ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’esercizio dei pubblici poteri, il contenzioso e la funzione tributaria
di Raffaello Lupi
Sommario:1. Le proposte della commissione e i veri punti di divergenza - 2. Il ruolo del giudice in una funzione non giurisdizionale.
1. Le proposte della commissione e i veri punti di divergenza
Le divergenze all’interno della commissione interministeriale cui sono dedicati i presenti articoli partivano tutte da posizioni meritevoli di considerazione, come è emerso anche nel dibattito in webminar del 21 luglio u.s. con alcuni membri della commissione. C’era una convergenza generale sulla necessità di un giudice preparato in materia tributaria e dedicato ad essa a tempo pieno, cioè senza altre parallele occupazioni; il mantenimento a regime di magistrati onorari in primo grado è una sfumatura della proposta di minoranza (dei giudici). Questa differenza sfumava rispetto alla riutilizzazione, anche da parte della proposta di maggioranza (dei tributaristi), dell’esperienza maturata dalle attuali commissioni tributarie. Tutti riconoscevano infatti che in esse molti giudici hanno imparato la materia sul campo, essendovisi anche appassionati, confermando le convergenze suddette.
Le divergenze riguardano questioni che agli inizi del suddetto webminar ho definito scherzosamente di pubblico impiego , anche per sdrammatizzarle, ma che hanno un alto valore simbolico e istituzionale, su come collocare le suddette condivise esigenze negli assetti ordinamentali della giurisdizione, anche con riflessi costituzionali.
Sul piano costituzionale, una volta riconosciuta natura giurisdizionale alle attuali commissioni tributarie, sono forti gli argomenti per la legittimità di trasformare una magistratura onoraria (part time) in una magistratura a tempo pieno con proprio reclutamento e status. Chissà cosa sarebbe accaduto se la giurisprudenza costituzionale, che ha salvato le commissioni di cui alla riforma tributaria del 1972, si fosse trovata di fronte all’istituzione di una nuova magistratura, da conciliare con le disposizioni costituzionali ordinarie sull’ordinamento giudiziario. Il carattere onorario, cioè part time, di tali commissioni, ha consentito di affermarne la natura giurisdizionale, con sentenze politicamente necessitate per salvare l’esistente. Tali sentenze hanno potuto cioè evitare di affrontare i problemi costituzionali della creazione di un’ulteriore magistratura con un proprio ordinamento istituzionale, che vada al di là dell’attuale consiglio di presidenza della Giustizia Tributaria. Al di là delle suddette mie provocazioni sul pubblico impiego, il giudice tributario a tempo pieno pone cioè problemi istituzionali di ordinamento giurisdizionale che le precedenti commissioni non ponevano, proprio in quanto onorarie; esse erano tali in quanto formate da estranei all’ordine giudiziario, i c.d. laici, oppure da appartenenti agli altri ordini giudiziari. Il reclutamento per concorso di giudici a tempo pieno incide quindi sull’assetto dell’ordine giudiziario con una serie di problematici coordinamenti, che travalicano la ridotta e diluita nel tempo consistenza numerica delle assunzioni.
Bisogna in proposito domandarsi laicamente quale fosse il modo migliore per dare alla materia un giudice sostanzialmente competente, cioè preparato nel settore tributario, tenendo conto di una pluralità di parametri. Tra essi inserisco non solo il bagaglio di conoscenze/esperienze creatosi nelle commissioni tributarie e di cui diremo, ma anche l’assetto del diritto tributario. Quest’ultimo rileva per lo svolgimento di prove d’accesso in numerose magistrature, compresa una prova scritta per quella amministrativa. Occorrerebbe valutare la tradizione del diritto tributario, la sua esperienza professionale, la sua accademia, la sua manualistica, la sua pubblicistica tecnica, e vari altri profili per comprendere in quale misura una prova d’accesso contribuirebbe alla suddetta auspicata padronanza sostanziale dei contenuti e all’inquadramento delle controversie sottoposte al neo-giudice. Non mi sembra che la manualistica universitaria e la pubblicistica dottrinal-professionale, dalle riviste accademiche a quelle c.d. operative, colgano il cuore della funzione tributaria per un’appagante prova selettiva. Non mi pare infatti colta l’essenza della funzione tributaria, riguardante le entrate pubbliche rappresentate dalle imposte e la determinazione giuridica dei loro presupposti economici (reddito, consumo, ricavi, etc.). Del tutto trascurato mi sembra cioè il c.d. oggetto economico della funzione tributaria, che non comporta rinvii all’economia, generale o aziendale, ma richiede riflessioni giuridiche oggi del tutto carenti. Si tratta della specificità della funzione tributaria rispetto agli altri settori del c.d. diritto amministrativo speciale, come l’istruzione, l’urbanistica, l’ambiente, i beni culturali, la sanità ed altre funzioni pubbliche non giurisdizionali; come tali intendo quelle che traggono la loro giuridicità dall’esercizio di incarichi pubblici, da esercitare in base a valori e regole, in modo socialmente valutato, e dove il giudice non è l’istituzione di riferimento. Basta un minimo di cultura spazio-temporale per rendersi conto infatti che le rimostranze contro il cattivo esercizio di pubbliche funzioni si indirizzano in prima battuta alle gerarchie politico-amministrative, che eventualmente delegano organi di contenzioso amministrativo da esse dipendenti; è tra l’altro una tradizione secolare della determinazione delle imposte, in cui bisognava dare uno sfogo alle rimostranze connesse alle diverse determinazioni, all’epoca valutative (c.d. estimazione) dei suddetti presupposti economici. Solo in circoscritti assetti pluralisti il sistema di controlli e contrappesi delle società complesse, talvolta denominato “stato di diritto”, si spinge ad un giudice delle pubbliche funzioni gerarchicamente indipendente dalla politica.
Il diritto tributario è una di queste funzioni non giurisdizionali, probabilmente la più corposa, sulle cui particolarità si sarebbero dovuti personalizzare molti principi generali del diritto amministrativo. Pur rendendosi conto di quanto sopra l’accademia del diritto tributario si è invece posta in prospettive da un lato privatistico-giurisdizionali, e dall’altro sociologico-economicistiche, variamente combinate. C’è stata una separazione dall’alveo dello studio giuridico sociale delle funzioni pubbliche, come spiego al par.4.3 del mio volume La funzione amministrativa d’imposizione nel quadro delle pubbliche entrate-Spiegazioni giuridico sociali e tecniche di determinazione dei presupposti economici d’imposta, scaricabile qui in accesso aperto https://didatticaweb.uniroma2.it/it/files/index/insegnamento/188769/27335 .
Questo sfasamento teorico dello studio del diritto tributario alimenta fondati dubbi sull’idoneità del materiale formativo disponibile in materia per alimentare culturalmente la neo-magistratura ipotizzata dalla relazione di maggioranza della commissione; l’utilità della prova d’ingresso lascia perplessi anche per l’aggiunta di economia aziendale, materia estranea ai rapporti giuridico sociali interni all’azienda, nonché tra essa e istituzioni/stakeholders. La relazione di maggioranza appare cioè ottimistica nel presupporre un sapere organico del settore tributario da mettere a base dei concorsi di ammissione. A mio avviso invece il sapere specialistico tributario non è abbastanza messo a fuoco, né consapevole di se stesso, per potervi fondare una quarta giurisdizione. Si può cioè dubitare che i giudici tributari a tempo pieno vincitori dell’ipotizzato concorso d’ingresso possiedano la preparazione specialistica universalmente desiderata. A quest’ultima dovrebbe contribuire, in capo ai neomagistrati vincitori, il training on job nelle attuali commissioni, in cui sarebbero via via distribuiti, nella lunga fase transitoria ipotizzata dalla relazione di maggioranza. Questo indica che forse proprio nelle attuali commissioni, giustamente criticate, si è sedimentata una tradizione culturale più solida di quella sopra indicata per la dottrina. All’interno delle commissioni operano infatti appartenenti ai vari ordini giurisdizionali che nei decenni, pur con tanti infortuni, hanno inconsapevolmente sedimentato una tradizione. Quest’ultima è molto minore di quella esistente in altri settori del diritto, come quello penale, ma ha una qualche consistenza. Si sarebbe quindi potuto impiegare a tempo pieno chi aveva già acquisito on job una sensibilità specialistica, utilizzando alcuni esperti giudici togati delle commissioni. Essi avrebbero potuto costituire il primo nucleo di una sezione specializzata della magistratura ordinaria, in luogo dei suddetti magistrati a tempo pieno assunti per concorso esterno in una nuova magistratura speciale. Avremmo avuto magistrati già esperti in grado di operare a tempo pieno, operando con distacchi per i magistrati contabili e amministrativi. La risposta dei circa 1700 togati con esperienza nella magistratura tributaria avrebbe forse potuto essere sufficiente rispetto alle 100 posizioni l’anno di magistrati a tempo pieno; se non lo fosse stata si sarebbe potuto aprire un concorso riservato con contenuti tributari ai circa diecimila tra magistrati ordinari, amministrativi e contabili in servizio. Il tutto cioè senza avviare l’ulteriore neo-magistratura su cui si mostra giustamente perplesso anche Claudio Consolo. L’aspirazione della proposta “di maggioranza” ad una preparazione tributaria specifica avrebbe cioè potuto essere collocata nel quadro di chi è già giudice, articolando ulteriormente le mansioni in relazione alla domanda di “servizio giustizia”. L’ordine giudiziario è infatti già abbastanza frammentato tra ordinario, amministrativo e contabile e su questo sarebbe bene, al di là dei condizionamenti dell’esistente e del diritto tributario, aprire nelle università una serena riflessione giuridico sociale. L’occasione è anche la discussione sulla separazione delle carriere tra pubblici ministeri e magistrati penali giudicanti, peraltro ispirata da ragioni di indipendenza reciproca, e di garantismo penale, non di diversità di saperi. È invece la parziale diversità di saperi che potrebbe giustificare una specializzazione di carriere, all’interno di un’ipotetica unica magistratura, tra specificità penali (inquirenti e giudicanti), civili e amministrative, comprensive di questioni contabili (corte dei conti) e tributarie. In margine alla discussione sull’ipotetica ulteriore magistratura tributaria si tratterebbe di indagare in quale misura l’unità della magistratura, e la sua indipendenza dal potere politico, siano compatibili con varie specializzazioni interne, sul modello tedesco evocato nel webinar da Enrico Manzon. Queste specializzazioni potrebbero anche portare a una specificazione delle prove di accesso, oggi difficile “barriera all’ingresso” degli ordini giurisdizionali, con notevole mobilità successiva. Forse invece l’efficienza della macchina della giustizia potrebbe aumentare con una base comune di accesso e varie specializzazioni, contestuali o successive, soggette a prove specifiche. E’ l’ottica di una formazione permanente, soggetta a scrutinio, all’interno dell’ordine giudiziario, dando sfogo controllato al legittimo desiderio di chi volesse modificare le proprie attività.
Abbandonando scenari concettuali globali, e tornando alla magistratura tributaria, la gestione dell’esistente, che ispira la politica, consiglia di incardinare l’auspicata preparazione tributaria sulle giurisdizioni già in essere. Per chi già sia giudice, e voglia dedicarsi a tempo pieno alla funzione tributaria, la relativa sensibilità non è difficile da raggiungere, e potrebbe essere accertata con una prova d’ingresso, più gestibile del concorso specifico per i neomagistrati tributari reclutati dall’esterno. Non mi sembra il caso di insistere in una ricerca di specificità che non ha portato fortuna agli studi tributari; questi ultimi, cercando giustamente la propria identità rispetto all’economia dei tributi, si sono separati dallo studio generale delle funzioni amministrative, cadendo in una trappola privatistico-giurisdizionale e in un destabilizzante isolamento. Quest’ultimo riduce il diritto tributario ad una specie di oggetto misterioso anche agli occhi degli altri operatori del diritto; da un punto di vista giuridico sociale occorrerebbe invece muoversi in senso inverso, accorpando le accademie nei modi indicati al par.2.6 del mio Studi sociali e diritto scaricabile qui in open access https://didattica.uniroma2.it/files/index/insegnamento/188770-Scienza-Delle-Finanze. La giurisdizione tributaria autonoma non farebbe neppure, a ben guardare, l’interesse dello stesso diritto tributario, aumentandone l’isolamento suddetto, tra le materie privatistiche, pubblicistiche e processualistiche. Esso sarebbe come oggi costretto ad affrontare da solo temi comuni alla generalità delle funzioni pubbliche. Tra questi anche la tutela contro il cattivo esercizio del potere , in cui si inquadra il ruolo del giudice nella funzione tributaria, di cui al punto seguente.
2. Il ruolo del giudice in una funzione non giurisdizionale
La commissione, concentrata sui problemi istituzionali sopra descritti, non poteva certo interrogarsi sui profili concettuali anticipati al punto precedente, cioè il posto del giudice in una funzione non giurisdizionale, nel senso sopra chiarito. La mancanza di accenni a questo profilo, ed anche gli equivoci nell’interlocuzione con alcuni colleghi, confermano la già indicata solitudine culturale dell’accademia tributaristica rispetto alla discussione generale su rimedi verso l’ipotetico cattivo esercizio dei pubblici poteri. Questa cornice generale su cosa deve fare il giudice avrebbe anche potuto essere d’ausilio nella suddetta accesa discussione su chi debba fare il giudice tributario.
Nella relazione della commissione echeggia spesso un equivoco di fondo, diffuso anche oltre l’ambiente tributario, cioè concepire l’intervento del giudice secondo le logiche della funzione di giustizia privatistica (ne cives ad arma veniant), per risolvere le controversie salvaguardando la “pace sociale”, senza esercizio privato delle proprie ragioni ( autotutela privata), ritorsioni , faide ecc. L’equivoco è quello di concepire l’intervento del giudice tributario come un’estensione alle pubbliche amministrazioni della suddetta necessità di comporre conflitti tra privati, trascurando quanto detto al punto precedente sul giudice amministrativo come evoluzione di rimedi politico-amministrativi relativi al cattivo esercizio di altre funzioni pubbliche. Qui la parità sostanziale si raggiunge attraverso la valorizzazione delle diversità tra ricorrenti privati ed esercenti pubbliche funzioni, ivi compresa incidentalmente la magistratura inquirente. Il processo sulle funzioni non giurisdizionali è in altri termini “giusto” non perché presuppone una fantomatica parità, ma perché valorizza le concrete disparità, anche in materia tributaria. Anche il giudice tributario indipendente, dalla politica è il punto d’arrivo, come quello amministrativo, di un percorso di reclami gerarchico politici in cui si è evoluto pian piano il sistema di controlli e contrappesi (checks and balances) che caratterizza la ripartizione di competenze di uno stato moderno; è un processo avviato già nello stato assoluto, che non significava ingerenza casuale e estemporanea del sovrano in tutte le questioni, inconcepibile in una collettività organizzata, ma subordinazione ad esso di tutte le altre funzioni pubbliche (è il vero senso del quod principi placuit legis habet vigorem).
Si coglie la diversità del percorso concettuale rispetto all’estensione ai rapporti tra funzioni pubbliche e individui dell’ordinaria funzione di giustizia, per la quale l’indipendenza dalle parti è un presupposto di credibilità.
Benchè indipendente dalla politica, il giudice delle funzioni non giurisdizionali è consapevole di controllare una diversa funzione pubblica. Ne discende che chiunque sia giudice di una funzione pubblica, esaminando la correttezza del suo comportamento, entra senza saperlo oggettivamente a far parte di questa funzione. Se per avventura affidassimo il controllo della funzione tributaria al tribunale delle imprese, come suggerisce Claudio Consolo nel suo intervento, quest’organo preposto alla soluzione di liti private diventerebbe automaticamente, e magari inconsapevolmente, giudice amministrativo.
