituirebbe proiezione e protezione. È questa un'operazione interpretativa, che non è legata ad un metodo di logica assiomatica e rientra quindi nella semplice logica argomentativa» (Sez. 3, 7576 del 25/03/1983, Torti, Rv. 160264).
3.2. In definitiva, la razionalizzazione dei testi legislativi ordinariamente non si impernia soltanto sulla ratio legis ma attinge alla complessiva ratio iuris: la volontà legislativa non può riferirsi soltanto a quella del legislatore storico concreto ma va riconsiderata alla luce del sistema in cui la disposizione inserisce. Per questa via, sebbene non possa giungersi a stravolgere il significato letterale dei testi legislativi, si accampa nello spazio della interpretazione il principio di ragionevolezza in termini anzitutto di razionalità sistematica (coerenza), ma anche di efficienza strumentale (congruenza, pertinenza, proporzionalità) e di giustizia-equità [13].
In questo contesto, non rilevano soltanto la contraddittorietà o la contrarietà semantica fra gli enunciati legislativi ma anche la incongruenza fra fini, principi e rationes normative: una disposizione può non essere coerente con la qualificazione che dà della fattispecie, oppure con la sua ratio o con le rationes del settore normativo in cui si iscrive (contraddittorietà teleologica), o con i suoi concreti ambiti di applicabilità.
Su queste basi, è ammissibile una interpretazione correttiva della disposizione legislativa per ricavarne un significato anche meno prossimo di altri al significato letterale, ma comunque compreso nel suo orizzonte di senso, per pervenire a una interpretazione conforme alla sua ratio e, se sorgono dubbi di costituzionalità, dovrà privilegiarsi l’interpretazione che fuga tali dubbi.
Allora, il punto di partenza della interpretazione non è offerto più soltanto dal testo legislativo quanto dal problema ermeneutico da risolvere, sebbene la conclusione del procedimento interpretativo debba, comunque, sempre riferirsi al testo legislativo come reinterpretato nella sua collocazione nel sistema[14] .
In definitiva, l’argomento logico-sistematico consente di razionalizzare i testi (in particolare quando le formule linguistiche che li compongono non sono recenti) per la risoluzione del problema concreto.
Emerge il canone della «coerenza con l’intero sistema normativo» (che ha una implicita conferma nel secondo comma dell’art. 12, dove l’analogia legis e l’analogia iuris sono indicate come strumenti per colmare le lacune della legge) che richiede un metodo che assicuri la certezza del diritto, intesa non come prevedibilità dell’applicazione delle norme ma (minimalmente) come certezza della considerazione del principi posti dal legislatore, secondo il limite costitutivo della interpretazione giuridica che sta nella auto inibizione a porre (principi, rationes) diversi da quelli mirati dal legislatore. Per ridurre il rischio che questo avvenga, è opportuno sviluppare tecniche legislative che indichino, in modi manifesti (così da chiarirli anche ai loro autori), i principi che si vogliono implementare nel sistema delle norme[15].
4. La metodologia del risultato nella ricostruzione dei fatti
4.1. Nella interpretazione dei dati normativi l’opzione (o le oscillazioni) fra la metodologia dei metodi e la metodologia dei risultati è connessa alla assenza di una reale gerarchia fra i metodi.
Invece, nella ricostruzione dei fatti essa si traduce in una variegata gamma di errori epistemologici che spazia dalla semplice difficoltà a astenersi da giudizi per le conclusione dei quali manchino sufficienti premesse a una esasperata ricerca.
4.2. Il giudizio di cassazione relativo alle prospettazioni di vizi della motivazione nelle porzioni dei provvedimenti dei giudici di merito relativi alla ricostruzione dei fatti (art. 606, comma 1, lett. e, cod. proc. pen.; art. 360. comma 1, n. 4, cod. proc. civ.) sicuramente offre molteplici occasioni per fissare, come la giurisprudenza della Corte di cassazione non ha mancato di fare, alcuni principi al riguardo.
Tuttavia, rimane fondamentalmente un giudizio destruens perché è incentrato sulla rilevazione di illogicità − anzi di manifeste illogicità – nei ragionamenti, sicché soltanto in modo occasionale e in forme indirette può contenere delle indicazioni circa i corretti metodi da seguire per la ricostruzione dei fatti rilevanti per l’applicazione dei dati normativi.
Anzi, esorbiterebbe dal proprio ruolo la Corte di cassazione se, dopo avere rilevato una manifesta illogicità nel ragionamento, non si limitasse a annullare (con o senza rinvio secondo le specificità del caso) il provvedimento viziato ma si spingesse a esprimere valutazioni sugli elementi probatori o a indicare i dati da valorizzare o a tracciare un percorso da seguire nello sviluppo delle inferenze idonee a collegarli.
Il legislatore ha assegnato alla Corte di cassazione un compito minimale ma essenziale: annullare i provvedimenti dai contenuti manifestamente illogici: cioè privi delle condizioni necessarie per risultare logicamente accettabili.
Rinunciare (con modifiche legislative o per altre vie) a questo compito impoverirebbe le garanzie che il nostro sistema offre e che sono particolarmente opportune nella fase cautelare del procedimenti, quando le libertà personali e/o economiche delle persone possono essere compresse sulla base di dati non ancora dotati di una compiuta valenza probatoria.
Al riguardo occorre, però, la fissazione di canoni precisi[16]. Questo è possibile perché la logica formale lo consente secondo le sue norme, cioè in termini generali e astratti sotto i quali sussumere le fallacie riscontrabili nei ragionamenti censurati, certamente considerando i contenuti dei dati acquisti ma sulla base di criteri che non siano generati dal caso concreto.
Invece, indicazioni ulteriori, quelle idonee a delineare il percorso da seguire nel caso concreto per una ricostruzione dei fatti logica e persuasiva appartengono, appunto, alla sfera della mera logicità (rectius: della plausibilità o della persuasività) cioè a quella che si definisce la componente discrezionale o anche (con espressione criptica che è auspicabile divenga desueta) il merito del provvedimento. Quando accade che si impegni nel fornire indicazioni siffatte la Corte si indirizza verso un ruolo di giudice di terzo grado che non le compete e che non serve (anzi, in definitiva, nuoce) alla organizzazione giudiziaria.
Con il rischio, peraltro, di delineare una metodologia del metodo che, poiché elaborata in stretta relazione al caso concreto, potrebbe assumere i connotati di una (indesiderabile) metodologia del risultato.
[1] Relazione svolta presso Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Messina il 18/05/2021, nel seminario sul tema: L'art. 12 delle preleggi. Tra illusioni e prospettive di riforma.
[2] Interessanti spunti in: F. FOSCHINI, Interpretazione della legge e legistica: spunti di riflessione sull’interconnessione di questi due momenti dell’esperienza giuridica, in: Tigor: rivista di scienze della comunicazione, pp. 110-120.
[3] Così, ripetendo la posizione di Kelsen: R. GUASTINI, Interpretare, costruire, argomentare, in: Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2015, p. 24.
[4] R. GUASTINI, Teoria e ideologia dell’interpretazione costituzionale, in: Giurisprudenza costituzionale, 1, 2006, pp. 743 ss.
[5] Sulla necessità di un “rinnovamento culturale” delle forme di espressione dei provvedimenti giurisdizionali, sia nella loro struttura che nei contenuti, puntuali osservazioni in: M. BRANCACCIO, Oltre il linguaggio giuridico, per un rinnovamento culturale della motivazione delle sentenze, in questa Rivista, 14 luglio 2021.
[6] L. Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del diritto, Padova, Cedam, 2012; V. SPEZIALE, Le regole interpretative nella giurisprudenza, in: Lavoro e diritto, 2014, 2-3, pp. 273 ss.; P.Chiassoni, L'interpretazione nella giurisprudenza: splendori e miserie del "metodo tradizionale", in: Giornale di diritto del lavoro, 2008, 4, pp. 553. Sul tema anche: S. Cotta, Giustificazione e obbligatorietà delle norme, Milano, 1981.
[7] Sulla questione il recente: A. CORBINO, L’eredità ideologica della “politica” antica, Eurylink University Presse, Roma, 2021. Con postfazione di B. MONTANARI, L’eclisse del politico e la retorica democratica. pp. 163 ss.
[8] G. GORLA, I precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del codice civile del 1942 (un problema di dritto costituzionale?), in: Il Foro italiano, 1969, 5, pp.112-132; E.Spagnesi, Reminiscenze storiche di una formula legislativa, in: Foro italiano, 1971, 9, pp.99-118; A.Ciervo, Soltanto alla legge? Il problema dell'ermeneutica giuridica dall' articolo 12 delle preleggi all'interpretazione adeguatrice, in: Rivista critica di diritto privato, 4, 2010, pp.631-664; V. VELUZZI, Commentario al codice civile diretto da E.Gabrielli, 2012, pp. 210-301; G.Cian, Articolo 12 delle preleggi, in: G.Cian (a cura di) Commentario al codice civile, *, 2020, pp. 10-12
[9] L’argomentazione sistematica nelle sue varie forme (il combinato disposto, la coerenza, la congruenza, l’eccezione) e l’argomentazione per principi sono entrambe ricondotte alla categoria della giustificazione esterna ossia quella che consiste nell’addurre ragioni per considerare una norma come valida e applicabile al caso: D. CANALE-G.Tuzet, La giustificazione della decisione giudiziale, Torino, Giappichelli, 2020, 61 ss., 119 ss., 133 ss.
[10] M. Ruotolo, Per una gerarchia degli argomenti dell'interpretazione, in: Giurisprudenza costituzionale, 5, 2006, pp. 3418 ss.
[11] Per un commento: G. PELAGATTI Efficacia sociale del linguaggio ed interpretazione antiletterale, in: Corriere giuridico, n. 6, pp. 825 ss. La pronuncia citata nel testo ha un precedente in altra sentenza (Cass. civ. Sez. 5, n. 15133 del 30/06/2006, Sfredda, Rv. 591293) che ha ritenuto che una disposizione concernente l’espressione «i diritti e gli obblighi delle società estinte» dovesse essere interpretata come se il termine «estinte» non vi fosse affatto, in modo da considerare le società fuse ancora esistenti dopo la fusione.
[12] Sul tema: A. COSTANZO, Condizioni di incoerenza. Un’analisi dei discorsi giuridici, Milano, Giuffrè, p.16 ss.
[13] G. SCACCIA, Gli «strumenti» della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano, Giuffrè, 2000, specie 1 ss. e 182 ss.192 ss.
[14]Pare questo l’esito proprio dei percorsi ermeneutici sorti dalla esigenza di valutare la compatibilità o la conformità di norme (ordinarie) con altre norme (costituzionali) di livello gerarchico superiore anche se resta banalmente vero (come sottolinea: R. GUASTINI, Ancora sull’interpretazione costituzionale, in: Diritto pubblico, 2005, pp. 457 ss.) che vale anche per l'interpretazione costituzionale tutto lo strumentario concettuale elaborato in sede di teoria generale dell'interpretazione giuridica. Fra tutti: F. MODUGNO, Metodi ermeneutici e diritto costituzionale, in: Idem, Scritti sull’interpretazione costituzionale, Napoli, Editoriale Scientifica, 2008, 42, 68 e 79.
[15] Questioni complesse sorgono quando i principi fondamentali si presentano come fra loro incompatibili: in queste situazioni il loro bilanciamento non può compiersi in astratto ma calibrandolo in relazione alle particolarità di ciascun caso concreto. I disaccordi interpretativi radicali possono riguardare, in modo diretto, il contenuto delle disposizioni oggetto di interpretazione oppure, in modo indiretto, il modo di accostarsi alla loro interpretazione. Quelli più difficoltosi da risolvere riguardano l’interpretazione dei principi che riconoscono diritti fondamentali o i conflitti fa principi normativi, oppure l’applicazione delle clausole generali. V. Villa, Disaccordi interpretativi profondi. Saggio di metagiurisprudenza ricostruttiva, Torino, Giappichelli, 2017, 5,43, 99.
[16] Mi permetto di rinviare sul tema a: A. COSTANZO, Anomia della illogicità manifesta, in: Cassazione penale, 3, 2019, pp. 1308-1326.
Spunti per la riforma della giustizia tributaria nella relazione della Commissione interministeriale del 30 giugno 2021
di Francesco Pistolesi
Sommario: 1. Premessa - 2. La specializzazione dei giudici tributary - 3. Il contraddittorio preprocessuale e l’autotutela - 4. Gli strumenti deflativi del contenzioso tributario - 5. La giustizia predittiva - 6. L’indipendenza dei giudici tributari - 7. Le difese processuali - 8. Il giudizio di legittimità - 9. Conclusioni.
1. Premessa
La relazione finale del 30 giugno 2021 della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria[1] offre molti interessanti spunti di riflessione e discussione.
