ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Immagine politica e sostanza concettuale nella tassazione minima dei gruppi multinazionali
di Raffaello Lupi
Sommario: 1. Tassazione minima delle multinazionali tra effetti annuncio e problemi concettuali - 2. Frammentazione societaria dei gruppi multinazionali - 3. Logiche generali della tassazione internazionale dei redditi delle società del gruppo (pianificazione, elusione e concorrenza fiscale sleale) - 4. La “minimum tax “ come livello di tassazione e problemi di effettività.
1. Tassazione minima delle multinazionali tra effetti annuncio e problemi concettuali
Dietro quello che tutti i mezzi di comunicazione, e gli uffici stampa dei governi, presentano come giro di vite sulla tassazione dei gruppi multinazionali, non c’è un preciso documento politico, una dichiarazione congiunta sulle finalità dell’operazione. Non ci sono cioè dettagli dell’accordo politico cui fa riferimento il documento tecnico sul sito OCSE, a questo link https://www.oecd.org/tax/beps/statement-on-a-two-pillar-solution-to-address-the-tax-challenges-arising-from-the-digitalisation-of-the-economy-july-2021.pdf. Esso è già molto preciso nelle indicazioni, persino in alcuni dettagli, ma è assertivo, senza esaminare la possibilità di raggiungere gli stessi obiettivi con strumenti più semplici, nel quadro dei principi di tassazione societaria internazionale indicati ai punti successivi. Abbiamo quindi da un lato enunciazioni politico mediatiche quantomeno generiche e dall’altro un tecnicismo asettico. Sullo sfondo si concepisce la presentazione antropomorfica delle aziende multinazionali, confuse con i loro titolari, che invece spesso mancano del tutto, in quanto non ci sono certo da qualche parte il signor Nestlè o il signor Apple, per non dire i due soci signor Coca e signor Cola. Viene cavalcata politicamente la visione personalistica delle aziende, come artigiani o piccoli commercianti troppo cresciuti, anche da parte di economisti guru del pensiero liberal , con un semplicismo uguale e contrario a quello liberista (concetto opposto a quello di liberal) sull’autosufficienza del mercato. Le aziende vengono viste come moderni Paperoni anziché come gruppi di migliaia o decine di migliaia di persone, aggregate dalla produzione di merci o di servizi, che ne limitano l’orizzonte, tanto che molti comunicati stampa di aziende multinazionali hanno persino plaudito al quadro confusionario che si sta delineando sul nostro tema. È la conferma, qualora ce ne fosse bisogno, del business as usual, lo stesso atteggiamento con cui le aziende si sono poste di fronte alle possibilità di pianificazione fiscale internazionale, ritenendo doveroso profittare di tutte le scappatoie legali per ridurre il carico tributario. Sia la pianificazione fiscale internazionale, sia l’accettazione del ruolo di capro espiatorio del malessere delle società occidentali confermano la mancata consapevolezza delle aziende di essere gruppi sociali pluripersonali e la loro incapacità di esprimere una loro weltanschauung (salvo il capitalismo renano giapponese, più istituzionalizzato di quello finanziario anglosassone e familiare italiano ). La tassazione minima al 15% è un episodio di queste incomprensioni culturali, con riflessi farseschi di cui ai punti successivi.
2. Frammentazione societaria dei gruppi multinazionali
Invece di divagare pro o contro le aziende multinazionali bisogna mettere alcuni punti fermi per il giurista non tributarista cui è indirizzata Giustizia insieme. Prima di tutto si tratta di questioni interpretative, collegate alla ricerca del regime tributario più conveniente su operazioni aziendali registrate, senza evasioni in senso materiale, cioè rappresentazioni alterate degli eventi aziendali, ad esempio mancata registrazione di ricavi o annotazione di documenti fittizi; questi comportamenti sono semplicemente incompatibili coi controlli interni delle aziende pluripersonali, dove la proprietà non si occupa della gestione, o è addirittura diluita tra migliaia di piccoli azionisti, come indicato al punto 1. I vantaggi fiscali delle multinazionali riguardano invece il regime giuridico di flussi economici palesi, risultanti dai bilanci, riguardanti solo le imposte sui redditi e connesse spesso agli scoordinamenti tra sistemi fiscali dei vari paesi coinvolti. Tali scoordinamenti tra regimi tributari possono essere sfruttati opportunisticamente dai gruppi multinazionali in quanto essi non costituiscono un soggetto unitario di diritto. I gruppi sono infatti frammentati tra una pluralità di società giuridicamente autonome, residenti in stati diversi. Ciò accade per ragioni di praticità, benchè l’organizzazione complessiva consideri sé stessa, nella sostanza economico-gestionale, un’unica entità mondiale. La frammentazione del gruppo in tante società, giuridicamente autonome in ogni ordinamento nazionale in cui operano, ha molteplici ragioni. Una di esse era costituita dalle frontiere commerciali, dogane e dazi, con conseguente necessità di decentrare la produzione in siti industriali specifici per i mercati di sbocco. Questa necessità è meno pressante con la globalizzazione, ma restano motivi innumerevoli per strutturare i gruppi multinazionali in società autonome; ci sono ad esempio le limitazioni di responsabilità, fino alla praticità di interlocuzione con le istituzioni nazionali, compresi i tribunali, ed eventuali partners locali, omogenei per lingue e mentalità. Questi motivi di praticità operativa, di vendita e di logistica, benché alleggeriti dall’utilizzazione di internet, spingono ancora oggi alla divisione giuridica dei gruppi multinazionali in società autonome nazionali, legate da un rapporto di controllo, diretto o indiretto, cioè a catena, alla capogruppo. Con questa modalità organizzativa delle aziende in questione deve ancora oggi fare i conti l’imposizione tributaria, come indicato al prossimo paragrafo.
3. Logiche generali della tassazione internazionale dei redditi delle società del gruppo (pianificazione, elusione e concorrenza fiscale sleale)
Il gruppo multinazionale, per i motivi indicati al paragrafo precedente, è molto affidabile ai fini delle imposte sui consumi, come l’IVA sulle vendite a consumatori finali che acquistano online da aziende come Amazon. Le pianificazioni tributarie derivano invece da un’allocazione accorta, tra le società appartenenti al gruppo, delle componenti reddituali positive e negative in cui si articolano i flussi reddituali delle società del gruppo, vista la frammentazione di cui al punto precedente. La pianificazione spinge a massimizzare i costi attribuiti agli ordinamenti tributari con aliquota maggiore, ed i ricavi attribuiti a quelli con aliquota modesta o addirittura assente. I vincoli esterni sono la collocazione dei ricavi verso i clienti finali, i mercati di approvvigionamento delle materie prime e la materiale collocazione degli impianti produttivi. Una oggettiva convenienza tributaria si autoproduce anche quando le imposte sui redditi societari, nei paesi dove l’azienda è naturalmente collegata dai motivi suddetti, sono modeste o addirittura inesistenti; si pensi a molti paesi petroliferi o a paesi che esonerano da imposte societarie gli insediamenti produttivi, come gli stabilimenti, in quanto produttivi di sviluppo e know how per la manodopera locale, nonché di ritenute e contributi sociali su erogazioni a dipendenti e collaboratori.
Su queste premesse il reddito del gruppo multinazionale si frammenta, ai fini dell’imposizione tributaria, tra i vari ordinamenti nazionali suddetti; ciò porta ad un’aliquota fiscale effettiva sui redditi data dal rapporto tra imposte complessive dalle società del gruppo e il reddito totale del gruppo stesso, risultante dal bilancio consolidato, irrilevante ai fini tributari; a questo carico fiscale effettivo si riferisce l’aliquota del 15% proposta dall’OCSE. Per capire questo correttivo basta osservare cosa accadrebbe senza la frammentazione societaria di un al punto precedente; la tassazione del reddito di un’impresa unica multinazionale seguirebbe i due momenti logici tipici di ogni contribuente. In primo luogo si avrebbe l’imposizione sul reddito riferibile ai vari paesi di operatività aziendale, da parte di questi ultimi. In seconda battuta verrebbe l’imposizione nel paese di residenza, che accrediterebbe alla casa madre le imposte pagate nei vari paesi di produzione del reddito. È la logica, relativamente elementare, della sede centrale e delle stabili organizzazioni di un’azienda giuridicamente unitaria, che si modifica invece per la frammentazione in società nazionali, indicata al punto precedente. Il basso carico fiscale complessivo che ha tanto impressionato le opinioni pubbliche, trova comunque i suoi correttivi nel tempo; la capogruppo dovrà infatti prima o poi ad incassare i dividendi, nel qual caso molti ordinamenti, come quello statunitense, prevedono un conguaglio delle imposte pagate nei paesi esteri dalle società controllate, e l’imposta statunitense dovuta. È uno dei tanti elementi da cui si capisce che il problema della tassazione delle multinazionali è tecnicamente meno drammatico di come viene politicamente presentato.
4. La “minimum tax “ come livello di tassazione e problemi di effettività
L’aliquota del 15% non è quindi una imposta autonoma, ma un livello di tassazione medio derivante dal complesso delle imposte sui redditi delle società del gruppo. Nei disegni dell’OCSE il paese della capogruppo applicherà le proprie imposte sul reddito globale del gruppo, in modo che il carico fiscale medio sul reddito del gruppo sia pari al 15 percento; l’aliquota necessaria a tal fine, nel paese della capogruppo, è quindi variabile gruppo per gruppo, nella misura necessaria a raggiungere il livello globale del 15%. In questa prospettiva le imposte corrispondenti a tutti i paesi in cui si divide la filiera reddituale del gruppo saranno sommate, con corretti effetti di compensazione tra aliquote superiori e inferiori al 15%, non in assoluto, ma a seconda della fetta della torta reddituale spettante a ciascun paese (non si tratta cioè di una media delle aliquote delle società del gruppo, ma di una media ponderata in base al reddito di ciascuna).
Già da questo si comprende benissimo la possibilità di ciascun paese di procedere unilateralmente in questo senso, per tutte le società capogruppo, finali o intermedie, residenti nella sua sfera di sovranità fiscale, la c.d. tax jurisdiction. Quindi la necessaria multilateralità, cui enfaticamente si fa riferimento a livello mediatico-politico, è priva di giustificazioni tecnico-concettuali. Se alcuni paesi non aderiscono all’accordo, magari Ungheria, e qualche paese baltico, ciò riguarderà le società capogruppo in essi ubicate, ma non impedirà che i redditi ungheresi o baltici concorrano alla tassazione minima delle capogruppo di altri paesi. Sembra quasi che la tanto sbandierata multilateralità sia un pretesto politico per giustificare a posteriori la presumibile scarsa efficacia di una manovra farraginosa rispetto ad altri noti strumenti tecnici per raggiungere gli stessi risultati. Sembra quasi, in termini geopolitici, che gli USA della nuova amministrazione Biden vogliano dare un segnale ai vari movimenti che riferiscono lo slogan tax the rich alle organizzazioni aziendali pluripersonali (sopra punto 1) anziché alle persone fisiche che ne sono titolari. Le amministrazioni fiscali degli stati in cui risiede la casa madre sono infatti perfettamente al corrente delle pianificazioni fiscali poste in essere dai gruppi multinazionali, come nel caso Apple , in cui il vero danneggiato, assolutamente consapevole, fu il fisco USA , come spiegato nel video su youtube dal titolo PARADISI FISCALI? Il caso FCA |Raffaello Lupi , Gianluigi Bizioli. Consentire queste pianificazioni serve come agevolazione fiscale selettiva, molto meno costosa, e più discrezionale, di agevolazioni fiscali generalizzate. Oggi, evidentemente, l’amministrazione liberal di Biden , pur potendo a rigore procedere in via unilaterale, cerca di mediare tra varie tendenze politiche USA, da una parte i suoi sostenitori occupy wall street e dall’altra wall street e relative lobbies. Una mediazione, per dire di fare senza fare, è appunto la pretesa multilateralità, di cui giuridicamente non c’è alcun bisogno. Spero di sbagliarmi a pensare male, ma viene il sospetto di un gigantesco alibi, costruito perché ogni stato, USA in prima fila, possa proclamare “io lo farei, ma lo dobbiamo fare tutti e ci sono altri che non lo fanno”. Tuttavia, sempre sul piano politico, e di giustizia fiscale, questo nuovo clima limiterà di fatto la connivenza statunitense verso pianificazioni fiscali aggressive come quelle indicate sopra. La domanda che sorge spontanea è però se c’è bisogno di sconquassare il sistema di tassazione internazionale per consentire all’amministrazione USA di gestire al meglio la propria pubblica opinione. È infatti possibile contrastare le tecniche di pianificazione fiscale delle aziende multinazionali senza complicate attrazioni alla casa madre di tutti i redditi mondiali, magari in società dove la partecipazione non è al 100% ma ci sono soci di minoranza. Si tratta, ripetiamo, di pratiche alla luce del sole, verso le quali basta far funzionare i controlli a valore normale dei prezzi intragruppo tra le società dei gruppi multinazionali. Rispetto al controllo dei prezzi di trasferimento e dei costi attribuiti alle società del gruppo da parte di altre, ubicate in paesi a bassa tassazione o comunque agevolate, la considerazione unitaria del gruppo come soggetto d’imposta è enormemente più complicata; essa infatti riguarda in buona parte vicende collocate all’estero, sfuggenti rispetto ai poteri di indagine degli uffici tributari, detrazioni di imposte estere di cui spesso non si conosce la natura, definitiva o meno, o il riferimento ai redditi o al patrimonio. Poi si tratta di conciliare l’imposta minima di conguaglio, necessaria a raggiungere il livello minimo di tassazione al 15%, con la distribuzione di dividendi, cui tutti i paesi già oggi accompagnano nuovi conguagli basati su vari parametri, dall’ubicazione della società erogante a tentativi di calcolo del carico fiscale effettivo a monte. Quest’imposta minima di conguaglio vanificherebbe poi i regimi fiscali strutturali previsti a regime in paesi in cui effettivamente si collocano le fonti di materie prime o gli stabilimenti in cui avviene l’attività d’impresa. Tali stati spesso si fanno pagare con diritti di vario tipo, come quelli di estrazione di minerali (petrolio), che non sarebbero considerati come imposte sui redditi ai fini del calcolo del 15 percento; inoltre si penalizzerebbe la genuina collocazione di fabbriche in paesi in via di sviluppo, come indicato al par.2, con un effetto anti-delocalizzazione anche positivo, ma estraneo agli obiettivi del diritto tributario.
Quest’enorme e velleitaria complicazione rafforza le perplessità di chi scrive sulla padronanza, da parte di un organo politico-economico come l’OCSE, di alcuni concetti di base giuridico-sociali sulla determinazione dei presupposti economici d’imposta. Proprio l’OCSE infatti ha fortemente pregiudicato i suddetti controlli dei prezzi di trasferimento intragruppo insistendo sul confronto esterno coi prezzi praticati tra parti indipendenti per operazioni similari, che però in genere mancano vista la profonda integrazione economica dei gruppi multinazionali; ne sono risultati paragoni assolutamente forzati con aziende esercenti attività solo apparentemente affini (sono comici per chi li conosce i c.d. set di comparables). Risultati molto più proficui avrebbero potuto derivare dall’individuazione e remunerazione delle funzioni produttive, nel c.d. confronto interno nella ripartizione della torta reddituale del gruppo. Una cosa che l’OCSE avrebbe potuto dire, ma non ha detto, è estendere il controllo dell’amministrazione fiscale della capogruppo alle operazioni a monte, non riguardanti direttamente lei, ma controllate indirette, non rettificate dagli stati di residenza.