La conseguenza di quanto sopra è che l’attenzione del giudice si appunta sulla correttezza dell’agire amministrativo, tenendo conto delle sue modalità e possibilità; in queste operazioni mentali è del tutto normale capire che la funzione sottostante è stata esercitata male, senza però avere idea di come sostituirvisi, esercitandola di nuovo. Senza l’adeguata cornice culturale di cui al punto 1 questo genera pregiudizi positivi e negativi verso l’ufficio pubblico coinvolto. Il rischio è che, senza una cornice culturale amministrativistica e tributaria, scattino innumerevoli sfumature tra giustizialismo casistico pro privato e pro ufficio tributario, a seconda di come il giudice è stato . impressionato dalla controversia. In materia tributaria purtroppo, pesa la vischiosa tradizione delle commissioni, geneticamente amministrative e imbellettate di giurisdizionalità per poterle far passare indenni alle riforme del 1972 e del 1992. E’ mancata quindi la dimensione culturale (par.1) per adeguare le appena menzionate caratteristiche generali del controllo giurisdizionale sul cattivo esercizio delle funzioni pubbliche alle specificità di quella tributaria. Occorre quindi oggi superare gli equivoci derivanti dall’aver affrontato il processo tributario con concetti privatistici, come se fosse “la soluzione finale” alle controversie sulla determinazione dei presupposti economici d’imposta, ed esse non potessero essere rinviate, per molti aspetti, agli uffici tributari nella logica conformativa del giudicato amministrativo. L’operato del giudice tributario, comunque individuato, va quindi riportato all’alveo del controllo generale sul cattivo esercizio di pubbliche funzioni, con una fase rescindente e una rescissoria, che può e deve essere svolta dalla stessa amministrazione in sede di rinvio. La mancata percezione di questo aspetto, e l’idea privatistica del giudice come “soluzione finale” della controversia, sono alla radice dell’atteggiamento degli uffici tributari di notificare l’accertamento e poi far decidere il giudice, così deresponsabilizzandosi e diminuendo l’impatto sociale della propria funzione. Per liberarsi della responsabilità di decidere, si tende a notificare accertamenti sovradimensionati, ma da cui si capisca che in qualche misura il contribuente ha evaso; l’idea dell’impugnazione merito, eredità del vecchio contenzioso amministrativo, costringe il giudice a rideterminare la pretesa, sgravando comunque l’ufficio della relativa valutazione e responsabilità. Scatta così il meccanismo mentale dell’io ho fatto, passo la palla al giudice, con la difesa ostinata di qualsiasi provvedimento, e l’inutile moltiplicazione dei processi. E’ la cannibalizzazione processuale della funzione tributaria, come s’intitola questo mio video su youtube https://www.youtube.com/watch?v=ZoliQyp-zEc , che diminuirebbe se il giudice potrebbe invece limitarsi a censurare il cattivo esercizio del potere, facendo rideterminare l’imposta all’ufficio tributario, nei limiti quali-quantitativi dell’atto impugnato. In questo caso l’Agenzia non potrebbe più arroccarsi dietro la prassi sopradetta, deresponsabilizzandosi rispetto alla determinazione dell’imposta.
Si tratta quindi di superare la fuorviante impugnazione merito, eredità del contenzioso amministrativo, col suo ruolo sostitutivo del giudice, anomalo rispetto ai principi generali della giurisdizione amministrativa. Nessuno si scandalizzerebbe, certo, davanti a decisioni dirette, e sostitutive, da parte del giudice, qualora le ritenga alla sua portata, su questioni di diritto o di fatto estremamente puntuali. L’importante è che il giudice non si trovi costretto a sostituirsi all’ufficio nei lavori complessi da cui l’amministrazione ha abdicato per scaricare sul giudice la responsabilità. Chiunque sia il futuro giudice tributario a tempo pieno (par.1) occorrerà lavorare per riportarne l’opera in quest’alveo naturale della giurisdizione contro il cattivo esercizio di pubbliche funzioni.
Nemo tenetur se detegere: potenzialità espansive della recente giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale sul sistema tributario
di Andrea Sciacca
Sommario: 1. La sentenza della Corte Costituzionale n. 84 del 30 aprile 2021 - 2. Il diritto al silenzio nel sistema interno e sovranazionale - 2.1. Lo ius tacendi nel quadro della garanzia dell’art. 24, comma 2, Cost. e dell’art. 27, comma 2, Cost. - 2.2. SEGUE: Il diritto al silenzio oltre il ristretto ambito del processo penale - 3. La vis espansiva del diritto al silenzio nei procedimenti tributari volti ad irrogare sanzioni - 4. Diritto al silenzio e obblighi di collaborazione - 4.1. Le sanzioni tributarie - 4.2. Le sanzioni improprie - 4.2.1. L’inosservanza dell’ordine di esibizione disposto dal Giudice - 4.2.2. Le preclusioni probatorie.
1. La sentenza della Corte Costituzionale n. 84 del 30 aprile 2021
Queste brevi riflessioni alla sentenza n. 84 del 30 aprile 2021 della Corte Costituzionale, che consacra l’operatività del diritto al silenzio nel campo del diritto sanzionatorio generale, si prefiggono l’obiettivo di esaminare le ripercussioni della pronuncia nell’ordinamento tributario italiano, costellato da norme che non solo garantiscono all’Amministrazione Finanziaria un ampio potere di accesso alle informazioni ma che prevedono sanzioni per il contribuente nelle ipotesi di “rifiuto alla collaborazione”.
La questione sottoposta al vaglio della Consulta nasce dalla vicenda di un amministratore di società assoggettato a sanzione pecuniaria per non avere risposto alle “domande” della Consob su operazioni finanziarie sospette da lui compiute[1].
L’interessato aveva impugnato la sanzione, sostenendo di aver esercitato legittimamente il diritto costituzionale di non rispondere a domande da cui sarebbe potuta emergere la propria responsabilità.
La Corte di Cassazione, investita del caso, aveva sollevato nel 2018 questione di legittimità costituzionale dell’art. 187 quinquiesdecies TUF, che prevede una sanzione da 50.000 a un milione di euro (nella formulazione vigente al momento del fatto addebitato al ricorrente) a carico di chi “non ottempera nei termini alle richieste della Banca d’Italia o della CONSOB”, senza alcuna eccezione in favore di chi sia già sospettato di avere commesso un illecito[2]. Con l’ordinanza n. 117 del 2019, la Corte Costituzionale, nella considerazione che la questione di legittimità proposta dalla Suprema Corte implicasse la valutazione di una pluralità di assetti normativi sia di matrice nazionale sia di diretta derivazione comunitaria, sottoponeva alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la seguente questione pregiudiziale: “se l’art. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE, in quanto tuttora applicabile ratione temporis, e l’art. 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014 debbano essere interpretati nel senso che consentono agli Stati membri di non sanzionare chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di natura punitiva”[3].
Con la sentenza del 2 febbraio 2021, causa C-481/19[4], la Corte di Giustizia chiariva che il diritto al silenzio è parte integrante dei principi dell’equo processo, così come riconosciuti dalla stessa Carta dei diritti fondamentali UE.
Tale diritto – proseguivano i giudici di Lussemburgo – opera anche nell’ambito di quei procedimenti all’esito dei quali possono essere irrogate sanzioni aventi carattere punitivo, come quelle previste nell’ordinamento italiano per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate.
La Consulta, rilevando che l’interpretazione della disciplina comunitaria fornita dalla Corte di Giustizia collima con la lettura del diritto al silenzio che la stessa Corte italiana aveva offerto nel proprio rinvio pregiudiziale, in armonia con le indicazioni provenienti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, con la pronuncia in commento dichiarava incostituzionale l’art. 187 quinquiesdecies citato, “nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla Banca d’Italia o alla Consob risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato”.
Ad avviso della Corte italiana, dunque, dal diritto al silenzio discende l’impossibilità di punire una persona fisica che si sia rifiutata di rispondere a domande, formulate in sede di audizione o per iscritto dalla Banca d’Italia o dalla Consob, dalle quali sarebbe potuta emergere una sua responsabilità per un illecito amministrativo o addirittura penale[5].
2. Il diritto al silenzio nel sistema interno e sovranazionale
Non v’è chi non veda nella commentata sentenza l’occasione per tracciare direttrici di sorprendente rilevanza in materia di diritto al silenzio anche nell’ordinamento tributario.
Tuttavia, prima di procedere allo studio del tema, si rivelano opportune alcune considerazioni di carattere generale e storico al fine di individuare le radici su cui poggia lo ius tacendi ed il terreno su cui esso si è sviluppato al fine di meglio comprenderne la vis espansiva.
2.1. Lo ius tacendi nel quadro della garanzia dell’art. 24, comma 2, Cost. e dell’art. 27, comma 2, Cost.
Quello del diritto al silenzio rappresenta uno dei temi classici, tra i più coinvolgenti e ricorrenti, nella storia del processo penale, in quanto corollario essenziale dei principi fondamentali, riconosciuti negli ordinamenti democratici, propri di un processo accusatorio che è, per l’appunto, imperniato sul nemo tenetur se detegere che è massima enunciata da Thomas Hobbes e recepita nel diritto inglese sin dal XVI secolo[6].
Già all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione italiana, con la proclamazione dell’inviolabilità del diritto alla difesa di cui all’art. 24, comma 2, e del principio di presunzione di non colpevolezza ex art. 27, comma 2, emerse con chiarezza una ritrovata sensibilità per la problematica relativa alla posizione dell’imputato e alle forme e limiti del suo diritto di (auto)difesa.
In tale contesto, la possibilità per un soggetto di invocare il “privilegio” contro l’auto-incriminazione rappresenta la principale facoltà sottesa al diritto di autodifesa passiva, cioè al diritto di non fornire elementi di prova in proprio danno, preferendo rimanere – totalmente o parzialmente – in silenzio, in luogo di rendere dichiarazioni, verosimilmente, autoincriminanti[7].
Sebbene nel nostro ordinamento sia ormai incontestabile che il diritto al silenzio sia un corollario del diritto fondamentale garantito dall’art. 24, comma 2, Cost.[8] (che, comunque, non riconosce espressamente la facoltà di non collaborare con l’autorità procedente), il testo costituzionale non fornisce alcuna precisazione circa le modalità o i confini del suo esercizio.
In ambito penale, tale privilegio trova, oggi, ampio riconoscimento nella disciplina codicistica. In particolare, a titolo esemplificativo, la persona sottoposta alle indagini preliminari deve essere avvertita che, salvo l’obbligo di dichiarare le proprie generalità e quant’altro valga ad identificarla (artt. 66, comma 1, c.p.p., 21 disp. att. c.p.p.), “ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda” (art. 64, comma 3, lett. b) c.p.p.). Tale avviso è obbligatorio, a pena d’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’interrogato (art. 64, commi 3, lett. b) e 3-bis, c.p.p.)[9].
La regola descritta si applica durante ogni fase del procedimento penale, nella totalità degli atti costituenti formalmente un “interrogatorio” dell’indagato o dell’imputato; come pure in tutti quelli che risultano, sostanzialmente, ad esso assimilabili, in quanto possibili sedi di domande all’incolpato[10].
2.2. Segue: Il diritto al silenzio oltre il ristretto ambito del processo penale
Benché il privilegio contro l’auto-incriminazione sia nato e si sia sviluppato nel campo del processo penale, a partire dagli anni Ottanta, prima la Commissione e, dopo, la Corte europea dei diritti dell’uomo nonché la Corte di Giustizia dell’Unione Europea hanno intrapreso un articolato cammino nell’evidente tentativo di ampliare lo spettro di applicazione del diritto al silenzio e riconoscere un’anticipazione della tutela processuale posta dalla Convenzione EDU, nonché dal Patto sui diritti civili e politici, a fasi che precedono il momento della formalizzazione dell’accusa penale da parte degli organi inquirenti.
La ricerca della formula corretta che consentisse l’estensione delle garanzie sul “giusto processo” a contesti esterni – e precedenti – rispetto al processo, ha difatti permesso di guardare oltre il ristretto ambito del processo penale, determinando, così, la possibilità che il diritto al silenzio potesse applicarsi a settori in cui si ravvisa l’esercizio di meri poteri amministrativi di indagine e controllo nei confronti dei cittadini[11].
Pur nel rispetto delle esigenze di sintesi che si impongono in questa sede, si rende necessaria una rapida ricognizione delle principali “tappe” sul tema al fine di cogliere lo spunto logico-concettuale al quale la decisione in commento è ispirata.
La sentenza 84 del 2021 della Corte Costituzionale (a cui non si nega il carattere innovativo) si innesta in un percorso già intrapreso dalla stessa Consulta – nel dialogo con la Corte di Strasburgo – allorquando, con precedenti pronunce, aveva affermato che singole garanzie riconosciute in materia penale dalla CEDU e dalla stessa Costituzione italiana si estendono anche a tutte le sanzioni di natura punitiva.
Il presupposto di un simile approccio deve individuarsi nella consolidata giurisprudenza europea sulla nozione sostanziale di sanzione penale, basata sui parametri enucleati dalla sentenza Engel (c.d. Engel criteria)[12].
Ai fini dell’applicazione delle garanzie previste dalla Convenzione, sono infatti riconducibili alla materia penale tutte quelle sanzioni che, pur se non espressamente qualificate come penali dagli ordinamenti nazionali, hanno una connotazione afflittiva, sono rivolte alla generalità dei consociati e perseguono uno scopo repressivo e preventivo.
Tali criteri non trovano applicazione in via cumulativa, ma alternativa, sicché è sufficiente l’integrazione anche di uno solo di essi per giungere a considerare come lato sensu “penale” un illecito[13].
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha così offerto un’interpretazione autonoma della nozione di “accusa penale”[14]; approccio fatto proprio anche dalla Corte di Giustizia.
Sulla base di tali premesse concettuali, i Giudici di Strasburgo sono stati più volte chiamati a pronunciarsi sulla compatibilità con la Convenzione di procedimenti amministrativi non rispettosi delle garanzie da essa riconosciute tra cui, per l’appunto, il diritto al silenzio.
L’apertura alla più ampia tutela dell’esercizio del diritto a non autoincriminarsi, quale manifestazione delle garanzie previste dalla CEDU, fu tale da includere anche la materia tributaria[15].
Va segnalata, al riguardo, un’importante evoluzione della giurisprudenza europea.
Storicamente, le prime pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo avevano inquadrato la questione sull’applicazione del diritto al silenzio alla materia fiscale, in assenza di una espressa disposizione, nell’ambito dell’art. 8 della Convenzione[16] il quale, nel disciplinare il “diritto al rispetto della vita privata e familiare”, al secondo paragrafo, dispone che “non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
Com’è noto, la Corte EDU ha escluso l’applicazione dell’art. 6 della Convenzione alle liti tributarie in quanto, attesa la natura pubblicistica del rapporto tra il contribuente e l’amministrazione finanziaria, esse vertono su obbligazioni che, seppur di contenuto patrimoniale, riguardano doveri civici imposti in una società democratica[17].
A sostegno di tale impostazione milita un argomento di carattere letterale in quanto l’art. 6 prevede una serie di garanzie procedurali per i casi in cui vi sia una contestazione su “diritti e doveri di carattere civile” ovvero si verta “sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata” nei confronti della persona.
In tempi più recenti, la Corte EDU ha dimostrato un’insolita apertura rispetto al granitico orientamento espresso nella sentenza Ferrazzini[18], riconoscendo l’operatività di alcune prerogative del giusto processo – come quella del diritto al silenzio – anche in controversie di natura prettamente fiscale[19].
Invero, la Corte europea dei diritti dell’uomo, mutando prospettiva, ha ricondotto la questione nell’ambito dell’art. 6 della Convenzione, ritenendo che la posizione del contribuente sottoposto ad accertamento sia sostanzialmente equiparabile a quella del soggetto indagato in un procedimento penale.
Il licenziamento dell’art. 8 in favore dell’art. 6 della Convenzione, ha fatto sì che l’oggetto della tutela fosse non più di carattere sostanziale (diritto alla riservatezza) ma di natura eminentemente processuale (diritto di difesa)[20], sicché lo stesso art. 6 va, oggi, riconosciuto come parametro di legalità che il Legislatore ed Giudice tributario devono rispettare tutte le volte in cui la sanzione comminata dall’Amministrazione tributaria sia connotata dal carattere di afflittività[21].
3. La vis espansiva del diritto al silenzio nei procedimenti tributari volti ad irrogare sanzioni
Le argomentazioni addotte dalla Consulta nella sentenza del 30 aprile 2021 si pongono in soluzione di continuità con quanto affermato dalla giurisprudenza europea; a ben vedere, i parametri normativi nazionali e non richiamati, segnatamente, l’art. 24 Cost., l’art. 6 CEDU e gli artt. 47 e 48 CDFUE contribuiscono, complessivamente considerati, alla definizione della nozione di diritto di difesa e degli standard minimi di tutela per il suo esercizio.