Prima di esaminare nel dettaglio le proposte avanzate in detta relazione, credo sia doveroso esprimere apprezzamento per l’atteggiamento pragmatico e libero da condizionamenti mostrato dalla Commissione. Essa ha individuato con puntualità le criticità dell’attuale assetto del processo tributario e ne ha delineato una possibile riforma, che appare sostanzialmente idonea ad assicurarne maggiori efficienza e celerità.
Forse, qualche ulteriore accorgimento avrebbe potuto prospettarsi per cercare di assicurare anche una maggiore aderenza di questo giudizio al principio, di rango sovranazionale e costituzionale, del “giusto processo”, ma avrò occasione di segnalarlo nello svolgimento di queste note di commento alla menzionata relazione finale.
2. La specializzazione dei giudici tributari
La relazione individua sette direttrici di azione per la possibile riforma del processo tributario.
Esse consistono:
1) nell’intervenire sui procedimenti tributari, ampliando il contraddittorio e il ricorso all’autotutela;
2) nel migliorare l’offerta complessiva di giustizia, con correttivi agli strumenti deflativi del contenzioso e, in specie, alla conciliazione giudiziale;
3) nel colmare il deficit di informazione sulla giurisprudenza tributaria;
4) nel rafforzare la specializzazione dei giudici tributari;
5) nel consolidare l’indipendenza dei medesimi giudici;
6) nell’apprestare migliori difese processuali degli interessi in gioco;
7) nel migliorare l’offerta di giustizia nel contesto del giudizio di legittimità.
Tutte le illustrate direttrici sono condivisibili e, come anticipato, lo sono pressoché tutte le proposte avanzate dalla Commissione con riferimento a esse.
Peraltro, su una delle direttrici più significative – quella concernente la specializzazione dei giudici tributari – la relazione prospetta due diverse opzioni, rimettendo la scelta su quale perseguire al Governo, prima, e al Parlamento, poi.
Le due soluzioni enunciate, seppur significativamente diverse (l’una consistente nella creazione di un corpo di giudici speciali tributari a tempo pieno che abbiano superato un pubblico concorso e l’altra volta alla conservazione della magistratura tributaria onoraria, seppur prevedendo – nella fase di appello e per le controversie più rilevanti – l’introduzione di sezioni composte da magistrati ordinari, amministrativi o contabili che optino per l’esercizio a tempo pieno delle funzioni giurisdizionali tributarie e da avvocati, commercialisti e docenti che si dedichino prevalentemente a tali funzioni), sono entrambe in grado di realizzare il fine di incrementare la specializzazione dei giudici tributari.
Infatti, tale specializzazione è raggiungibile, oltre che con l’istituzione di una magistratura speciale selezionata per concorso, anche grazie all’impegno in via esclusiva o prevalente degli odierni componenti delle Commissioni Tributarie.
Seppure a chi scrive appaia preferibile la prima opzione[2], non può sottacersi che la seconda consente di meglio preservare l’esperienza degli attuali giudici tributari, che non merita di essere dispersa.
Tant’è che, nell’immaginare la creazione di un corpo di giudici speciali tributari a tempo pieno vincitori di un pubblico concorso, si sarebbe forse potuto prevederne l’assunzione in misura tale da colmare, con cadenza annuale, le carenze di organico degli odierni giudici tributari da qualsivoglia ragione determinate. Per dirla semplicisticamente, tanti giudici “entrano” quanti ne “escono”. Così si otterrebbe un ordinato turn over nei ranghi dei giudici tributari, prevedendo una lunga fase transitoria con la compresenza dei nuovi giudici con gli attuali, che risulterebbero “in esaurimento”. Compresenza che potrebbe consentire una proficua condivisione di esperienze, nel segno al contempo dell’incremento della specializzazione dei componenti delle Commissioni Tributarie e dell’auspicata condivisibilità delle relative decisioni.
Tuttavia, come anticipato, la scelta fra le due soluzioni è eminentemente politica, ma – quale essa sia – è ragionevole attendersi che potrà conseguirsi l’auspicata migliore preparazione dei giudici tributari. E con essa l’indipendenza e la terzietà di costoro, che inevitabilmente ne discendono.
In ogni caso, e per concludere sul punto, occorrerà che i giudici tributari svolgano una costante e obbligatoria attività di formazione e aggiornamento, che è essenziale nella nostra materia e che ben potrà essere promossa e verificata dal Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria.
3. Il contraddittorio preprocessuale e l’autotutela
La prima delle direttrici segnalate riguarda l’ampliamento del contraddittorio preprocessuale e dell’autotutela.
L’introduzione nello Statuto dei diritti del contribuente di una norma generale che riconosca il “diritto del contribuente al contraddittorio” è senz’altro positiva.
Per come tale norma è formulata, si prospetta una tutela del contraddittorio preprocessuale particolarmente spiccata.
Da un lato, il comma 1 dell’ipotizzato art. 6-bis dello Statuto, secondo cui “il contribuente ha diritto di partecipare al procedimento amministrativo diretto alla emissione di un atto di accertamento o di riscossione dei tributi”, consente di affermare che il contraddittorio si esplichi non solo prima che l’ente impositore o l’agente della riscossione notifichino l’atto che hanno adottato, ma anche in quella istruttoria. Quindi, in una fase in cui la giurisprudenza europea non riconosce il diritto al contraddittorio[3].
Dall’altro lato, il comma 2 dello stesso art. 6-bis, prevedendo che “l’atto emesso in violazione del comma precedente è nullo”, esclude la cosiddetta “prova di resistenza” richiesta dal vigente comma 5 dell’art. 5-ter del D.L.vo n. 218/1997. Ciò, di nuovo, diversamente da quanto sostenuto dalla giurisprudenza europea[4].
Il primo dei profili evidenziati merita incondizionata condivisione. Il confronto nel momento in cui si forma il materiale istruttorio adducibile a sostegno dell’atto impositivo può rivelarsi proficuo per entrambe le parti del rapporto tributario. Sono numerose le occasioni nelle quali vengono compiute – pur in assenza di accesso nei locali ove opera il contribuente – attività istruttorie che, per la loro natura, palesano l’opportunità di un confronto fra l’organo procedente e il privato. Si pensi al rilascio di dichiarazioni da parte di soggetti terzi, al controllo dei dati bancari o ad altre attività in ordine alle quali l’anticipazione del confronto nella fase di raccolta degli elementi probatori può essere preziosa sia per l’ente impositore che per il contribuente.
Diversamente, possono avanzarsi dei dubbi sull’opportunità di escludere la menzionata “prova di resistenza”. È innegabile, difatti, come essa dissuada, indirettamente ma efficacemente, il privato da un approccio formalistico e strumentale al contraddittorio.
In subordine, la Commissione – forse conscia della profonda portata innovativa del menzionato art. 6-bis e delle resistenze che la sua approvazione potrebbe incontrare – suggerisce una modifica del comma 2 dell’art. 5-ter, restringendo più che opportunamente la deroga all’operatività del contraddittorio preventivo ai soli avvisi di accertamento parziale “fondati esclusivamente su dati in possesso dell’anagrafe tributaria”[5].
Anche l’approdo nello Statuto di una norma che renda obbligatoria l’autotutela è più che apprezzabile, oltre a risultare un’opzione del tutto legittima come ha riconosciuto pure la Corte Costituzionale con la sentenza n. 181 del 13 luglio 2017.
Opportuna anche la previsione di un termine, per così dire, di “sbarramento” al doveroso esercizio dell’autotutela (in caso di atti definitivi, decorsi due anni dal giorno dell’intervenuta definitività o, se posteriore, da quello in cui si è verificato il presupposto per la proposizione dell’istanza di autotutela da parte del privato). Ciò soddisfa la ben comprensibile esigenza di certezza dei rapporti giuridici nella materia tributaria.
Parimenti, appare perfettamente coerente con i principi che governano il processo tributario la necessità di impugnare il rifiuto espresso o tacito all’esercizio dell’autotutela in caso di atti definitivi. La previsione della tutela giurisdizionale rende effettiva la rilevata doverosità dell’autotutela.
Inappuntabile si rivela altresì l’estensione del termine di impugnazione del rifiuto tacito di rimborso (il ricorso può proporsi decorsi novanta giorni dalla presentazione della relativa istanza e finché il diritto alla restituzione non è prescritto) al rifiuto parimenti tacito di avvalersi dell’autotutela da parte dell’ente impositore o dell’agente della riscossione.
4. Gli strumenti deflativi del contenzioso tributario
La seconda direttrice concerne gli strumenti deflativi del contenzioso tributario.
Preliminarmente, è da condividere la scelta di non modificare l’odierno assetto del reclamo e della mediazione.
La creazione di un organo “terzo” cui rimettere detta mediazione, di cui da più parti si era segnalata l’opportunità, avrebbe creato più problemi di quanti ne avrebbe potuti risolvere.
Prescindendo dalle difficoltà applicative e dagli oneri che tale scelta avrebbe determinato, si sarebbe spezzato l’essenziale nesso sussistente fra questo istituto e l’autotutela.
Il reclamo non potrebbe essere accolto da un organo diverso dall’ente impositore poiché ciò ne lederebbe le prerogative, volte ad assicurare il rispetto dei principi di legalità nella materia tributaria e di capacità contributiva. Prerogative che devono, però, essere esercitate con massime equanimità e trasparenza, al fine di evitare inaccettabili disparità di trattamento fra i privati e perché si possa realizzare un efficace filtro all’accesso alla giustizia tributaria.
Ben si comprende, quindi, perché il comma 4 dell’art. 17-bis del D.L.vo n. 546/1992 affidi la gestione del reclamo e della mediazione a strutture “diverse ed autonome” da quelle che hanno consentito l’adozione degli atti reclamabili.
Obiettivo, questo, agevolmente raggiungibile per le Agenzie fiscali, in virtù delle relative dimensioni organizzative, ma non per molti enti locali – si pensi ai tanti piccoli Comuni presenti in Italia – chiamati ad accertare i tributi di propria spettanza.
Sarebbe pertanto auspicabile, per questi ultimi enti, la creazione di consorzi o l’affidamento delle funzioni di accertamento, liquidazione e riscossione ai soggetti contemplati dall’art. 53 del D.L.vo n. 446/1997[6], se dotati di adeguate autonome ripartizioni di competenze al loro interno.
Ciò potrebbe valorizzare la mediazione, che ha comunque consentito un significativo abbattimento delle liti tributarie e, soprattutto, ha stimolato un più diffuso ricorso all’autotutela.
La Commissione, invece, propone di intervenire sulla disciplina della conciliazione.
Scelta opportuna poiché è esperienza diffusa che le soluzioni stragiudiziali intervengono più diffusamente grazie alla mediazione che non alla conciliazione. Quindi, è da salutare con favore il tentativo di rafforzare questo istituto.
Le proposte formulate sono convincenti: l’aggravio della condanna alla refusione delle spese di lite in caso di ingiustificato rifiuto dell’ipotesi conciliativa e la possibilità, per le cause soggette alla disciplina del reclamo e della mediazione, che il giudice formuli alle parti una proposta conciliativa favoriranno un maggior ricorso alla conciliazione.
Si sarebbero, però, potute prendere in considerazione anche altre iniziative, parimenti tese a rendere più efficienti gli istituti deflativi del nostro contenzioso. In particolare:
a) si potrebbe prevedere la possibilità di conciliare le cause tributarie anche nella fase di legittimità: ne risulterebbe favorito l’abbattimento dell’enorme mole delle controversie fiscali pendenti di fronte alla Corte Suprema;
b) si potrebbero estendere alla conciliazione e all’accertamento con adesione i criteri di stampo squisitamente transattivo previsti per la mediazione (allorché l’ente impositore o l’agente della riscossione si risolva a formulare un’ipotesi di mediazione può far riferimento, stando al comma 5 dell’art. 17-bis del D.L.vo n. 546, “all’eventuale incertezza delle questioni controverse, al grado di sostenibilità della pretesa e al principio di economicità dell’azione amministrativa”). Si eliminerebbe così una palese incoerenza del vigente sistema di soluzione stragiudiziale dei rapporti tributari perché con riferimento alla stessa obbligazione, interessata ad esempio da un atto di accertamento, il contribuente ha tre opzioni per evitare la lite o per porvi fine: in ordine di successione temporale, l’accertamento con adesione, la mediazione e la conciliazione. Di tali istituti solo la mediazione, l’unico obbligatorio a differenza dell’accertamento con adesione e della conciliazione, offre la possibilità di impiegare criteri transattivi, pur nel rispetto dei principi di trasparenza, imparzialità e correttezza che sempre devono caratterizzare l’operato, ai sensi dell’art. 97 Cost., dell’ente impositore e dell’agente della riscossione;
c) si potrebbe eliminare la sovrapposizione fra accertamento con adesione e mediazione, riservando quest’ultima ai soli atti impositivi e della riscossione non interessati dal procedimento di accertamento con adesione o per i quali detto procedimento non si è in concreto svolto. Non ha senso rinnovare il tentativo di soluzione stragiudiziale allorché quello intrapreso con l’accertamento con adesione è appena naufragato. Una volta radicato il processo, potrà eventualmente farsi ricorso alla conciliazione. Ovviamente, se si perseguisse questa iniziativa, occorrerebbe rivedere la misura dell’abbattimento delle sanzioni, prevedendo che spetti la riduzione contemplata per l’accertamento con adesione qualora si pervenga alla soluzione stragiudiziale in sede di mediazione.