L’astrattezza economicistico-burocratica dell’OCSE si vede anche nell’idea, presente nel documento citato all’inizio, tassare parte del reddito nei paesi in cui avviene esclusivamente il consumo, come suggeriscono taluni economisti fiscali (Devereux di Oxford). Si tratta di idee del tutto stridenti ed eterodosse rispetto alla riferibilità soggettiva dei presupposti economici d’imposta; il reddito richiede infatti un qualche contributo causale, legato alla sfera territoriale dello stato impositore. L’idea che anche il consumatore contribuisca alla produzione è invece surreale, un po' come pensare che il cibo si produca mangiandolo o i vestiti si producano indossandoli. Bisognerebbe chiedersi cosa pensano i produttori di questa nuova singolare divisione internazionale del lavoro, e cosa accadrebbe se tutti decidessero di svolgere il ruolo dei consumatori. La tassazione nello stato del consumo di una quota del redditp del produttore sarebbe infatti una variazione sul tema delle imposte sul consumo, precisamente una contorta versione reddituale dei dazi doganali. Il che dopotutto è accaduto con la farraginosa web tax, quando sarebbe stato molto più facile formalizzare la stabile organizzazione digitale integrando, anche per norma interna, le lacune delle convenzioni contro le doppie imposizioni. L’intera vicenda conferma le difficoltà della politica, dei mezzi d’informazione e delle varie burocrazie quando mancano adeguate spiegazioni sociali dei fenomeni da regolare.
Da minoranza a maggioranza: la diversità di genere influenza il processo decisionale?
di Maddalena Ronchi e Viola Salvestrini
Negli ultimi decenni, la magistratura italiana è stata protagonista di una marcata trasformazione in termini di composizione demografica. Dal 1965, anno in cui le prime otto donne entrarono a far parte della professione, vi è stato un progressivo incremento della partecipazione femminile in magistratura. Nel 1987, per la prima volta ci furono più donne che uomini tra i vincitori di concorso, ed è dal 2015 che il numero di donne in magistratura ha superato quello degli uomini. Oggi, il 54% dei magistrati è donna – e questa percentuale è probabilmente destinata ad aumentare nei prossimi anni, dal momento che le donne sono la maggioranza sia dei laureati in giurisprudenza che dei vincitori di concorso in magistratura. Sebbene le donne siano tuttora sottorappresentate negli organi più alti della magistratura (ad esempio, solo il 28% delle magistrate ricoprono incarichi direttivi, e il Consiglio Superiore di Magistratura è, per la grande maggioranza, composto da uomini), suggerendo quindi la presenza di un “soffitto di cristallo”, sembrerebbe solo una questione di tempo prima che la magistratura diventi, a tutti gli effetti, un organo “al femminile”. Viene dunque spontaneo chiedersi se e quali conseguenze questa progressiva trasformazione comporterà circa l’operato della magistratura stessa.
Sostenere infatti una equilibrata rappresentanza dei sessi negli organi decisionali, anche e soprattutto in magistratura, non è solo una questione di eguaglianza: “organi più equilibrati sotto il profilo del genere sono organi capaci di migliori decisioni e organi più attenti e sensibili”, come sottolineato da Marilisa D’amico, Professore ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Milano[1]. Il tema dell’equilibrio di genere appare infatti strettamente connesso alla funzionalità dell’organo. Tale concetto è stato ben messo in evidenza dal Giudice amministrativo, a proposito della composizione delle Giunte regionali e locali, affermando che “organi squilibrati nella rappresentanza di genere (…) risultano (…) potenzialmente carenti sul piano della funzionalità, perché sprovvisti dell’apporto collaborativo del genere non adeguatamente rappresentato” (TAR Lazio sent. n. 6673 del 2011). La differenza e la complementarità fra i generi costituiscono a tutti gli effetti una risorsa, per via “di tutto quel patrimonio, umano, culturale, sociale, di sensibilità e di professionalità, che assume una articolata e diversificata dimensione in ragione proprio della diversità del genere” (TAR Lazio sent. n. 6673 del 2011). Risorsa che viene a mancare nel momento in cui uno dei due generi non si trovi adeguatamente rappresentato. Dunque, se è condiviso e condivisibile, come sottolineato da Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale e professore emerito all'Università di Milano, e dalla Prof.ssa D’Amico, che “una giustizia in cui siano rappresentati sia donne che uomini è una giustizia migliore”[2] e che “una bassa presenza di donne all’interno di un organo incide negativamente sulla qualità delle determinazioni che quell’organo è chiamato ad assumere”[3], sarebbe importante verificare, dati alla mano, se la presenza sempre più numerosa delle donne in magistratura abbia influito sul modo di fare giustizia, e se una progressivamente ridotta presenza di uomini abbia effetti simili.
L’impatto della diversità di genere all’interno di un organo sul processo decisionale e sulla performance dello stesso è centrale nella letteratura scientifica, ed in particolare in quella economica. Studi hanno dimostrato che la presenza di donne all’interno di organi decisionali influenza le preferenze del gruppo, il processo decisionale e l’esito dello stesso[4]. Gruppi con una composizione più equa in termini di genere sembrano ottenere risultati migliori[5], ed avere diversi processi decisionali[6], un insieme di competenze più ampio[7] e stili diversi di corporate leadership[8] [8]. Tuttavia, l’evidenza scientifica sugli effetti della diversità di genere è limitata a pochi contesti, spesso circoscritti ad esperimenti di laboratorio dove le decisioni che il gruppo si trova a compiere sono di importanza marginale; oppure, nei casi in cui tali decisioni siano invece rilevanti, variazioni nella diversità di genere del gruppo raramente emergono spontaneamente – si pensi, ad esempio, alle quote rosa. Dunque, l’evidenza fornita dagli studi esistenti non sembrerebbe poter essere facilmente estesa al contesto della magistratura italiana.
Il nostro progetto di ricerca si propone di colmare questa lacuna nella letteratura studiando gli effetti della diversità di genere all’interno dei Tribunali Italiani, nelle istanze in cui questi operano collegialmente. Il contesto dei tribunali collegiali è particolarmente idoneo allo studio dell’impatto della diversità di genere all’interno di un organo decisionale per tre principali motivi.
In primo luogo, ci consente di verificare se collegi che si trovano a deliberare su reati comparabili raggiungano decisioni diverse a seconda della loro composizione di genere (mista o omogenea) e, ove ciò avvenga, se tale effetto sia diverso per gruppi omogenei composti da sole donne o da soli uomini. Affinché sia possibile attribuire con precisione tali effetti alla composizione di genere del gruppo, occorre che questa sia casuale; ciò è garantito grazie all'assegnazione predeterminata, e soprattutto indipendente dal loro genere, dei magistrati ai collegi, per quei reati che ne prevedono l’istituzione. In secondo luogo, il contesto giudiziario offre l'opportunità di esaminare empiricamente se la diversità di genere di un collegio influisca sulla tenuta di una sentenza, stimando la probabilità che questa venga confermata o riformata in appello, e comprendere se ciò dipenda anche dalla composizione del collegio che delibera in secondo grado. Infine, traendo vantaggio dal marcato cambiamento demografico tuttora in atto, abbiamo la possibilità di studiare il processo decisionale in contesti in cui gli uomini e le donne possono rappresentare, di volta in volta, sia la maggioranza che la minoranza, fornendo nuove testimonianze sugli effetti della transizione da un'occupazione esclusivamente maschile a un'occupazione dominata dalle donne.
Grazie alla disponibilità dei Presidenti di alcuni Tribunali, che hanno accettato di collaborare a questo ambizioso progetto, analizzeremo un elevato numero di sentenze penali emesse in composizione collegiale degli ultimi 20 anni. In tal modo, saremo in grado di sfruttare variazioni temporali nella composizione in termine di genere dei collegi giudicanti. Inoltre, grazie alla presenza di diverse sezioni, potremo restringere l’analisi a reati comparabili e, al tempo stesso, capire se eventuali risultati sono specifici a un particolare reato o se invece sono comuni a più reati. Il nostro metodo di ricerca, basato su consolidate e comprovate tecniche econometriche, ci permetterà dunque di confrontare collegi che deliberano su uno stesso reato e in condizioni comparabili (ovvero, stesso tribunale, tipologia di reato, simili caratteristiche dei giudici, e così via), ma che hanno differenti composizioni di genere, in modo tale da essere in grado di attribuire eventuali differenze nei processi decisionali proprio a quest’ultime.
Sebbene le decisioni che i collegi, ed i magistrati tutti, si trovano a prendere siano estremamente complesse e i fattori in gioco molteplici, riteniamo che la nostra analisi, basata su metodologie econometriche già utilizzate nel contesto giudiziario, possa aiutare a comprendere e quantificare l’importanza di una rappresentazione equilibrata in termini di genere, nella magistratura ed altrove. Poiché la segregazione occupazionale di genere non solo non è equa, ma non è neppure efficiente – sia in istanze in cui le donne siano sottorappresentate, sia in istanze in cui gli uomini lo siano.
Chi fosse disponibile a collaborare a questo progetto di ricerca, può contattarci ai seguenti indirizzi: v.salvestrini@qmul.ac.uk e maddalena.ronchi@unibocconi.it. Consapevoli della natura sensibile dei dati contenuti nelle sentenze, vorremmo chiarire quanto segue: a) la nostra ricerca non è attinente ai dati dell’imputato, che quindi potranno essere anonimizzati; b) l’analisi si baserà su un grande numero di sentenze aggregate tra loro e non sarà possibile, sulla base dei risultati, identificare né una particolare sentenza né i giudici coinvolti; c) i dati saranno conservati su un server sicuro messo a disposizione da Queen Mary University of London. Per la realizzazione di questo progetto, abbiamo ricevuto un assegno di ricerca dall’Istituto Einaudi per l’Economia e la Finanza (EIEF). L'EIEF è un Istituto di Ricerca fondato dalla Banca D'Italia nel 2008.
[1] M. D'Amico, C. M. Lendaro e C. Siccardi, Eguaglianza di genere in Magistratura: quanto ancora dobbiamo aspettare?, Franco Angeli, 2017, p. 24.
[2] V. Onida, «La parità di genere in magistratura: tra eguaglianza e differenza,» in Eguaglianza di genere in Magistratura: quanto ancora dobbiamo aspettare?, Franco Angeli, 2017, p. 28.
[3] M. D'Amico, «Magistratura e questione di genere: alcune riflessioni sulla (necessaria) presenza femminile nel Consiglio Superiore della Magistratura,» Forum di Quaderni Costituzionali, n. 4, 2020, p. 386.
[4] G. Azmat, «Gender diversity in teams,» Iza World of Labor.
[5] S. H. Hoogendoorn, Oosterbeek e M. v. Praag, «The impact of gender diversity on the performance of business team: Evidence from a field experiment,» Management Science, vol. 59, n. 7, pp. 1514-1528, 2013.
[6] J. Apesteguia, G. Azmat e N. Iriberri, «The impact of gender composition on team performance and decision-making: Evidence from the field.,» Management Science, vol. 58, n. 1, pp. 78-93, 2012.
[7] D. Kim e L. Starks, «Gender diversity on corporate boards: Do women contribute unique skills?,» American Economic Review, vol. 106, n. 5, pp. 267-271, 2016.
[8] D. A. Matsa e A. Miller., «A female style in corporate leadership? Evidence from quotas.,» American Economic Journal: Applied Economics, vol. 5, n. 3, pp. 136-169, 2013.
Illegittima erogazione dei bonus Covid e protezione dati personali. Il sindacato del Garante sulle modalità di organizzazione della verifica della spettanza.
di Domenico Bottega
Sommario: 1. Premessa - 2. La vicenda - 3. La condotta contestata - 4. Le violazioni alla normativa in materia di protezione dei dati personali - 4.1. Le violazioni del principio di liceità, correttezza e trasparenza del trattamento - 4.2. La pianificazione dei controlli - 4.3 Il principio di responsabilizzazione - 5. Conclusioni.
1. Premessa
Una “fuga di notizie” relativa alla presentazione della richiesta per il cosiddetto “bonus Covid” da parte di cinque deputati ha puntato il riflettore, nel corso dell’estate 2020, sul trattamento dei dati personali svolto dall’INPS per l’erogazione di tale indennità, trattamento su cui il Garante per la protezione dei dati personali ha ritenuto opportuno aprire un procedimento.
Benché l’Authority abbia espresso alcune perplessità sul convincimento dell’Istituto per cui l’origine delle indiscrezioni non fosse da individuarsi nel personale in forze all’INPS stesso[1], altro non ha potuto fare – così scrive – che “limitarsi alle dichiarazioni rese dal titolare, che fanno fede a tutti gli effetti fino a querela di falso” e circoscrivere la propria istruttoria alle modalità con cui i dati dei richiedenti sono stati trattati.
L’esito dell’indagine svolta dal Garante è presto detto: è risultato accertato che l’INPS avrebbe sottovalutato i rischi della propria attività, non l’avrebbe pianificata a dovere e sarebbe quindi incorso in plurime violazioni dei principi sanciti nel G.D.P.R.
Scopo di questo contributo è allora quello di approfondire la condotta dell’Ente previdenziale per comprendere se e in che misura la stessa abbia violato la disciplina di settore.
2. La vicenda
Per non poco tempo il dibattito pubblico dell’estate 2020 è stato occupato dalla discussione sul fatto che alcuni “politici”[2] avessero presentato domanda all’INPS per l’erogazione di quel bonus (inizialmente di 600 euro, poi innalzato a 1.000) varato per sostenere i redditi dei lavoratori autonomi.
La notizia, riportata inizialmente dal quotidiano La Repubblica il 9 agosto 2020, non conteneva i nomi di chi avesse presentato tale istanza, ma le informazioni riportate erano non poco circostanziate: la stampa scriveva di cinque deputati e di un gran numero (oltre duemila) tra sindaci, consiglieri comunali e regionali (addirittura – si diceva – vi sarebbe stato qualche Presidente di Giunta regionale) tra i richiedenti.
Il clamore e la pubblica indignazione che ne sono seguiti hanno funzionato a mo’ di ricatto per i diretti interessati, che, in alcuni casi, si sono “autodenunciati” pubblicamente, con conseguenze di non poco conto: per alcuni di questi, infatti, l’aver presentato la richiesta di accedere al bonus (al di là, poi, di averlo ricevuto o meno e, nel primo caso, di essere disposti a restituirlo) ha comportato l’esclusione dalle liste dei candidati delle elezioni regionali che si sono celebrate nel successivo mese di settembre, senza contare l’impatto mediatico derivante dalla divulgazione di queste indiscrezioni in prossimità del referendum costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari, tenutosi sempre nel mese di settembre.