Nel solco di detto corposo e ormai prevalente orientamento, può sostenersi che la difesa può realmente essere detta inviolabile solo ove sia garantita la libera scelta di tacere, in quanto non v’è dubbio che ove sussistesse un generale obbligo di rispondere secondo verità, altro non vorrebbe dire che riconoscere un obbligo di confessione. Affermare l’esistenza di un simile obbligo verso un’autorità diversa da quella giudiziaria, ma che a questa abbia l’obbligo di riferire, comporta un’innegabile esposizione a rischio di incriminazione.
Pur partendo dal dato acquisito con le recenti pronunce della Corte di giustizia UE, 2 febbraio 2021, C-481/19, DB c. Consob e della Corte costituzionale qui in commento, secondo cui il diritto al silenzio deve essere rispettato anche nell’ambito di procedure di accertamento di illeciti amministrativi, suscettibili di sfociare nell’inflizione di sanzioni amministrative di carattere sostanzialmente penale, non può comunque affermarsi che le molteplici e complesse problematiche inerenti al sistema tributario possano tout-court dirsi risolte.
L’applicabilità del diritto in questione alla materia tributaria rimane, infatti, controversa sotto diversi profili.
Se in generale il diritto al silenzio, nella sua impostazione penalistica classica, implica, da un lato, che le autorità statali debbano esercitare i loro poteri di indagine senza ricorrere ad abusi o a coercizioni della volontà del soggetto imputato e, dall’altro, che l’indagato venga tutelato dalle illegittime pressioni delle stesse autorità sin dalla fase delle indagini per assicurare un equo processo, gli aspetti applicativi sono tutt’altro che di immediata soluzione.
Volere definire l’esatta portata del diritto al silenzio comporta l’analisi di quattro tradizionali problemi interpretativi: stabilire quale rischio legittimi l’attivazione di tale diritto; stabilire il contesto in cui possa essere esercitato tale diritto; stabilire quali siano le condotte consentite nell’esercizio di tale diritto; stabilire quali conseguenze giuridiche, quali regimi giuridici possano confliggere con tale diritto.[22]
Si può, oggi, affermare che la Consulta abbia dato puntuali risposte (solo) ad alcuni di tali quesiti rendendo, comunque, la materia tributaria potenzialmente fertile all’attuazione del principio del nemo tenetur quo detegere.
Una prima risposta all’interrogativo su quale sia il rischio al ricorrere del quale può essere invocato il privilegio contro l’auto-incriminazione si desume dalla condivisione, da parte della Corte costituzionale, dei principi espressi dalla giurisprudenza europea secondo cui le singole garanzie previste per la materia penale vadano estese alle sanzioni che derivano da procedimenti amministrativi, pur se non qualificate come penali dall’ordinamento nazionale, purché assumano una natura punitiva (secondo gli Engel criteria)[23].
Per quanto concerne il contesto in cui può essere esercitato il diritto al silenzio, ci si chiede(va) se esso è invocabile nel solo ambito del procedimento/processo penale o anche in una fase antecedente ed esterna a questo.
Superando la propria impostazione restrittiva, la Consulta, con la pronuncia in commento, ampliando lo spettro d’azione del diritto in esame, ha dato una risposta positiva alla seconda alternativa.
Decisivo, in tal senso, estendere la garanzia in capo a colui a cui vengono richiesti documenti o informazioni, indipendentemente dalla eventualità che gli sia già stata contestata la commissione di un reato[24].
Sostiene la Consulta, difatti, che il diritto al silenzio opera “nell’ambito di procedimenti amministrativi che – come quello che ha interessato il ricorrente nel giudizio a quo – siano comunque funzionali a scoprire illeciti e a individuarne i responsabili, e siano suscettibili di sfociare in sanzioni amministrative di carattere punitivo”[25].
Per quanto concerne le condotte protette da tale diritto, considerato che il silenzio – alla luce di quanto fin qui esposto – va inteso come astensione dal “parlare” (o mostrare), vanno ritenute scriminate solamente le condotte omissive e non anche quelle positive quali, per esempio, le condotte di mendacio, o di falsificazione materiale o ideologica, ovvero di frode.
È, dunque, giustificato astenersi per non cooperare alla propria incriminazione ma non agire allo scopo di evitarla.
Così delineata, traslata nell’articolato ordinamento tributario (dagli obblighi di dichiarazione al contenzioso), tale facoltà riconosciuta al contribuente si rivela foriera di conseguenze di notevole impatto, posto che la normativa fiscale è fitta di obblighi di condotta (di collaborazione) che potrebbero portare ad una autodenuncia della commissione di illeciti.
Ne consegue che tutte le volte in cui la collaborazione che viene chiesta implichi l’esposizione al rischio di una conseguenza punitiva, il contribuente non può essere costretto, neppure mediante la minaccia di sanzioni per l’omessa collaborazione, a rivelare alcunché[26].
Rivelandosi di particolare complessità, e incidendo su fattispecie eterogenee, nel prosieguo verranno delineate le ipotesi che maggiormente (e potenzialmente) vengono “incise” dall’applicazione del diritto al silenzio.
4. Diritto al silenzio e obblighi di collaborazione
Quanto esposto finora offre un’utile piattaforma su cui sviluppare l’esame della normativa vigente nel nostro ordinamento tributario al fine di identificare perplessità e incertezze applicative provocate dell’esercizio del diritto a non autoincriminarsi.
Come anticipato, la normativa tributaria contiene numerose norme che prevedono, a fronte di oneri e obblighi di collaborazione (si pensi all’obbligo di dichiarazione, di autoliquidazione, di versamento, di tenuta della contabilità, ecc.), sanzioni per il contribuente che si rifiuti di adempiervi.
Indubbiamente il “peso” gravante sul contribuente costituito dalla presenza di tali obblighi non implica un problema di possibile conflitto con il diritto al silenzio.
Essi trovano il loro fondamento nell’art. 2 Cost., che impone l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale, specificato poi dall’art. 53 Cost., e sono volti a far ostendere e rilevare la ricchezza e si pongono come strumentali al dovere gravante su ogni individuo di partecipare e concorrere alla spesa pubblica in ragione della propria capacità contributiva.
Il problema del diritto al silenzio non può dunque porsi rispetto agli obblighi dichiarativi e strumentali all’adempimento dei doveri tributari primari, in un momento in cui non può neppure astrattamente esistere una violazione, ma per gli eventuali doveri di collaborazione al controllo dell’avvenuto adempimento dei propri obblighi.
Sicuramente lo svolgimento dell’attività istruttoria da parte dell’Amministrazione finanziaria comporta un’intromissione nella sfera soggettiva del contribuente. Si tratta, tuttavia, di un’ingerenza che deve realizzare il giusto contemperamento fra opposte esigenze: da un lato, quella degli Uffici di ricercare e raccogliere dati ed elementi rilevanti ai fini dell’accertamento, nonché ai fini dell’individuazione delle violazioni delle norme tributarie; dall’altro, quella del contribuente a che l’attività di indagine cui viene sottoposto sia svolta in modo legittimo, non travalichi i limiti imposti dalla legge e non arrechi pregiudizio a situazioni giuridiche soggettive.
Orbene, in taluni casi, può verificarsi la circostanza in cui l’adempimento da parte del contribuente dei doveri di collaborazione nei confronti dell’Amministrazione finanziaria nell’esercizio di poteri di accertamento e controllo, implichi per lo stesso contribuente l’obbligo di fornire informazioni riguardanti l’esistenza di fatti fiscalmente rilevanti; il disvelamento di tali informazioni assolve, com’è ovvio, la funzione di garantire il regolare svolgimento dell’attività di accertamento da parte dell’Ufficio, evitando che il contribuente possa, mediante azioni od omissioni, intralciarne l’esercizio.
Tuttavia, tale forma di collaborazione richiesta al contribuente non può ritenersi illimitata, al punto da porre il contribuente nella situazione di dover rendere dichiarazioni o esibire documenti che possano esporlo al rischio di “autoincriminarsi”.
Pertanto, se l’ordinamento tributario prevede degli obblighi di cooperazione ai controlli contra se, sono questi a poter confliggere con il diritto al silenzio, in quanto obblighi di collaborazione all’accertamento della commissione di eventuali violazioni proprie, già ipoteticamente avvenute[27].
L’impatto del diritto al silenzio, dunque, dovrebbe dispiegarsi soltanto rispetto a quelle fattispecie in cui il dovere di collaborare con l’autorità amministrativa è volto esclusivamente ad agevolare la funzione investigativa/accertativa/sanzionatoria della pubblica autorità.
Posta tale premessa, ci si deve chiedere se, in quali ipotesi ed in che misura può postularsi, all’interno del sistema di tutela dei diritti del contribuente, un generale diritto al silenzio invocabile allorché la risposta alla richiesta di informazioni o esibizione di documenti da parte dell’Amministrazione finanziaria risulti potenzialmente idonea ad esporlo al rischio di incorrere in sanzioni sia penali sia di natura amministrativa.
4.1. Le sanzioni tributarie
Si pone il problema, anzitutto, di coniugare il diritto al silenzio con le sanzioni pecuniarie, in materia di imposte dirette e IVA, disposte dal D.Lgs. n. 471/1997, agli artt. 9 e 11, per chi ometta di rispondere alle richieste istruttorie dell’Agenzia delle Entrate. Ci troviamo dinanzi a sanzioni punitive, in palese conflitto con il diritto a tacere e, pertanto, da ritenersi illegittime[28].
In tema di sanzioni dirette suscettibili di entrare nel fuoco di un possibile conflitto con il diritto in esame, è evidente che è il campo penale tributario (reati in materia di imposte sui redditi e IVA) quello che si espone maggiormente all’utilizzo della strategia difensiva del silenzio, che si rivela particolarmente efficace soprattutto nei casi in cui vi è consapevolezza, nel soggetto sottoposto a verifica, di essere colpevole di reati di notevole gravità.
Diversi interrogativi sulla compatibilità del diritto si pongono in relazione:
- all’art. 10, D.Lgs. n. 74/2000 che punisce chi occulta o distrugge scritture contabili o documenti di cui è obbligatoria la conservazione. La fattispecie di reato consiste, pertanto, nell’occultamento, totale o parziale, di documenti rilevanti ai fini fiscali.
- all’art. 11, D.L. n. 201/2011, che punisce trasmissioni mendaci, incomplete o semplicemente non veritiere di documenti necessari al completamento delle procedure d’accertamento;
- (per stretto collegamento) all’art. 216, comma 1, n. 2) R.D. n. 267/1942 (bancarotta fraudolenta) e alla fattispecie generale prevista all’art. 490 c.p. (soppressione, distruzione e occultamento di atti veri).
Va osservato che l’efficacia scriminante del diritto al silenzio va perimetrata con riguardo soltanto – per quanto già esposto al paragrafo precedente – alle condotte di omessa collaborazione, cioè condotte di natura omissiva: le condotte di distruzione delle scritture contabili vanno ben oltre la semplice omissione e quindi non appaiono coperte dal diritto al silenzio.
Analogamente, non si pongono in conflitto con la portata del diritto al silenzio le sanzioni previste per l’eventuale commissione di delitti di falso durante i controlli. Le condotte che integrano il falso, ideologico o materiale, vanno ben oltre l’omettere di cooperare.
Controversa è, invece, la configurazione delle condotte di occultamento[29] che, a ben vedere, si prestano a tratteggiare linee diametralmente opposte.
Potrebbe presentarsi la situazione in cui il contribuente soggetto a verifica fiscale possa “per strategia” rifiutarsi di produrre documenti richiesti con l’intenzione di potere invocare successivamente, in giudizio, la tutela del diritto al silenzio e, così, godere della copertura delle garanzie previste dalla Costituzione e dall’art. 6 CEDU, evitando di essere sanzionato.
Può affermarsi che non è concettualmente equiparabile una condotta negativa (omissiva) all’occultamento. In effetti, l’occultamento postula un’azione, una condotta positiva ulteriore rispetto a quella di non fornire o non indicare la collazione di documenti o atti richiesti consistente, per l’appunto, a spostare, a nascondere le scritture contabili dalla loro collocazione originaria in modo da sottrarla temporaneamente alla cognizione altrui.
Tuttavia – si potrebbe obiettare – è sufficiente ai fini dell’integrazione dell’occultamento il fatto che i documenti contabili non siano rinvenuti? È sufficiente che il contribuente non le fornisca o bisogna dimostrare che il contribuente le ha spostate rispetto a un luogo “fisiologico”?[30]
Tale onere, in questa prospettiva, spetterebbe all’Amministrazione finanziaria che, non potendo obbligare il contribuente alla consegna materiale dei documenti, neppure con la previsione di una sanzione[31], sarebbe costretta, per ovviarvi, ad approfondite indagini che richiedono l’aumento dell’attività ispettiva tributaria e di vigilanza.
In un contesto ancora così nebuloso, spetterà all’interprete stabilire e delineare la corretta interazione tra condotte di occultamento e diritto al silenzio.
Sicuramente, sul tema non va sottaciuto un interrogativo, che rimarrà senza risposta: qualora la domanda dell’Autorità dovesse riguardare (come nella maggior parte dei casi) documenti fiscali per cui ex legibus[32] è obbligatoria la tenuta e la conservazione, si delinea uno vero e proprio paradosso in cui, da un lato, il contribuente è giuridicamente obbligato a detenere tale materiale (con quale fine?) ma, dall’altro, ha facoltà di non esibirlo esercitando, attraverso una condotta “omissiva”, il diritto di difesa.
4.2. Le sanzioni improprie
Conseguenze maggiormente innovative potrebbero configurarsi rispetto alle c.d. sanzioni improprie.
Ci si deve interrogare sulla portata del diritto al silenzio rispetto a quelle conseguenze sfavorevoli, anche se non propriamente definite sanzionatorie, cui un contribuente è in astratto esposto qualora non collabori.
Sotto il profilo procedurale, la prima conseguenza, forse quella che più incide sul contribuente e che non può non essere classificata come sfavorevole, è l’applicazione da parte dell’Amministrazione del metodo di accertamento di tipo induttivo extracontabile di cui all’art. 39, co. 2, D.P.R. n. 600/1973[33] in conseguenza della mancata produzione nel corso di attività ispettive o indagini delle scritture previste dalla legge.
Al ricorrere delle circostanze di cui al citato art. 39, l’Amministrazione può determinare la ricchezza del contribuente sulla base di uno standard probatorio attenuato, ossia avvalendosi di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
Potrebbe sostenersi, prima facie, che tale attenuazione, comportando conseguenze sfavorevoli al contribuente si porrebbe in contrasto con il diritto al silenzio esercitato dallo stesso.
In realtà, l’inquadramento della fattispecie in esame non è univoco.
Da un lato, la scelta di procedere all’accertamento della ricchezza con degli standard accertativi minori, potrebbe rivelarsi necessaria, proporzionata e ragionevole a fronte di un contesto probatorio povero[34].
Invero, se il silenzio è esercitato per l’esigenza di non autoincriminarsi, può ammettersi una minor garanzia di precisione dell’accertamento solo qualora la non collaborazione del contribuente abbia comportato un contesto conoscitivo scarso tale da legittimare accertamenti meno analitici e puntuali da parte degli Uffici.
Diversamente, sarebbe da considerare illegittimo l’accertamento disposto come sanzione conseguente alla mancata collaborazione a fronte di un quadro probatorio che permette un accertamento comunque più preciso perché, cosi operando, l’accertamento induttivo “punirebbe” il contribuente che vedrebbe accertata con imprecisione e approssimazione la propria ricchezza laddove tale verifica potrebbe essere fatta comunque in modo preciso e puntuale.
4.2.1. L’inosservanza dell’ordine di esibizione disposto dal Giudice
Altro settore che può essere interessato dalla portata del diritto al silenzio è quello relativo alle conseguenze giuridiche per l’inottemperanza all’ordine di esibizione di documenti disposto dal Giudice.
Si pensi all’art. 2711 c.c. che disciplina le ipotesi di comunicazione ed esibizione dei libri e delle scritture contabili. Le norme ivi contenute si collocano tra le regole sull’istruzione probatoria e completano la disciplina probatoria delle scritture contabili di cui agli artt. 210 e 212 c.p.c., espressamente dedicati all’esibizione delle prove e, in particolare, all’esibizione dei documenti.