5. La giustizia predittiva
La terza direttrice attiene alla necessità di colmare il deficit informativo, anche nell’ottica della cosiddetta “giustizia predittiva”.
Di nuovo, possono sposarsi senza remore le considerazioni e la raccomandazione svolte dalla Commissione interministeriale, che collimano pure con quanto si legge in ordine alla riforma della giustizia tributaria nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (in seguito, PNRR).
Si può solo osservare che anche i giudici tributari possono essere all’oscuro delle prese di posizione degli altri collegi all’interno della medesima Commissione Tributaria, oltre che delle altre Commissioni.
Ben vengano, dunque, le iniziative che il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria e le Agenzie fiscali adotteranno per rendere conoscibili a tutti gli operatori del nostro processo le pronunce di merito.
6. L’indipendenza dei giudici tributari
Della quarta direttrice, relativa alla specializzazione dei giudici tributari, si è già detto.
La quinta prospettiva di riforma ha per oggetto il consolidamento dell’indipendenza dei giudici tributari.
La Commissione non reputa necessario suggerire la collocazione dei giudici tributari presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri o il Ministero della Giustizia.
Risulta, così, confermata la dipendenza, ovviamente dal punto di vista organizzativo, delle Commissioni Tributarie dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, che retribuisce anche i magistrati tributari.
Tuttavia, ciò non concorre a consolidare l’indipendenza dei giudici tributari, in considerazione del fatto che il Ministero dell’Economia e delle Finanze controlla e indirizza l’attività delle Agenzie fiscali, che sono parti del nostro giudizio.
È indubbio che detto Ministero non eserciti alcuna forma di condizionamento dei giudici, ma il solo fatto che da esso ne dipenda la retribuzione getta un’ombra sugli organi del contenzioso tributario. Ombra che si potrebbe agevolmente dissipare prevedendo appunto che l’organizzazione delle Commissioni Tributarie e la retribuzione dei relativi membri competa alla Presidenza del Consiglio dei Ministri o al Ministero della Giustizia.
Viceversa, sono assolutamente da apprezzare i rilievi e le raccomandazioni, esposti dalla Commissione, sulle concrete modalità di determinazione dei compensi dei giudici tributari, sulla creazione di un apposito ruolo di dirigenti e impiegati al servizio del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria e sul reclutamento e sulla formazione professionale del personale amministrativo addetto alle Commissioni Tributarie.
7. Le difese processuali
La sesta direttrice attiene all’introduzione di migliori difese processuali degli interessi in giuoco.
Probabilmente, è l’argomento su cui – a giudizio di chi scrive – la Commissione avrebbe potuto avanzare maggiori proposte.
Ma procediamo con ordine, esaminando anzitutto i suggerimenti recepiti nella relazione finale.
Il primo si sostanzia nel prospettato inserimento del comma 4-bis nell’art. 7 del D.L.vo n. 546/1992, in base al quale “Le Commissioni tributarie non possono porre a fondamento della propria decisione elementi di prova acquisiti in violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale”.
Sostanzialmente, la Commissione recepisce l’indirizzo interpretativo della Corte di Cassazione, secondo cui le sole prove acquisite in spregio di fondamentali principi costituzionali sono inutilizzabili[7].
Si tratta di una soluzione comprensibile, frutto del bilanciamento fra interessi contrapposti, quello volto ad assicurare la legittimità del procedimento istruttorio e la tutela dei diritti del privato, da una parte, e quello teso ad accertare la verità dei fatti controversi, dall’altra, in un processo – qual è quello tributario – avente a oggetto rapporti di decisiva rilevanza economica e sociale e in cui, conseguentemente, è spiccato l’anelito ad appurare detta verità.
Non può, peraltro, nascondersi come questa opzione presenti un inconveniente. Essa finisce per assecondare le condotte illegittime nel corso dell’istruttoria fiscale, beninteso diverse da quelle che si traducono nella lesione dei rammentati “diritti fondamentali di rango costituzionale”. Non vi sarà più alcun dubbio, per esempio, sul lecito impiego degli esiti delle indagini finanziarie svolte indebitamente.
V’è solo da esprimere l’auspicio che il giudice, pur ammettendo le prove acquisite illecitamente, evidenzi e stigmatizzi il contegno contra legem. Così risulterebbe almeno stimolata l’applicazione di misure disciplinari a carico dei verificatori che hanno violato le regole che sovrintendono la raccolta dei dati istruttori.
Inoltre, sarebbe opportuno che le Commissioni Tributarie, qualora dovessero respingere le tesi del privato valendosi di tali prove, evitassero di addossargli le spese processuali.
La seconda proposta della Commissione riguarda la non impugnabilità degli estratti di ruolo.
Essa è frutto della contingente e recente esperienza della sospensione delle notifiche delle cartelle di pagamento a causa dell’emergenza sanitaria, che ha determinato un eccezionale proliferare dei ricorsi avverso detti estratti.
Ad ogni modo, la norma suggerita è formulata in termini più che ragionevoli, poiché ammette il ricorso contro tali estratti quando obiettivamente si rende necessario tutelare le ragioni del contribuente, ossia per evitare l’esclusione da una procedura di appalto o per non incorrere nel blocco dei pagamenti da parte di soggetti pubblici.
Pure il terzo suggerimento che si legge nella relazione finale merita di essere condiviso. L’estensione della possibilità di difesa tecnica ai Centri di Assistenza Fiscale (CAF) per le liti di valore fino a 3.000 euro, anche se non riguardanti adempimenti dei propri assistiti, va nell’apprezzato senso di consentire un’assistenza adeguata e non particolarmente onerosa per le controversie di minor rilievo economico. E, sempre con riferimento al tema dell’assistenza tecnica, merita di essere sviluppata l’idea esposta dal Prof. Franco Gallo, audito dalla Commissione, di imporre a chiunque sia abilitato al patrocinio innanzi alle Commissioni Tributarie di rispettare una sorta di “codice etico”, ossia regole deontologiche idonee a indirizzare un contegno probo e leale dei difensori nei rapporti con i propri assistiti, con le controparti e con il giudice.
Grazie al quarto consiglio si prospetta finalmente l’abrogazione dell’inaccettabile vigente divieto di assunzione della prova testimoniale nel processo tributario.
Non rinnovo qui l’indicazione delle ragioni che militano contro tale divieto[8]. Ed esprimo, perciò, sincero apprezzamento per il fatto che la Commissione abbia assunto l’iniziativa volta a elidere questa anomalia del nostro processo.
Al contempo, però, segnalo che si sarebbe potuto osare di più.
Vero è che, nella gran parte dei casi, la necessità della prova per testi emerge allorché nell’istruttoria condotta dall’ente impositore o dalla Guardia di Finanza vengono rese dichiarazioni da parte di soggetti terzi rispetto al contribuente.
Tuttavia, l’esigenza di assumere una testimonianza può sorgere anche in altre circostanze. Si faccia il caso in cui l’Agenzia delle Entrate contesti la fittizietà di determinate fatture adducendo – come di frequente avviene – la mancanza di struttura organizzativa del venditore dei beni o servizi e/o la non congruenza dei prezzi praticati. In un contesto del genere, potrebbe essere importante chiamare a teste il dipendente della parte acquirente che ha seguito le operazioni contestate e/o l’agente che ha messo in contatto i contraenti e/o un esperto operatore del settore merceologico cui sono riconducibili dette operazioni. Gli esempi potrebbero proseguire, ma non credo sia arduo rendersi conto che, una volta intrapresa la meritoria strada della soppressione del divieto di acquisizione della prova testimoniale, sarebbe stato preferibile non porre una limitazione del genere di quella che si legge nell’ipotizzato nuovo comma 4 dell’art. 7 del D.L.vo n. 546/1992[9].
Appaiono, invece, ragionevoli le scelte di utilizzare la testimonianza in forma scritta ex art. 257-bis cod. proc. civ., in quanto sicuramente più adatta all’assetto del giudizio tributario in cui manca una vera e propria fase istruttoria, e di riservare la prova per testi al contribuente, dal momento che l’ente impositore – se vuole – può, nel corso dell’istruttoria che precede l’adozione degli atti impositivi, assumere informazioni e dichiarazioni da parte del contribuente medesimo e dei terzi.
Comunque, se la norma suggerita nella relazione finale vedesse effettivamente la luce, vi sarebbe ragione di esserne lieti. Il divieto di prova testimoniale ha mostrato una tale resistenza, che sarebbe in ogni caso un risultato importante l’averne ottenuto l’eliminazione, seppur con la rilevata nota critica sulla compressa estensione di siffatto mezzo istruttorio.
Infine, la Commissione formula una condivisibile raccomandazione sul miglioramento del processo tributario telematico[10]. Non solo ne è apprezzabile il contenuto, ma è meritevole di segnalazione la più che opportuna attenzione mostrata su uno dei profili più importanti – e, a mio avviso, più positivi – dell’odierno regime del nostro processo. Semplificare e ottimizzare il funzionamento del giudizio telematico ha un rilievo decisivo per rendere più accessibile, celere ed efficiente la tutela giurisdizionale nella materia tributaria.
A questa nota positiva deve, peraltro, accompagnarsene una di diverso tenore.
Infatti, la Commissione avrebbe potuto considerare altri aspetti funzionali ad assicurare migliori difese processuali degli interessi in giuoco.
Anche alla luce della rilevanza assunta dal principio europeo e costituzionale del “giusto processo”, avrebbero potuto trovare spazio fra le ipotesi di riforma i profili di seguito succintamente illustrati:
a) l’art. 47 del D.L.vo n. 546/1992 contempla solo la sospensione dell’atto impugnato, di modo che per gli atti a contenuto negativo tale inibitoria è inutile. Si pensi al rifiuto, espresso o tacito, del rimborso dei tributi o al diniego di un’agevolazione (ma non la sua revoca, che ben può essere sospesa) o, ancora, al rigetto della domanda di definizione agevolata di rapporti tributari o all’istanza di dilazione di pagamento dei tributi. Per essi la tutela cautelare postula l’adozione di una misura sostitutiva del provvedimento negativo, ossia, nei casi fatti, l’atto che riconosce il diritto al rimborso e ne dispone l’erogazione e l’atto che concede l’agevolazione o accoglie la domanda di “condono” o quella di rateazione. Siccome detta misura sostitutiva fuoriesce dall’ambito di operatività dell’art. 47 cit., ne sarebbe apparsa opportuna la revisione. Ciò al fine di assicurare la tutela cautelare, che è componente essenziale del diritto di tutela giurisdizionale, anche nelle cause vertenti sui menzionati provvedimenti negativi;
b) la preclusione, sancita dall’art. 32, comma 4, del D.P.R. n. 600/1973 e dall’art. 52, comma 5, del D.P.R. n. 633/1972, all’impiego in sede contenziosa dei documenti non forniti dal privato nel corso dell’istruttoria fiscale, in assenza di cause di forza maggiore, non assicura la pienezza del diritto di difesa. Questa preclusione, pur potendosi spiegare invocando il principio di collaborazione e lealtà ex art. 10, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente, contrasta con il principio del “giusto processo” e con l’affermazione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per cui è espressione di detto principio anche il “diritto al silenzio” del soggetto interessato dalla verifica tributaria[11]. Il divieto sancito dalle norme sopra indicate lede altresì il principio di proporzionalità, sempre di matrice europea, poiché sanziona in termini eccessivi detta mancata collaborazione. In tal senso, oltretutto, depone la recente sentenza n. 81 del 30 aprile 2021 della Corte Costituzionale, che ha sancito l’illegittimità della norma che sanzionava colui che si rifiutava di fornire alla CONSOB risposte che avrebbero potuto far emergere la sua responsabilità per un illecito punibile in via amministrativa o penale. Pertanto, la Commissione sarebbe potuta intervenire per eliminare questa preclusione;
c) l’art. 23, comma 3, del D.L.vo n. 546/1992 prevede che la parte resistente, nelle proprie controdeduzioni, proponga le eccezioni non rilevabili d’ufficio e ivi faccia istanza per la chiamata di terzi in causa. Secondo la giurisprudenza[12], queste attività devono essere eseguite presentando tempestive controdeduzioni, ossia nel termine di sessanta giorni dalla ricezione del ricorso. Qualora il resistente non intenda svolgere eccezioni non rilevabili d’ufficio e chiamare terzi in causa, sempre la giurisprudenza[13] ritiene che la costituzione in giudizio possa avvenire – senza incorrere in alcuna preclusione – anche oltre il termine di sessanta giorni. Siccome le eccezioni riservate all’iniziativa della parte nel nostro processo sono solo quelle di prescrizione e di compensazione, si comprende come il resistente possa, nella gran parte dei casi, determinarsi a costituirsi tardivamente. Se si aggiunge che la decadenza dal diritto di rimborso azionato dal contribuente è rilevabile d’ufficio, ex art. 2969 cod. civ., poiché integra una causa di improponibilità dell’azione giudiziaria in materia sottratta alla disponibilità della parte pubblica, qual è quella tributaria[14], e che la chiamata di terzi non ricorre frequentemente, si ha conferma che il resistente può fare affidamento sulla costituzione tardiva. Sennonché, ciò non è apprezzabile per due ragioni: perché contraddice i principi di speditezza e concentrazione cui si ispira il giudizio tributario e poiché introduce una disparità di regime fra le parti, stante la perentorietà del termine di costituzione in giudizio per il solo ricorrente, non giustificata alla luce del principio di parità delle armi, ritraibile dal canone del “giusto processo”[15]. Le stesse considerazioni valgono per la costituzione nel giudizio di appello, ove la parte appellata è tenuta a rispettare il termine di sessanta giorni decorrente dalla notifica dell’atto di impugnazione solo qualora intenda proporre appello incidentale. Sarebbe stato, quindi, apprezzabile se la Commissione si fosse fatta latrice della proposta di rendere perentorio il termine per la costituzione in giudizio della parte resistente in primo grado e della parte appellata in secondo grado;
d) La Commissione avrebbe potuto farsi promotrice della riforma della L. n. 89/2001 affinché anche il processo tributario figuri fra quelli che danno titolo a ottenere un’equa riparazione in caso di relativa eccessiva durata. Infatti, la ragionevolezza del tempo di svolgimento di ogni processo è sancita dall’art. 111, comma 2, Cost. e si ritrae, di nuovo, dal principio del “giusto processo”.