Ebbene, il provvedimento sanzionatorio dell’Autorità Garante per la protezione dei dati che, in questa annotazione, si cercherà di commentare prende le mosse da qui: lo stesso, però, non si occupa della diffusione della notizia[3], bensì delle ragioni per cui l’INPS si sia occupato di verificare se alcuni dei soggetti sopra menzionati avessero presentato domanda per il bonus e delle modalità con cui sono stati trattati i relativi dati personali.
Come si è anticipato, l’esito dell’istruttoria è stato infausto per l’INPS, riconosciuto quale autore di plurime trasgressioni alle prescrizioni contenute nel G.D.P.R. nell’ambito del trattamento predetto: il Garante ha infatti ritenuto accertati la violazione dei principi di liceità, correttezza e trasparenza del trattamento[4], di minimizzazione dei dati[5], di esattezza[6], di responsabilizzazione[7], dell’obbligo di effettuare la valutazione d’impatto sulla protezione dei dati[8], nonché la mancata protezione dei dati personali fin dalla progettazione e per impostazione predefinita[9].
Su tutti questi profili ci si concentrerà ora partitamente, non prima di aver fornito qualche dettaglio in più sulla condotta tenuta dall’INPS.
3. La condotta contestata
Come noto, il D.L. n. 18/2020 (cosiddetto “Decreto Cura Italia”)[10] ha attribuito ai liberi professionisti titolari di partita iva attiva[11], ai lavoratori titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa[12], ai lavoratori autonomi[13], ai dipendenti stagionali del settore del turismo[14], agli operai agricoli[15] e ai lavoratori iscritti al Fondo pensioni Lavoratori dello spettacolo[16] il diritto a percepire il cosiddetto “bonus Covid”[17], un’indennità economica finalizzata a contenere i danni risentiti a causa dell’emergenza economica e sociale conseguente alla pandemia da Covid-19.
È emerso che l’INPS abbia erogato il “bonus Covid” a tutti i richiedenti che avevano superato i cosiddetti “controlli di primo livello”, effettuati mediante procedure informatiche basate sul confronto automatico tra le informazioni fornite dall’istante nella domanda con quelle presenti nelle banche dati detenute dall’Istituto.
Solo in un secondo momento – successivo all’erogazione dell’indennità – l’INPS ha proceduto coi “controlli di secondo livello”, effettuati dalla propria “Direzione centrale antifrode, anticorruzione e trasparenza”, la quale si è concentrata su tutte quelle situazioni che potevano essere state non rilevate nella prima fase della procedura: come si è detto, questa seconda verifica è stata effettuata a valle dell’erogazione, al fine di non ritardare la liquidazione dei bonus, considerato il contesto di crisi economica causata dal blocco delle attività produttive.
L’oggetto del procedimento sanzionatorio del Garante sono stati proprio i “controlli di secondo livello” effettuati sulla posizione dei parlamentari e dei titolari di cariche presso le amministrazioni locali e regionali.
In proposito, l’INPS ha dichiarato che la peculiarità delle posizioni dei parlamentari e degli amministratori regionali e locali ha richiesto specifici approfondimenti per verificare la spettanza del bonus, in considerazione della singolare situazione previdenziale di tali categorie di soggetti e, con specifico riferimento agli amministratori locali, “sia in ordine alla natura dell’iscrizione di tali soggetti ad altre forme di previdenza obbligatoria sia in ordine all’equiparazione della tutela assicurata dalle indennità percepite da tali soggetti rispetto a quella garantita da un reddito di lavoro dipendente”. Al riguardo, l’Istituto ha affermato che “in relazione a tale prima disamina e alle perplessità insorte in ordine alla spettanza del bonus, si è reso necessario comprendere se il problema fosse concreto, verificando se tra i soggetti percettori vi fossero anche parlamentari o titolari di cariche presso le amministrazioni locali e regionali”[18].
Tali verifiche sono state effettuate “con l’acquisizione dei dati anagrafici di deputati e amministratori regionali e locali dai dati aperti (open data) resi disponibili a chiunque, tramite le apposite pagine web messe a disposizione dalla Camera dei deputati (http://dati.camera.it/sparql) e dal Dipartimento per gli affari interni e territoriali del Ministero dell’interno (https://dait.interno.gov.it/elezioni/open-data/amministratori-locali-in-carica)”. A partire da queste informazioni l’INPS ha calcolato, in maniera automatizzata, il presunto codice fiscale che, successivamente, è stato posto in raffronto con quello indicato nelle domande presentate dai richiedenti il “bonus Covid”. All’esito di tale raffronto, l’Istituto ha accertato che tra i richiedenti vi erano anche deputati o soggetti titolari di incarichi di amministratori regionali o locali.
In contemporanea al raggiungimento di tale risultato da parte dell’Istituto è accaduto che tale notizia sia stata diffusa a mezzo stampa: il clamore mediatico suscitato, le numerose richieste di accesso agli atti pervenute all’INPS e l’apertura del procedimento del Garante hanno indotto l’Istituto a sospendere ogni attività di accertamento, “nel rispetto dei principi di precauzione e prevenzione”, e a “differire ogni valutazione in ordine alle richieste di ostensione e diffusione dei dati all’esito delle determinazioni” dell’Authority.
Così ricostruita la condotta tenuta dall’Amministrazione, è ora tempo di prendere in esame le singole contestazioni mosse dal Garante.
4. Le violazioni alla normativa in materia di protezione dei dati personali
Come si è anticipato, sei sono le violazioni emerse dall’istruttoria del Garante che l’INPS avrebbe commesso; vi è però un filo rosso che le accomuna tutte: l’assenza, prima dell’avvio del trattamento in questione, della predeterminazione della decisione circa la spettanza (o meno) del bonus Covid in capo ai titolari delle diverse tipologie di cariche politiche coinvolte.
Infatti, ciò che, a più riprese e sotto diversi profili, viene contestato all’INPS è l’assenza di un’adeguata progettazione del trattamento, indispensabile per assicurare, ed essere in grado di dimostrare, la conformità dello stesso al Regolamento.
Tale mancanza sarebbe ancor più grave perché commessa da un ente pubblico nell’ambito dell’esercizio dei propri legittimi poteri di controllo, la cui esecuzione ci si attende sia preceduta “da un’idonea valutazione dei rischi per i diritti e le libertà degli interessati e [dal]la conseguente adozione delle misure necessarie per mitigarli”.
4.1. Le violazioni del principio di liceità, correttezza e trasparenza del trattamento
Come si è anticipato, l’Authority ha ritenuto che “i trattamenti di dati personali necessari nell’ambito dei predetti controlli si sarebbero dovuti effettuare solo dopo aver superato le manifestate incertezze interpretative e avere quindi predeterminato, in astratto, la spettanza del bonus (non procedendo quindi all’incrocio dei dati prima di aver determinato la spettanza dell’indennità). Ciò, in quanto i trattamenti di dati personali per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri devono avvenire sulla base di un quadro normativo il più possibile chiaro e preciso la cui applicazione possa essere prevedibile per gli interessati (cfr. cons. 41 del Regolamento)”.
Agendo diversamente – sostiene il Garante –, la condotta dell’INPS si sarebbe posta in violazione del principio di liceità, correttezza e trasparenza del trattamento, di cui all’art. 5, par. 1, lett. a), del Regolamento.
Merita allora indugiare sul tema, onde comprendere se effettivamente la procedura svolta dall’INPS si sia posta in spregio del disposto recato dall’articolo appena menzionato.
Come è stato annotato da una certa dottrina, il principio di liceità, di primo acchito, potrebbe apparire quasi pleonastico[19], risultando superfluo consacrare in una norma ad hoc che il trattamento dei dati debba rispettare le norme sancite dalla legge e, in particolare, dal Regolamento.
Indagando più a fondo, tuttavia, ci accorge che l’art. 6 G.D.P.R. (rubricato “liceità del trattamento”) ha invero una portata concreta nel fissare i casi in cui il trattamento può dirsi lecito: si ha infatti una violazione del principio in parola nel momento in cui il trattamento dei dati non sia legittimato da alcuna della fattispecie elencate dall’art. 6 medesimo.
Così interpretata, ci si avvede come la norma non abbia una portata così ampia da finire per dover essere considerata ultronea, ma sia finalizzata a elevare a principio ciò di cui l’art. 6 è declinazione.
Come noto, il trattamento può dirsi lecito solo se: a) l’interessato ha espresso il suo consenso; b) il trattamento è necessario all’esecuzione di un contratto di cui l’interessato è parte; c) il trattamento è necessario per adempiere un obbligo legale al quale è soggetto il titolare del trattamento; d) il trattamento è necessario per la salvaguardia degli interessi vitali dell’interessato o di un’altra persona fisica; e) il trattamento è necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento; f) il trattamento è necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi.
Nel caso che ci riguarda il Garante rinviene unicamente nell’“esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento” (art. 6, par. 1, lett. e]) la base legittimante l’attività dell’INPS, non risultando invocabile – come invece aveva tentato di fare l’Istituto – il “legittimo interesse” (art. 6, par. 1, lett. f]) alla prevenzione delle frodi: e ciò in quanto un soggetto che effettua un trattamento necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico non può avvalersi della condizione di liceità del legittimo interesse di cui all’art. 6, par. 1, lett. f), del Regolamento, come precisato dal considerando 47 del medesimo G.D.P.R.
La conclusione cui giunge il Garante in ordine all’individuazione della base legittimante il trattamento è condivisibile, non fosse altro perché l’art. 6, par. 1, ultimo periodo del G.D.P.R. chiarisce espressamente che le autorità pubbliche non possono invocare il “legittimo interesse” come fondamento di un trattamento effettuato nell’esecuzione dei propri compiti.
Ma, una volta chiarito che l’attività di controllo – di primo e di secondo livello – svolta dall’INPS deve essere annoverata entro l’ambito dell’esecuzione di un pubblico potere (e, in particolare, può essere vista come necessaria al fine di reprimere indebiti accessi a indennità economiche da parte di chi non ne ha diritto), pare doversi dubitare che la stessa sia da considerarsi illecita[20].
Anche a volersi ammettere che l’assenza di un convincimento certo sulla spettanza del bonus ai parlamentari prima dell’inizio del trattamento dei dati abbia un rilievo in punto di liceità, tale circostanza al più potrebbe avere un rimbalzo nella valutazione della correttezza del trattamento.
Il principio di correttezza, intrinseco alla liceità ma da essa distinto in ragione della specificità che esso assume”[21], sembra riconducibile, cercando concetti noti alla nostra cultura giuridica, alla regola di buona fede, la quale impone al titolare del trattamento di porre in essere “tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendono necessari alla salvaguardia” dell’interessato, “nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico”[22] in ogni fase del rapporto, dalla raccolta, all’elaborazione fino alla conservazione dei dati.
Il quesito da porsi è quindi se possa ritenersi – più che illecita – scorretta la condotta di quell’Amministrazione che, nutrendo un forte sospetto sulla spettanza di una certa indennità in capo ad alcuni soggetti, decida, nelle more che si sia formato un convincimento definitivo sul punto, di valutare se tale fattispecie effettivamente ricorra o meno[23].
Perché, in altre parole, questo è ciò che viene contestato all’INPS: che questi abbia iniziato il trattamento in esame prima che fosse prestabilita la spettanza del bonus Covid a parlamentari e amministratori locali. Anzi, da un punto di vista strettamente formalistico, sarebbe mancato, nel caso di specie, un “att[o], anche intern[o], legittim[o] in base alla normativa che disciplina l’esercizio dei compiti da parte dell’Istituto”, che si esprimesse sulla questione e che potesse costituire il presupposto per il successivo trattamento.
L’assenza di tale provvedimento pare essere decisiva nella valutazione sull’eventuale violazione del principio di correttezza: ciò, tuttavia, solo per l’ipotesi in cui si possa affermare che l’INPS non ha adeguatamente pianificato i propri controlli, esponendo gli interessati ai rischi connessi a trattamenti non necessari.
Per comprendere quindi se vi sia stato un trattamento non tanto illecito quanto scorretto, si dovrà ora concentrarsi sulla pianificazione dei controlli e sulla disciplina relativa sancita dal Regolamento.
4.2. La pianificazione dei controlli.
Prima di scandagliare la condotta dell’Istituto, per quel che è possibile grazie agli elementi che emergono dal provvedimento sanzionatorio, pare opportuno concentrarsi su un aspetto innovativo contenuto nel Regolamento, che ha un’importanza centrale nel caso che ci riguarda: la progettazione del trattamento.
Rispetto alla normativa precedente, il G.D.P.R. segna un “cambio di rotta” sotto diversi profili: uno di questi è che il Regolamento, a differenza del Codice Privacy, non si fonda sul rispetto di numerosi obblighi di carattere squisitamente formale, bensì essenzialmente sul richiamo al principio dell’accountability, ossia l’adozione di “comportamenti attivi tesi a dimostrare l’effettivo rispetto del Regolamento”[24].
Tale condotta, che si concretizza nell’adozione di misure tecniche ed organizzative adeguate proprio al conseguimento dello scopo, si colloca in due precisi momenti: una prima fase preliminare, prodromica al trattamento, nella quale al titolare competono scelte ed oneri organizzativi e decisionali quali la predisposizione dei mezzi dei quali avvalersi, cui ne segue una seconda, operativa, in cui si concreta il trattamento vero e proprio.
Questa impostazione, che va sotto il nome di “privacy by design”, ha lo scopo di assicurare che le garanzie di protezione dei dati siano osservate dalla progettazione iniziale dei sistemi di trattamento fin ai loro successivi funzionamenti e sviluppi[25].
Tali prescrizioni sono contenute nell’art. 25 G.D.P.R., a mente del quale “il titolare del trattamento mette in atto misure tecniche e organizzative adeguate, quali la pseudonimizzazione, volte ad attuare in modo efficace i principi di protezione dei dati, quali la minimizzazione, e a integrare nel trattamento le necessarie garanzie al fine di soddisfare i requisiti del presente regolamento e tutelare i diritti degli interessati”: a ciò provvede “tenendo conto dello stato dell’arte e dei costi di attuazione, nonché della natura, dell’ambito di applicazione, del contesto e delle finalità del trattamento, come anche dei rischi aventi probabilità e gravità diverse per i diritti e le libertà delle persone fisiche costituiti dal trattamento, sia al momento di determinare i mezzi del trattamento sia all’atto del trattamento stesso”.
Come si vede, la disposizione non contiene, al di là della menzione della pseudonimizzazione, un’elencazione delle misure che devono essere adottate dal titolare: l’intento è quello che quest’ultimo non si reputi adempiente agli obblighi del G.D.P.R. per il sol fatto di aver adottato strumenti volti a garantire e ad accrescere la sicurezza della conservazione e della protezione dei dati[26], ma che sia consapevole di dover fare un quid pluris, che sta al medesimo titolare individuare in cosa si concretizzi.