L’inosservanza dell’ordine di esibizione di documenti (nel caso dell’art. 210 c.p.c. ammesso nel processo tributario come strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova dei fatti non possa in alcun modo essere acquisita con altri mezzi e l’iniziativa della parte instante non abbia finalità esplorativa), integra un comportamento dal quale il giudice può, nell’esercizio di poteri discrezionali, desumere argomenti di prova a norma dell’art. 116, comma 2, c.p.c.[35].
Per cui, sebbene le norme in tema di esibizione non contemplino sanzioni, l’inottemperanza all’ordine comporta delle conseguenze negative nei confronti della parte su cui grava tale onere, parte che potrebbe legittimamente decidere di non esibire i documenti richiesti, non collaborando ad una completa istruzione probatoria invocando il diritto al silenzio.
Sul tema è determinante stabilire, in mancanza di una sanzione (neppure astratta), fin dove possa “spingersi” il giudice nel valutare, ai fini del decidere, la mancata osservanza dell’ordine di esibizione e se le conseguenze siano tali da comportare una frizione con l’esercizio del diritto al silenzio.
4.2.2. Le preclusioni probatorie
Altro campo che si presta ad un esame di compatibilità con il diritto al silenzio è quello delle preclusioni probatorie, ossia la conseguenza per le condotte di omessa collaborazione di inutilizzabilità di documenti non esibiti durante le indagini amministrative nella successiva sede contenziosa[36].
L’esercizio del diritto a non autoincriminarsi potrebbe spingere il contribuente/indagato ad invocare tale privilegio anche sul piano procedimentale al fine di avvalersi del materiale probatorio non esibito durante le ispezioni nelle successive fasi di accertamento e contenzioso.
Bisogna domandarsi se, secondo tale lettura, il diritto al silenzio possa attaccare le preclusioni procedimentali di cui all’art. 32 D.P.R. n. 600/1973 e artt. 51 e 52 D.P.R. n. 633/1972.
Tali norme impediscono al contribuente il pieno esercizio del diritto di difesa in giudizio in conseguenza dell’omessa collaborazione giustificata, a monte, dalla scelta di non autoincriminarsi.
Quest’ultima prospettiva tratteggia scenari conflittuali nel nostro ordinamento, ponendosi in contrasto non solo con la normativa in materia di imposte e con il principio di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente[37], ma anche con il consolidato orientamento della Corte di cassazione[38], avallato dalla Corte costituzionale[39], secondo cui la mancata esibizione da parte del contribuente di documenti richiesti nel corso di ispezioni determina “l’inutilizzabilità” degli atti da parte del contribuente nel procedimento accertativo e contenzioso.
Sebbene le preclusioni di cui agli artt. 32, 51 e 52 citati non siano tecnicamente delle sanzioni, esse comportano innegabilmente una notevole limitazione alla strategia difensiva del contribuente e, pertanto, se ne può riconoscere la natura di sanzioni improprie.
Anche in questo caso è evidente la necessità di un corretto contemperamento fra opposte esigenze. Da un lato, la volontà dell’Amministrazione di scoraggiare l’inattività del contribuente o l’atteggiamento ostruzionistico; dall’altro, la posizione del medesimo contribuente sottoposto a verifica, chiaramente in situazione di soggezione, il quale non conosce ancora le contestazioni che verranno mosse nei suoi confronti e, legittimamente, modula la propria difesa.
Ne consegue che gli artt. 10 dello Statuto del contribuente e gli artt. 32 , 51 e 52 cit. non possono essere considerati in grado di rappresentare una disciplina generalizzata del contraddittorio anticipato che obbliga il contribuente alla collaborazione, con le conseguenze appena esaminate, ma dovranno essere applicati nel pieno rispetto della proporzionalità, coerenza e ragionevolezza che ampliano il diritto di difesa quale principio generale operante anche in ambito CEDU e UE, necessario ad assicurare una effettiva parità delle parti in ordine alla prova[40].
Secondo la lettura appena offerta, le preclusioni in esame si rivelano di dubbia legittimità e in contrasto col diritto di non cooperare alla propria incriminazione sancito dalle Corti internazionali e dalla Corte Costituzionale[41].
[1] Si veda tutta la vicenda riassunta nella sentenza n. 84 del 30 aprile 2021 della Corte costituzionale in materia di diritto al silenzio e c.d. sanzioni Consob.
[2] La Suprema Corte, con ordinanza n. 3831 del 16 febbraio 2018, sospendeva il giudizio, investendo la Corte Costituzionale questione di legittimità costituzionale dell’articolo 187 quinquiesdecies T.U.F., nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lett. b), L. n. 62/2005, di recepimento della Direttiva 2003/6/CE (Market Abuse Directive), oggi sostituito dall’art. 30, par. 1, lett. b) Reg. UE n. 596/2014 (Market Abuse Regulation), in relazione agli articoli 24, 111 e 117 Cost., all’art. 6 CEDU nonché all’art. 47 CDFUE, nella parte in cui il predetto art. 187 quinquiesdecies sanziona la condotta consistente nella mancata tempestiva ottemperanza alle richieste di Consob o nella causazione di un ritardo nell’esercizio delle sue funzioni di vigilanza nell’ipotesi di contestazione di un illecito di abuso di informazioni privilegiate. La Cassazione sottolinea, infatti, come dalla lettura della Direttiva 2003/6/CE si evinca un generale obbligo di collaborazione con l’Autorità di vigilanza, la cui violazione deve essere sanzionata dallo Stato membro ai sensi dell’art. 14, par. 3, della direttiva medesima; evidenzia, altresì, come tale obbligo sia sancito anche dal MAR.
[3] Corte Costituzionale, ordinanza 6 marzo 2019, n. 117.
[4] Corte di Giustizia UE, sentenza 2 febbraio 2021, causa C-481/19.
[5] Ufficio Stampa della Corte Costituzionale, comunicato del 30 aprile 2021, Il “diritto al silenzio” vale anche nei confronti della banca d’Italia e della Consob.
[6] L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari-Roma, III ed., 1996, p. 623.
[7] P. Moscarini, Il silenzio dell’imputato sul fatto proprio secondo la Corte di Strasburgo e nell’esperienza italiana, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 613.
[8] La giurisprudenza costituzionale sul riconoscimento della valenza costituzionale dello ius tacendi: C. cost., ord., 26 giugno 2002, n. 291; C. cost., sent., 2 novembre 1998, n. 361. Per la giurisprudenza di legittimità: Cass., Sez. III, 19 gennaio 2010, n. 9239, in CED Cass., n. 246233; Cass., Sez. V, 22 dicembre 1998, in CED Cass., n. 212618.
[9] Per uno studio organico ed esaustivo si rimanda a: V. Grevi, “Nemo tenetur se detegere”. Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel diritto penale italiano, Milano, 1972.
[10] P. Moscarini, Il silenzio dell’imputato sul fatto proprio secondo la Corte di Strasburgo e nell’esperienza italiana, cit., p. 615.
[11] G. Melis, Manuale di diritto tributario, Torino, 2020, p. 310 ss. Corte EDU, 17 dicembre 1993, Funke c. Francia; 17 dicembre 1996, Saunders c. Regno Unito; 4 ottobre 2005, Shannon c. Regno Unito; 21 aprile 2009, Marttinen c. Finlandia.
[12] Corte EDU, Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi, par. 82.
[13] Corte EDU, 21 febbraio 1983, Öztürk c. Germania.
[14] F. Buffa, Le principali questioni in materia tributaria, in Questione Giustizia, 2019, p. 522 ss.
[15] A.E. La Scala, Il silenzio dell’Amministrazione Finanziaria, Torino, 2012, in Collana “Studi di diritto tributario”, p. 27 ss.
[16] Commissione europea dei diritti umani Hardy Spirlet c. Belgio, n. 9804/82, 7 dicembre 1992; Corte EDU, Miailhe c. France, n. 12661/87, 25 febbraio 1993, Cremieux c. France, n. 11471/85, 25 febbraio 1993.
[17] Corte EDU, 12 luglio 2001, Ferrazzini c. Italia, par. 29. Si veda anche Corte EDU, 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia; Corte EDU, 9 dicembre 2004, Schouden e Meldrum c. Olanda; Corte EDU, 13 gennaio 2005, Emesa Sugar c. Paesi Bassi.
[18] Solo per dovere di completezza si segnala la sentenza della Corte di Giustizia UE (domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Commissione tributaria centrale, sezione di Bologna – Italia) – Ufficio IVA di Piacenza c. Belvedere Costruzioni Srl, 29 marzo 2012, causa C-500/10, che mette in discussione il consolidato orientamento della Corte EDU sull’inapplicabilità dell’art. 6 CEDU al processo tributario. Si afferma che “l’obbligo di garantire l’efficace riscossione delle risorse dell’Unione (nel caso di specie l’Iva) non può contrastare con il rispetto del principio del termine ragionevole di un giudizio il quale, in forza dell’art. 47, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, si impone agli Stati membri quando attuano il diritto dell’Unione e la cui tutela si impone anche in forza dell’art. 6, par. 1, della Cedu”. Sul rapporto tra materia tributaria e CEDU: A. Marcheselli, Il giusto procedimento tributario. Principi e discipline, Padova, 2013; A. Marcheselli, Giustizia tributaria e diritti fondamentali. Giusto tributo, giusto procedimento e giusto processo, Torino, 2016.
[19] Corte EDU, 23 novembre 2006, Jussila v. Filandia, in cui si afferma che una sanzione, pur non essendo qualificata come penale, avendo carattere afflittivo e deterrente, deve rispettare il principio del “giusto processo” statuito nell’articolo 6 CEDU e, in particolare, nel caso di specie, l’obbligo della pubblica udienza. Sul tema si rimanda a A.E. La Scala, I principi del “giusto processo” tra diritto interno, comunitario e convenzionale, in Riv. dir. trib., n. 3, IV, 2007, 54 e ss.. Analogamente, la stessa Corte con sentenza 21 febbraio 2008, Ravon v. Francia, ha espresso il contrasto tra l’art. 6 CEDU e una disposizione domestica che abilita l’amministrazione finanziaria ad eseguire atti di ispezione domiciliare, in assenza di un controllo giurisdizionale effettivo.
[20] Sulla giurisprudenza della Corte EDU e della Corte di Giustizia UE, si veda L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Giuffrè, Milano, 2010, pp. 45 – 48.
[21] N. Durante, Compatibilità dell’assetto ordinamentale della giustizia tributaria con l’art. 6 della CEDU, in “Relazione resa all’incontro di studio su “Rapporti contribuente-Fisco, tra giurisprudenza tributaria e Corte europea di Strasburgo – Novità fiscali – Rientro dei capitali – Autoriciclaggio”, organizzato a Catanzaro il 3 dicembre 2014, dalla Sezione Calabria dell’A.N.T.I. - Associazione nazionale tributaristi italiani”, p. 2.
[22] A. Marcheselli, Il diritto al silenzio tra diritti fondamentali e doveri fondamentali in materia tributaria (spunti critici a margine di Corte cost. n. 84/2021), in Consulta Online, 2021 Fasc. II, p. 457.
[23] Corte cost., sent. n. 84/2021, par. 3.2 che richiama Corte cost., ord. n. 117/2019, p. 7.1 del considerato in diritto.
[24] Corte cost. sent. n. 84/2021, par. 2.2 del Considerato in diritto, “Anche a prescindere da tale considerazione, è peraltro decisivo il rilievo che il diritto al silenzio è qui invocato dal giudice rimettente quale garanzia in capo a colui che possa essere successivamente accusato di avere commesso anche solo un illecito amministrativo, ma suscettibile di dar luogo all'applicazione di una sanzione amministrativa dal carattere punitivo. Indipendentemente, dunque, dalla eventualità che nei suoi confronti venga effettivamente contestata la commissione di un reato”.
[25] Corte cost., sent. n. 84/2021, par. 3.5 del Considerato in diritto.
[26] A. Marcheselli, Giustizia tributaria e diritti fondamentali, cit., pag. 116.
[27] A. Marcheselli, Il diritto al silenzio tra diritti fondamentali e doveri fondamentali in materia tributaria, cit., p. 461.
[28] A.E. La Scala, Il silenzio dell’Amministrazione Finanziaria, cit. p. 24.
[29] Si potrebbe sostenere che il confine tra il rifiuto e l’occultamento sia molto incerto, soprattutto quando la condotta consista nella mera scelta di esibire determinati documenti piuttosto che altri, “ove l’incompletezza della risposta equivalga alla non rispondenza al vero”, così G. Melis, Manuale di diritto tributario, cit., p. 311.
[30] A. Marcheselli, Il diritto al silenzio tra diritti fondamentali e doveri fondamentali in materia tributaria, cit., p. 463.
[31] G. Melis, Manuale di diritto tributario, cit., p. 310. La Corte EDU, sent. 5 aprile 2012, Chambaz c. Svizzera, la Corte di Strasburgo ha riscontrato una violazione dell’art. 6 CEDU (e, in particolare, del diritto a non contribuire alla propria incolpazione) nell’imposizione di una sanzione di tipo pecuniario al ricorrente che, sottoposto a un procedimento accertativo di tipo fiscale, non aveva consegnato alla pubblica amministrazione i documenti richiesti, contenendo tale documentazione indizi di reità a suo carico.
[32] L’obbligo della tenuta e conservazione delle scritture contabili è espressamente previsto sia dalla normativa civilistica (art. 2214 ss. c.c.) sia tributaria (artt. 22 del D.P.R. n. 600/1973 e 8, comma 5, della legge n. 212/2000).
[33] Ai sensi dell’art. 39, comma 2, D.P.R. n. 600/1973, l’accertamento induttivo può essere esperito dall’Ufficio, oltre che in caso di contabilità inattendibile, anche nelle seguenti ipotesi: - quando dal verbale di ispezione redatto ai sensi dell’art. 33 del D.P.R. n. 600/1973 risulta che il contribuente non ha tenuto o ha comunque sottratto all’ispezione una o più scritture contabili ovvero quando le scritture contabili non sono disponibili per causa di forza maggiore; - quando il contribuente non ha dato seguito agli inviti dell’Ufficio ai sensi dell’art. 32, comma 1, numeri 3) e 4), del presente decreto o dell’art. 51, comma 2, numeri 3) e 4) del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633.
[34] A. Marcheselli, Il diritto al silenzio tra diritti fondamentali e doveri fondamentali in materia tributaria, cit., p. 464.
[35] Cassazione civile, Sez. I, 13.08.2004, n.15768.
[36] G. Melis, Manuale di diritto tributario, Torino, 2020, p. 310 ss.
[37] Previsto dall’art. 10, Legge 27 luglio 2000, n. 212. Sul tema: A. Marcheselli, Il principio di buona fede e le preclusioni per i documenti sottratti alla verifica, in Corr. trib., 2010, 53.
[38] Cass., 17 giugno 2011, n. 13289; Cass., 13 aprile 2007, n. 8886; Cass., 28 gennaio 2002, n. 1030.
[39] La Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 181/2007, ha escluso qualsiasi vizio di costituzionalità della normativa che prevede la decadenza dalla facoltà di dedurre documenti in giudizio in riferimento all’art. 53, comma 1, Cost., chiarendo che “la preclusione prevista dalla norma censurata, risolvendosi in un divieto di allegazione in giudizio dei dati e dei documenti non forniti dal contribuente in risposta all’invito dell’amministrazione finanziaria, opera sul piano esclusivamente processuale ed è perciò inidonea a menomare il principio di capacità contributiva”.
[40] G. Ingrao, La valutazione del comportamento delle parti nel processo tributario, Milano, 2008, p. 227
[41] A. Marcheselli, Giustizia tributaria e diritti fondamentali, cit., pag. 119.
Rinvio pregiudiziale e garanzie giurisdizionali effettive. Un confronto fra diritto dell’Unione e diritto nazionale*.