8. Il giudizio di legittimità
La settima e ultima direttrice attiene al giudizio di legittimità, sul quale fra l’altro si concentra il principale obiettivo indicato nel PNRR con riferimento alla riforma della giustizia tributaria[16].
La Commissione avanza delle proposte “tecniche” assolutamente condivisibili. Il rinvio pregiudiziale, espressamente contemplato nel PNRR, e il ricorso nell’interesse della legge del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione[17] potrebbero consentire di anticipare la formazione di autorevoli indirizzi interpretativi, idonei a orientare le scelte dei contribuenti nell’intraprendere o meno il contenzioso e a confortare le decisioni dei giudici di merito. Ciò con indubbie positive ricadute in termini di riduzione delle liti pendenti e di uniformità delle pronunce delle Commissioni Tributarie.
Anche i suggerimenti volti a favorire una maggiore permanenza dei magistrati nella sezione tributaria della Corte di Cassazione e l’assegnazione a quest’ultima dei giudici addetti all’ufficio del Massimario della medesima Corte sono del tutto apprezzabili.
In specie, la limitazione del turn over dei giudici della sezione tributaria, oltre a consentirne l’affinamento della preparazione e dell’esperienza, contribuirebbe a stabilizzare la giurisprudenza della sezione stessa, accrescendone così l’autorevolezza.
Per contro, penso che potrebbe avere una minor incidenza nell’abbattere il considerevolissimo stock dei giudizi pendenti nella fase di legittimità l’introduzione – sulla falsariga di quanto avviene nei processi amministrativo e contabile – della necessità, decorso un dato termine dalla proposizione dei ricorsi, di ribadire l’interesse alla relativa decisione. Già gli istituti dell’autotutela e della rinuncia al ricorso per cassazione possono adeguatamente sovvenire in proposito.
Infine, nella relazione si ipotizza anche il ricorso a un “condono” per le controversie rimesse all’esame della Corte Suprema.
Trattasi di una scelta squisitamente “politica”, le cui controindicazioni – dal punto di vista etico, della parità di trattamento fra i contribuenti, del rispetto del principio di capacità contributiva, dell’effettività della tutela giurisdizionale offerta dal nostro ordinamento, della frustrazione degli sforzi compiuti dagli enti impositori per assicurare il rispetto della disciplina fiscale e via discorrendo – sono talmente note che non v’è bisogno di attardarsi al riguardo.
Tuttavia, come si suol dire, “a mali estremi, estremi rimedi”. Credo che questa massima di buon senso, unitamente alla constatazione dell’impossibilità o comunque dell’estrema difficoltà di assorbire in tempi ragionevoli l’enorme arretrato pendente dinanzi alla sezione tributaria della Corte di Cassazione, abbia indotto la Commissione a formulare l’ipotesi della “definizione agevolata delle liti” ivi in attesa di decisione.
In ogni caso, quale che sia la scelta che il Governo e il Parlamento effettueranno, i termini di detta “definizione agevolata delle liti” suggeriti nella relazione finale appaiono, sotto il profilo “tecnico”, equilibrati e più che ragionevoli.
9. Conclusioni
Concludo queste brevi note permettendomi di avanzare qualche ulteriore ipotesi di intervento sulla disciplina del processo tributario.
In sintesi:
a) si potrebbe pensare di istituire un giudice monocratico in primo grado per controversie di valore contenuto e, di regola, “seriali”: si pensi a quelle in materia di tributi regionali, provinciali e comunali e di contributi spettanti ai consorzi di bonifica. Il giudice monocratico andrebbe individuato fra i giudici tributari appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa o contabile o fra quelli nominati a seguito di concorso, qualora si perseguisse questa opzione riformatrice. Introducendo una soglia di valore più elevata (ad esempio, di euro 25.000) rispetto a quella (di euro 3.000) proposta da una parte della Commissione per l’eventuale istituzione di un “giudice onorario monocratico”, si potrebbe ridurre il carico di lavoro dei collegi giudicanti in primo grado e velocizzarne i tempi di decisione delle liti. E ciò, stante la natura “specialistica” e “seriale” delle cause che verrebbero rimesse al giudice monocratico, senza ragionevolmente pregiudicare la qualità delle sentenze che sarebbero rese;
b) si potrebbe armonizzare il regime del procedimento cautelare pro Fisco previsto dall’art. 22 del D.L.vo n. 472/1997 con quello regolato dall’art. 47 del D.L.vo n. 546/1992, disciplinandolo nel contesto del medesimo D.L.vo n. 546 e, soprattutto, eliminando la previsione secondo cui esso si conclude con l’adozione di una sentenza (anziché di un’ordinanza, com’è previsto per il procedimento cautelare in favore del contribuente);
c) si potrebbe pensare di regolare il regime della cosiddetta “impugnazione facoltativa”, frutto di un’ormai consolidata interpretazione giurisprudenziale, prevedendo le conseguenze che ne discendono laddove all’atto impugnabile “facoltativamente” faccia seguito quello impugnabile “necessariamente”, secondo quanto stabilito dall’art. 19 del D.L.vo n. 546/1992. Ciò andrebbe a beneficio della certezza del diritto di azione giurisdizionale in materia tributaria e ne determinerebbe un indubbio rafforzamento. Non solo, in detto contesto, si potrebbe pure immaginare di rendere “facoltativamente” impugnabile la risposta alla domanda di interpello ex art. 11, comma 1, lett. a), dello Statuto dei diritti del contribuente, quando l’ente impositore risolva un dubbio interpretativo su una norma tributaria o qualifichi una fattispecie e, in relazione al concreto caso prospettato, non occorra svolgere alcuna attività istruttoria. La possibilità di agire contro questa risposta eviterebbe l’adozione dell’atto “necessariamente” impugnabile, di cui all’art. 19 del D.L.vo n. 546, ove il contribuente disattenda la tesi dell’ente impositore o la domanda di rimborso qualora il privato si adegui al responso ricevuto ma intenda comunque rimettere al giudice la soluzione della controversa questione interpretativa o della dibattuta qualificazione di fattispecie. In tal modo, entrambe le parti del rapporto tributario conseguirebbero anticipatamente la sentenza idonea ad assicurarne l’auspicata certezza.
Insomma, il lavoro svolto dalla Commissione è di stimolo per ipotizzare anche altri interventi di riforma dell’odierno assetto del giudizio tributario.
A questo punto, v’è solo da auspicare che il Governo e il Parlamento, consapevoli di quanto sia importante assicurare l’efficienza e la celerità del processo tributario in ogni fase unitamente al suo pieno adeguamento al principio del “giusto processo”, intervengano sollecitamente per realizzare questi obiettivi.
[1] La relazione è consultabile sul sito www.fiscooggi.it. Sull’argomento, v. A. Marcheselli, Aspettando Godot. Note minime e minoritarie a margine della proposta di riforma della Giustizia tributaria, in questa Rivista, 12 luglio 2021.
[2] Come, anche di recente, ho avuto occasione di precisare in “Il processo tributario”, Torino, 2021, pp. 8-9.
[3] V., in particolare, Corte Giust. Eur., 22 ottobre 2013, causa C-276/12, Sabou.
[4] V., in specie, Corte Giust. Eur. 3 luglio 2014, causa C-129/13, Kamino.
[5] Sul punto sia consentito rinviare ai più approfonditi rilievi che ho svolto in “Il contraddittorio generalizzato”, in Giur. imp., 2019, n. 2, pp. 147 ss.
[6] Ossia i soggetti privati abilitati a effettuare attività di liquidazione, accertamento e riscossione dei tributi e delle altre entrate di Comuni e Province e iscritti in apposito albo istituito presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze.
[7] V., per esempio, Cass., sez. V, 22 febbraio 2013, n. 4498, concernente l’inviolabilità del domicilio.
[8] Mi permetto di rinviare ancora a “Il processo tributario”, cit., pp. 127-128.
[9] Secondo la proposta della Commissione, il nuovo comma 4 dell’art. 7 cit. risulta così formulato: “Non è ammesso il giuramento. Su istanza del ricorrente il giudice può autorizzare la prova testimoniale assunta in forma scritta ai sensi del codice di procedura civile su circostanze oggetto di dichiarazioni di terzi contenute in atti istruttori”.
[10] Il contenuto di tale raccomandazione è il seguente: “La Commissione auspica un intervento legislativo diretto alla estensione e al miglioramento del processo tributario telematico, con la finalità di semplificare per tutti i soggetti del processo tributario l’esercizio delle rispettive attività, eliminando adempimenti superflui e prevedendo per quelli indispensabili, meccanismi automatici o semplificati di esecuzione. Il tutto nell’ambito di una omogeneizzazione e semplificazione dei diversi processi telematici esistenti, finalizzate ad un dialogo tra i vari sistemi con collegamenti tra le relative banche dati”.
[11] V. la sentenza “Chambaz” del 5 aprile 2012.
[12] V. Cass., sez. V, 2 aprile 2015, n. 6734.
[13] V., nuovamente, Cass. n. 6734/2015, nonché Cass., sez. VI, 6 febbraio 2020, n. 2876.
[14] In tal senso, cfr. Cass., sez. VI, 26 settembre 2017, n. 22399.
[15] Di diverso avviso, però, è la Corte Costituzionale, che con l’ordinanza n. 273 del 13 dicembre 2019 ha escluso tale disparità di trattamento, senza tuttavia soffermarsi sull’art. 111 Cost. In passato, si era comunque ipotizzato che l’omessa sanzione per la costituzione tardiva del resistente comportasse una violazione degli artt. 3 e 111 Cost., ma la Consulta lo aveva negato con l’ordinanza n. 144 del 7 aprile 2006.
[16] Si legge, infatti, nel PNRR che gli interventi riformatori “… sono rivolti a ridurre il numero dei ricorsi alla Cassazione, a farli decidere più speditamente, oltre che in modo adeguato”. Il PNRR individua quali “modalità di attuazione” del menzionato obiettivo: a) “… un migliore accesso alle fonti giurisprudenziali”; b) “… il rinvio pregiudiziale per risolvere dubbi interpretativi, per prevenire la formazione di decisioni difformi dagli orientamenti consolidati della Corte di Cassazione”; c) allo scopo di smaltire l’arretrato presso la Corte Suprema, “… il rafforzamento delle dotazioni di personale”, anche tramite adeguati incentivi economici.
[17] Su questi argomenti, v. L. Salvato, Verso la riforma del processo tributario: il “rinvio pregiudiziale” ed il ricorso del P.G. nell’interesse della legge, in questa Rivista, 19 luglio 2021.