La privacy by design si sostanzia quindi in un approccio sistemico-gestionale, che ha come obiettivo finale quello di progettare sistemi di gestione dei dati in grado di ridurre, in senso selettivo e sostenibile, i rischi di data breach nei sistemi informativi: per fare ciò, è indispensabile che il trattamento dei dati sia preceduto da un’attività di design basata sul risk based approach e il goal oriented approach. In altre parole, la normativa eurounitaria non si è posta come obiettivo quello di ricercare dei rimedi ex post[27], quanto più che altro di imporre al titolare del trattamento di compiere un esame prudenziale delle attività che andrà a compiere e di adottare quelle misure di sicurezza – tecniche e organizzative – che garantiscono la protezione dei dati.
Insomma, non è possibile semplicemente affidarsi alle best practices del settore per assicurarsi un corretto sviluppo della progettazione: il titolare dovrà, infatti, secondo criteri di ragionevolezza e diligenza, valutare l’adeguatezza delle misure tecniche ed organizzative e garantire che esse tutelino al massimo le istanze degli interessati.
Oltre alle pseudonimizzazione di cui si è detto sopra, tra le tecniche di sicurezza cui il Regolamento conferisce carattere obbligatorio vi è anche la minimizzazione dei dati, ossia l’utilizzo solamente delle informazioni che sono necessarie rispetto alle finalità per cui il trattamento è svolto.
Ciò chiarito in via generale, è ora possibile tirare le fila su quanto è risultato accertato con riguardo alla condotta dell’INPS.
Dall’istruttoria condotta dal Garante sarebbe emerso che i controlli “di secondo livello” compiuti dall’Istituto avrebbero avuto a oggetto non solo i dati personali di coloro che hanno effettivamente percepito il bonus Covid, ma anche dei soggetti richiedenti che, a seguito di presentazione della relativa domanda, erano stati esclusi dal riconoscimento dell’indennità già all’esito dei controlli di primo livello.
Secondo quanto dichiarato, tale circostanza è stata determinata dal fatto che “la banca dati dell’Istituto relativa al bonus […] conteneva un insieme di dati disomogenei, che andavano dalle domande accolte, a quelle non ancora elaborate, a quelle in corso di riesame, ecc.” e, “posto che le istanze di accesso al bonus pervenute all’Istituto, da chiunque provenienti, compresi parlamentari, amministratori locali o regionali potevano trovarsi in una qualunque delle predette fasi di trattazione (accolte, non ancora elaborate, in corso di esame), l’incrocio dei dati doverosamente doveva essere globale […] senza escludere nulla all’esame dell’attività ispettiva”.
Da quel che ha dichiarato l’INPS sembra quindi che la verifica in ordine al fatto che l’istanza fosse stata presentata da un parlamentare o da un amministratore locale ovvero regionale si sia sommata alle altre in corso, non tenendosi in conto che la domanda poteva essere stata respinta per altre ragioni, indipendentemente dalla circostanza che il richiedente fosse titolare di un incarico tra quelli predetti.
A detta del Garante il trattamento risulterebbe esorbitare da quanto necessario rispetto alle finalità per le quali i dati sono trattati, ponendosi quindi in violazione del principio di minimizzazione di cui all’art. 5, par. 1, lett. c), del Regolamento, il quale impone di contenere i dati oggetto di trattamento a quelli indispensabili per il raggiungimento dello scopo perseguito[28].
Non solo. Come già anticipato sopra, l’Istituto ha proceduto alla raccolta di dati personali da banche dati esterne, detenute dalla Camera dei deputati e dal Dipartimento per gli affari interni e territoriali del Ministero dell’interno: mancando, tra i dati resi fruibili liberamente, il codice fiscale, l’Istituto ha proceduto a calcolarlo in autonomia, in base ai parametri contenuti nel d.m. 12 marzo 1974, n. 2227, e ha quindi operato un raffronto con quelli riportati dagli interessati nelle domande presentate per l’erogazione del “bonus Covid”.
Su tale modalità di calcolo il Garante rileva che esso potrebbe comportare errori, non tenendosi in conto i casi di cosiddetta “omocodia”, cioè di coincidenza, tra più interessati, di alcuni dati, che impone all’Agenzia delle Entrate di assegnare loro un particolare codice fiscale diverso da quello ottenuto mediante la procedura di calcolo.
Così riassunti la condotta tenuta dall’INPS e gli aspetti che della stessa rilevano ai fini della valutazione di eventuali violazioni del G.D.P.R., in particolar modo dell’obbligo di pianificare il trattamento, pare potersi affermare che solo per l’effetto di un esame parcellizzato e non globale del comportamento dell’INPS il Garante abbia potuto decidere nei termini anzidetti.
Vale la pena sgombrare subito il campo dalla questione relativa all’esattezza dei dati trattati.
Il rischio di omocodia paventato dal Garante, benché ovviamente esistente, è tuttavia di portata limitata (in Italia ci sarebbero all’incirca 30.000 persone che potrebbero condividere lo stesso codice fiscale) e, nonostante non possa negarsi che il metodo adottato dall’INPS avrebbe potuto condurre a errori, il Garante, sotto questo profilo, pare non tenere in conto che l’Istituto, una volta aperto il procedimento di verifica sul trattamento dei dati in questione, ha interrotto ogni attività e non ha mai portato a termine i controlli di secondo livello. L’Authority avrebbe dovuto accertare – cosa che invece non ha fatto – quali ulteriori adempimenti sarebbero stati messi in campo dall’INPS prima di pronunciare un provvedimento di revoca del contributo, adempimenti che avrebbero potuto includere anche meccanismi di correzione delle eventuali inesattezze (fermo restando, e questo è indubitabile, che le stesse non sono state preventivate a monte e che quindi un meccanismo correttivo avrebbe potuto essere adottato solo “in corsa”).
Al di là di questo profilo che, se pur discutibile, non pare dirimente, la contestazione relativa alla mancata pianificazione dei controlli risiede ancora una volta nel fatto di aver proceduto a trattare i dati dei parlamentari (e degli altri amministratori locali), senza aver prima accertato in via ultimativa se a questi spettasse il bonus oppure no.
Ridotta a questi termini, la questione sembra ricondursi a un’eventuale inversione logica del procedimento, dovendosi imputare all’INPS di aver prima voluto comprendere la portata del problema e poi acclarare se di un problema effettivamente si potesse discorrere.
Un approccio di questo tipo da parte del Garante, però, pare, oltre che fondato su presupposti in fatto erronei, estremamente miope, perché inevitabilmente finisce per osservare la fattispecie da lontano, senza metterne a fuoco i dettagli, concentrandosi solamente su una serie di aspetti di secondario rilievo, che assumono importanza solo perché vicini allo sguardo di chi giudica.
L’Authority, infatti, ha valorizzato, in sostanza, un solo elemento: la mancanza di un atto – ossia di un documento – in cui l’INPS abbia versato il proprio parere in ordine alla spettanza del bonus. Così facendo, però, è mancato qualsiasi tipo di accertamento sui “comportamenti attivi” tenuti dall’Istituto.
Pare evidente, dalla ricostruzione dei fatti che emerge dal provvedimento, che l’INPS ha agito seguendo binari paralleli, dovendo perseguire finalità diverse nella sua azione.
L’Istituto doveva infatti bilanciare, da un lato, l’interesse dei soggetti istanti a vedersi corrisposto il bonus nel più breve tempo possibile, pena l’inefficacia di una misura che fosse stata erogata a emergenza conclusa; dall’altro lato, l’INPS doveva evidentemente evitare di erogare il bonus a chi erroneamente ne aveva fatto richiesta.
Esauriti quindi i controlli di primo grado, in grado di rilevare i casi più evidenti di trasgressione, è iniziato il secondo livello di verifiche, processo che comunque non poteva avere una durata irragionevole, pena non solo la difficoltà per l’erario di recuperare le somme illegittimamente erogate e magari già impiegate dai beneficiari, ma anche la lesione dell’affidamento ingenerato in questi ultimi dall’erogazione e dalla mancata sollecita revoca del bonus stesso.
A fronte di un dato legislativo piuttosto incerto, che ha costretto l’INPS a chiedere un parere anche al Ministero del Lavoro, l’Amministrazione ha ritenuto opportuno – si appende dalla lettura del provvedimento – cominciare le attività di verifica sui parlamentari, e ciò sulla base del convincimento che essi non avessero diritto alla percezione del contributo.
Come rimarca il Garante, tale convincimento non è stato consacrato in alcun atto interno, ma è altrettanto vero che tale incombente non era necessario, dovendo i casi di revoca del bonus risultare dalla mera interpretazione del dato letterale legislativo.
Insomma, sembra che il sintomo dell’assenza di pianificazione sia stata l’incertezza della legge sul punto e la manifestazione che anche per l’INPS il tema non era chiaro, avendo l’istituto domandato un parere al Ministero (che peraltro ha tardato mesi prima di fornirlo).
È passata invece sotto silenzio l’efficienza di questa Amministrazione e l’efficacia della sua azione: l’INPS, infatti, senza attendere per lungo tempo un parere non necessario da parte di un altro ente, ha intrapreso quelle attività prodromiche al recupero dei contributi erogati a soggetti non legittimati a riceverlo: attività che è stata compiuta non sulla base dell’incertezza normativa, ma del convincimento dell’ente della correttezza dell’interpretazione che esso stesso vi aveva fornito.
Al di là quindi di alcuni profili di inesattezza nel trattamento dei dati (come, ad esempio, aver calcolato il codice fiscale in modo automatico) e di un loro utilizzo sovrabbondante rispetto alle finalità (costituito dal fatto di aver cercato se vi fossero dei parlamentari tra gli istanti, anche tra coloro che già erano stati esclusi all’esito dei controlli di primo livello), non sembra potersi affermare che sia mancata una pianificazione dei controlli da parte dell’INPS e che il Garante sia giunto a questa erronea conclusione valorizzando un elemento di fatto non decisivo (l’assenza di un atto interno che desse conto della spettanza del “bonus Covid” ai parlamentari).
Ciò detto, però, al fine di comprendere se effettivamente la condotta tenuta dall’INPS possa dirsi o meno conforme al G.D.P.R., deve verificarsi se la stessa sia in grado di superare l’esame dell’accountability, che, come si è detto, costituisce il core della disciplina contenuta nel G.D.P.R.
4.3 Il principio di responsabilizzazione
Come si evince da quel che si è detto, l’art. 25 del G.D.P.R. rappresenta a buon diritto “una tra le norme più ambiziose dell’intera riforma”, racchiudendosi qui uno tra i principali obiettivi del Regolamento: la responsabilizzazione del titolare.
Essa va intesa secondo una duplice accezione: come anticipazione responsabile di tutele, misure e procedure (responsabilizzazione vera e propria) e come rendicontazione, ossia dimostrazione di aver rispettato le regole.
Il principio è consacrato al secondo paragrafo dell’art. 5 del G.D.P.R., il quale individua l’oggetto della responsabilità nei principi di cui al primo paragrafo. In verità, come è stato sottolineato, “esso costituisce una forza sotterranea che informa di sé pressoché tutti gli istituti del Regolamento”: esso è “il verso nella cui direzione occorre applicare e interpretare le norme de qua”[29].
Pare quindi che esso costituisca il parametro migliore per testare la condotta dell’INPS: bisognerà quindi verificare se, come insegna l’art. 25 a proposito della privacy by design, l’Istituto si sia dimostrato responsabile (e responsabilizzato) prima del trattamento. Il controllo, collocandosi ex post, sarà quindi finalizzato a verificare se il titolare sia in grado di fornire prova non solo dell’an (ossia di aver adottato delle misure), ma anche del quomodo e del quantum, cioè dell’efficacia delle scelte compiute.
Per rispondere quindi al quesito se l’INPS abbia effettivamente omesso di pianificare i propri controlli, si deve ripartire da ciò che ha fatto l’Istituto, così come emerso nell’istruttoria.
Nel provvedimento in commento il Garante ricostruisce nei dettagli la condotta tenuta dall’INPS, concentrandosi in particolar modo su tutti quegli elementi fattuali che dovrebbero rendere palese che l’Istituto avrebbe agito in modo casuale, in assenza di un progetto a monte sui controlli da svolgere.
Risulterebbe infatti che il trattamento di dati personali in questione sia stato effettuato prima della fine del mese di maggio 2020[30], quindi – annota il Garante – in un momento anteriore a quando è stato chiarito in via definitiva se gli incarichi di parlamentare e di amministratore regionale o locale costituissero una condizione ostativa alla spettanza del bonus Covid.
L’Authority àncora il momento in cui sarebbe stata raggiunta una ragionevole certezza sulla questione alla data in cui è giunto il parere – richiesto dall’INPS – al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, pervenuto il 2 dicembre 2020 (ossia nel corso del procedimento), dando scarso rilievo al fatto che la Direzione Centrale Antifrode, Anticorruzione e Trasparenza dell’INPS era già giunta in autonomia alla medesima conclusione[31].
La ricostruzione così proposta non sembra però corretta.
L’INPS ha infatti dichiarato che “la Direzione Centrale Antifrode, Anticorruzione e Trasparenza, secondo un’interpretazione letterale della norma alla luce dei parametri costituzionali di riferimento, considerava la prestazione non spettante ai parlamentari ed ai titolari di cariche presso le amministrazioni locali”, ma che “la complessità delle questioni in gioco richiedeva un approfondimento da parte delle Direzioni amministrative competenti e del vigilante Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali”.
Non è dato sapere se la Direzione Centrale predetta abbia cristallizzato in un atto interno il proprio convincimento, ma pare che, per quanto oscura fosse la questione, ben avesse interpretato la normativa di settore e che, sulla base di ciò, abbia deciso di intraprendere i controlli di secondo livello relativamente alle categorie soggettive di cui si è detto.
Peraltro, il parere del Ministero non era certo presupposto necessario per le attività di recupero che l’INPS sarebbe andato poi a compiere: insomma, anche a fronte di un’opinione diametralmente opposta che il Ministero avesse formulato, nulla avrebbe vietato all’Istituto di ritenere prevalente – perché migliore – la propria interpretazione delle disposizioni rilevanti.
Non pare, poi, che si possa biasimare la scelta dell’INPS di cominciare l’attività di controllo nel più breve tempo possibile, considerando l’esito che tali controlli hanno: quello di recupero di somme già versate ai richiedenti, risultando quindi certamente preferibile per chi si è visto accreditare il bonus, così come per l’Istituto che deve procedere al recupero, che tale attività si svolga nell’immediatezza e non a distanza di parecchi mesi.
Quanto al principio di responsabilizzazione, il Garante scrive che, alla luce della documentazione prodotta nell’ambito dell’istruttoria, l’INPS non è stato, in generale, in grado di comprovare, con argomenti logici o prove di fatto, le ragioni delle decisioni assunte nell’ambito del complesso trattamento di dati personali effettuato, al fine di dimostrare all’Autorità il rispetto della normativa in materia di protezione dei dati personali secondo quanto previsto dal «principio di responsabilizzazione» (art. 5, par. 2 del Regolamento).