Commento all’ordinanza n. 2327/2021 del Consiglio di Stato
di Bruno Nascimbene e Paolo Piva
Sommario: 1. Considerazioni introduttive. 2. La vicenda processuale avanti al giudice nazionale e il rinvio alla Corte di giustizia. 3. Il rimedio della revocazione e la sua “novità” nella prospettiva del principio di effettività della tutela giurisdizionale. 4. Il principio dell’intangibilità della regiudicata nazionale nella giurisprudenza della Corte: dai più lontani precedenti Eco Swiss e Köbler fino ai più recenti Pizzarotti e Telecom (“passando attraverso” Künhe&Heitz, Kapferer, Kempter, Lucchini, Fallimento Olimpiclub). 5. Sul significato concreto del rinvio. La distinzione fra interpretazione e applicazione del diritto dell’Unione europea alla luce dell’art. 19 TUE e del diritto a un ricorso effettivo di cui all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali (la possibile risposta al secondo quesito). 6. Considerazioni conclusive. La possibile risposta ai quesiti pregiudiziali.
1. Considerazioni introduttive
Il Consiglio di Stato, con l’ordinanza qui in commento, ritorna sul delicato tema della necessità ovvero dell’opportunità del rinvio alla Corte di giustizia ex art. 267 TFUE in vista, ed in funzione, di una maggiore effettività della tutela giurisdizionale, in un’ipotesi in cui le parti non potrebbero più contestare, alla stregua del diritto interno, la pronuncia, resa dallo stesso organo giurisdizionale amministrativo (a seguito e in attuazione di una decisione della Corte di giustizia in sede pregiudiziale), che ha deciso la controversia oggi pendente a seguito del rinvio .
Le parti ricorrenti si lamentano circa l’“esecuzione” da parte del Giudice nazionale dei principi stabiliti dalla Corte di giustizia ex art. 267 TFUE: decisione che avrebbe (in thesi) violato in modo grave e manifesto il diritto dell’Unione europea. Sollevano, inoltre, la questione del giudice competente a “verificare” la corretta applicazione di tali principi (giudice nazionale di ultima istanza o Corte di giustizia), nonché la questione dell’incompatibilità “comunitaria” della disciplina processuale italiana afferente al rimedio della revocazione della sentenza di cui agli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. nella misura in cui non ammette una ipotesi speciale di revocazione “in un caso di violazione manifesta dei principi di diritto affermati dalla Corte di giustizia in sede di rinvio pregiudiziale”, non consentendo, dunque, di prevenire un giudicato contrastante con il diritto dell’Unione europea.
I tre quesiti, strettamente connessi l’uno con l’altro, vanno letti avendo presente la parte motiva dell’ordinanza di rinvio. Essi sono così formulati.a) se il giudice nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, in un giudizio in cui la domanda della parte sia direttamene rivolta a far valere la violazione dei principi espressi dalla Corte di Giustizia nel medesimo giudizio al fine di ottenere l’annullamento della sentenza impugnata, possa verificare la corretta applicazione nel caso concreto dei principi espressi dalla Corte di Giustizia nel medesimo giudizio, oppure se tale valutazione spetti alla Corte di Giustizia; b) se la sentenza del Consiglio di Stato n. 4990/2019 abbia violato, nel senso prospettato dalla parti, i principi espressi dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 23 gennaio 2018 in relazione a) all’inclusione nel medesimo mercato rilevante dei due farmaci senza tener conto delle prese di posizioni di autorità che avrebbero accertato l’illiceità della domanda e dell’offerta di Avastin off-label; b) alla mancata verifica della pretesa ingannevolezza delle informazioni diffuse dalle società; c) se gli articoli 4, paragrafo 3, 19, paragrafo 1, del TUE e 2, paragrafi 1 e 2, e 267 TFUE, letti anche alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ostino ad un sistema come quello concernente gli articoli 106 del codice del processo amministrativo e 395 e 396 del codice di procedura civile, nella misura in cui non consente di usare il rimedio del ricorso per revocazione per impugnare sentenze del Consiglio di Stato confliggenti con sentenze della Corte di Giustizia, ed in particolare con i principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia in sede di rinvio pregiudiziale”[1].
2 . La vicenda processuale avanti al giudice nazionale e il rinvio alla Corte di giustizia
In sede amministrativa, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) aveva accertato la sussistenza di un’intesa orizzontale restrittiva (c.d. hardcore restriction) della concorrenza fra due imprese farmaceutiche concorrenti in violazione dell’art. 101 TFUE, con il fine di ostacolare (questo l’asserito intento restrittivo) la possibilità di impiego off-label ad esclusivo uso ospedaliero di “Avastin”, ovvero l’uso (secondo le indicazioni del foglio illustrativo del farmaco) anziché per il trattamento di pazienti affetti da alcuni tipi di tumore avanzato, per la cura di diverse patologie oculari.
Come si legge nell’ordinanza di rinvio, l’intesa avrebbe “mirato a ridurre la domanda, e quindi le quantità vendute, di un prodotto meno costoso (Avastin, pari a € 81,64 per iniezione) a favore del più costoso prodotto concorrente (Lucentis, inizialmente pari a € 1.100 ad iniezione, e poi sceso a € 902 dal novembre 2012), attraverso il condizionamento dei soggetti responsabili delle scelte terapeutiche”. L’obiettivo di massimizzare i rispettivi introiti sarebbe derivato: a) nel caso del gruppo Novartis, dalle vendite dirette di Lucentis e dalla partecipazione del 33% detenuta da Novartis in Roche; b) nel caso del gruppo Roche, dalle royalties ottenute sulle stesse tramite la propria controllata Genentech, in un contesto di accordo di licenza. Tale strategia sarebbe stata posta in essere “nonostante le imprese fossero consapevoli della scarsità e discutibilità dei dati sugli eventi avversi derivanti dall’uso off-label di Avastin”.
Le due imprese Hoffman La Roche e Novartis avrebbero perseguito un’anomala strategia defatigatoria in sede sia amministrativa, sia giurisdizionale (nota in antitrust come sham o vexatious litigation, che spesso viene apprezzata come forma di abuso di posizione dominante), consapevoli della “scarsità e discutibilità dei dati sugli eventi avversi derivanti dall’uso off-label di Avastin”: il tutto con la finalità di ottenere una differenziazione artificiosa tra i farmaci Avastin e Lucentis, manipolando nel contempo la percezione dei rischi dell’uso in ambito oftalmico dell’Avastin.
Avanti al Giudice amministrativo, il provvedimento dell’AGCM, scrutinato come immune da censure dal Tar Lazio (cfr. la sentenza n. 12168/2014) era poi approdato in sede di appello avanti il Consiglio di Stato.
Stante la rilevanza e la delicatezza delle questioni, il massimo organo di giustizia amministrativa si determinava a rinviare in Corte di giustizia ex art. 267 TFUE al fine di chiarire alcuni aspetti della disciplina antitrust europea in relazione ai fatti contestati.
Con pronuncia del 23 gennaio 2018, la Corte di giustizia aveva raggiunto conclusioni apparentemente lineari sull’interpretazione dell’art. 101 TFUE in relazione alla fattispecie. Precisamente:
a) l’art. 101 TFUE dev’essere interpretato nel senso che, ai fini della sua applicazione, un’autorità nazionale garante della concorrenza può includere nel mercato rilevante, oltre ai medicinali autorizzati per il trattamento delle patologie di cui trattasi, un altro medicinale la cui autorizzazione all’immissione in commercio non copra detto trattamento, ma che è utilizzato a tal fine e presenta quindi un rapporto concreto di sostituibilità con i primi. Per determinare se sussista un siffatto rapporto di sostituibilità, tale autorità deve – sempreché le autorità o i giudici competenti a tal fine abbiano condotto un esame della conformità del prodotto in questione alle disposizioni vigenti che ne disciplinano la fabbricazione o la commercializzazione – tener conto del risultato di detto esame, valutandone i possibili effetti sulla struttura della domanda e dell’offerta;
b) l’art. 101, par. 1, TFUE dev’essere interpretato nel senso che un’intesa convenuta tra le parti di un accordo di licenza relativo allo sfruttamento di un medicinale la quale, al fine di ridurre la pressione concorrenziale sull’uso di tale medicinale per il trattamento di determinate patologie, miri a limitare le condotte di terzi consistenti nel promuovere l’uso di un altro medicinale per il trattamento delle medesime patologie, non sfugge all’applicazione di tale disposizione per il motivo che tale intesa sarebbe accessoria a detto accordo;
c) l’art. 101, par. 1, TFUE dev’essere interpretato nel senso che costituisce una restrizione della concorrenza «per oggetto» (ai sensi di tale disposizione) l’intesa tra due imprese che commercializzano due medicinali concorrenti, avente ad oggetto – in un contesto segnato dall’incertezza delle conoscenze scientifiche– la diffusione presso l’Agenzia europea per i medicinali, gli operatori sanitari e il pubblico, di informazioni ingannevoli sugli effetti collaterali negativi dell’uso di uno di tali medicinali per il trattamento di patologie non coperte dall’autorizzazione all’immissione in commercio di quest’ultimo, al fine di ridurre la pressione concorrenziale derivante da tale uso sull’uso dell’altro medicinale;
d) l’art. 101 TFUE dev’essere interpretato nel senso che una siffatta intesa non può giovarsi dell’esenzione prevista al par. 3 di tale articolo[2].
I principi affermati della Corte non sembra che lasciassero molto spazio, almeno ad una prima delibazione, a “letture” particolarmente favorevoli alle imprese ricorrenti, ed il Consiglio di Stato, in sede di attuazione della pronuncia al caso di specie, concludeva per il rigetto del ricorso [3].
La sentenza di rigetto, tuttavia, veniva gravata dalle imprese farmaceutiche, avanti alla medesima sezione del Consiglio di Stato, con le forme della revocazione ex artt. 395-396 c.p.c., lamentando, fra l’altro, la sussistenza di un errore revocatorio per più motivi: l’assenza di una qualsivoglia responsabilità diretta o indiretta (parentale) di Novartis[4]; il mancato accertamento del rispetto della disciplina farmaceutica dell’uso off-label dell’Avastin; l’omessa valutazione dell’effettiva ingannevolezza delle informazioni diffuse dalle cause farmaceutiche.
Secondo la difesa delle società farmaceutiche, l’affermazione in un caso eiusdem generis, del carattere “per oggetto” dell’intesa restrittiva non poteva che passare attraverso l’accertamento del carattere lecito dell’immissione in commercio del farmaco, sia pure nel circuito “limitato” dell’off-label e per l’accertamento della natura effettivamente ingannevole delle informazioni diffuse, esame che spetta al Giudice del rinvio. Si trattava dunque di comprendere se quell’indagine fattuale che, secondo le ricorrenti, era un prius logico-giuridico inestricabilmente connesso ai principi affermati dalla Corte fosse stato apprezzato (o non) dal Consiglio di Stato in sede applicativa della pronuncia ex art. 267 TFUE.
La Corte di giustizia aveva, invero, osservato, quanto al carattere ingannevole delle informazioni, “che le informazioni la cui comunicazione all’EMA e al pubblico è stata oggetto, secondo la decisione dell’AGCM, di un’intesa tra la Roche e la Novartis dovrebbero, qualora non rispondenti ai criteri di completezza e di precisione di cui all’articolo 1, punto 1, del regolamento n. 658/2007, essere considerate ingannevoli se – circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare – dette informazioni miravano, da un lato, a indurre l’EMA e la Commissione in errore e ad ottenere l’aggiunta della menzione di effetti collaterali negativi nel riassunto delle caratteristiche del prodotto, per consentire al titolare dell’AIC di avviare una campagna di sensibilizzazione dei professionisti della sanità, dei pazienti e delle altre persone interessate, al fine di amplificare artificiosamente tale percezione e, dall’altro lato, ad enfatizzare, in un contesto di incertezza scientifica, la percezione da parte del pubblico dei rischi connessi all’uso off-label dell’Avastin, tenuto conto, in particolare, del fatto che l’EMA e la Commissione non hanno modificato il riassunto delle caratteristiche di tale medicinale in termini di «effetti indesiderati», ma si sono limitate a formulare «avvertenze speciali e precauzioni d’impiego»”[5].
Si potrebbe osservare a margine che se, a seguito dell’intervento della titolare dell’AIC supportato in ciò dal proprio concorrente, EMA e Commissione hanno imposto la modifica del “bugiardino” in termini di “avvertenze speciali e precauzioni di impiego” e non già di “effetti indesiderati”, ciò parrebbe di per sé escludere un “automatico” intento decettivo idoneo ad integrare un’intesa restrittiva “per oggetto”, dal momento che il “comune operare” nel contesto dell’autorizzazione del farmaco per una corretta indicazione, da parte delle Autorità, degli effetti avversi non parrebbe indicativo di un intento anticoncorrenziale per se[6].
Anche la non esentabilità dell’intesa dal divieto ai sensi dell’art. 101, n. 3 TFUE potrebbe lasciare perplessi[7], posto che nella strategia restrittiva perseguita dalle imprese farmaceutiche una parte del beneficio andava innegabilmente a favore degli utilizzatori finali ovvero dei pazienti. Ma quel che qui rileva, particolarmente, è che secondo la Corte “non spetta alle autorità nazionali garanti della concorrenza la verifica della conformità al diritto dell’Unione delle condizioni alle quali un medicinale quale l’Avastin è, dal lato della domanda, prescritto dai medici e, dal lato dell’offerta, riconfezionato per l’uso off-label. Una simile verifica può infatti essere effettuata in maniera esaustiva soltanto dalle autorità preposte al controllo del rispetto della normativa farmaceutica o dai giudici nazionali”[8]. Il che non può apparire quantité négligeable ai fini della legittimità dell’accertamento dell’AGCM, specie laddove questo tipo di indagine sia stato effettuato dalla medesima in completa autonomia e al di fuori di ogni controllo dell’autorità deputata.
In altre parole, non può dubitarsi del fatto che la verifica in fatto della completezza e precisione delle informazioni ai fini dell’AIC, come pure dell’assenza in concreto dell’induzione in errore, siano tutti elementi di decisiva importanza ai fini dell’applicazione dell’art. 101, par.1, TFUE, secondo la prospettiva della Corte. Il che ci riporta al tema dell’operato del Consiglio di Stato in sede di applicazione della sentenza della Corte di giustizia.
3. Il rimedio della revocazione e la sua “novità”[9] nella prospettiva del principio di effettività della tutela giurisdizionale
Come si è osservato, le società farmaceutiche, richiamando i principi affermati dslla Corte, contestavano da un lato l’assenza di accertamenti in ordine all’illiceità delle condizioni di ri-confezionamento e di prescrizione dell’Avastin destinato all’uso off-label; dall’altro lato, lamentavano altresì l’omessa pronuncia in relazione al profilo dell’ingannevolezza delle informazioni diffuse dalle case farmaceutiche, precisando come tale profilo dovesse intendersi come “cumulativo” rispetto alla prova della concertazione e pertanto decisivo ai fini della definizione del giudizio.
Sotto una diversa prospettiva, si chiedeva di sottoporre alla Corte di giustizia la questione circa la compatibilità comunitaria di un sistema come quello derivante dal combinato disposto di cui agli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c., nella misura in cui le regole processuali italiane non consentirebbero un’ulteriore speciale ipotesi di revocazione (in presenza di violazione manifesta dei principi di diritto stabiliti ex parte Curiae in sede pregiudiziale) e sarebbero pertanto inidonee a prevenire la formazione di un giudicato contrario al diritto dell’Unione europea.
Il ragionamento peraltro sarebbe suffragato dalle seguenti circostanze: a) le sentenze della Corte hanno valenza di “fonte del diritto” (cfr. Corte Cost., 23.4.1985, n. 113); b) il giudice nazionale, particolarmente quello del rinvio, non può discostarsi dalla sentenza resa in via pregiudiziale (cfr. Corte di giustizia, 5.10.2010, causa C-173/09)[10]; c) l’eventuale assenza di un motivo revocatorio comporterebbe che sarebbero violati principi fondamentali quali la funzione nomofilattica della Corte di giustizia; la vincolatività delle sentenze della Corte di giustizia nell’interpretazione autentica del diritto UE; l’applicazione uniforme del diritto UE e infine l’obbligo di collaborazione tra giudice nazionale e giudice UE.