Giurisdizione del giudice ordinario sulle controversie risarcitorie per danno da omessa vigilanza sanitaria su dispositivi medici: Il caso (nota a Tar Lazio, Sez. III, 13.1.2021 n. 485)
di Maria Grazia Della Scala
Sommario. 1. Il caso. - 2. La responsabilità della P.A. da omessa vigilanza. - 3. Comportamenti omissivi, provvedimenti delle autorità di vigilanza e riparto della giurisdizione. - 4. L’omessa vigilanza tra comportamento ed esercizio della funzione. - 5. Il comportamento omissivo illecito e l’illegittima violazione del dovere di provvedere. – 6. Riparto della giurisdizione e situazione giuridica soggettiva risarcibile. – 7. Riflessioni conclusive.
1. Il caso.
Con la pronuncia in esame il TAR del Lazio declina la giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda di risarcimento del danno promossa da alcuni cittadini e due associazioni per la tutela dei diritti degli utenti e dei consumatori, nei confronti del Ministero della Salute e del Ministero dello Sviluppo Economico, per omessa vigilanza sulla circolazione, commercializzazione ed utilizzo di dispositivi medici difettosi: protesi mammarie prodotte dall’azienda francese Poly Implant Prothèse, costituita nel 1991, che ha distribuito nell’arco di un ventennio circa due milioni di set in varie parti del mondo.
Nel corso del 2010, a seguito di molteplici segnalazioni di incidente derivanti dall’impianto delle protesi, l’Agence française de sécurité sanitaire des produits de santé, in occasione di un’ispezione presso lo stabilimento di produzione, rilevava che dal 2001 tali dispositivi venivano realizzati con materiali differenti rispetto a quelli indicati nel procedimento di autorizzazione all’immissione in commercio e difformi dagli standard internazionali; lo comunicava dunque anche al Ministero della Salute italiano. Quest’ultimo disponeva a distanza di due giorni la sospensione della commercializzazione di tutte le protesi, invitando il distributore a ritirarle dal mercato.
Sulla base del parere reso dal Consiglio Superiore di Sanità, emanava una comunicazione con cui raccomandava ai medici di contattare le proprie pazienti per un follow up ravvicinato, invitandole a recarsi presso la struttura presso la quale la protesi era stata impiantata per verificare il relativo produttore e sottoporsi a controllo. A distanza di ulteriori sei mesi, dopo ulteriore istruttoria, il Ministero emanava un’ordinanza di necessità e urgenza in cui si stabiliva che alle portatrici di protesi che manifestavano segni di rottura, contrattura, essudazione, infiammazione, andasse proposto l’espianto a carico del SSN, rimettendosi al medico curante la valutazione e proposta dello stesso a fronte di ragionevole preoccupazione di rottura, o a fini di solo benessere psichico della persona.
Tale ordinanza veniva impugnata nella misura in cui non definiva le modalità di addebito al SSN degli interventi medico/chirurgici realizzati a fronte di indicazione clinica specifica alla rimozione e/o sostituzione delle protesi e alle cure, nonché laddove, - si assumeva -, discostandosi dalle ordinanze di altri Ministeri, comunitari e non, non ordinava la rimozione delle protesi per tutte le donne cui erano state impiantate, indipendentemente dai motivi dell’impianto stesso e dalla struttura, pubblica o privata, convenzionata o accreditata, che lo avesse effettuato, mancando anche la previsione dell’assistenza psicologica in ogni caso a carico del SSN.
Veniva altresì impugnato l’accordo concluso ai sensi dell'art. 4, d.lgs. n. 281 del 1997, tra il Governo, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano sul documento recante “Linee guida di carattere clinico ed organizzativo per la gestione clinica dei casi di persone portatrici di protesi mammarie prodotte dalla ditta Poly Implant Prothese (P.i.p.)”, dal contenuto sostanzialmente non difforme dalla predetta ordinanza.
Si assumeva poi illegittima un’ulteriore ordinanza ministeriale che, limitando il percorso organizzativo assistenziale per le pazienti alle risorse disponibili, nulla prevedeva in merito ai casi di non immediato rischio di rottura e agli interventi di tipo estetico.
Il TAR Lazio, Sez. III, con sentenza dell’11/12/2012, n.10296, riteneva le censure infondate, considerato che non spetterebbe a un’ordinanza d’urgenza stabilire le modalità di addebito al SSN, già disciplinate dal diritto positivo, e che gli atti impugnati non contrasterebbero con la definizione dei livelli essenziali di assistenza definiti con dpcm 29 novembre 2001, ai sensi dell'art. 1, d.lgs. n. 502 del 1992.
I consumatori e le medesime associazioni presentavano, dunque, al TAR domanda di risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per omessa o ritardata vigilanza da parte delle amministrazioni resistenti, per aver le medesime violato gli specifici obblighi previsti dal d.lgs. 46/1997 e dalla direttiva CE 93/42, regolanti l’immissione in commercio dei dispositivi medici, anche considerando che le protesi mammarie sono state inserite nella classe III, di massima pericolosità e di massimo controllo dall’art. 1 della dir. CE 2003/12.
Le amministrazioni sarebbero venute comunque meno agli obblighi di natura generale su esse gravanti ai sensi del principio del neminem laedere, non conformandosi altresì al principio di precauzione enunciato dall’art. 174 del Trattato CE.
Si sottolineava che le medesime conoscevano o avrebbero dovuto conoscere la pericolosità e inidoneità delle protesi de quibus molto prima del loro effettivo intervento, avendo il produttore ricevuto già nel 2000 una warning letter della Food and Drug Administration per alcune irregolarità delle protesi saline, dal 1992 al 2006 pertanto escluse dal mercato statunitense.
Il TAR del Lazio, con la sentenza n. 485/2021 in esame declina la propria giurisdizione rilevando la sussistenza in capo ai ricorrenti di situazioni di diritto soggettivo, non venendo in rilievo (in via diretta) poteri amministrativi.
Quelli contestati sarebbero “comportamenti doverosi” delle Autorità di controllo del settore previsti a favore di coloro che fruiscono dell’attività oggetto di vigilanza che, dunque, sarebbero tenute a rispondere verso gli utenti “delle conseguenze della violazione dei canoni comportamentali della diligenza, prudenza e perizia, nonché delle norme di legge e regolamentari relativi al corretto svolgimento dell’attività di vigilanza, quali espressione del principio generale del neminem laedere”.
2. La responsabilità della P.A. da omessa vigilanza.
La pronuncia è occasione per una breve riflessione sulle incertezze che circondano il riparto di giurisdizione sulle controversie risarcitorie promosse nei confronti della p.a., particolarmente a fronte di comportamenti omissivi[1]; controversie che, in linea di principio, seguono le ordinarie regole di riparto[2] prima facie basate, secondo la formulazione dell’art. 7 del codice del processo amministrativo, all.1 d.lgs.n.104/2010, sulla consistenza delle situazioni giuridiche soggettive lese, con l’eccezione delle materie devolute alla giurisdizione esclusiva[3].
La decisione muove anzitutto dall’assimilazione della vigilanza sanitaria a quella esercitata da Consob e Banca d’Italia sull’attività di banche e intermediari finanziari a tutela del mercato e degli investitori, in relazione alla quale le Sezioni Unite hanno più volte riconosciuto che le controversie promosse in ragione della relativa omissione sono di competenza del giudice ordinario, stante l’asserita carenza, in capo ai risparmiatori/investitori, di una relazione diretta con il potere amministrativo.
I dubbi sulla giurisdizione sono stati tuttavia, risolti solo nel tempo dalle Sezioni Unite, come lo stesso Tar del Lazio ricorda[4].
Fino a pochi decenni fa, non si rinveniva in capo ai risparmiatori, a fronte di condotte negligenti delle autorità di vigilanza, alcuna situazione soggettiva giuridicamente qualificata e suscettibile di tutela giurisdizionale, sulla base dell’estraneità al potere di controllo, il quale, pur funzionale all’interesse generale della tutela del risparmio, era considerato diretto verso soggetti altri, banche e intermediari finanziari. Risparmiatori e investitori erano considerati titolari di interessi di mero fatto[5].
Parte della dottrina sottolineava, tuttavia, come l’impossibilità di configurare interessi legittimi, legittimanti il ricorso al giudice amministrativo[6], avrebbe potuto non escludere una tutela risarcitoria davanti al giudice ordinario ove fosse stato possibile rinvenire gli elementi della responsabilità extracontrattuale, a partire dalla titolarità di una situazione giuridica di diritto soggettivo e da una condotta colposa dell’amministrazione[7].
Se un primo superamento di queste posizioni derivava dall’evoluzione della legislazione che, nel meglio disciplinare i poteri di vigilanza, avrebbe consentito un riconoscimento in capo agli investitori di posizioni di interessi legittimo di tipo pretensivo, si assumeva che il diritto positivo non ne consentisse, allora, una tutela risarcitoria[8].
Agli inizi degli anni 2000 la giurisprudenza, anche delle Sezioni Unite, inizia a percepire in capo ai beneficiari dell’attività di vigilanza la titolarità di un diritto soggettivo di credito, quale species del diritto all’integrità del proprio patrimonio, suscettibile di tutela risarcitoria in ragione, in una con la maggiore “legificazione” delle finalità istituzionali delle autorità di vigilanza, del progressivo ampliamento delle situazioni giuridiche soggettive risarcibili[9] attraverso una interpretazione estensiva del “diritto soggettivo”, infine apparentemente comprensive dell’interesse legittimo (Sez.Un. 500/99)[10].
Il primo revirement del giudice della giurisdizione operava considerazioni importanti: il potere discrezionale o tecnico-discrezionale delle autorità non esclude la configurabilità di diritti soggettivi, suscettibili di essere lesi dall’esercizio, come dal mancato esercizio dei medesimi.
I principi di diligenza, prudenza, correttezza delimitano il potere, anche discrezionale, definendone i confini e integrando gli elementi della colpa dell’amministrazione; colpa anche desumibile dalla violazione di quelle più puntuali norme che regolano specificamente i poteri di vigilanza.
La violazione del vincolo interno costituito dal fine d’interesse generale che le autorità di vigilanza devono perseguire istituzionalmente e che impone loro di attivarsi in determinate circostanze, non esclude la violazione del vincolo esterno costituito dalla regola del neminem laedere[11].
Tali posizioni erano a ben vedere avanzate nel panorama europeo e non imposte dal diritto sovranazionale in materia di vigilanza prudenziale, essendo frutto di una maturazione tutta domestica delle forme di tutela nei confronti dell’amministrazione[12].
Dunque il TAR del Lazio fa proprie tali considerazioni, peraltro già abbracciate dal Consiglio di Stato[13], ritenendo l’utilizzatore delle protesi in questione titolare, in virtù di norme dell’ordinamento generale, di un diritto soggettivo alla salute e all’integrità fisica, suscettibile di lesione da un comportamento negligente dell’amministrazione sanitaria. Riconosce, così, implicitamente che quest’ultima esercita poteri di vigilanza verso soggetti diversi dagli utenti, nella specie produttori, commercializzatori, distributori di dispositivi medici, esulando il relativo diritto soggettivo dall’ambito di esplicazione del potere pubblico.
3. Comportamenti omissivi, provvedimenti delle autorità di vigilanza e riparto della giurisdizione.
Tali assunti appaiono coerenti con l’usuale riconoscimento, da parte della giurisprudenza, della giurisdizione ordinaria sulle domande di risarcimento danno avanzate nei confronti del Ministero della Salute per lesioni derivate da emotrasfusioni di sangue infetto e da emoderivati[14] o sulle domande di ristoro di danni derivanti da vaccinazioni[15], anche quando volte a ottenere gli indennizzi previsti dalla legge, prima e a prescindere dal fatto che la disciplina positiva abbia previsto espressamente che i medesimi debbano essere corrisposti dal Ministero della Salute. Discorsi rispetto ai quali appare non assorbente l’argomento del diritto fondamentale[16], pur utilizzato, assumendo rilievo la natura di diritto soggettivo dell’interesse leso, unitamente alla consistenza delle regole giuridiche violate.
La prospettiva appare diversa quando il soggetto che lamenti un danno a causa del ritardo o dell’inerzia dell’amministrazione sia titolare di un interesse disponibile dal potere amministrativo. Così, ad esempio, in materia urbanistica, si riconosce la giurisdizione del g.a. a fronte di una domanda risarcitoria connessa all’inerzia dell’amministrazione nel ripianificare un’area in precedenza disciplinata da un vincolo preordinato all’esproprio scaduto; ipotesi nella quale l’interessato, sebbene non legittimato tipicamente all’avvio di un procedimento, lamenta il mancato esercizio di un potere naturalmente destinato a produrre effetti nella relativa sfera giuridica[17]; così, sulle domande risarcitorie avanzate da terzi titolari di situazioni differenziate, segnalanti abusi edilizi, a fronte del mancato o tardivo ordine di demolizione[18].