Prova di ciò si avrebbe dalle dichiarazioni rilasciate con riferimento, ad esempio, alla questione dell’individuazione dei casi di spettanza del bonus, cui si aggiungerebbe il fatto che quanto dichiarato nelle predette note non sarebbe supportato da un’adeguata documentazione atta a comprovare quali livelli decisionali sono stati coinvolti, le valutazioni effettuate, le ragioni sottese alle decisioni prese e le misure adottate in relazione al trattamento dei dati personali in esame.
Ad avviso di chi scrive, il giudizio del Garante sembra eccessivamente severo, considerati le risultanze istruttorie e il significato delle disposizioni che il titolare avrebbe violato.
Nella valutazione dell’eventuale violazione del principio di responsabilizzazione è necessario, come si è detto, porsi idealmente nel momento precedente l’inizio del trattamento e considerare le attività che in quel momento sono state messe in atto: con specifico riferimento alla condotta dell’INPS, si può dire che quest’ultimo, in quella fase prodromica, si trovava in una situazione di incertezza normativa, da un lato, e di necessità di operare un bilanciamento tra interessi, dall’altro.
Quanto a questo secondo profilo, l’INPS, incaricato per legge di gestire l’erogazione del bonus Covid, ha condivisibilmente soddisfatto l’interesse della platea di professionisti che attendevano la nota indennità programmando solamente un controllo di primo livello di tipo automatico, garantendo così la liquidazione del danaro in tempi rapidi; così facendo, peraltro, già ha fatto fronte al rischio di frodi, eliminando dalla platea dei beneficiari una parte dei richiedenti. Le situazioni personali che, invece, richiedevano un maggior livello di indagine sono state riservate a una seconda fase, nella quale si è posto il problema che qui ci riguarda. La questione relativa alla spettanza del bonus ai parlamentari risulta essere stata risolta dalla Direzione Centrale Antifrode dell’INPS, che, sulla base di quel risultato, ha proceduto alle verifiche su descritte.
Benché manchi agli atti un provvedimento in cui l’Istituto abbia dato conto del proprio parere in ordine alla spettanza del “bonus Covid” ai soggetti titolari di incarichi politici, è incontestato che a tale convincimento l’INPS sia giunto prima di cominciare il trattamento (e certamente non potranno avere un impatto sulla condotta tenuta dall’Istituto le ragioni che lo hanno condotto a questa conclusione, rilevando solamente che tale scelta sia stata compiuta prima di cominciare il trattamento, e non a valle).
Non sembra quindi potersi concludere che sia mancata una pianificazione delle attività di controllo, ma semmai che l’Istituto non sia stato in grado di costituirsi la prova dell’esistenza di un proprio parere sulla disciplina da applicare. Prova che, lo si ripete, si dubita che dovesse esistere, considerato che la pianificazione ben può risultare anche da comportamenti tenuti dal titolare del trattamento.
In ordine poi all’efficacia delle scelte compiute, poco dice il provvedimento, limitandosi a rilevare che sarebbe mancata a monte la scelta di domandare all’Agenzia delle Entrate i codici fiscali dei parlamentari (invece che procedere a un calcolo automatico degli stessi).
Al netto di tale superficialità, che certo non può essere scusabile (benché non risulti aver condotto a qualche errore), non sembra potersi predicare che l’essenzialità della pianificazione dell’INPS si sia riverberata in gravi violazioni del G.D.P.R.
5. Conclusioni
Essendo risultato indimostrabile che la diffusione delle notizie in ordine al fatto che alcuni parlamentari avevano presentato istanza per ottenere il cosiddetto “bonus Covid” fosse attribuibile dall’INPS, il Garante ha intrapreso un’indagine in ordine al relativo trattamento dei dati.
È risultato accertato, in modo peraltro condivisibile, che l’Amministrazione abbia compiuto degli errori, avendo proceduto a calcolare il codice fiscale dei parlamentari in modo automatico e in autonomia (senza tenere in conto il rischio di omocodia) e abbia compiuto un trattamento inutile, verificando se vi erano dei parlamentari e degli amministratori locali non solo tra coloro cui il bonus era stato erogato ma anche tra gli esclusi all’esito dei controlli di primo livello (avendo utilizzato una banca dati che sommava tutti gli istanti).
È stato tuttavia stabilito che l’INPS non avrebbe adeguatamente pianificato l’attività di controllo, non avendo predeterminato la spettanza del bonus in capo ai titolari di incarichi politici prima di verificare se alcuni di questi avevano presentato istanza. Tale conclusione, come si è detto, appare erronea in punto di fatto, non avendo il Garante tenuto in considerazione che la Direzione Antifrode era giunta a formulare un parere prima di procedere al trattamento.
Di più, dalla ricostruzione sopra esposta pare che l’INPS abbia agito in modo tutt’altro che casuale, abbia compiuto un’indagine legale sulla spettanza del contributo e, sulla base dei risultati cui è giunto, abbia cominciato il trattamento dei dati finalizzato a recuperare le elargizioni illegittimamente disposte.
Si rivela poi eccessiva la contestazione del Garante, sempre con riguardo alle lacune nell’attività di pianificazione, in ordine all’assenza di prova di quali livelli decisionali siano stati coinvolti dall’INPS, di che valutazioni in concreto esso abbia fatto e che ragioni abbia posto alla base delle decisioni prese. Anzi, un’affermazione di questa portata, che impone un surplus di pianificazione non richiesto dal G.D.P.R., sembra, ad avviso di chi scrive, un aggravamento procedimentale inutile, finalizzato più che altro alla precostituzione di una prova in capo al titolare dell’attività svolta, piuttosto che a verificare l’evidenza che quell’attività sia stata effettivamente svolta.
Un approccio di questo genere, focalizzato sugli adempimenti formali piuttosto che sulla valorizzazione dei comportamenti attivi, sembra una regressione al Codice Privacy, regressione che non tiene conto del progresso fatto dalla legislazione eurounitaria, la quale, anche attraverso il Regolamento, impone non atti formali ma condotte concrete, in grado di dimostrare l’effettivo e sostanziale rispetto del G.D.P.R. Condotte che nel caso di specie non si può dubitare che non vi siano state.
[1] Nel provvedimento in commento si può leggere che è “verosimile che l’origine della diffusione della notizia e dei nomi dei cinque deputati richiedenti il sussidio sia interna all’INPS, al tempo l’unico ente a conoscenza di tali informazioni a seguito dei controlli che essa sola stava effettuando”.
[2] Il riferimento è a membri della Camera dei deputati, di Consigli e Giunte regionali, provinciali e comunali.
[3] Con riferimento alla divulgazione degli esiti di tali controlli alla stampa, l’INPS ha dichiarato che, “nessuna attività di comunicazione a terzi è stata effettuata dall’Istituto in ordine all’attività ispettiva in essere”; circostanza che è stata più volte ribadita dall’Istituto, anche in sede di audizione parlamentare, nel corso della quale il Presidente ha precisato di aver informato, già a fine maggio, il Consiglio di amministrazione dell’Istituto dell’esito dei primi controlli effettuati.
[4] di cui all’art. 5, par. 1, lett. a), del Regolamento.
[5] di cui all’art. 5, par. 1, lett. c), del Regolamento (cfr. par. 6.2).
[6] di cui all’art. 5, par. 1, lett. d), del Regolamento (cfr. par. 6.3).
[7] di cui agli artt. 5, par. 2 e 24, del Regolamento (cfr. par. 6.6).
[8] di cui all’art. 35 del Regolamento (cfr. par. 6.5).
[9] di cui all’art. 25 del Regolamento (cfr. parr. 6.1 e 6.4).
[10] Il riferimento è ai suoi artt. 27, 28, 29, 30, 31 e 38.
[11] Non titolari di pensione e non iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie (così l’art. 27).
[12] Non titolari di pensione e non iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie (così l’art. 27).
[13] Iscritti alle gestioni speciali dell’Ago, non titolari di pensione e non iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie, ad esclusione della Gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (così l’art. 28).
[14] Nonché ai dipendenti degli stabilimenti termali che hanno cessato involontariamente il rapporto di lavoro nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2019 e la data di entrata in vigore del decreto, non titolari di pensione e non titolari di rapporto di lavoro dipendente (così l’art. 29).
[15] Impiegati a tempo determinato, non titolari di pensione, che nel 2019 abbiano effettuato almeno 50 giornate effettive di attività di lavoro agricolo (così l’art. 30).
[16] Con almeno 30 contributi giornalieri versati nell’anno 2019 al medesimo Fondo, cui deriva un reddito non superiore a 50.000 euro, e non titolari di pensione (così l’art. 38).
[17] Diritto subordinato per legge alla mancata titolarità di una pensione, all’assenza di iscrizione ad altra forma previdenziale obbligatoria, ovvero, nei casi in cui il diritto nascesse in virtù di un rapporto di lavoro dipendente svolto nell’anno 2019, all’insussistenza di un rapporto di lavoro dipendente alla data di entrata in vigore del decreto (17 marzo 2020).
[18] Si tornerà nel prosieguo a discutere sul fatto se l’INPS abbia commesso un’inversione logica, nel momento in cui ha deciso prima di verificare se vi fossero dei parlamentari tra i richiedenti il “bonus Covid” e poi di acclarare se questi avessero diritto a percepirlo; vale la pena subito anticipare che la tesi del Garante è che l’Istituto avrebbe dovuto agire in senso opposto, ossia prima accertarsi se i membri delle due Camere e gli amministratori locali e regionali avessero astrattamente titolarità a ricevere il bonus in parola e, di poi, in caso di esito negativo, cercare i trasgressori.
[19] Così Piraino, La liceità e la correttezza, in Panetta (a cura di), Libera circolazione e protezione dei dati personali, I, Milano, 2006, 750 (benché con riguardo alla disciplina previgente il G.D.P.R.).
[20] Del resto, come annota attenta dottrina, il riferimento al legittimo interesse del titolare è posto, nelle argomentazioni del regolatore, a presidio del soddisfacimento di interessi pubblici: così Bosa, Commento all’art. 6 del G.D.P.R., in Commentario del Codice civile diretto da E. Gabrielli, Delle persone – Leggi collegate, vol II, Milano, 2019, 132 s.
[21] Si veda Navarretta, Art. 11, in Nuove leggi civ., 1999, 251, per la quale “la loro distinzione … consiste nella diversità del precetto violato. Tramite la liceità il legislatore detta specifiche regole di condotta, il cui contenuto – di matrice integralmente eteronoma – è in toto determinato a priori. Tramite la correttezza il legislatore indica all’agente un canone generale cui deve attenersi la sua condotta, che rimane fondamentalmente libera, ma nel rispetto della clausola generale che colora tale autonomia di una connotazione discrezionale”.
[22] Vedi Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in Riv. dir. civ., 1983, I, 211.
[23] Lo si ripete: ammesso che tale convincimento non vi sia. Anche se, per quel che si dirà nel prosieguo, tale conclusione sembra da rifiutarsi.
[24] Montanari, Commento all’art. 25 del G.D.P.R., in Commentario del Codice civile diretto da E. Gabrielli, Delle persone – Leggi collegate, vol II, Milano, 2019, 524 ss.
[25] Tale approccio e la stessa formula privacy by design si devono ad Ann Cavoukian, Information and Privacy Commissioner dell’Ontario, che già negli Anni ‘90 elaborò questi concetti. L’autrice canadese scrive che “Privacy by Design advances the view that the future of privacy cannot be assured solely by compliance with regulatory frameworks; rather, privacy assurance must ideally become an organization’s default mode of operation”: cfr. Cavoukian, The 7 Foundational Principles, in https://www.ipc.on.ca/wpcontent/uploads/Resources/7foundationalprinciples.pdf . I concetti di privacy by design sono stati poi oggetto di discussione in seno alla Conferenza mondiale dei Garanti per la protezione dei dati personali tenutasi a Gerusalemme il 27-29 ottobre 2010, all’esito della quale è stata adottata una Resolution on Privacy by design, nella quale sono stati adottati i “sette principi” elaborati da Cavoukian. Essi sono: 1. Proactive not Reactive; Preventative not Remedial; 2. Privacy as the Default; 3. Privacy Embedded into Design; 4. Full Functionality: Positive-Sum, not Zero-Sum; 5. End-to-End Lifecycle Protection; 6. Visibility and Transparency; 7. Respect for User Privacy. La risoluzione è disponibile sul sito del Garante: https://www.garanteprivacy.it/documents/10160/10704/1807346.pdf/e2a585d9-7863-468c-81f5-0d5c57815b54?version=1.0 Sull’importanza del concetto di privacy by design e sulle sue ripercussioni, si veda quel che afferma la dottrina tedesca, in particolare Martini, in Paal, Pauly, Datenschutz-Grundverordung Bundesdatenschutzgesetz, München, 2018, 319, sub Art. 25: “Das Konzept „privacy by design” setzt entspr. auf der Erkenntnis auf, dass sich der Schutz informationeller Selbstbestimmung am besten sicherstellen lässt, wenn er bereits in die Programmierung und architektonische Konzipierung der Datenverarbeitungsvorgänge sowie der Datenverarbeitungstechnik integriert ist und bei deren Entwicklung Berücksichtigung findet“.
[26] Ci si riferisce qui alle Privacy Enhancing Technologies (PET), ossia quelle tecniche finalizzate alla minimizzazione dei dati personali raccolti e utilizzati, consistenti nell’adozione di pseudonimi, credenziali di accesso e ogni altro strumento volto a garantire anonimato e sicurezza dei dati.
[27] Rimedi che comunque non mancano. Sul tema non ci si concentra, ma si rinvia ai contributi di Mantelero (Cap. 6, par. 3) e Ratti (Cap. 13, par. 1) in Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy e sulla protezione dei dati personali, opera diretta da Finocchiaro, Bologna, 2017.
[28] Resta, Commento all’art. 5, in Riccio, Scorza, Bellisario (a cura di), G.D.P.R. e normativa privacy, Milano, 2018, 58.
[29] Così Achille, Commento all’art. 5 del G.D.P.R., in Commentario del Codice civile diretto da E. Gabrielli, Delle persone – Leggi collegate, vol II, Milano, 2019, 114.
[30] Come è emerso dall’audizione del Presidente alla Camera dei deputati.
[31] Nel provvedimento del garante viene citata una nota di INPS dove questi dichiara: “la Direzione Centrale Antifrode, Anticorruzione e Trasparenza, secondo un’interpretazione letterale della norma alla luce dei parametri costituzionali di riferimento, considerava la prestazione non spettante ai parlamentari ed ai titolari di cariche presso le amministrazioni locali”.
Giustizia e comunicazione. 9) I protagonisti della giustizia
di Claudia Morelli*
Sommario: 1. Comunicazione e coesione sociale - 2. Comunicazione Legale e Giuridica: il punto di vista del Comunicatore - 3. Il Processo di Comunicazione - 4. Gli obiettivi di Comunicazione della e nella Giustizia - 5. I protagonisti della Giustizia - 6. I Canali di Comunicazione - 7. Il Linguaggio della Giustizia - 8. Legal design: una prospettiva inclusiva - 9. Comunicare l’innovazione nella Giustizia - 10. Le professionalità - 11. Post Scriptum.