Dopo aver richiamato principi e norme comunitarie e nazionali rilevanti in materia, il Consiglio di Stato ricorda la pronuncia dell’Ad. Plen. n. 12/2017, secondo cui: “all’esito della decisione della Corte Costituzionale n. 123 del 26 maggio 2017 […] è evidente che il ricorso per revocazione […] deve essere dichiarato inammissibile, in quanto risulta essere stato proposto per una ipotesi non contemplata dall’ordinamento giuridico, ed è noto che per la costante giurisprudenza civile ed amministrativa, attesa la loro eccezionalità, i casi di revocazione della sentenza, tassativamente previsti dall’art. 395 cod. proc. civ., sono di stretta interpretazione, ai sensi dell'art. 14 delle preleggi”.
Vi è da osservare che pure Corte cost. n. 6/2018 (sentenza del 18.1.2018) aveva osservato (analogamente) sul punto: “rimane il fatto che, specialmente nell’ipotesi di sopravvenienza di una decisione contraria delle Corti sovranazionali, il problema indubbiamente esiste, ma deve trovare la sua soluzione all’interno di ciascuna giurisdizione, eventualmente anche con un nuovo caso di revocazione di cui all’art. 395 cod. proc. civ., come auspicato da questa Corte con riferimento alle sentenze della Corte EDU (sentenza n. 123 del 2017)”.
Insomma, secondo il Consiglio di Stato, si tratterebbe di un tema interessante, ma di pertinenza del legislatore, con la conseguenza che, per l’ordinanza di rinvio nel “sistema giuridico nazionale non sussiste uno strumento atto a verificare e a garantire che una sentenza emessa da un organo giurisdizionale di ultimo grado non si ponga in contrasto con il diritto comunitario e, nello specifico, con i principi espressi della Corte di giustizia” (punto 8).
E pur tuttavia, secondo il Collegio che cita la nota sentenza della Corte di giustizia Köbler al riguardo, “la possibilità di incidere sulla decisione prima che la stessa passi in giudicato, al fine di scongiurare il consolidamento della violazione del diritto dell’Unione Europea, appare preferibile rispetto al possibile rimedio, solo successivo, del risarcimento del danno, che in ogni caso implicherebbe per la parte gli oneri di un nuovo giudizio e per il quale è in ogni caso necessario che la violazione del diritto unionale sia non solo sussistente, ma anche manifesta”[11].
Al fine di spiegare la rilevanza della questione, viene ricordato che, con sentenza non definitiva, il Collegio aveva già dichiarato l’inammissibilità dei motivi di revocazione dedotti dalle società ricorrenti in termini di errore di fatto revocatorio, non sussistendo i presupposti di cui all’art. 395 c.p.c., così come interpretato dalla giurisprudenza nazionale, in particolare perché si è trattato di “punti controversi” e non propriamente di “abbaglio dei sensi” e/o di “omessa pronuncia”. Sotto questo profilo, si potrebbe osservare, per così dire, nihil sub sole novi: la giurisprudenza nazionale rende particolarmente arduo, se non già inutile o impraticabile, l’introduzione di un ricorso ex art. 395, n. 4 c.p.c. in termini di errore revocatorio.
In effetti, la giurisprudenza del Consiglio di Stato, come del resto quella della Corte di Cassazione, sono unanimi nel precludere, sostanzialmente, ogni possibilità di azione sotto questo profilo, dal momento che l’orientamento costante del primo, “in tema di errore di fatto revocatorio (sez. IV, 25 novembre 2016 n. 4983; 24 gennaio 2011 n. 503), è nel senso che la “svista” che autorizza e legittima la proposizione del rimedio della revocazione, tendenzialmente eccezionale anche nei casi di c.d. revocazione ordinaria (cfr. Cass., n. 1957/1983), è rappresentata o dalla mancata esatta percezione di atti di causa, ovvero dall'omessa statuizione su una censura o su una eccezione ritualmente introdotta nel dibattito processuale”[12].
Analogamente, le Sezioni Unite[13], “rincarando la dose”, ricordano che “l’impugnazione per revocazione delle sentenze della Corte di cassazione è ammessa nell'ipotesi di errore compiuto nella lettura degli atti interni al giudizio di legittimità, errore che presuppone l'esistenza di divergenti rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti di causa; pertanto, è esperibile, ai sensi degli artt. 391-bis e 395, comma 1, n. 4, c.p.c., la revocazione per l'errore di fatto in cui sia incorso il giudice di legittimità che non abbia deciso su uno o più motivi di ricorso, ma deve escludersi il vizio revocatorio tutte volte che la pronunzia sul motivo sia effettivamente intervenuta, anche se con motivazione che non abbia preso specificamente in esame alcune delle argomentazioni svolte come motivi di censura del punto, perché in tal caso è dedotto non già un errore di fatto (quale svista percettiva immediatamente percepibile), bensì un’errata considerazione e interpretazione dell'oggetto di ricorso e, quindi, un errore di giudizio” (corsivo aggiunto).
Ciononostante, atteso il senso originario dell’art. 395 c.p.c. n. 4, dovrebbe prevalere un’interpretazione che faccia salva l’effettività del mezzo di ricorso anche alla luce del principio “comunitario” di cui all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali[14]. Si può aggiungere che la tematica della revocazione impinge quasi naturalmente in quella della responsabilità dello Stato-Giudice, dal momento che, laddove si intenda contestare la violazione grave e manifesta del diritto dell’Unione europea ai sensi della pronuncia Köbler[15], nonché Traghetti del Mediterraneo[16] e infine Commissione c. Italia[17], una certa interpretazione mirerebbe a subordinare l’azione avanti al Giudice della responsabilità al previo esperimento di ogni azione ordinaria, ivi compresa l’azione di revocazione ex art. 395 c.p.c.[18].
Al di là della correttezza dell’assunto (che potrebbe avrebbe un senso solo se la revocazione fosse effettivamente un rimedio vero e non già un mezzo di ricorso – notoriamente - del tutto inefficace), per apprezzare correttamente una domanda di revocazione si dovrà ricordare che “il diritto dell'Unione osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado, per il motivo che la violazione controversa risulti da un'interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale” [19]. È altrettanto incompatibile con il diritto dell'Unione una legislazione che, nelle ipotesi in cui opera la responsabilità statale per i danni prodotti dall'esercizio della funzione giurisdizionale, limiti tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione escluda la sussistenza della responsabilità dello Stato membro nei casi in cui sia stata accertata una violazione manifesta del diritto applicabile.
In una prospettiva interna, giova ricordare che già la Corte costituzionale, con pronuncia n. 17/1986, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell'art. 395 prima parte e n. 4, nella parte in cui non prevede la revocazione di sentenze della Corte di cassazione rese su ricorsi basati sul n. 4 dell'art. 360 e affette dall'errore di cui al n. 4 dell'art. 395, posto che “il diritto di difesa, in ogni stato e grado del procedimento garantito dall’art. 24 comma secondo Cost., sarebbe gravemente offeso se l’errore di fatto, così come descritto nell'art. 395 n. 4, non fosse suscettibile di emenda sol per essere stato perpetrato dal Giudice cui spetta il potere-dovere di nomofilachia”[20].
Ancora, è stato osservato condivisibilmente che “allorquando [la Corte] prenda in considerazione la Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (invocata frequentemente in sede di revocazione in Cassazione), tenuto conto dell’obbligo per il giudice comune di procedere ad una interpretazione convenzionalmente orientata (si vedano C. Cost. n. 348/2007 e 349/2007; n. 49/2015), ai fini della revocazione i giudici nazionali sono chiamati ad un'applicazione rigorosa e ad una valutazione molto attenta di ogni elemento anche in fatto della relativa fattispecie, essendo indispensabile che la risposta concreta regga ad un vaglio di proporzionalità e così di adeguatezza, nell’equilibrio raggiunto tra l'esigenza dell'interesse generale e la salvaguardia del diritto fondamentale[21].
Se tanto vale per le pronunce della Corte EDU, un’interpretazione ancor più favorevole ad un’ammissibilità ampia di censure, anche di natura revocatoria, dovrebbe essere scontata, specie laddove l’esame di determinate circostanze di fatto fosse conseguenza diretta ed immediata del pronunciamento della Corte come nel caso di specie.
Nel caso concreto, tuttavia, il Consiglio di Stato “consegna” all’attenzione della Corte i risultati della propria indagine di merito, osservando di avere sostanzialmente “obbedito” ai principi affermati dalla Corte: si deve tuttavia rilevare che l’atteggiamento del massimo organo di giustizia amministrativa suscita qualche perplessità dal momento che si è limitato a ribadire che “l’avvio di un procedimento presso l’EMA al fine di includere tali informazioni nel riassunto delle caratteristiche del prodotto, incombono al solo titolare dell’AIC del medicinale in questione e non ad un’altra impresa che commercializza un medicinale concorrente”[22]. Se questo aspetto può certamente essere rilevante al fine di far sorgere un sospetto che vi sia un’intesa e che le informazioni non siano genuinamente improntate a tutelare la salute delle persone (o quanto meno non solo), non si può tuttavia ritenere che in tal modo sia stata effettuata un’indagine attenta sul carattere ingannevole delle informazioni. Carattere ingannevole che, come si è già osservato, parrebbe invece essere escluso dalla semplice circostanza quale “la decisione di Ema di respingere la richiesta di Roche di modificare la sezione 4.8 (effetti indesiderati) del RCP di Avastin, e la modifica solo della diversa sezione 4.4 (avvertenze e precauzioni d’uso) del RCP, per segnalare la specificità delle applicazioni a mezzo d’iniezione intravitreale, cui conseguono rischi di possibili infezioni” (grassetto aggiunto). Rilievo che non sembra irrilevante, specie in un contesto di salute pubblica, come lo si è visto anche di recente con le indicazioni assai contraddittorie e tendenzialmente “negazioniste” di EMA e AIFA, in tema di effetti avversi dei vaccini in commercio al tempo della pandemia.
Insomma, in termini di errore revocatorio, pare proprio che una maggiore preoccupazione per la giustizia in concreto avrebbe potuto e dovuto indurre il Consiglio di Stato a diversi approdi, anche se è innegabile che le strettissime maglie (per usare un eufemismo) di ammissibilità dell’azione di revocazione previste dal diritto vivente, come usa dire, rendevano l’esito del tutto scontato.
La conclusione dell’ordinanza di rinvio è nel senso che, dovendosi escludere la sussistenza di una violazione dal punto di vista sia della sua configurazione astratta, sia da quello fattuale, del diritto dell’Unione europea e dei principi affermati dalla sentenza della Corte di giustizia del 23 gennaio 2018, non sussisterebbe neppure la rilevanza della questione pregiudiziale sollevata dalle parti[23]. Tuttavia (continua l’ordinanza) “la Sezione si pone l’interrogativo se debba essere il Giudice nazionale a sindacare la sussistenza di una violazione del diritto dell’Unione Europea, piuttosto che la Corte di Giustizia, che ai sensi dell’art. 267 TFUE ‘è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale: […] b) sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell'Unione’, tra cui ben può farsi rientrare anche una pronuncia della stessa Corte di Giustizia”[24].
Anche a questo quesito, il Consiglio di Stato sembra già fornire una risposta precisando che “è principio consolidato nella giurisprudenza della Corte di Giustizia che quest’ultima non è competente a decidere lo specifico caso e spetta unicamente al giudice nazionale esaminare e valutare i fatti del procedimento principale nonché determinare l’esatta portata delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative applicabili (cfr. sentenza 3 ottobre 2019 C-632/18; 13 aprile 2010, Bressol e a., C73/08; 21 giugno 2017, W e a., C-621/15); esula delle competenze della Corte la verifica e la valutazione delle circostanze di fatto relative al procedimento principale, spetta invece al giudice nazionale effettuare «una valutazione globale di tutti gli elementi relativi a detto procedimento» (sentenza 6 settembre 2012, C – 273/11)”.
E, pur tuttavia, stante l’enfatizzata “peculiarità” del caso, l’ordinanza si chiede se non si debba pensare che questa indagine spetti alla Corte di giustizia, “potendosi prospettare – quale precipitato del dovere di cooperazione al fine di garantire la corretta applicazione e l’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione nell’insieme degli Stati membri – che ad esso debba essere deputata la stessa Corte di Giustizia, quale organo che ha dettato la specifica regola di giudizio che doveva applicare il giudice nazionale e di cui la parte lamenta la violazione”.
Se queste sono le ragioni, appare tuttavia discutibile la “peculiarità” del caso, dal momento che avviene sempre, in sede di rinvio pregiudiziale, che la Corte detti la specifica regola di giudizio che il giudice nazionale deve applicare e di cui la parte lamenta la violazione.
Suscitano qualche perplessità le considerazioni in tema di inammissibilità del rimedio alla luce delle pronunce della Corte costituzionale n. 123/2017 e dell’Ad. Pl. n. 12/2017 di “esecuzione” della prima, a maggior ragione riguardando un’ipotesi differente, precisamente “quella di un contrasto con una decisione della Corte Europea dei Diritti Umani”. In primo luogo, invero, stante la diversità strutturale, anche nella considerazione della Corte costituzionale (si vedano le sentenze nn. 348/2007 e 349/2007), fra il diritto dell’Unione e il diritto internazionale convenzionale, la pronuncia della Corte costituzionale pare poco rilevante; la Corte costituzionale, inoltre, stava “ragionando” di vera e propria ipotesi di cosa giudicata, non già di questione ancora sub judice ovvero di “sentenza contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata” ai sensi e agli effetti dell’art. 395, n. 5 c.p.c. In secondo luogo, non pare nemmeno che il tenore di cui all’art. 395, n. 5 sia assistito da “eccezionalità” ex art. 14 delle preleggi, non foss’altro per il fatto che si fa riferimento genericamente a un “precedente” avente autorità di cosa giudicata fra le parti e i rimedi di cui ai nn. 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c. sono considerati pacificamente “ordinari” e non già “straordinari”[25].
Pur con tutte le “peculiarità” del caso (sentenza resa dalla Corte di giustizia nello stesso processo e risultante da una sospensione c.d. impropria del processo secondo la nota terminologia di Liebman), la dottrina tradizionale da sempre si è espressa per le pronunce della Corte rese in sede pregiudiziale come sentenze aventi l’autorité de chose interpretée, se non già di chose jugée[26].
In ogni caso, pare difficile negare che la pronuncia della Corte rispetto alle parti in causa abbia un’autorità assai simile nella sostanza a quella della cosa giudicata, sia cioè vincolante e non impugnabile. E’ proprio la possibilità rinviare nuovamente (già segnalata nella risalente pronuncia Da Costa[27]) ad impedire di parlare tout court di “cosa giudicata”, senza tuttavia che queste caratteristiche speciali del giudicato comunitario (differenziato notoriamente in ‘di invalidità’ ed ‘interpretativo’ in senso stretto) sia suscettibile di essere sussunto nell’art. 396 n. 5 c.p.c. ai fini di una maggior tutela.
Non va sottaciuto, poi, che i casi di “precedenti” sono tutt’altro che tassativi, se solo si considera che, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 3, c. 2 della l. 14 gennaio 2013, n. 5 (Adesione della Repubblica italiana alla Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli di Stati e dei loro beni, fatta a New York il 2 dicembre 2004 nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno), le sentenze passate in giudicato del giudice italiano che siano in contrasto con una sentenza della Corte internazionale di giustizia che abbia accertato il difetto di giurisdizione possono essere impugnate per revocazione e, in tal caso, non si applica l’art. 396 c.p.c.
In altre parole, l’obbligo di interpretazione conforme, unitamente alla circostanza che non si tratterebbe di una interpretazione contra legem, potrebbe consentire un’interpretazione analoga dell’art. 395, n. 5 c.p.c. anche in relazione alle pronunce rese dalla Corte fra le stesse parti (in quanto fonte di diritto), come ricordato dall’ordinanza.
4 - Il principio dell’intangibilità della regiudicata nazionale nella giurisprudenza della Corte: dai più lontani precedenti Eco Swiss e Köbler fino ai più recenti Pizzarotti e Telecom (“passando” attraverso Künhe&Heitz, Kapferer, Kempter, Lucchini, Fallimento Olimpiclub). L’autonomia procedurale nazionale.
L’ordinanza in commento sembra negare la possibilità dell’utilizzo del diritto processuale nazionale con la finalità di creare innovativamente rimedi processuali a favore di una maggiore effettività del diritto dell’Unione.