La realtà delle cose si manifesta più complessa laddove i poteri vigilanza siano esaminati nel loro risvolto attivo. Basti pensare che gli stessi soggetti che hanno promosso l’azione risarcitoria contro i Ministeri vigilanti nel caso in esame sono stati in precedenza considerati implicitamente legittimati all’impugnazione degli atti amministrativi che hanno definito le modalità di tutela dei soggetti interessati dall’impianto delle protesi a carico del SSN, con l’eccezione di un’associazione non iscritta nell’elenco delle associazioni di consumatori e utenti istituito dall’art. 137, comma 1, del codice del consumo, d.lgs. 6 settembre 2005 n. 206[19].
Diversamente, le Sezioni Unite affermano la giurisdizione ordinaria, in materia di vigilanza finanziaria, “non solo rispetto ai comportamenti silenziosi, ma anche nel caso di comportamenti tradottisi in atti presi nei confronti dei soggetti abilitati, quando si postula dai risparmiatori che dagli uni o dagli altri sia derivato un danno”[20]. Soluzioni non pianamente conciliabili.
Complesse sono, invero, anche le vicende relative alla responsabilità per danni da emotrasfusioni e da vaccinazioni non solo obbligatorie, riguardo alle quali, le Sezioni Unite hanno di recente sostenuto che, ferma la giurisdizione ordinaria sulla domanda di risarcimento fondata sulla lesione del diritto soggettivo alla salute, anche per omessa vigilanza sanitaria, spetterebbe al giudice amministrativo giudicare sulla legittimità del ritardo nell’emanazione da parte della p.a. dei decreti ministeriali previsti dalla legge, che definiscono le procedure e condizioni di ammissione ai moduli transattivi, come sul rifiuto dell’ammissione alla procedura finalizzata alla stipula della transazione, ritenendo, poi, questione di merito la valutazione circa la titolarità in capo agli interessati di un effettivo interesse legittimo o di un interesse semplice[21]; decreti intesi come esercizio di potere autoritativo. Con ciò si contraddicono le posizioni del Consiglio di Stato che, mutando il suo precedente indirizzo, aveva riconosciuto la giurisdizione ordinaria, ravvisando atti amministrativi meramente esecutivi della legge, che “per definizione” non potrebbero incidere sui diritti soggettivi coinvolti, almeno per i profili della disciplina della transazione, della prescrizione, del risarcimento e della responsabilità”, regolata e regolabile unicamente dalla legge[22], potremmo aggiungere, da norme dell’ordinamento generale che disciplinano i rapporti tra soggetti dell’ordinamento.
Se in quest’ultimo caso, gli indugi provengono da evidenti perplessità sull’interpretazione delle norme attributive all’amministrazione di compiti volti al soddisfacimento di diritti soggettivi pacificamente lesi, denunciando la mancata adesione a un solido e comune quadro teorico, nelle altre ipotesi, il positivo esercizio del potere sembra necessariamente misurarsi con la titolarità di interessi legittimi[23]. Non esulerebbe, dunque, aprioristicamente dall’ambito esercizio del potere amministrativo l’interesse del proprietario aspirante a una nuova pianificazione dell’area non necessariamente a lui favorevole, come del risparmiatore in riferimento all’attività di vigilanza creditizia, come dell’utilizzatore di un dispositivo medico rispetto alla vigilanza sanitaria.
4. L’omessa vigilanza tra comportamento ed esercizio della funzione.
Le esitazioni sulla giurisdizione in relazione ai comportamenti omissivi della p.a. affiorano anche dall’analisi della stessa giurisprudenza in materia di responsabilità da omessa vigilanza bancaria e creditizia, chiamata, in ragione della formulazione dell’art. 133 cpa a individuare più precisamente il confine tra giudice ordinario e giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ovvero tra comportamento mero e comportamento mediatamente collegato all’esercizio del potere[24].
Già sotto il vigore dell’art. 7 della l. 205/2000, la Cassazione aveva affermato che le controversie in esame esulavano dalla giurisdizione esclusiva mancandone il presupposto dell’esercizio di poteri autoritativi[25], e ancor più di recente la medesima è negata sulla base del dato testuale degli artt. 7 e 133 cpa[26]. Non mancano, tuttavia, recenti posizioni della giurisprudenza ordinaria in cui tali liti sono ascritte alla materia di vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare espressamente contemplate dall’art. 133 cpa lett.c). Da sottolineare è che, in questi casi, la posizione giuridica vantata dall’investitore rispetto a detti organismi di controllo, viene qualificata di interesse legittimo, in quanto – si osserva – “i poteri di vigilanza non mirano a tutelare specifici interessi individuali, ma l'interesse pubblico al corretto andamento del mercato, per la cui tutela l'ente è dotato di discrezionalità nell'uso dei mezzi a sua disposizione”[27]. Se appare improprio il riferimento alla discrezionalità, sembra meritevole di riflessione la considerazione dell’esistenza di un potere amministrativo funzionale a interessi generali che implica la possibilità di una tutela dell’interesse individuale unitamente all’interesse pubblico.
Le stesse Sezioni Unite della Cassazione, avevano peraltro, solo qualche anno fa riconosciuto che la pretesa azionata in via cautelare dai titolari delle azioni di una società quotata nei confronti della Consob, avente ad oggetto non il risarcimento del danno ma la condanna dell’autorità ad esercitare i poteri di vigilanza alla stessa attribuiti dall'ordinamento per assicurare la correttezza e la trasparenza dei mercati finanziari, rientrerebbe nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo “non essendo qualificabile come diritto soggettivo, ma eventualmente come interesse legittimo”. Spetterebbe, poi, al giudice amministrativo – si afferma - stabilire, “in concreto e nel merito, se l'interesse del privato volto ad ottenere o a conservare un bene della vita quando esso viene a confronto con un potere attribuito dalla legge all'Amministrazione non per la soddisfazione proprio di quell'interesse individuale, ma di un interesse pubblico che lo ricomprende (corsivi nostri) e per la cui realizzazione è dotata di discrezionalità nell'uso dei mezzi a sua disposizione, costituisca un interesse meritevole di tutela ovvero rientri tra gli interessi di mero fatto”[28]. La discrezionalità, ridotta a discrezionalità nel quomodo, non costituisce, dunque, chiaramente criterio di riparto della giurisdizione, mentre la previsione della giurisdizione esclusiva potrebbe perfino rivelarsi superflua, ravvisandosi interessi legittimi coinvolti dall’esercizio/mancato esercizio di un potere pubblico[29].
Tali argomenti danno certamente conto della difficoltà di individuare, se non in alcune specifiche ipotesi,[30] il comportamento mediatamente collegato all’esercizio del potere nella misura in cui, a fronte del potere della P.A. finiscono per configurarsi naturalmente interessi legittimi - ponendo così in dubbio la stessa utilità della giurisdizione esclusiva come oggi conformata[31]. Ad ogni modo, l’analoga struttura dei rapporti tra paziente e Ministero della Salute rispetto a quelli tra risparmiatore e Consob/Banca d’Italia consente in effetti ragionamenti analoghi, alla luce dell’alternativa, emersa nella giurisprudenza, tra esistenza del potere/suo cattivo esercizio in relazione a comportamenti omissivi e ritardi dell’amministrazione, pur a fronte della dichiarata individuazione del discrimen delle giurisdizioni nella natura dell’interesse sostanziale leso[32].
- 5. Il comportamento omissivo illecito e l’illegittima violazione del dovere di provvedere.
La giurisprudenza sopra menzionata ricorda, in effetti, che l’omesso esercizio di un comportamento doveroso, può rilevare come comportamento illegittimo[33], così come il ritardo, sanzionati dagli artt. 2 e 2 bis della l. n. 241/1990[34]. Perché possa configurarsi un cattivo esercizio del potere, tuttavia, deve sorgere in capo all’amministrazione un dovere di provvedere imposto da norme sull’esercizio della funzione, esito di un’iniziativa considerata dall’ordinamento amministrativo idonea ad attivare l’esercizio del potere amministrativo[35]. Il che può verificarsi anche laddove poteri d’ufficio siano stimolati da terzi, in posizione differenziata, che rappresentino circostanze tali da rendere l’azione vincolata, nell’an e nel quando, per il perseguimento dell’interesse generale e, eventualmente e mediatamente, di quello individuale, anche solo strumentale[36].
Se questo può sembrare germe di confusione tra le giurisdizioni, così non è ove si consideri come le medesime sono storicamente ordinate non sulle situazioni giuridiche soggettive individuali ma sull’esercizio del potere dell’amministrazione[37], che condiziona l’applicazione di norme di relazione ovvero di norme di azione[38]; distinzione talvolta respinta[39], ma il cui abbandono mostra tutta la sua pericolosità quando si guardi alle oscillazioni sulla giurisdizione in materia di sostegno agli studenti disabili[40], o si pensi alle questioni che investono i limiti interni della giurisdizione amministrativa[41].
Con una precisazione, utile a offrire ordine anche con riferimento alle controversie risarcitorie in relazione ad azioni positive delle autorità di vigilanza, promosse dai relativi beneficiari: in primo luogo, che il potere amministrativo può dirsi sussistente in quanto una norma dell’ordinamento generale abbia attribuito all’amministrazione la capacità di disporre delle situazioni giuridiche degli amministrati[42]; che il potere dell’amministrazione non può essere apprezzato in astratto ma nella sua relazione con l’interesse individuale; non può essere considerato nel suo aspetto statico ma in quello dinamico[43]. E l’interesse legittimo, chiariscono la dottrina più autorevole e la giurisprudenza ormai consolidata, non sorge a fronte di un provvedimento amministrativo, di una decisione finale ma di un potere in atto, nel suo esercizio o mancato esercizio, suscettibile di produrre effetti nella sfera giuridica dell’interessato, anche qualora, stante la multipolarità dell’azione amministrativa, egli non ne sia il destinatario primo[44].
Peraltro, un criterio di riparto che dia ragione di un sistema di giurisdizione dualistico sulle controversie nei confronti della P.A. e che non può riposare su un criterio distintivo fondato sulla vincolatività/discrezionalità del potere[45], né su visioni restrittive delle situazioni giuridiche soggettive o sul loro disconoscimento, chiama in gioco la duplicità di ordini normativi che possono regolare tanto l’azione che l’inazione dell’amministrazione: norme dell’ordinamento generale che tutelano in via diretta interessi dei singoli, norme dell’ordinamento amministrativo che disciplinano l’esercizio del potere in funzione dell’interesse generale e, insieme, dell’interesse soggettivo.
6. Riparto della giurisdizione e situazione giuridica soggettiva risarcibile.
Che il riparto della giurisdizione, anche sulle controversie risarcitorie e anche su quelle originanti da condotte omissive, si radichi sulla configurabilità in concreto dell’esercizio del potere è conseguenza dell’attuale diritto positivo che devolve al giudice amministrativo la giurisdizione sulle domande di risarcimento del danno in tutto l’ambito della sua giurisdizione, mentre sarebbe fuorviante ragionare secondo una contrapposizione diritti/interessi laddove la dottrina ha ben dimostrato come le situazioni giuridiche soggettive risarcibili sono in ogni caso diritti, ciò necessariamente anche quando la tutela risarcitoria sia erogata dal giudice dell’esercizio della funzione[46].
Può convenirsi con la più attenta dottrina che i comportamenti inerti e ritardi dell’amministrazione appaiono suscettibili di una duplice qualificazione: come illeciti e lesivi di diritti soggettivi ove violativi di norme dell’ordinamento generale che delineano i confini del potere amministrativo, come illegittimi e potenzialmente lesivi di interessi legittimi, ove posti in violazione di norme di esercizio del potere amministrativa, espressione della sua autonomia pubblica[47]. Con la possibilità di una plurima qualificazione, come illegittimi e illeciti, ove siano contemporaneamente violati i due ordini normativi dallo stesso comportamento[48], non essendo sufficiente l’illegittimità della condotta a fini risarcitori, ovvero rilevando ai due diversi fini singoli segmenti dei medesimi comportamenti[49]. Allorché a fronte di un esercizio di potere – anche come non esercizio - si rilevi altresì la violazione di norme posta a diretta tutela dell’interesse individuale, come quelle che declinano i singoli poteri pubblici ovvero le clausole generali di diligenza, prudenza, perizia, correttezza, ecc.[50], sarà possibile accordare, in sede di giurisdizione amministrativa, la tutela risarcitoria del diritto soggettivo.
Imparzialità e diligenza non sono la stessa cosa, non configurano norme della medesima tipologia benché sempre più spesso utilizzate in modo quasi fungibile[51], sono conoscibili da giudici distinti o, nelle controversie risarcitorie di competenza del giudice amministrativo, a diversi fini.