1. Comunicazione e coesione sociale
All’inizio del XX secolo uno zoologo austriaco, Karl von Frisch, scoprì che le api comunicano. Non fu creduto per lunghi anni; ma dopo essere riuscito a dimostrarlo, per questa scoperta nel 1973 fu insignito nel del premio Nobel per la fisiologia e la medicina. “Da quel momento anche le api sono assurte a quella categoria di animali sociali che Edward O. Wilson chiama “super organismo”: ovvero in grado di sviluppare una serie di relazioni e comunicazioni il cui scopo è quello di mantenere coesa e duratura la loro struttura sociale”. Quando ho letto, su la Repubblica, questa storia, ne sono rimasta affascinata, perché in poche righe richiama una costellazione di concetti non solo a me cari, quanto oggi collettivamente e cumulativamente insistenti: comunicazione, struttura sociale, sostenibilità. Sin dalla pubblicazione dell’editoriale di Giustizia Insieme, che annunciava l’apertura di uno spazio dedicato al tema Comunicazione e Giustizia, ho seguito con interesse il dipanarsi dei diversi interventi, ciascuno dei quali tocca specifici aspetti di un macro tema. D’altra parte, il tema del linguaggio e della comunicazione è spesso oggetto di articoli in Avvocato4.0, la rubrica dedicata alla innovazione in ambito giuridico che curo settimanalmente per Altalex. In nota i link. Riducendo all’essenziale il dibattito finora ospitato in Giustizia Insieme, i punti che tutti gli autori paiono considerare cardinali sono: - l’esigenza sempre più sentita di comunicare la Giustizia in maniera trasparente e comprensibile; - l’esigenza di ricercare linguaggi chiari, precisi e sintetici e sviluppare argomentazioni ferree nel processo; - il restituire alla fase delle indagini il ruolo interlocutorio all’interno del processo penale, anche tramite la informazione mediatica; -l’ interruzione della spirale perversa procure-media; - l’avvicinare i cittadini e tutti gli stakeholder alla Giurisdizione sotto il duplice profilo: a) delle ragioni alla base dello iusdicere nei casi specifici; b) dell’accessibilità al servizio. Aggiungo a questa lista di obiettivi che sono assegnati implicitamente all’ampio concetto di Comunicazione, uno ulteriore, che non mi pare sia specificatamente emerso: quello di recuperare alla Giurisdizione ed ai suoi operatori un credito reputazionale, che oggi appare appannato, anche solo a leggere l’ultimo Eu Justice scoreboard della Commissione europea. Ove non fosse un obiettivo implicito, sarebbe comunque una auspicabile conseguenza di una comunicazione più efficace, e dunque inclusiva. Responsabilità sociale, reputazione e autorevolezza sono come vibrazioni (gli asset immateriali) da cui dipende, infatti, la percezione sociale e collettiva di un servizio. Figurarsi se il servizio ha rilevanza costituzionale (per il quale le aspettative sono certamente più alte). Quanto gli asset immateriali costituiscano valore reale per l’ente che li esprime, i comunicatori di professione lo sanno molto bene. Sono fiduciosa nell’apprendere che in molti uffici giudiziari si redige il Bilancio sociale che fa dell’accountability (cioè della responsabilità collettiva in capo ad un centro di funzioni/servizio rispetto ad un certo risultato) un metro di misurazione (anche interna) dell’efficacia del servizio Giustizia.
2. Comunicazione Legale e Giuridica: il punto di vista del Comunicatore
Se il mio intervento in questo autorevole contesto avrà una qualche utilità, allora, sarà perché qui porto il punto di vista di comunicatrice, specializzata nell’ambito legale e del diritto. Un punto di vista…diverso. Per (in)competenza non toccherò il tema del linguaggio nei provvedimenti giudiziari, se non in un sintetico passaggio sul linguaggio e per segnalare l’esplorazione di linguaggi innovativi che, al riparo da semplificazioni o strumentalizzazioni, possono aiutare nella comprensibilità del diritto. E non mi occuperò del rapporto procure-media, che è un epifenomeno e non esaurisce affatto, a mio avviso, il tema complesso e strategico della Comunicazione della Giustizia in una società democratica e digitale. Ed, in ogni caso, richiama aspetti normativi e deontologici che esulano da questo contributo specifico.
3. Il Processo di Comunicazione
Basta consultare il vocabolario Treccani https://www.treccani.it/vocabolario/comunicazione/ per perdersi tra le diverse accezioni – generiche e specifiche- nel verbo Comunicare. Alcune di esse però colgono nel segno del significato che qui vorrei sottolineare, a partire dalla etimologia lat. communicare, der. di communis «comune»: 1.Rendere comune, far conoscere, far sapere; per lo più di cose non materiali; 2. Quindi anche divulgare, rendere noto ai più; 3. In meccanica, di energia o moto trasmessi da un corpo all’altro; 4. Essere in relazione verbale o scritta con qualcuno per lettera, per e-mail, per sms, per cenni, per segni convenzionali; entrare in comunicazione con altri, istituendo un rapporto di comprensione e partecipazione. La comunicazione, dunque, è un “processo” volto a “rendere comune” qualcosa in un rapporto di comprensione e partecipazione. Per garantire che la comunicazione sia efficace, occorre focalizzare quel “mettere in comune”, in una relazione di comprensione e partecipazione. Ma con chi? Per comunicare ci si serve per lo più di lingua e parole (ma non solo): cioè di codici condivisi che osservano regole precise. Se la comunicazione è partecipazione, non esiste un processo di comunicazione “unico”; ma tanti processi di comunicazione quanti sono i contesti, gli interlocutori, i messaggi, il contenuto e l’obiettivo a cui si ambisce. Si comunica secondo “registri diversi”, in relazione al contesto in cui ci si trova. Nella comunicazione che ambisce ad essere efficace occorre seguire un metodo; ma sarebbe errato pretendere di avere un processo di comunicazione valido per sempre e in ogni contesto.
Questa “relatività” è ben nota ai comunicatori che, nei piani strategici, sono abituati a distinguere in:
a) obiettivi;
b) interlocutori (target);
c) canali;
d) linguaggi;
consapevoli, peraltro, che la comunicazione “si misura all’arrivo”. Per misurare, occorre introdurre un altro elemento spesso trascurato nel processo di comunicazione: il feedback, che è dato dall’ascolto. Venendo al nostro tema, è importante fare una premessa: è necessario distinguere ancora tra la comunicazione “nel processo”, tra le parti e tra le parti e il giudice; e la comunicazione della Giustizia al pubblico, secondo i diversi canali: media, web, social, relazioni istituzionali. Altrimenti si rischia il caos.
4. Gli obiettivi di Comunicazione della e nella Giustizia
Perché occorre Comunicare la Giustizia? Qui non mi riferisco al “perché” filosofico-costituzionale-sociologico-etico, ma più banalmente alla ragione sottostante la singola attività di comunicazione nella Giustizia: un provvedimento, una sentenza, una circolare, una informazione sul web, un post social. Qual è la ragione ultima di ciascun “atto” di comunicazione nella Giustizia? Aver ben chiaro l’obiettivo che si vuole raggiungere rispetto al proprio interlocutore, per i comunicatori è come un faro nella nebbia dell’autoreferenzialità. Proseguendo nella lettura, il concetto sarà più chiaro.
5. I protagonisti della Giustizia
Ma chi sono i protagonisti della Giustizia? Il comunicatore sa bene che il protagonista - nel processo di comunicazione - non è il promotore ma è il recettore. E’ la qualità del recettore che costringe il promotore ha fare scelte comunicative diverse. Da qui la liceità di registri e canali diversi, senza che questo comprometta di per sé il valore del messaggio e del contenuto. Un principio giuridico è una cosa; le modalità di accesso al servizio giustizia sono altra. Un conto è il ricorso alla Corte Costituzionale; altro è spiegare all’opinione pubblica le ragioni di quel ricorso. Se si sposa il punto di vista dell’interlocutore, sarà più facile collocarsi nel registro giusto. Non citerò ulteriormente Italo Calvino o Umberto Eco o anche Einstein, a sostegno della tesi che semplicità non è sinonimo di semplificazione. I protagonisti della Giustizia, dunque, non sono (solo) gli operatori della Giustizia. Ma tutti i cittadini “nel nome dei quali” la Giustizia è amministrata. Collegando l’obiettivo della singola comunicazione all’interlocutore destinatario, sarà più facile accedere al registro giusto.
6. I Canali di Comunicazione
Conosciamo tutti, i canali tradizionali, istituzionali, formali e informali, attraverso i quali fino ad oggi si è consumata la comunicazione della Giustizia. Sono efficaci ai fini di un avvicinamento dei cittadini alla Giustizia in un processo democratico di coinvolgimento collettivo sui valori? La risposta è scontata, anche se ovviamente stiamo generalizzando. A voler trascurare obiettivi a volte inconfessabili, molto spesso è banale incompetenza comunicativa a rendere la Comunicazione efficace della Giustizia, come sistema di valori condivisi, una utopia. Interventi precedenti si sono soffermati sul canale web degli uffici giudiziari, come best practice per avvicinare i cittadini alla Giustizia. Senz’altro vero, a patto di applicare il metodo e di fare della user experience, del design e del content elementi strategici di trasparenza, chiarezza e semplicità. I comunicatori non escludono per principio nessun tipo di canale (nel digitale poi ce ne sono tantissimi), a condizione che se ne rispetti il linguaggio e si abbia ben presente il messaggio, il perché, e il pubblico a cui è destinato. Lo stesso Cepej non esclude influencer e social, per dire!
7. Il Linguaggio della Giustizia
La giustizia e il diritto sono domini che i linguisti chiamano tecnici. La marca che contrassegna i termini di uno specifico settore è TS (termini tecnico-specialistici). E’ senz’altro vero, dunque, che nel processo in Tribunale (e nei vari gradi giudizio), il registro della comunicazione sarà doverosamente tecnico. Ma potrà essere non pedantemente tecnico. In alcune recenti interviste che ho realizzato ad eminenti linguisti, i professori Michele Cortelazzo e Federigo Bambi, proprio al fine di chiarire in quale rapporto reciproco sono i principi di chiarezza, specificità e sinteticità, è emerso come il linguaggio “tecnico- giuridico”, sia sotto il profilo linguistico che in quello sintattico, può (e dovrebbe) scrostarsi da pedanterie, latinismi, brocardi, costruzioni sintattiche oscure, mera reminiscenza di una realtà sociale - e dunque giuridica - oggi inesistente. La lingua, per fortuna, è qualcosa di vivo che evolve con l’evolvere dei tempi. Mantenere registri linguistici falsamente aulici negli atti processuali e nei provvedimenti giudiziari trasmette, nel migliore dei casi, anacronismo. Nel peggiore, compromette la difesa dei diritti delle persone e impedisce la reale comprensione della logica, ancorché giuridica, del provvedimento. Se usciamo dall’aula del tribunale, meno “doverosamente” tecnica e anzi auspicabilmente colloquiale, dovrà essere la comunicazione volta all’opinione pubblica, per spiegare sulla base di quali dati normativi e giuridici, di quali prove inconfutabili e di quali argomentazioni, è stata assunta una determinata decisione. La “spettacolarizzazione” delle conferenze stampa potrebbe essere calmierata solo applicando questa regola di…buon senso. Ma altra ancora dovrà essere la comunicazione (linguaggio e canali) utilizzata per la comunicazione del servizio Giustizia.
8. Legal design: una prospettiva inclusiva
In tema di linguaggio, pur non potendo soffermarmi approfonditamente, voglio evocare il tema del legal design (vedi note), un movimento innovativo che applica il metodo del design thinking e coinvolge nella comunicazione della prescrittività giuridica l’utilizzo di icone, immagini e grafici. Anche in questo caso, il pericolo da sventare è la superficialità e l’approssimazione. Eppure intravedo grandi potenzialità comunicative in questo nuovo linguaggio, soprattutto sotto il profilo dell’accessibilità al servizio Giustizia.
9. Comunicare l’innovazione nella Giustizia
Il riferimento al legal design mi permette un rapido cenno al tema della innovazione in ambito giuridico e alla sua comunicazione. Anche qui il CEPEJ (vedi in nota) ha segnato una strada molto interessante che vale la pena di focalizzare. I processi e i progetti di innovazione, soprattutto quando incidono su realtà complesse e stratificate, rischiamo di essere vissuti come corpi estranei calati dal centro o dall’alto. Progetti di comunicazione dedicati specificatamente ai progetti di innovazione, hanno una carica inclusiva che vale la pena di liberare, sia all’interno degli uffici che nella collettività destinataria finale dei progetti. Invece questo aspetto è trascuratissimo, a iniziare dal Ministero della Giustizia. A voler tacer d’altro, mi limito a evidenziare che nella Giustizia si profila un nuovo campo “comunicativo”: quello della “explainable AI”. E’ vero che qui siamo nel campo della programmazione…ma spero si sia compresa la necessità di scrutare il nuovo per arrivare preparati. Sarò facile profeta (osservatrice realistica) nell’ evidenziare come l’incalzare delle tecnologie e, soprattutto, l’estendersi dei linguaggi di programmazione ad ogni area delle attività umana (vedi gli smart contracts), sottoporranno il diritto ad una nuova “rivoluzione grafica”. Con esiti oggi imperscrutabili.
10. Le professionalità
Mi accingo a concludere evidenziando che, soprattutto nella infosfera, la comunicazione istituzionale anche nella Giustizia richiede professionalità dedicate, competenti, possibilmente specializzate nel settore del diritto. Questo tema evoca, da una parte, quello della organizzazione degli uffici giudiziari; e dall’altra quello delle risorse scarse. In una analisi S.W.O.T questi elementi sono “i punti di debolezza”. Il punto è che non leggiamo mai dei “punti di forza”. O meglio…non si fa una analisi S.W.O.T. La testata che spero pubblicherà queste riflessioni si chiama Giustizia Insieme: è nel rendere vivo e pulsante quell’avverbio che risiede oggi la sfida della Giustizia, a partire dalla risposta alla domanda: “insieme a chi?”.
Grazie per l’ospitalità.
11. Post Scriptum
Tra la redazione di questo articolo e la sua pubblicazione su Giustizia Insieme, ho potuto leggere un nuovo documento adottato dal Cepej - "FOR A BETTER INTEGRATION OF THE USER IN THE JUDICIAL SYSTEMS”: Guidelines and comparative studies on the centrality of the user in legal proceedings in civil matters and on the simplification and clarification of language with users”, nel quale è ribadita la rilevanza strategica del linguaggio e della comunicazione efficace per la qualità della Giustizia, con conseguenti Linee guida molto utili.
* giornalista - esperta di comunicazione legale- divulgatrice di innovazione legale.