In altri termini, l’invocabilità dell’art. 395 c.p.c. in funzione di garanzia dell’effettività della pronuncia della Corte di giustizia resa ai sensi e agli effetti dell’art. 267 TFUE sarebbe impedita da una duplice difficoltà: a) avanti al Consiglio di Stato non si è ancora creato un giudicato; b) la stessa pronuncia della Corte non può dirsi un vero giudicato, avendo le caratteristiche ontologicamente diverse.
Il tema che qui si intende illustrare (eventuale “superamento” di una nozione formalistica della cosa giudicata nazionale in virtù del principio della tutela effettiva) è fra quelli che più hanno suscitato, in dottrina, accese discussioni (peraltro non ancora sopite) in ordine ad una possibile forzatura, ex parte Curiae, del fondamentale principio di effettività ben oltre i limiti della ragionevolezza.
Storicamente, pare che la Corte di giustizia si sia posta per la prima volta il problema di un’eventuale neutralizzazione degli effetti propri del giudicato interno alla luce del principio dell’effettività nella pronuncia Eco Swiss. In quel caso, invero, dopo aver ricordato che le disposizioni nazionali che impediscono di rimettere in discussione un lodo arbitrale avente – in quanto non impugnato – natura di regiudicata, sono giustificate dal “principio della certezza del diritto e [da] quello del rispetto della cosa giudicata che ne costituisce l’espressione”, la Corte ha sostanzialmente negato che il valore di un giudicato possa essere rimesso in discussione, sia pure alla luce di una norma di diritto “comunitario” di carattere imperativo (artt. 101-102 TFUE)[28].
Qualche anno più tardi, nella nota sentenza Köbler, lo stesso problema si ripropose a fronte dell’affermazione del principio di responsabilità dello Stato-giudice a fini risarcitori (come applicazione della c.d. dottrina Francovich), di talché non è stato difficile per la Corte osservare, analogamente peraltro a quanto accade nel contesto della CEDU, che “il principio della responsabilità dello Stato inerente all’ordinamento giuridico comunitario richiede un tale risarcimento, ma non la revisione della decisione giurisdizionale che ha causato il danno”[29]. Da queste prime prese di posizione, si comprende come, in linea di principio, la Corte attribuisca il giusto valore al principio della res judicata, la cui importanza “non può essere contestata (v. sentenza Eco Swiss, cit., punto 46). Infatti, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione”[30].
Ma la démarche della Corte verso un possibile superamento (sia pure eccezionale, come si vedrà, per condizioni e presupposti) dell’intangibilità della cosa giudicata è stata successivamente piuttosto netta. È nel caso Kühne & Heitz, che la Corte afferma, per la prima volta, che il primato, letto alla luce della c.d. Bundestreue e all’esigenza di effettività di applicazione della norma dell’Unione, può portare talora a questo risultato[31]. A seguito di un rinvio pregiudiziale del College van Beroep voor het bedrijfsleven (giudice olandese competente in tema di questioni doganali) originato da una controversia in tema di errata qualificazione di voci e sottovoci della tariffa doganale (precisamente, su cosa si debba intendere per coscia di pollo), la Corte ha avuto modo di affermare che “il principio di cooperazione derivante dall’art. 10 CE [oggi art. 4.3 TFUE] impone ad un organo amministrativo, investito di una richiesta in tal senso, di riesaminare una decisione amministrativa definitiva per tener conto dell’interpretazione della disposizione pertinente nel frattempo accolta dalla Corte qualora: - disponga secondo il diritto nazionale, del potere di ritornare su tale decisione; - la decisione in questione sia divenuta definitiva in seguito ad una sentenza di un giudice nazionale che statuisce in ultima istanza; - tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza della Corte successiva alla medesima, risulti fondata su un’interpretazione errata del diritto comunitario adottata senza che la Corte fosse adita in via pregiudiziale alle condizioni previste all’art. 234, n. 3,CE, e - l’interessato si sia rivolto all’organo amministrativo immediatamente dopo essere stato informato della detta giurisprudenza”[32].
Una tale conclusione viene raggiunta, comunque, se non dopo aver ricordato e ribadito come, in linea di principio, “la certezza del diritto è inclusa tra i principi generali riconosciuti nel diritto comunitario. Il carattere definitivo di una decisione amministrativa, acquisito alla scadenza di termini ragionevoli di ricorso o in seguito all’esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale, contribuisce a tale certezza e da ciò deriva che il diritto comunitario non esige che un organo amministrativo sia, in linea di principio, obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che ha acquisito tale carattere definitivo”[33].
Successivamente a questo importante precedente, la Corte si è dovuta confrontare con alcuni casi in cui i giudici nazionali chiedevano lumi al fine di una migliore comprensione ed applicazione concreta del rationale sotteso a Kühne & Heitz.
Il primo di questi, in termini temporali, è la pronuncia Kapferer, sollevata dal Landesgericht Innsbruck. Pur muovendo da una questione di interpretazione degli artt. 10 CE (oggi, art. 4.3. TUE) e 15 del regolamento (CE) del Consiglio 22 dicembre 2000, n. 44/2001 (c.d. Bruxelles I, poi sostituito dal reg. n. 1215/2012, c.d. Bruxelles I bis)[34], la questione si è trasformata, per la Corte, concretamente, in quella relativa alla trasponibilità dei principi della Kühne & Heitz al c.d. giudicato sostanziale.
La Corte, seguendo in ciò il suggerimento dell’avvocato generale Tizzano, ha precisato che “anche ammettendo che i principi elaborati in tale sentenza Kühne & Heitz siano trasferibili in un contesto che, come quello della causa principale, si riferisce ad una decisione giurisdizionale passata in giudicato, occorre ricordare che tale medesima sentenza subordina l’obbligo per l’organo interessato, ai sensi dell’art. 10 CE [art. 4.3. TUE], di riesaminare una decisione definitiva che risulti essere adottata in violazione del diritto comunitario, alla condizione, in particolare, che il detto organo disponga, in virtù del diritto nazionale, del potere di tornare su tale decisione (v. punti 26 e 28 della detta sentenza). Orbene, nel caso di specie, è sufficiente rilevare che dalla decisione di rinvio risulta che la suindicata condizione non ricorre” [35].
In realtà, il precedente invocato dalla consumatrice austriaca in detta causa impingeva già, indubitabilmente, nel principio della regiudicata, posto che, come ricordato in Kühne & Heitz dall’avvocato generale Léger, “la risposta data dalla Corte nella citata sentenza Larsy” poteva “essere integralmente trasposta alla situazione della causa principale, anche se la decisione giurisdizionale nazionale a cui si richiamava l’organo amministrativo coinvolto (nella citata causa Larsy) non era definitiva quando quest’ultimo ha adottato la decisione controversa, per cui essa era semplicemente dotata dell’autorità di cosa giudicata, e non della forza di cosa giudicata o dell’autorità della cosa definitivamente giudicata come avviene nella causa in discussione”[36].
In un diverso caso, Kempter[37], la Corte dovette affrontare nuovamente la spinosa questione, e ciò in una controversia relativa a (solo) parziali restituzioni all’esportazione ottenuti, dalla ditta esportatrice di bovini in diversi paesi terzi, presso lo Hauptzollamt Hamburg-Jonas. La questione sottoposta dal Finanzgericht di Amburgo, in buona sostanza, riguardava la possibilità di Kempter KG di rimettere in discussione un giudicato e una decisione amministrativa definitiva in applicazione degli artt. 48 e 51 della legge sul procedimento amministrativo (Verwaltungsverfahrensgesetz) del 25 maggio 1976, invocando un precedente della Corte di cui era venuto a conoscenza dopo il passaggio in giudicato della pronuncia sulla sua controversia, precedente che effettivamente gli avrebbe consentito di recuperare integralmente le restituzioni de quibus. In particolare, il giudice nazionale si interrogava su due circostanze di applicabilità della dottrina Kühne & Heitz: ovvero, se a) sia necessario che il privato interessato abbia sollevato la questione di diritto comunitario in precedenza ed abbia ottenuto un rigetto e se b) sia necessario che il privato chieda immediatamente la revisione della pronuncia definitiva. La Corte risponde negativamente ad entrambi i quesiti. Ed invero, quanto alla prima, osserva che “nell’ambito di un procedimento dinanzi ad un organo amministrativo diretto al riesame di una decisione amministrativa divenuta definitiva in virtù di una sentenza pronunciata da un giudice di ultima istanza, la quale, alla luce di una giurisprudenza successiva della Corte, risulta basata su un’interpretazione erronea del diritto comunitario, tale diritto non richiede che il ricorrente nella causa principale abbia invocato il diritto comunitario nell’ambito del ricorso giurisdizionale di diritto interno da esso proposto contro tale decisione”[38] .
Quanto poi al decorso del tempo e alla diligenza nell’attivarsi in tal senso, la Corte precisa che “il diritto comunitario non impone alcun limite temporale per presentare una domanda diretta al riesame di una decisione amministrativa divenuta definitiva. Gli Stati membri rimangono tuttavia liberi di fissare termini di ricorso ragionevoli, conformemente ai principi comunitari di effettività e di equivalenza”[39] . Si può osservare al riguardo che, quanto alla prima precisazione, essa non sembra così coerente con la giurisprudenza della Corte in tema di applicabilità d’ufficio, ex parte judicis, del diritto dell’Unione di natura imperativa (pur accennata dalla Corte per giustificare la propria soluzione); quanto invece alla lettura dell’aspetto temporale della giustiziabilità di una domanda “alla Kühne & Heitz”, essa appare sostanzialmente riconducibile nel solco tradizionale della giurisprudenza in tema di termini processuali, materia di per sé di diritto processuale nazionale per eccellenza (ancorché con le dovute e note precisazioni).
Quanto al caso Lucchini, si ricorda che la controversia dinanzi al giudice italiano era sorta in relazione ad aiuti concessi dallo Stato italiano in favore della società Lucchini, che erano stati oggetto di una decisione CECA (90/555/CECA) di incompatibilità, decisione divenuta inoppugnabile per il decorso del termine di un mese per l’eventuale impugnativa ex art. 33, 3° comma, CECA[40].
In modo del tutto scollegato dalla loro sede e regime naturali, gli aiuti in parola erano stati oggetto di azioni di accertamento e di condanna che avevano visto il Ministero dell’industria, commercio e artigianato soccombere, nei confronti della Lucchini, davanti al Tribunale civile di Roma, prima, e poi, in secondo grado, davanti alla Corte d’appello (con sentenza passata in giudicato). Successivamente, tuttavia, l’autorità amministrativa italiana – che pur era stata costretta ad erogare l’aiuto per la soccombenza in sede civile – procedeva, anche su pressioni della Commissione, alla revoca dell’aiuto: revoca impugnata dal privato beneficiario, prima di fronte al Tar Lazio e dopo, in sede di gravame, avanti al Consiglio di Stato. E mentre il giudice amministrativo di prime cure dava ragione alla Lucchini in virtù del c.d. giudicato implicito, intervenuto prima della decisione definitiva di incompatibilità, da parte della Commissione, il massimo organo di giustizia amministrativa sollevava due questioni pregiudiziali con la finalità di chiarire se il primato e la diretta efficacia della decisione della Commissione imponessero alle autorità nazionali di recuperare l’aiuto illegittimo anche in presenza di un giudicato interno che, almeno formalmente, impedisce, lege fori, il recupero o se, invece, alla luce del precedente Deutsche Milchkontor[41], il recupero debba essere retto dal diritto nazionale con conseguente applicazione della regola di cui all’art. 2909 c.c.
Sotto questo profilo, la soluzione della Corte sul tema dell’applicazione del 2909 c.c., a tenore del quale, “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa” e che copre anche il c.d. giudicato implicito o deducibile, non poteva che essere scontata: “il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione divenuta definitiva”[42].
La sentenza Lucchini non sposta, sostanzialmente, la giurisprudenza della Corte, tutto sommato equilibrata in linea di principio, ancorché non sempre coerente, sul tema dell’autonomia processuale degli Stati membri e sulla necessità, di regola, di “accettare” i valori processuali provenienti dalla lex fori, compreso quello fondamentale della res judicata. Il valore della res judicata nazionale non è inficiato (è anche un principio fondamentale di diritto processuale dell’Unione), ma non ha più di tanto rilevanza in una materia dove vigono procedure di controllo e sanzioni europee. Più rilevanti in questa prospettiva di “revisione” del giudicato interno paiono essere i casi Fallimento Olimpiclub e Pizzarotti.
Nel primo, Fallimento Olimpiclub, a proposito della teoria unitaria o frammentaria del giudicato fiscale, la Corte ha osservato che “il diritto comunitario osta all’applicazione, in circostanze come quelle della causa principale, di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile, in una causa vertente sull’IVA concernente un’annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta una decisione giurisdizionale definitiva, in quanto essa impedirebbe al giudice nazionale investito di tale causa di prendere in considerazione le norme comunitarie in materia di pratiche abusive legate a detta imposta”[43].
Nella causa Pizzarotti in tema di formazione progressiva del giudicato amministrativo in sede di ottemperanza, la Corte ha potuto affermare che “se le norme procedurali interne applicabili glielo consentono, un organo giurisdizionale nazionale, come il giudice del rinvio, che abbia statuito in ultima istanza senza che prima fosse adita in via pregiudiziale la Corte di giustizia ai sensi dell’articolo 267 TFUE, deve o completare la cosa giudicata costituita dalla decisione che ha condotto a una situazione contrastante con la normativa dell’Unione in materia di appalti pubblici di lavori o ritornare su tale decisione, per tener conto dell’interpretazione di tale normativa offerta successivamente dalla Corte medesima”[44].
Infine, in maniera assai più piana e rispettosa dell’autonomia procedurale degli Stati membri, la Corte ha riaffermato, recentemente, che “il diritto dell’Unione dev’essere interpretato nel senso che esso non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme di procedura interne che riconoscono autorità di cosa giudicata a una pronuncia di un organo giurisdizionale, anche qualora ciò consenta di porre rimedio a una violazione di una disposizione del diritto dell’Unione, senza con ciò escludere la possibilità per gli interessati di far valere la responsabilità dello Stato al fine di ottenere in tal modo una tutela giuridica dei loro diritti riconosciuti dal diritto dell’Unione”[45].
Quali conclusioni trarre, dunque, da questa giurisprudenza non sempre così lineare e coerente in tema di cosa giudicata interna?
Come osserva l’avvocato generale Bobek[46], “La giurisprudenza sviluppatasi nel corso degli anni è variegata […]. Essendo legata al caso specifico, essa resiste a generalizzazioni. Sono rinvenibili esempi di approcci diversi. Tale giurisprudenza spazia da posizioni alquanto benevole nei confronti degli Stati membri, in cui l’equivalenza è tendenzialmente considerata sufficiente, a perentorie istanze di effettività, in cui lo Stato membro è tenuto a fare (molto) di più rispetto a ciò che è normalmente possibile ai sensi del suo diritto nazionale. Ad un estremo vi sono cause in cui la Corte ha accettato le norme processuali in questione, dopo aver reso il rispetto della condizione dell’equivalenza il punto focale della sua analisi. In tali cause, la valutazione della condizione dell’effettività è stata oggetto di un approccio particolarmente tenue. A tale riguardo, la Corte ha chiarito che il principio di equivalenza non può essere interpretato nel senso di obbligare uno Stato membro ad estendere a tutte le azioni fondate sul diritto dell’Unione le sue norme processuali più favorevoli. Tale criterio di controllo «clemente» sembra essere stato impiegato soprattutto in materia di istituti e meccanismi di diritto processuale comuni a tutti gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, essendo connaturati a qualsiasi sistema giuridico (come, ad esempio, l’autorità di cosa giudicata, i termini e così via). All’estremo opposto si rinvengono cause quali Simmenthal, San Giorgio, Factortame, Cartesio, Elchinov, o Klausner, in cui la Corte ha insistito in modo categorico su una solida concezione dell’effettività. Tali cause riguardavano situazioni in cui un ordinamento giuridico nazionale era privo di un determinato tipo di rimedio, mentre la prassi nazionale in questione era percepita come fonte di ostacoli sistemici alla piena effettività del diritto dell’Unione o a una tutela rapida e completa dei singoli lesi nei loro diritti”[47].