7. Riflessioni conclusive.
La sentenza esame appare condivisibile, avendo correttamente declinato la giurisdizione amministrativa. La sintetica motivazione, che sostanzialmente rinvia a quella delle pronunce, anche molto recenti, delle Sezioni Unite sulle controversie risarcitorie in materia di vigilanza bancaria e creditizia -dovendo essere quindi letta unitamente a queste-, suggerisce però più attente riflessioni sul criterio di riparto, essendo le motivazioni delle pronunce richiamate a loro volta appiattite sull’affermazione dell’astratta insussistenza di un potere amministrativo capace di interessare direttamente i beneficiari dell’attività di vigilanza. Il che non sembra del tutto esatto. Manca, nel caso in esame come in quelli richiamati, un qualificato esercizio/non esercizio illegittimo idoneo a relazionarsi con una situazione giuridica soggettiva differenziata di interesse legittimo, quale segmento del comportamento illecito capace di radicare la giurisdizione amministrativa.
Tale regola di riparto della giurisdizione, anche nelle controversie risarcitorie, è funzionale all’effettività della tutela giurisdizionale[52], rappresentando un criterio sistematico di separazione, indispensabile in ogni sistema dualistico[53]. Il sindacato su di esso rappresenta ancora ragione dell’esistenza di un giudice amministrativo[54] nella sua attitudine a rispondere alla dimensione assiologica delle aspettative del cittadino. Ciò malgrado l’ibridazione dovuta all’estensione della giurisdizione esclusiva[55] e all’attribuzione, per ragioni di semplicità e di concentrazione dei giudizi, delle controversie risarcitorie. Non per questo, in ogni caso, il giudice amministrativo deve scolorire in puro giudice dei diritti [56].
[1] In generale sulla responsabilità per danno da comportamento della p.a.: P. Chirulli, Responsabilità da comportamento, in www.iuspublicum.it, 2011.
[2] Cfr., da ultimo, Cons. St., ad. plen. 23 aprile 2021 n. 7, che peraltro riconosce che “Il paradigma cui è improntato il sistema della responsabilità dell’amministrazione per l’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o per il mancato esercizio di quella doverosa, devoluto alla giurisdizione amministrativa, è quello della responsabilità da fatto illecito”.
[3] VV. la sintesi di V. Domenichelli, P. Santaniello, La giurisdizione del giudice amministrativo, in www.iuspublicum.it, 2011.
[4] Cfr. M. Pastore, Consob e omessa vigilanza: un modello di responsabilità in via di definizione. in Danno e responsabilità, 2011, 12, 1175.
[5] Cfr., ad es., Cass. Sez. Un., 14 gennaio 1992 n. 367, in Banca, Borsa e titoli di credito, 1992, II, 393 ss., e ivi N. Marzona, Le posizioni soggettive del risparmiatore secondo il giudice della giurisdizione: una difficile tutela; Cass. Sez. Un., 29 marzo 1989 n. 1531 in Giur. it., 1990, I, 440 ss., con nota di F. Vella, Proposta di avvio della procedura di liquidazione coatta amministrativa nei confronti di imprese bancarie e responsabilità degli organi di vigilanza; Trib. Milano, 9 gennaio 1986 in Giur. comm., 1986, II, 427 ss., con nota di M. Cera, Insolvenza del banco ambrosiano e responsabilità degli organi pubblici di vigilanza, Corte d’Appello di Milano, 13 novembre 1998, in Società, 2001, 570 ss., anche ricordate da D. Stanzione, La responsabilità della Consob per omessa o inadeguata vigilanza: substance over form, in Banca, borsa e titoli di credito, 2013, 4, 367 ss.
[6] Cfr. Alb. Romano, La situazione legittimante al processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1989, F. Francario, Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa, in F. Francario, M. A. Sandulli, Profili soggettivi e oggettivi della giurisdizione amministrativa, in ricordo di Leopoldo Mazzarolli, Napoli, 2017, 1 ss., M. A. Sandulli, Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa: il confronto, Ibidem, 339, M. C. Romano, Situazioni legittimanti ed effettività della tutela giurisdizionale, Napoli, 2013. V. Cerulli Irelli, Legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2014. Per posizioni diverse, v. di recente C. Cudia, Legittimazione a ricorrere, concezione soggettivistica della tutela e principio di atipicità delle azioni nel processo amministrativo, in Persona e amministrazione, 2019, 2.
[7] Per aperture al riconoscimento di una responsabilità civile della Consob., v. G. Castellano, I controlli esterni, in in G.E. Colombo, G.B. Portale, Trattato delle società per azioni, 1998, 5, M. Cera, La Consob, Milano, 1984, Id., Insolvenza del Banco Ambrosiano e responsabilità degli organi pubblici di vigilanza, cit. con perplessità tuttavia proprio in relazione alle posizioni della giurisprudenza contrarie alla risarcibilità degli interessi legittimi. Cfr. D. Stanzione, Op. cit., nota 24.
[8] G. Scognamiglio, La responsabilità civile della Consob, in Riv. dir. Comm., 2006, 700.
[9] G. Scognamiglio, La responsabilità civile della Consob, cit., D. Stanzione, La responsbailità della Consob, cit.
[10] F. Capriglione, Responsabilità e autonomia delle autorità di controllo del mercato finanziario di fronte alla “risarcibilità degli interessi legittimi”, in Foro it., 1999, I, 2487, M. Clarich, La responsabilità della Consob nell’esercizio dell’attività di vigilanza: due passi oltre la sentenza della Cass. n. 500/1999, in Danno e resp., 2002, 223 ss.
[11] Cass. Sez. I civile, 3 marzo 2001 n. 3132.
[12] G. Scognamiglio, Op. cit. Carriero, La responsabilità civile dell’autorità di vigilanza, in Foroit, 2008, 221 ss., G. Stanzione, Op. cit., con particolare riguardo ai dubbi emersi nell’ordinamento giuridico tedesco.
[13] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 9 ottobre 2020 n. 5991, in cui si osserva come correttamente il giudice di prime cure avesse rilevato il difetto di giurisdizione “in linea con l’orientamento della giurisprudenza”.
[14] Cass. 31 maggio 2005, n. 11609, Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, nn. 576 e 577; Cass., Sez. Un., Cass. III, 1dicembre 2009, n. 25277. V. anche TAR Lazio, Roma, sez. III, 5 maggio 2014, n.4621. Cfr. M. Poto, Problematiche in tema di responsabilità del Ministero della sanità per omessa vigilanza sulla sicurezza del sangue e degli emoderivati, in Resp. civ. e previdenza, 2003, 3, 831, G. F. Aiello, La responsabilità del Ministero per omessa vigilanza sull’attività di raccolta e distribuzione di sangue infetto, in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2014, 7-8, 664.
[15] Cfr., ex multis, Cass. Sez. Un., 8 maggio 2006, n.10418. Per una ricostruzione in termini di responsabilità da attività lecita: E. Scotti, Liceità, legittimità e responsabilità dell’amministrazione, Napoli, 2012.
[16] Per l’erroneità del presupposto della riserva alla giurisdizione ordinaria della tutela dei diritti fondamentali, v., ad es., Cass. Sez. Un., 5 febbraio 2008 n. 2656, sul diritto fondamentale all’educazione dei figli, Cass. Sez. Un., 3 giugno 2015 n. 11376, relativa all’organizzazione del servizio farmaceutico., Tar Liguria, 19 settembre 2019 n. 722 sul servizio di refezione scolastica e il diritto all’autorefezione. Sulla legittimità costituzionale dell’attribuzione alla giurisdizione esclusiva del g.a. di controversie relative a diritti fondamentali: C. Cost., 5 febbraio 2010 n. 35. Per le complesse vicende che hanno riguardato il diritto all’istruzione degli studenti disabili: M. Ramajoli, Sui molteplici criteri di riparto della giurisdizione in materia di servizi di sostegno scolastico alle persone con disabilità, in Dir. proc. amm., 2020, 275., M. Mazzamuto, La discrezionalità come criterio di riparto della giurisdizione e gli interessi legittimi fondamentali, in www.giustizia-amministrativa.it, 2020. In generale, sulla tutela dei diritti fondamentali da parte del giudice amministrativo, cfr. E. Scotti, I diritti fondamentali nel pluralismo delle giurisdizioni, in www. questionegiustizia .it, 2021, L. Galli, Diritti fondamentali e giudice amministrativo: uno sguardo oltre confine fundamental rights and administrative judge: a look beyond the border, in Dir. proc. amm., 2018, 3, 978, F. Patroni Griffi, Diritti fondamentali e giudice amministrativo nel sistema multilivello delle tutele, in www.giustizia – amministrativa.it.
[17] Altra essendo la questione di quando l’interesse legittimo sussista in concreto: Cassazione civile sez. I, 18 marzo 2016, n.5443, Consiglio di Stato sez. IV, 09 novembre 2019: ritenendosi che la protezione del privato rispetto al potere pianificatorio di aree oggetto di vincolo decaduto sia di natura procedimentale, sostanziandosi “quale mero riflesso dei doveri dell’amministrazione, nella tutela dell’interesse al corretto esercizio del potere pianificatorio mediante la previsione di strumenti di reazione all’inerzia per far dichiarare l’illegittimità del silenzio e l’obbligo di ripianificazione”. Non sarebbe tutelata la mera aspettativa di edificabilità o utilizzabilità del fondo.
[18] V., ad es., Cons. St., IV, n. 5160, 3 agosto 2010 n. 5160, Cons. St., VI, 5 luglio 2019 n. 4682.
[19] Iscrizione che, secondo quanto chiarito sia dall'Adunanza plenaria 11 gennaio 2007, n. 1, che dal medesimo TAR Lazio (sentenze nn. 2704 del 21 marzo 2012, 1620 dell'8 febbraio 2010 e 7868 del 5 agosto 2009), costituisce requisito essenziale perché, ai sensi dell'art. 139 dello stesso decreto, un’associazione possa ritenersi legittimata a ricorrere e a resistere.
[20] V. ad es. Cass. Sez. Un., 2 maggio 2003 n. 6719. Soluzioni che sembrano coerenti con i tentativi delle Sezioni Unite di estendere la giurisdizione ordinaria sulle controversie risarcitorie nascenti da lesione dell’affidamento del privato a fronte di provvedimenti, espressione dell’esercizio di poteri amministrativi. Cfr., per tutte, Cass. ord. nn. 6594, 6595, 6596 del 2011 in cui si è riconosciuta la giurisdizione ordinaria sulle controversie risarcitorie per lesione dell’affidamento ingenerato da atti amministrativi illegittimi poi annullati. Per una critica alle posizioni volte a riconoscere la giurisdizione ordinaria a fronte dell’esercizio di poteri pubblicistici: M. A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni (brevi note a margine di Cons. Stato, Ad plen., 23 marzo 2011 n. 3, in tema di autonomia dell'azione risarcitoria e di Cass., Sez. un, 23 marzo 2011 nn. 6594, 6595 e 6596, sulla giurisdizione ordinaria sulle azioni per il risarcimento del danno conseguente all'annullamento di atti favorevoli), in Riv. giur. edil., 2010, 6, 479, e v. R. Villata, “Lunga marcia” della Cassazione verso al giurisdizione unica (“dimenticando” l’art.103 della Costituzione? in Dir. proc. amm., 2012, 324 ss. Per una sintesi della giurisprudenza sul tema e un commento all’ordinanza di rimessione alla plenaria: C. Napolitano, Risarcimento e giurisdizione. Rimessione alla plenaria sul danno da provvedimento favorevole annullato (nota a Cons. St., ord. 9 marzo 2021, n. 2013), in www. giustiziainsieme. it, 2021.
[21] Cass. Sez. Un., ord. 3 febbraio 2016 n. 2050.
[22] Cons. St., Sez. III, 28 marzo 2014 nn. 1501, 1501, 1503, 1504, 1505, 1506.
[23] V. le considerazioni di M. A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni, cit.
[24] Cfr., per tutte, Cass. Sez. Un., 05 marzo 2020, n. 6324. Corte cost., 6 luglio 2004, n.204, Corte cost., 11 maggio 2006, n.191, Corte cost., 26 maggio 2006, n.205, Corte cost., 20 luglio 2006, n.306, Corte cost., 27 aprile 2007, n.140, V. Corte cost., 0 febbraio 2010, n.35, Corte cost., 8 ottobre 2010, n.293, Corte cost., 22 dicembre 2010, n.371, Corte cost., 12 maggio 2011, n.167, Corte cost., 18/02/2011, n.54, Corte cost., 15 luglio 2016, n.179.
[25] Cass. Sez. Un., 2 maggio 2003 n. 6719.
[26] V., da ultimo, Cass. Sez. Un., 5 marzo 2020 n.6324.
[27] Tribunale Ancona, 20 febbraio 2019, n.331.
[28] Cass., Sez. Un., 18 maggio 2015, n.10095.