- Ricorsi chiari, amicizia lunga https://www.altalex.com/documents/news/2021/06/28/ricorsi-chiari-amicizia-lunga
- HackTheDoc, i vincitori del primo hackathon italiano di Legal design https://www.altalex.com/documents/news/2020/12/15/hackthedoc-chi-sono-i-vincitori
- Modello start up per i progetti di innovazione nei Tribunali https://www.altalex.com/documents/news/2020/11/23/modello-start-up-per-progetti-giustizia-predittiva-tribunali
- Legal design: la rule of law è rock https://www.altalex.com/documents/news/2020/10/26/legal-design-rule-of-law-rock
- Giustizia digitale 5 tools con check list per guidare i progetti. Le parole d'ordine del Cepej https://www.altalex.com/documents/news/2019/07/15/giustizia-digitale-5-tools-check-list-progetti
- Guida pratica alla Comunicazione della Giustizia, social e influencer compresi https://www.altalex.com/documents/news/2019/05/20/comunicazione-della-giustizia
- Legal design, cos’è e come può essere utilizzato dai giuristi https://www.altalex.com/documents/news/2018/04/09/legal-design-avvocati
La rubrica della Rivista sul tema Giustizia e comunicazione, proseguendo nel percorso annunciato nell’editoriale del 18 maggio 2021, dopo aver ascoltato la voce della magistratura di legittimità e di merito nei contributi di Gianni Canzio, Giovanni Melillo, Claudio Castelli, ospitato il punto di vista della comunicazione professionale di Rosaria Capacchione e Giovanni Bianconi, discusso del valore della parola quale strumento chiave dell’emancipazione dell’individuo e della società nel contributo di Francesco Messina ed affrontato il tema del linguaggio dell’Accademia con Marina Castellaneta, torna oggi a riflettere sui temi della comprensibilità e conoscibilità della giurisdizione con Marcello Basilico.
Giustizia e comunicazione. 8) La giurisdizione è esercizio di democrazia solo se sia conosciuta e comprensibile
Perché gli uffici possono e debbono comunicare ai cittadini l’attività giudiziaria
di Marcello Basilico
Le linee guida del 2018 del CSM per una corretta comunicazione istituzionale sono rimaste quasi lettera morta negli uffici giudiziari. Eppure da sempre tutti gli operatori del settore avvertono l’esigenza di un’informazione più attenta e corretta sui contenuti della giurisdizione. Soltanto facendo partire dall’interno degli uffici iniziative istituzionali mirate in tal senso si può ottenere una comunicazione efficace, equilibrata, capace di raggiungere una vasta collettività e pertanto davvero improntata ai valori della democrazia.
Sommario: 1. Una giustizia trasparente e comprensibile. - 2. L’urgenza di comunicare. - 3. I rischi della comunicazione improvvisata. – 4. Un’informazione pubblica efficace, istituzionale, democratica – 5. Il caso genovese.
1. Una giustizia trasparente e comprensibile.
A compimento di un’attività di studio affidata a una commissione mista di giuristi ed esperti della comunicazione, l’11.7.2018 il Consiglio Superiore della Magistratura ha approvato una delibera a suo modo rivoluzionaria, con la quale per la prima volta viene affidato ai singoli uffici giudiziari il compito di comunicare all’esterno il proprio operato e vengono loro illustrati gli strumenti per farlo in modo tendenzialmente uniforme.
L’iniziativa consiliare non è stata estemporanea, ma ha fatto seguito ad una nutrita serie di sollecitazioni a livello europeo sull’importanza della comunicazione delle istituzioni pubbliche per valorizzarne il carattere democratico[1].
Nel settore giudiziario l’indipendenza della magistratura è al contempo fattore di stimolo e di cautela in quella direzione. Da un lato, la comunicazione serve a fare comprendere il contenuto delle decisioni e, dunque, a rendere condivise nella società regole e valori sulla cui base esse vengono adottate. La comprensione accresce la fiducia dei cittadini verso l’ordine giudiziario, rafforzandone al contempo l’impermeabilità alle interferenze esterne, che possono avvenire in modo manifesto, occulto o subdolo.
Sotto quest’ultimo profilo, la comunicazione diretta della notizia da parte dell’istituzione previene la diffusione di notizie incomplete o imprecise su indagini o processi. Si riducono di conseguenza i margini di strumentalizzazione degli atti giudiziari da parte di chi voglia fornirne letture mistificatorie.
D’altro canto, però, l’indipendenza della magistratura richiede particolare cautela nelle relazioni coi media, per evitare rapporti pericolosi tra i soggetti in campo o forme di comunicazione che danneggino l’indagine, il processo o i protagonisti della vicenda giudiziaria. Ai magistrati è richiesto di dare prova di moderazione in tali relazioni[2].
Di fatto l’accessibilità delle informazioni sull’andamento dell’attività giudiziaria rappresenta ormai uno dei parametri di valutazione nell’Unione Europea dell’efficienza, della qualità e dell’indipendenza dell’attività giudiziaria[3]. La capacità di comunicazione è considerata ormai una componente fondamentale della professionalità del magistrato, soprattutto quando la sua funzione lo ponga in costante contatto col cittadino e, a maggiore ragione, quando si verifichino relazioni con fasce di popolazione più fragile.
Per l’ufficio giudiziario essa si pone evidentemente ad un livello più alto e ancora più complesso.
Le linee guida emanate dal CSM[4] valorizzano a questo riguardo due elementi: la trasparenza e la comprensibilità dell’azione giudiziaria. Vanno – e non a caso il Consiglio sente di doverlo precisare in premessa – controcorrente rispetto a un sentire intimo e diffuso della magistratura, legato all’idea della riservatezza della funzione, se non, talvolta, alla sacralità del rito decisorio.
Trasparenza e, soprattutto, comprensibilità sono in effetti predicati primari della decisione, tema sul quale la formazione della Scuola Superiore della Magistratura e del Consiglio stesso sono da tempo all’opera. Ma nelle linee guida del 2018 si coglie il tentativo di un cambio di passo rispetto ad un livello comunicativo fermo agli Uffici per il rapporto col pubblico, alle divulgazioni di eventi o notizie sui siti internet di alcuni uffici giudiziari, alle buone prassi relazionali adottate da pochi dirigenti illuminati.
L’idea del Consiglio è quella di armonizzare prassi e procedure, impostando delle forme di comunicazione comuni e, come tali, riconoscibili all’esterno, dotate dunque di credibilità e autorevolezza, oltre che di facile accessibilità da parte degli interlocutori interessati.
E’ un’idea che tuttavia ad oggi non ha attecchito. A quasi tre anni di distanza – sarà per la forma della linea-guida, percepita dai dirigenti come priva di cogenza, o per quella propensione ad una prudente ritrosia di cui si diceva – soltanto il tribunale di Genova ha attuato pienamente la delibera, dotandosi di un responsabile della comunicazione e costituendo uno stabile canale di accesso alle notizie per gli organi d’informazione e per i cittadini.
2. L’urgenza di comunicare.
L’inerzia degli uffici giudiziari stona coi cori che accompagnano quasi ogni giorno contro l’inadeguatezza della rappresentazione che viene data mediaticamente delle vicende giudiziarie o gli scivoloni comunicativi di cui sono protagonisti, non di rado, magistrati alle prese con telecamere, microfoni, taccuini e social network.
Se è vero che la fiducia dei cittadini viene costruita attraverso un’informazione leale e trasparente, non è pensabile che quanti abbiano a cuore la credibilità della giurisdizione rimuovano sistematicamente il tema di una relazione con l’esterno che avvenga per via istituzionale su iniziativa dei magistrati, cioè di chi conosce e pratica la giurisdizione ed avrebbe dunque tutto l’interesse a spiegarne i meccanismi.
Quanto più rare siano le esperienze dirette delle persone con una specifica area tematica, tanto maggiore sarà la loro dipendenza dalle notizie offerte dai media per ottenere informazioni e interpretazioni su quell’area[5]. Nel 2015 l’11% della popolazione della popolazione residente in Italia di almeno diciotto anni d’età aveva dichiarato di essere stato coinvolto in un contenzioso civile nella propria vita (dichiarandosi insoddisfatto nel 52% dei casi)[6].
Si tratta di una percentuale minoritaria rispetto al numero di cittadini che ha relazioni abituali con gli altri servizi pubblici essenziali; la considerazione è rafforzata dal fatto che il dato include anche le situazioni di contatto occasionale avuto da una persona non direttamente interessata dalla causa, come il testimone o il consulente, e che, per chi è parte d’un giudizio, il suo rapporto con la giustizia trova spesso mediazione nella presenza d’un legale, che è colui che partecipa davvero all’attività giurisdizionale.
La rappresentazione del mondo giudiziario è dunque delegato ai media, nella formazione del convincimento collettivo, molto più di quanto avvenga per altre sfere della società moderna. Il classico assunto di Lhumann (“ciò che sappiamo della nostra società, e in generale del mondo in cui viviamo, lo sappiamo dai mass media?”)[7] è dunque per la giurisdizione più attuale che mai. Con tre aggravanti: l’accettazione più o meno passiva della capacità selettiva dei temi giudiziari da parte del sistema mediatico; la goffaggine con la quale il magistrato si muove, per propria cultura, in questo circuito; l’estensione e l’intrusività dei mezzi moderni di circolazione delle notizie, che complicano le possibili relazioni impostate nei confronti dei media tradizionali.
La selezione delle informazioni avviene secondo procedimenti riconoscibili, che formano degli stereotipi dai quali si crea la realtà soggettiva conosciuta dai cittadini per eventi e argomenti estranei alla loro sfera di diretta percezione. Il medium
1. mette in luce alcuni fatti
2. vi attribuisce un significato simbolico
3. crea un legame fatto/simboli secondari
4. associa il tema a un portavoce (spesso un eminente esponente politico o un opinion leader già noto per il proprio pensiero sul tema).
Si crea così un’interazione costante e complessa tra il medium e la fonte, dotata del potere di selezionare il fatto e il medium comunicatore, come spesso accade per i blog di alcuni personaggi politici.
Esemplificando rispetto al procedimento anzidetto, si può ipotizzare una vicenda tratta da una vicenda giudiziaria trattata nel 2019 dalla stampa e dai social network con una certa risonanza:
1. un fatto: la condanna di un uomo, con riconoscimento delle attenuanti generiche, per omicidio volontario commesso nei confronti d’una donna;
2. la valenza simbolica: le donne vittime di violenza indifese dallo Stato;
3. ricorso a simboli secondari: il giudice è donna; la vittima aveva più volte chiesto aiuto allo Stato; lo Stato non tutela i cittadini (e le cittadine, in particolare) perché i giudici non applicano pene adeguatamente severe;
4. ricerca del portavoce: la fonte di potere garantisce dichiarazioni dirette e notizie (ad es. sullo stato di proposte di legge avviate in materia oppure su dettagli relativi alla figura del giudice in questione).
I temi dell’agenda comunicativa vengono così composti e ricomposti mediante la creazione di legami tra prospettive (attribuiti) e frame (sottotemi). In questo modo è possibile ipotizzare quale valutazione darà del fatto il fruitore dell’informazione, che eserciterà un’influenza non più solo cognitiva, ma anche persuasiva[8].
Questo meccanismo diviene incontrollato quando del fatto s’impadronisce il circuito della comunicazione digitale, nel quale non è riconoscibile neppure il soggetto comunicatore, oltre che la fonte.
Nascono così gli stereotipi che ruotano intorno al mondo della giustizia, indipendentemente dal loro completo fondamento: i processi sono lenti; le decisioni dell’autorità giudiziaria sono antieconomiche per il mercato e i soggetti economicamente rilevanti che vi operano; l’applicazione delle leggi da parte dei giudici indebolisce la difesa sociale; esiste perciò un’emergenza-criminalità; esiste un’emergenza-immigrazione collegata all’emergenza-criminalità; le indagini penali alimentano lo scontro tra politica e magistratura per volontà dei pubblici ministeri.
Soltanto inserendosi nella catena dell’agenda comunicativa è possibile interferire con la formazione di tali stereotipi, spiegando la complessità delle vicende trattate nell’attività giudiziaria, le regole che la governano e la logica dei suoi effetti.
3. I rischi della comunicazione improvvisata.
E’ scontata dunque la necessità che il rapporto, talvolta perverso, tra fonte e soggetto comunicatore venga interrotto dall’intervento dell’artefice della vicenda. Nel caso esemplificato in precedenza, l’artefice è l’autorità giudiziaria che ha trattato il fatto con i suoi contenuti simbolici più o meno evidenti.
Subentrano a questo punto, però, le cautele imposte dalla peculiarità istituzionale e culturale del ruolo del magistrato: istituzionale, perché egli deve essere e apparire indipendente, il che implica anche equanimità rispetto al fatto; culturale, perché il magistrato, abituato al rapporto rigido con la regola normativa da applicare e col riserbo da osservare, non è dotato abitualmente degli strumenti per muoversi sullo stretto crinale dell’informazione lecita e utile. Il magistrato non è attrezzato professionalmente per fare comunicazione pubblica né per cogliere la notizia che si annida in un processo e che è appetita dai media più d’ogni altro aspetto giuridico o investigativo.
Le dichiarazioni dei pubblici ministeri che credono nel metodo della conferenza stampa offrono una rappresentazione plastica delle diversità degli approcci alla stampa, diversità che spesso mal si addicono ad un taglio istituzionale della comunicazione. Basti considerare come spesso le affermazioni più improvvide vengano dalle interviste rilasciate a margine della conferenza stampa, quando l’incalzare delle domande incrina il programma delle dichiarazioni che era stato preparato a tavolino.
In generale le critiche sollevate dai commenti più o meno debordanti di pubblici ministeri e giudici alle proprie indagini o ai propri processi, con precisazioni o rettifiche talvolta conseguenti, denotano l’impreparazione comunicativa della magistratura. Mancando canoni relazionali prestabiliti, identificabili e riconosciuti all’esterno, l’informazione viene diffusa dai magistrati – che pure ne avvertono la necessità – con modalità spesso estemporanee, senza il paracadute di un filtro istituzionale.
Si ottiene così il risultato opposto agli obiettivi di trasparenza e comprensibilità che dovrebbero costruire la fiducia dei cittadini verso l’azione giudiziaria. L’informazione occasionale o improvvisata si espone – non meno del silenzio improvvido di fronte a un evento di grande rilievo pubblico – alla divulgazione strumentale, soprattutto da parte dei commentatori che cercano conferme nelle proprie tesi precostituite o degli organi, spesso eterodiretti, che amano imbastire tormentoni sulla giustizia per ragioni, nel migliore dei casi, miseramente commerciali.
4. Un’informazione pubblica efficace, istituzionale, democratica.
Nelle linee guida il CSM ambisce ad instaurare “un circuito virtuoso che consenta di avere migliore consapevolezza di come il servizio giustizia è percepito dall’esterno”, nell’evidente intento di concorrere a migliorare tale percezione. Sono auspicate allo scopo riunioni interne agli uffici giudiziari per preparare i momenti di comunicazione e valutarne gli effetti.
Si chiede che la comunicazione da parte loro – siano essi giudicanti o requirenti – sia obiettiva: anche la presentazione del contenuto di un’accusa deve essere “imparziale, equilibrata e misurata non meno di una decisione giurisdizionale”.
Occorre inoltre evitare, ammonisce il CSM, la discriminazione tra giornalisti e testate, la costruzione o il mantenimento di canali informativi privilegiati con esponenti dell’informazione, la personalizzazione delle informazioni, l’espressione di opinioni personali o giudizi di valore su persone o eventi.