[29] Per la successiva negazione che questa decisione si suscettibile di influire, in via generale, sul riparto della giurisdizione in materia di omessa vigilanza: Cass, Sez. Un, 18 maggio 2015 n. 10095, cit., Cass. Sez. Un., 5 marzo 2020 n.6324 Vi si afferma, con considerazioni invero discutibili: “in primo luogo, la citata decisione ha premesso che la questione di giurisdizione non atteneva alla domanda risarcitoria ma unicamente a quella <>, contestualmente proposta. In secondo luogo, non si potrebbe interpretare il suddetto precedente come se fosse ricognitivo della regola della duplicità delle giurisdizioni, a seconda del modo di declinare la domanda risarcitoria, da devolvere al giudice ordinario se proposta per equivalente e al giudice amministrativo se proposta in forma specifica), in considerazione della natura rimediale della tutela risarcitoria in entrambi i casi”.
[30] Come ad esempio, in materia di accordi amministrativi (tra le più recenti: TAR Campania, Napoli, VII, 2 ottobre 2020, n.4192, TAR Lazio, Roma, sez. III, 1giugno 2020, n.5823, Cons. St., sez. IV, 28 settembre 2016, n. 4026, Cass. Sez. Un., 10 novembre 2020, n.25209), di occupazione acquisitiva, sia pur con incertezze relativamente alla configurabilità di diritti soggettivi (ex multis: Cass., Sez. Un., 17 settembre 2019, n.23102), di mancata retrocessione del bene espropriato (TAR Calabria, Catanzaro, II, 16 maggio 2019, n.990), di questioni patrimoniali relative ai rapporti di pubblico impiego non privatizzato (Sul punto v. Cass., sez. un., 14 gennaio 2005, n. 601).
[31] F. G. Scoca, Il processo amministrativo ieri, oggi, domani (brevi considerazioni), in Dir. proc. amm., 2020, 4, 1095.
[32] Cass. Sez. Un., 5 marzo 2020 nn. 6324, 6325, cit., Cass. Sez. Un. 6 marzo 2020 n. 6451, 6452, 6453, 6454; posizioni discutibilmente basate sulla stessa esclusione di una giurisdizione di legittimità, che certamente sussiste almeno nelle controversie che coinvolgono gli intermediari. Per la negazione di una giurisdizione esclusiva sulle controversie risarcitorie per responsabilità della p.a. nell’ambito dei servizi sanitari, v. Cass. Sez. Un., 8 maggio 2006, n.10418 e più di recente: TAR Sicilia, Catania, IV, 1aprile 2015, n. 925.
[33] Su cui v. ampiamente A. Cioffi, Dovere di provvedere e pubblica Amministrazione, Milano, 2005. e già, sia pur posizioni diverse: M. Clarich, Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino, 1995. Cfr. sulla tutela giurisdizionale verso i silenzi e i ritardi della P.A. M. Ramajoli, Forme e limiti della tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento, in Dir. proc. amm., 2014, 722. Sulle evoluzioni antecedenti la L. n.241/1990: A. Angiuli, Studi sulla discrezionalità amministrativa nel quando, Bari, 1988.
[34] Per cui v. M.L. Maddalena, Conseguenze per il ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento, in Alb. Romano (a cura di), L’azione amministrativa, Torino, 2016. Con particolare riguardo alla disciplina degli indennizzi per il mero ritardo: M. Ragusa, Forme di tutela all’interesse alla (tempestiva) conclusione del procedimento (nota a Tar Lazio, Roma, Sez. II bis, 20 aprile) in www. giustiziainsieme.it, 2021.
[35] A. Cioffi, Conclusione del procedimento, in Alb. Romano (a cura di), L’azione amministrativa, Torino, 2016.
[36] TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 19 maggio 2008, n. 523. Sul rilievo degli interessi strumentali nel processo amministrativo, cfr., ad es., tra le pronunce più recenti: Consiglio di Stato sez. III, 1marzo 2021, n.1708, TAR Campania, Napoli, V, 22 gennaio 2021, n. 496, Corte cost., 13 dicembre 2019, n.271.
[37] Alb. Romano, La situazione legittimante al processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1989, 511; F.G. Scoca, Divagazioni su giurisdizione e azione risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 1, 2008, 1.
[38] Per l’utilizzo di queste categorie ai fini del regime di invalidità degli atti amministrativi: P. Lazzara, Annullabilità e annullamento (dir. amm.), in Treccani - Diritto online, 2012.
[39] Cfr., ad es., le riflessioni di G. Verde, La Corte di cassazione e i conflitti di giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2013, 2, 367.
[40] Su cui v. ad es., M. Ramajoli, Sui molteplici criteri di riparto della giurisdizione in materia di servizi di sostegno scolastico alle persone con disabilità, cit., M. Mazzamuto, La discrezionalità come criterio di riparto della giurisdizione e gli interessi legittimi fondamentali, cit.
[41] Per i dibattiti sollevati dalla recente ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione, cfr. A. Barone, Nomofilachia, Corti sovranazionali e sicurezza giuridica, in Dir. proc. amm., 2020, 3, 557, M. Clarich, Riflessioni sparse sul dualismo giurisdizionale non paritario, in www.questionegiustizia.it, 2021, 1. V. già Corte cost., 18 gennaio 2018, n.6.
[42] A. Romano, I soggetti e le situazioni giuridiche soggettive, in Diritto amministrativo, a cura di Mazzarolli, Pericu, A. Romano, Roversi Monaco, Scoca, IV ed., Bologna, 2005, 145 ss.
[43] A. Romano Tassone, Situazioni giuridiche soggettive (diritto amministrativo), ad vocem, in Enc. Dir., 1998, 41, 966 ss., 979-980, F. G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino 2017, 458.
[44] A. Scognamiglio, Il diritto di difesa nel procedimento amministrativo, Milano, 2004, L. De Lucia, Provvedimento amministrativo e diritti dei terzi. Saggio sul diritto amministrativo multipolare, Torino, 2005.
[45] Cfr., di recente, Cons. St., Sez. III, 21 ottobre 2020 n. 6371, in cui si osserva, appunto che <l’assenza di="" discrezionalità="" amministrativa,="" non="" riduce="" il="" potere="" ad="" un’obbligazione="" civilistica,="" poiché="" l’amministrazione="" esercita="" in="" questi="" casi="" una="" funzione="" verifica,="" controllo,="" accertamento="" teorico="" dei="" presupposti="" previsti="" dalla="" legge,="" quale="" soggetto="" incaricato="" della="" cura="" interessi="" pubblici="" generali,="" esulanti="" propria="" sfera="" patrimoniale”;="" anche="" se="" costituisce="" un="" diaframma="" sottile,="" “nondimeno="" quel="" <i="">proprium di una situazione giuridica soggettiva che l’ordinamento pone in sede di conformazione della sfera giuridica privata al fine di evitare anche l’utilità spettante possa andare a detrimento dell’interesse pubblico predefinito dalla legge e affidato alle cure dell’amministrazione”. “Il potere, dunque, rimane espressione di “supremazia” o, in termini più moderni, di “funzione”, anche se l’an e il quomodo del suo esercizio sono predeterminati dalla legge” >. Cfr, tra i contributi più recenti: F. G. Scoca, Scossoni e problemi in tema di giurisdizione del giudice amministrativo, in Il processo, 2021, 1, 1.
[46] Cfr. Alb. Romano, Sulla pretesa risarcibilità degli interessi legittimi; se sono risarcibili sono diritti soggettivi, in Dir. amm., 1998, Id., Sono risarcibili; ma perché devono essere interessi legittimi? in Foro it., 1999, 3222, che osserva, in primo luogo come ai fini della risarcibilità, l’attività pubblicistica dell’amministrazione rilevi pur sempre come fatto lesivo di un diritto. Peraltro, anche quando l’interesse legittimo che si assume leso ha carattere pretensivo “la controversia ha per oggetto un certo bene della vita”; che qui si atteggia come possibilità di esplicare l’attività subordinata agli effetti ampliativi del provvedimento richiesto. Su tali posizioni, cfr. anche A. Romano Tassone, La responsabilità della p.a. tra provvedimento e comportamento, in www. giustizia – amministrativa. it, 2004, F.G. Scoca, Divagazioni su giurisdizione e azione risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 1, 2008, 1, F. Merusi, La tutela risarcitoria come strumento di piena giurisdizione, in www.giustizia-.amministrativa.it, 2020.
[47] Alb. Romano, Autonomia nel diritto pubblico, in Dig. Disc. Pubbl., 1987.
[48] G. Racca, La responsabilità della pubblica amministrazione e il risarcimento del danno, in R. Garofoli, G.M. Racca, M. De Palma, Responsabilità della pubblica amministrazione e risarcimento del danno innanzi al giudice amministrativo, Milano, 2003, 3 ss. Cfr. già Alb. Romano, Amministrazione, principio di legalità e ordinamenti giuridici, in Dir. Amm., 1999, 1, 111 ss. che osserva come si possa affermare che “per gli atti e comportamenti anche dell’amministrazione, e anche per quelli suoi pubblicistici, non possono non valere per essa doveri elementari e generalissimi” espressi dall’ordinamento generale: “quelli di buona fede, correttezza, rispetto dell’affidamento e così via”. “E neanche l’amministrazione, neppure con suoi atti o comportamenti pubblicistici, può arrecare ad altri un , ai sensi dell’art.2043 c.c.”; il che deriva dall’ascrizione dell’amministrazione all’ordinamento unitario. Peraltro, le norme di azione disciplinano l’esercizio dei poteri dell’amministrazione senza incidere sui limiti che le norme di relazione già a questi pongono, non concorrendo a determinare le relazioni che intercorrono tra questa e altri soggetti: Alb. Romano, Interesse legittimo e ordinamento amministrativo, in Atti del Convegno celebrativo del 150° anniversario della istituzione del Consiglio di Stato, Milano, 1983, 95 ss., Id., Giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa dopo la l. n.205 del 2000 (Epitaffio per un sistema), in Dir. proc. amm., 2001, 630.
[49] Cfr. anche E. Zampetti, Contributo allo studio del comportamento amministrativo, Torino, 2012, 224 ss.
[50] Cfr. Cons. St., Ad. plen. 4 maggio 2018 n. 5, che ricorda come: “ La giurisprudenza, sia civile che amministrativa, ha, infatti, in più occasioni affermato che anche nello svolgimento dell'attività autoritativa, l'amministrazione è tenuta a rispettare non soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l'invalidità del provvedimento e l'eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell'interesse legittimo), ma anche le norme generali dell'ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull'interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell'altrui scorrettezza”.
[51] L. Lorenzoni, I principi di diritto comune nell’attività amministrativa, Napoli, 2018.
[52] Cfr. F. Patroni Griffi, Diritti fondamentali e riparto di giurisdizione, in www.giustizia – amministrativa.it, 2017.
[53] Cfr. Alb. Romano, Giurisdizione amministrativa e limiti della giurisdizione ordinaria, Milano, 1975, R. Cavallo Perin, Giurisdizione Ordinaria e Pubblica Amministrazione: l. 20 marzo 1865, n. 2248. Abolizione del contenzioso amministrativo, art. 2 sez. II, Il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, in Commento Breve alle Leggi sulla Giustizia Amministrativa, III ed., a cura di Alb. Romano, R. Villata, Padova, 2009, 16 ss., M. Mazzamuto, Il riparto di giurisdizione. Apologia del diritto amministrativo e del suo giudice, Napoli, 2008.
[54] Per un’autorevole posizione di segno contrario alla pluralità delle giurisdizioni, cfr. L. Ferrara, Il giudice amministrativo come risorsa o come problema? in www.questionegiustizia.it, 2021, 1 e v. Id., Statica e dinamica dell’interesse legittimo: appunti, in Dir. amm., 2013, 3, 465.
[55] Su cui v. ampiamente A. Police, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo. Profili teorici ed evoluzione storica della giurisdizione esclusiva nel contesto del diritto europeo, Padova, vol. I, 2000, vol. 2, 2001. Cfr. anche G. De Giorgi Cezzi, Processo amministrativo e giurisdizione esclusiva: profili di un diritto in trasformazione, in Dir. proc. amm., 2000, 3, 696.
[56] Sui rischi della “patrimonializzazione” dell’interesse legittimo e della trasformazione del g.a. in giudice dei diritti, v. F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in www. giustiziainsieme. it, 2021. Cfr. ancora M. A. Sandulli, La “risorsa” del giudice amministrativo, in www.questionegiustizia.it, 2021, 1, G.E. Gallo, Attualità del giudice amministrativo, in www. giustiziainsieme .it, 2021. V. già le preoccupazioni espresse da A. Romano Tassone, Giudice amministrativo e risarcimento del danno, su ww.lexitalia.it. Per ulteriori riflessioni sull’attuale ruolo del g.a. cfr. ad es. G. Montedoro, E. Scoditti, Il giudice amministrativo come risorsa, ivi, F. Patroni Griffi, Contributo al dibattito sul giudice amministrativo come risorsa, ivi, A. Travi, Il giudice amministrativo come risorsa? Ibidem,
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