Il catalogo dei doveri degli uffici nei confronti degli individui e all’interno del processo è un’interessante elencazione a contrario dei vizi dell’informazione giudiziaria: dal rispetto della vita privata e familiare delle persone coinvolte, alla tutela della loro sicurezza e della loro dignità, prevenendo il rischio di vessazione da parte dei media; dalla chiarezza nella distinzione dei ruoli processuali alla centralità del giudicato; dai diritti delle vittime e dell’imputato (per quest’ultimo compreso quello di non apprendere dalla stampa quanto dovrebbe essergli comunicato preventivamente per via formale) sino al dovere del p.m. di rispettare le decisioni giudiziarie.
La vera portata innovativa dell’iniziativa consiliare sta peraltro nell’invito a essere comunicatori attivi. La delibera infatti non si limita a delineare le iniziative reattive, per correggere o smentire le informazioni errate, ma incoraggia “lo sviluppo di un approccio proattivo e garantistico” rispetto a singoli casi così come al funzionamento dell’intero sistema giustizia.
Le comunicazioni reattive si pongono nello stesso ordine concettuale delle pratiche a tutela del CSM, le quali “hanno come presupposto l’esistenza di comportamenti lesivi del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione tali da determinare un turbamento al regolare svolgimento o alla credibilità della funzione giudiziaria”[9]. L’intervento dell’ufficio giudiziario rappresenta una reazione anticipata e, dunque, più diretta ed efficace di quella consiliare. Se vogliamo la comunicazione reattiva ha un orizzonte ancora più vasto, rivolto anche alla tutela esterna delle persone, spettando all’istituzione anche il compito di evitare che il cittadino subisca dall’attività giudiziaria un danno superiore e diverso da quello che essa già provoca inevitabilmente.
Ma è nell’iniziativa proattiva che si coglie un approccio inedito e sofisticato della comunicazione suggerita agli uffici giudiziari: la notizia di carattere giudiziario d’interesse pubblico sta non solo nel procedimento penale clamoroso per la qualità o il numero degli imputati (o delle vittime) o per le modalità del delitto, ma anche nella causa civile che veda in gioco interessi collettivi rilevanti e persino nel provvedimento organizzativo dell’ufficio che coinvolga la collettività.
Il retropensiero di questo invito dunque è che, se vi sono controversie “di obiettivo rilievo sociale, politico, economico, tecnico-scientifico” di cui è bene dare pubblicità, perché d’interesse pubblico “effettivo”, non sta necessariamente nel processo penale il serbatoio prevalente delle informazioni rilevanti custodite dall’ufficio giudiziario.
Una comunicazione attiva costante – se improntata a criteri di “chiarezza, sinteticità e tempestività” – è destinata creare una circolazione di notizie su temi diversi dalle questioni criminali, ad offrire un quadro più ampio, non circoscritto alla repressione penale, dell’azione giurisdizionale. In un’ultima analisi essa serve anche a stemperare le relazioni spesso complicate con gli organi di stampa e a fornire un’immagine meno severa del servizio giustizia, dando uno spaccato della giurisprudenza che vada oltre i casi conflittuali che generalmente si associano alle indagini e ai processi penali.
Il presupposto ineludibile per l’efficacia di questa attività è che le notizie fornite dall’ufficio siano chiare per chi debba divulgarle al pubblico, conservando al contempo sia quello specifico interesse che qualifica giornalisticamente un evento come “notizia” sia il necessario rigore tecnico-giuridico.
E’, questa, una delle operazioni più complesse per il giurista, abituato com’è a scrivere atti non destinati, nell’ottica che lo contraddistingue tendenzialmente, a una collettività indistinta. Non avendosi lo spazio per approfondire la questione, pur appassionante e fondamentale, sui destinatari delle decisioni dei giudici, conviene almeno ricordare che, “la comunicazione che funziona meglio è quella che tiene conto dell’interlocutore più debole, non di quello più capace”[10].
Approdiamo così all’obiettivo ultimo, il più alto: comunicare con continuità e chiarezza l’attività giudiziaria è, in effetti, un esercizio di democrazia. I magistrati agiscono in un contesto in cui, magari stancamente ma immancabilmente, si usa (e talvolta si abusa di) un linguaggio per iniziati (gli avvocati; altri magistrati; i consulenti)[11]. L’adattamento di quel linguaggio alle esigenze di una diretta informazione pubblica esterna è l’occasione per raggiungere la platea più ampia possibile di cittadini, a nome dei quali la giustizia è amministrata.
Sarebbe pure l’occasione, viene da aggiungere, per ripulire progressivamente quello stesso lessico anche a vantaggio nostro.
5. Il caso genovese.
Questa realtà è stata colta appieno dalla Corte costituzionale. Mutuando in parte i modelli delle Corti sovranazionali[12], la Consulta si è dotata di un ufficio stampa e ha sfornato comunicazioni sulle proprie principali decisioni e sulle iniziative ulteriori, accelerandole opportunamente nel periodo di pandemia, diffondendole anche in lingua inglese e inserendosi nei principali social network[13].
Con la sue linee guida il CSM ha per parte sua coniato la figura del responsabile della comunicazione. Negli uffici requirenti esso dovrebbe coincidere in linea di principio col procuratore della Repubblica, il quale può comunque delegare l’incarico a uno o più magistrati “scelti in relazione alle loro attitudini ed alla loro esperienza comunicativa”. Per gli uffici giudicanti il CSM prevede la delega come ipotesi normale, ammettendo che negli uffici di maggiore dimensione i responsabili possano essere due giudici, distinti per settore, civile e penale.
A oggi l’unica esperienza attuativa delle linee guida è, per quanto si sa, quella del tribunale di Genova. A distanza di quasi tre anni dall’emanazione delle linee guida, essa ha perso ormai lo status di laboratorio sperimentale, per assumere quello di vera e propria isola sperduta nell’oceano.
Nel tribunale genovese, dopo la pubblicità della nomina seguita all’indizione d’una selezione interna e i contatti preliminari coi diversi presidenti di sezione, il responsabile per la comunicazione è diventato il collettore delle informazioni relative ai procedimenti, alle decisioni, agli eventi e alle attività organizzative che possono assumere un interesse pubblico. Una volta che è stata identificata anche dagli organi di informazioni attraverso la pubblicità delle prime comunicazioni, questa figura è divenuta anche per loro il punto di riferimento per acquisire nuove notizie.
Il procedimento penale per il crollo del Ponte Morandi – in particolare le fasi preparatorie ed il successivo svolgimento dell’incidente probatorio sulle cause dell’evento – è stato il più evidente e naturale scenario d’impegno, poiché ha comportato contatti con organi mediatici molteplici, persino stranieri e talvolta spinti dall’interesse a conoscere i meccanismi del nostro processo e la valenza probatoria dell’incidente.
In tutti gli interventi comunicativi legati a tale vicenda processuale v’è un obiettivo comune: spiegare al pubblico come i tempi dell’incidente probatorio e, in generale, di ogni decisione in un giudizio tanto complesso non siano dovuti a inefficienze del sistema giudiziario, ma all’esigenza di pervenire ad un accertamento della verità più completo possibile, nell’interesse delle vittime e di tutta la collettività.
Prima e dopo di questo il responsabile della comunicazione del tribunale di Genova si è misurato con eventi disparati: dall’inaugurazione dei primi uffici di prossimità sul territorio del circondario alle scelte della curatela in un importante e delicato fallimento; dalle convenzioni con enti esterni al tribunale alle soluzioni organizzative d’interesse per la cittadinanza.
In questo quadro, una tipica azione reattiva è rappresentata dalle rettifiche indirizzate a una singola testata (ai sensi dell’art. 8 della legge sulla stampa 8 febbraio 1948, n. 47) o a una pluralità indistinta di mezzi d’informazione, soprattutto per correggere notizie distorte e dannose per il prestigio di giudici del tribunale.
Sul piano proattivo, ha suscitato discussioni, confluite anche in un utile dibattito pubblico organizzato insieme col locale Consiglio dell’ordine degli avvocati, la conferenza stampa organizzata per illustrare i contenuti del dispositivo d’una sentenza collegiale in materia di peculato e altri reati contestati in relazione all’utilizzo per scopi personali di fondi pubblici destinati ai gruppi dei consigli regionali.
In questo caso, poche ore dopo la lettura del dispositivo, il presidente e il responsabile della comunicazione del tribunale hanno dato alla stampa, fornendo anche un testo scritto, un resoconto sulla durata del processo, sulle posizioni di accusa e difesa e sui punti di maggiore rilievo pubblico della decisione. Si è badato ad evitare il rischio d’interferire con le possibili motivazioni della sentenza, per evidenziare invece, con un linguaggio accessibile al pubblico, i meccanismi giuridici che hanno condotto all’irrogazione di pene personali e reali.
L’opportunità dell’intervento esplicativo era stata segnalata dai giudici stessi del collegio in relazione all’articolazione particolarmente complessa del dispositivo, all’esistenza di questioni di difficile comprensione, come la successione nel tempo della legge regionale di riferimento, agli effetti sulle posizioni dei singoli imputati delle diverse interpretazioni, anche con riferimento alla cosiddetta “legge Severino”, al possibile clamore che la decisione avrebbe potuto suscitare per la presenza, tra gl’imputati stessi, d’un sottosegretario di recente nomina.
Bisogna dare atto a tutti gli organi d’informazione di avere recepito l’iniziativa con spirito profondo di collaborazione e convinta adesione. Le notizie pubblicate su media locali e nazionali, pur dando risalto alle condanne e ai loro effetti sulle posizioni dei personaggi politici imputati, hanno recepito i profili tecnici della decisione, riportando talvolta ampi stralci della comunicazione scritta diffusa dal tribunale e dandone delle spiegazioni in termini comprensibili per la pubblica opinione.
Ogni iniziativa siffatta è avvenuta sempre su segnalazione del giudice titolare del procedimento o del suo presidente di sezione, concertata con entrambi e col presidente del tribunale; il responsabile della comunicazione ha assunto il ruolo di medium tra l’ufficio giudiziario e gli organi d’informazione, filtrando la notizia attraverso il lessico e l’attività (comunicato; conferenza stampa; messaggio di posta elettronica; intervista) che il gruppo di lavoro costituito per l’occasione aveva ritenuto più efficace.
L’organizzazione del tribunale in tempo di pandemia costituisce oggi il tema di confronto più pressante con la pubblica opinione locale. I disagi creati prima dalla sospensione dei processi, poi dalla necessità di individuare spazi più idonei di quelli tradizionali per celebrare udienze in sicurezza, infine dalla chiusura di aule per inagibilità con la conseguente ridislocazione di processi e udienze hanno creato la necessità di fornire un’informazione costante ad avvocati, parti, cittadini.
Vi si è fatto fronte prevalentemente aggiornando il sito internet istituzionale. Talvolta si è reso necessario chiedere l’intervento della stampa. Alcuni giornalisti non hanno mancato di chiedere interviste al presidente e la raccolta d’immagini sullo stato dell’organizzazione dei locali nei siti impiegati dal tribunale per ospitare le udienze.
L’esperienza dimostra dunque che si può creare in un tribunale un circuito consolidato di segnalazione, raccolta e diffusione di notizie nonché di risposta alle notizie scorrette già altrimenti diffuse. E’ quindi possibile passare dall’invocazione stanca e reiterata per un’informazione giudiziaria migliore alla costruzione di un sistema comunicativo che rende l’opinione pubblica consapevole dei contenuti della giurisdizione.
[1] Si legge, ad esempio al punto 11 della Dichiarazione di Bordeaux), adottata il 18 novembre 2009 dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei (CCJE) e dal Consiglio Consultivo dei Pubblici Ministeri Europei (CCPE) su richiesta del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa: “E’ altresì interesse della società che i mezzi di comunicazione possano informare il pubblico sul funzionamento del sistema giudiziario. Le autorità competenti dovranno fornire tali informazioni, rispettando in particolare la presunzione di innocenza degli accusati, il diritto ad un giusto processo ed il diritto alla vita privata e familiare di tutti i soggetti del processo. I giudici ed i magistrati del pubblico ministero debbono redigere, per ciascuna professione, un codice di buone prassi o delle linee-guida in ordine ai loro rapporti con i mezzi di comunicazione”.
[2] E’ questo il monito che si legge nella Raccomandazione Rec(2012) del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri, sul tema dell’indipendenza, dell’efficacia e della responsabilità dei giudici, adottata il 17 novembre 2010 e che incoraggia la creazione di posizioni di portavoce nei servizi giudiziari.
[3] Cfr. EU Justice scoreboard 2020, pubblicato il 10 luglio 2020, pag. 23, in www.ec.europea.eu/info/policies/justice-and-findamental-rights.
[4] La delibera dell’11 luglio 2018 è in www.csm.it/web/csm-internet, circolari e risoluzioni, VII commissione.
[5] L’osservazione, divenuta materia di rielaborazione per più recenti tesi nelle scienze di comunicazione moderna, è di Harold Gene Zucker, The variable nature of mass media influence, in B.D. Ruben (a cura di), Communication Yearbook 2, 1978, New Brunswick, USA, p. 227.
[6] Rapporto ISTAT su cittadini e giustizia civile, in www.istat.it/it/archivio/190586. “”
[7] Niklas Lhumann, La realtà dei mass media, Milano, 2000.
[8] Sulla costruzione dell’agenda comunicativa cfr. Sara Bentivegna e Giovanni Boccia Artieri, Le teorie della comunicazione di massa e la sfida digitale, 2019, Bari, pag. 176.
[9] Decreto del Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura del 15 luglio 2009, in G.U. 20 luglio 2009, seie generale, n. 166.
[10] Vera Gheno, Potere alle parole, 2019, Torino, pag. 153.
[11] Tullio De Mauro, in L’educazione linguistica democratica, Bari, 1975, pag. 76, parla di “una educazione espressiva posseduta dalla classe dominante come patrimonio abituale”, all’interno del quale essa “apre e chiude facilmente” l’accesso, aumentando o riducendo così il tasso di permissività per immettere o meno nuovi soggetti nel proprio ambito.
[12] Nel sito della Corte di giustizia dell’Unione Europea - in www.curia.europa.eu/jcms/jcms/Jo2_7053/it - si legge: “L’Unità Stampa e Informazione fornisce l’informazione disponibile sull’attività giurisprudenziale della Corte di giustizia e del Tribunale. I due organi giurisdizionali si esprimono esclusivamente tramite le loro decisioni. L’Unità Stampa e Informazione non è quindi il loro portavoce. L’Unità diffonde, in una o più lingue, comunicati stampa che consentono di conoscere velocemente i punti essenziali delle sentenze e delle conclusioni. Possono essere oggetto di informazione per la stampa anche alcuni eventi, come le udienze solenni o le visite protocollari”.
[13] Cfr. Marta Cartabia, Relazione dell’attività della Corte costituzionale nel 2019, 28 aprile 2020, in www.cortecostituzionale.it/documenti.
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