A tal riguardo, è stato osservato che “the important point is that, in all such situations, Union law itself determines the scope and limits of the principle of supremacy – by examining the role of that principle relative to other basic tenets of the Union legal order (…) By contrast, it is in principle impermissible for national courts or tribunals to condition the supremacy of Union provisions unilaterally upon the requirements of purely domestic law (however fundamental)”[48].
In altre parole, e in conclusione, pare poco credibile che si rappresenti alla Corte che un certo risultato processuale, laddove davvero imposto dal primato del diritto dell’Unione, non sarebbe possibile solo in virtù di esigenze di puro diritto processuale nazionale, perché, ad esempio, le ipotesi di revocazione sono tassative o altro. Se una siffatta necessità di interpretazione conforme o di disapplicazione della norma processuale interna deriva da effettive esigenze di primato, nessuna difficoltà processuale interna presunta o tale può ostacolarne l’interpretazione conforme o la stessa disapplicazione.
Nel caso di specie, un analogo trattamento ai fini dell’ammissibilità del rimedio di cui all’art. 395, nn. 4 e 5 c.p.c. viene riservato alle sentenze della Corte EDU o a quelle della Corte internazionale di giustizia, e non si vede per quale ragione non possa e non debba essere riservato anche alle pronunce della Corte di giustizia, sulla base dei medesimi presupposti di fatto e di diritto. Si tratta, ancora una volta, di una conseguenza necessitata derivante dal principio di equivalenza, interpretato secondo un approccio “serio” e non già troppo “clemente”.
5. Sul significato concreto del rinvio. La distinzione fra interpretazione e applicazione del diritto dell’Unione europea alla luce dell’art. 19 TUE e del diritto a un ricorso effettivo di cui all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali (la possibile risposta al secondo quesito).
Il Consiglio di Stato parte dalla premessa, indubitabilmente corretta, che secondo una giurisprudenza nazionale che potremmo definire pietrificata, “l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito (cfr. Corte di Cassazione ordinanza n. 3340 del 05/02/2019; Ordinanza n. 24155 del 13/10/2017)”.
In effetti, questo tipo di contestazione vis-à-vis del giudice incaricato di applicare il principio afferisce piuttosto ad un problema di responsabilità del Giudice. Afferma il Consiglio di Stato:“tale assetto dei rapporti tra Giudice della nomofilachia e Giudice di merito appare replicabile anche nella prospettiva dei rapporti tra Giudice nazionale e Corte di giustizia, posto che la indiscussa vincolatività che deriva dalla pronuncia adottata da quest’ultima non può confondersi con la funzione giurisdizionale riservata al giudice nazionale, neanche quando è in discussione una controversia per la quale rileva il diritto dell’Unione, al cui interno si inserisce il rinvio pregiudiziale: al giudice nazionale, invero, appartiene in via esclusiva il potere di decidere la controversia e di valutazione dei fatti e delle emergenze istruttorie (cfr. sentenza, 19 marzo 1964, causa 75/63, Unger; sentenza, 26 settembre 1996, causa C-341/94)”.
Al Giudice nazionale remittente (continua il Consiglio di Stato con articolata argomentazione) spetta il compito di applicare le norme di diritto “comunitario” al caso concreto; pertanto: “la Corte non è competente a pronunciarsi sui fatti della causa principale, dato che tali questioni rientrano nella competenza esclusiva del giudice nazionale (sentenza 22 giugno 2000, causa C-318/98, Fornasar e a., Racc. pag. I-4785, punto 32) (sentenza 16.10.2003, Causa C-421/01)”.
A fronte di un siffatto argomentare, il riparto di competenze proprio di questa speciale procédure de juge à juge parrebbe condurre ad una sorta di risposta per così dire scontata, una sorta di truismo. Ma non è propriamente così. Sin dai primi precedenti della Corte in materia, la risposta sembra essere più complicata: secondo l’avvocato generale Lagrange, ad esempio, nel caso Costa c. Enel, dopo aver ricordato che l'interpretazione astratta del testo del Trattato o della legislazione secondaria viene sempre data in relazione al caso concreto che costituisce l’oggetto della controversia, “tracciare il confine tra applicazione e interpretazione è senza dubbio uno dei problemi più complessi sollevati dall'art. 177 [oggi, art. 267 TFUE], tanto più che detto confine coincide con quello tra competenza del giudice comunitario e competenza del giudice nazionale, e non vi è alcun foro per dirimere un'eventuale conflitto. Orbene, è palese che un conflitto tra la Corte di Giustizia ed i supremi fori nazionali potrebbe mettere in serio pericolo il sistema di controllo giurisdizionale istituito dal Trattato, sistema il quale è basato sulla collaborazione stretta, e spesso persino organica, fra l'una e gli altri” [49] . O, ancora, l’avvocato generale Capotorti, nelle conclusioni nella causa CILFIT, osservava: “l'applicazione di una norma a un determinato caso richiede sempre, logicamente e praticamente, l'identificazione del significato e della portata di quella norma, senza la quale non si giunge a stabilire che essa è adatta al caso di specie, né a trarre dal suo contenuto tutte le conseguenze riferibili al caso. Si può forse dire che, quando si applica una norma, interpretazione e applicazione si intrecciano e si fondono, ma non è certo concepibile che una norma sia applicata senza bisogno di interpretarla, a meno che non si travisi il significato della parola «interpretazione», attribuendole necessariamente un carattere di difficoltà”[50].
Parole che sembrano in qualche modo riecheggiare ante litteram le difficoltà con cui qui, oggi, ci si confronta[51].
Si deve osservare, tuttavia, che il Trattato di Lisbona ha rafforzato l’obbligo del Giudice nazionale di rispettare le sentenze della Corte in concreto, dal momento che all’art. 19, comma 1, secondo alinea, TUE, si precisa icasticamente che “gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione”.
L’effettività della tutela richiama subito alla mente una sorta di rafforzamento in concreto della vincolatività della pronuncia della Corte, rafforzamento che certamente abilita la parte ad invocare nuovamente, avanti al Giudice nazionale, l’opportunità o necessità del rimedio del rinvio pregiudiziale per verificare il significato veritiero, proprio ed “effettivo” del diritto dell’Unione nel momento dell’attuazione del principio interpretativo ex parte judicis.
In una questione decisa dalla Corte nella causa Ognyanov si discettava, precisamente, dell’interpretazione degli artt. 267 TFUE e 94 del regolamento di procedura della Corte[52], nonché dell’art. 47, secondo comma, e dell’art. 48, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea avanti al Giudice nazionale[53]. Il thema decidendum era di quelli di particolare delicatezza, involgendo una questione di possibile parzialità del collegio nazionale giudicante: la legittimità, alla luce del diritto dell’Unione, di una normativa nazionale che obbliga il collegio giudicante di un organo giurisdizionale a dichiarare la propria incompetenza qualora abbia espresso, nella domanda di pronuncia pregiudiziale rivolta alla Corte, un parere provvisorio nell’esporre il contesto di fatto e di diritto del procedimento principale, e questo prima della decisione finale.
La Corte di giustizia ha concluso che “il diritto dell’Unione, segnatamente l’articolo 267 TFUE, deve essere interpretato nel senso che non impone né vieta al giudice del rinvio di procedere, in seguito alla pronuncia della sentenza emessa in via pregiudiziale, ad una nuova audizione delle parti nonché a nuove misure istruttorie che possano indurlo a modificare gli accertamenti di fatto e di diritto da esso effettuati nell’ambito della domanda di pronuncia pregiudiziale, purché tale giudice dia piena attuazione all’interpretazione del diritto dell’Unione data dalla Corte di giustizia dell’Unione europea” (corsivo aggiunto)[54].
Si potrebbe osservare che la Corte di giustizia abbia così già risposto al secondo quesito contenuto nell’ordinanza del Consiglio di Stato, essendo pacifico vuoi che, a seguito della pronuncia ex art. 267 TFUE, il Giudice nazionale possa modificare il proprio giudizio sul fatto riaprendo la causa in istruttoria, vuoi soprattutto che esso dia piena attuazione all’interpretazione del diritto dell’Unione, data dalla Corte di giustizia e che, dunque, quest’ultima possa essere chiamata a verificare la correttezza dell’attuazione da parte del Giudice nazionale che non può, in tutta evidenza, limitarsi ad un lip-service rispetto al pronunciamento della prima.
Un particolare passaggio nell’ordinanza qui in commento merita di essere sottolineato e ripreso tout court: “nel peculiare caso in esame, la domanda di parte ricorrente - nella parte in cui punta all’annullamento della sentenza impugnata - ha ad oggetto la dedotta violazione da parte di quest’ultima dei principi dettati dalla Corte di Giustizia nell’ambito del giudizio principale all’interno del quale la stessa era stata adita. In altre parole, la domanda proposta dalla società, nella sua fase rescindente, si fonda soltanto, e necessariamente, sulla supposta violazione dei principi affermati dalla Corte di Giustizia nella precedente fase processuale, sicché anche le circostanze di fatto e i relativi elementi di prova, che in base alla giurisprudenza già citata dovrebbero essere di esclusiva valutazione del giudice nazionale, vengono a costituire – nella loro prospettata errata o mancata valutazione da parte del giudicante – gli specifici parametri alla stregua dei quali verificare la sussistenza o meno della dedotta violazione dei principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia”.
Va detto, oltre ad essere scontato che il Giudice nazionale possa investire nuovamente la Corte per ottenere un nuovo chiarimento (come del resto avvenuto in molti casi)[55] o anche (perché no ?) per una verifica della correttezza dell’attuazione dei principi affermati dalla Corte al caso concreto, non c’è dubbio che se, nella controversia specifica sottoposta all’attenzione del Consiglio di Stato, come sottolinea l’ordinanza di rinvio, la verifica del fatto pare inestricabilmente connessa con il principio di diritto, ciò possa e debba avvenire a fortiori, senza che ciò implichi una (pericolosa) messa in discussione del riparto delineato dai Trattati in ordine al rimedio di cui all’art. 267 TFUE[56].
6. Considerazioni conclusive. La possibile risposta ai quesiti pregiudiziali.
Senza volersi, per così dire, cimentare (a tutti i costi) in una previsione di quella che sarà la risposta della Corte, habent sua sidera lites (che vale anche a Lussemburgo, ovviamente), si può ritenere, e auspicare, che i quesiti siano valutati e apprezzati nella prospettiva qui indicata di diritto dell’Unione.
a)Quanto al primo quesito si deve osservare che la premessa sembra soffrire di una sorta di petizione di principio, alla luce del noto rinvio Randstad, operato dalle Sezioni Unite, pendente avanti alla Corte di giustizia[57].
b)Quanto al secondo quesito sottoposto, suscita perplessità il fatto che il Consiglio di Stato esprima, rispetto allo stesso, dubbi in termini sia di fondatezza, sia di rilevanza o interesse attuale della questione (si ricordi che il Collegio ha già emesso una sentenza non definitiva di rigetto di tutti i pretesi vizi revocatori), al punto che ci si potrebbe persino chiedere per quale motivo, allora, un tale quesito venga sottoposto alla Corte, stante in qualche modo la “signoria” del Giudice nazionale nel valutare in modo decisivo tale aspetto del rinvio (cioè la sua pertinenza). Ed in effetti, ricorda l’ordinanza, “sul piano dell’astratta configurabilità, nel caso di specie, di una violazione del diritto comunitario, deve rilevarsi che il Giudice, nel giudizio proposto avverso il provvedimento n. 24823 del 27.2.2014, vista la rilevanza comunitaria della materia: a) ha sollevato specifico quesito pregiudiziale alla Corte di Giustizia; b) ha recepito la relativa pronuncia, citandone le conclusioni e richiamandola in diversi passaggi della motivazione della sentenza n. 4990/2019 impugnata in questa sede”.
c) Non rimane che provare a scorgere, nel case-law della Corte, quale sarà il possibile orientamento della medesima a fronte del terzo quesito, l’unico (a ben vedere) avente una vera e propria rilevanza rispetto alla controversia sub judice. L’ordinanza chiede di conoscere, come già si è ricordato, se “gli articoli 4, paragrafo 3, 19, paragrafo 1, del TUE e 2, paragrafi 1 e 2, e 267 TFUE, letti anche alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea” ostino ad un sistema, quale derivante dal combinato disposto degli articoli 106 del codice del processo amministrativo e 395 e 396 del codice di procedura civile, nella misura in cui queste disposizioni nazionali impediscono al giudice il ricorso al rimedio del ricorso per revocazione per contestare sentenze del Consiglio di Stato confliggenti con sentenze della Corte di giustizia ed i principi di diritto affermati da quest’ultima in sede di rinvio pregiudiziale[60].
E’ pur vero, in effetti, che la Corte di giustizia, di per sé, non può interferire autonomamente nell’accertamento del diritto nazionale vigente (per così dire as it stands), e quindi come è descritto dal Giudice nazionale, ma è evidente che, da un lato, un rinvio già pendente sembra rappresentare esattamente il contrario, rivendicando la competenza del giudice nazionale.
Non si comprende precisamente (in altre parole) se il senso della premessa dell’ordinanza qui in commento sia finalizzato per l’appunto a rafforzare nella Corte di giustizia l’idea che le pronunce del Consiglio di Stato non siano suscettibili di alcun sindacato, non essendo l’art. 111, comma 8, Cost. interpretabile come abilitante ad un ricorso di giurisdizione avverso le pronunce del Consiglio di Stato per ineffettività in concreto della tutela; ovvero se siffatta premessa sia dettata da un vero e proprio souci d’efficacité in vista della soluzione del terzo quesito pregiudiziale. Soluzione che potrebbe essere formulata, in realtà, nei termini seguenti: “stante l’impossibilità di altra tutela, dica la Corte di giustizia che il giudice nazionale può riconoscere l’utilizzabilità, in concreto, in virtù del principio di equivalenza o dell’effettività, del rimedio di cui all’art. 395 c.p.c., n. 5 anche in relazione alle pronunce della Corte di giustizia”.
In ogni caso, un rinvio, dopo una precedente pronuncia ex art. 267 TFUE, può essere sollevato e finalizzato a verificare la corretta applicazione al caso concreto dei principi espressi dalla Corte di giustizia nel medesimo giudizio. Tanto può dirsi scontato e lo impone la giurisprudenza della Corte[58] e l’art. 19, 1° comma, secondo alinea, TUE rettamente inteso.
In verità, quanto all’indagine fattuale sottesa dalle risposte della Corte di giustizia (come si è già osservato) il Consiglio di Stato sembra in qualche modo “accontentarsi” dei principi astratti affermati dalla Corte di giustizia: il che, a ben vedere, potrebbe costituire un motivo di “non attuazione” del giudicato della Corte. Certo, l’indagine non può essere rifiutata tout court perché nella pronuncia ex parte Curiae si rinviene l’inciso “se del caso”. Si tratta di un’espressione di per sé anodina, tecnicamente ed ermeneuticamente dipendente dalle circostanze del caso, ma giammai espressiva dell’idea di lasciare all’arbitrio del giudice nazionale se verificare (o non). Si aggiunga che anche il recente rinvio del Consiglio di Stato, ord. n. 7713/2020 sulla necessità di un’analisi degli effetti economici dell’abuso di posizione dominante in presenza di quello che autorevole dottrina definisce abuse of dominant position by object (pur non essendo cioè presente nell’art. 102 TFUE, diversamente che nell’art. 101 TFUE per le restrizioni, la distinzione fra effect-abuses e per se o by object-abuses)[59] risponde, in fondo, a medesime esigenze di maggior certezza “fattuale” o “specifica”: fino a che punto il principio stabilito dalla Corte, in particolare nella materia antitrust, impone o può imporre al giudice nazionale una sorta di indagine fattuale “vincolata” dal principio di diritto stabilito dalla prima ? La risposta non può che essere rinvenuta nelle esigenze di effettività della tutela giurisdizionale e, coerentemente, di uniformità dell’applicazione del diritto dell’Unione (funzione nomofilattica a garanzia della vera sostanza della lex communis).
Si è già osservato come il principio di interpretazione conforme possa essere d’ausilio nel “leggere” le disposizioni interne come abilitanti il Giudice nazionale ad un’interpretazione della fonte di diritto costituita dalla sentenza resa in sede di art. 267 TFUE in termini di precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, ai sensi dell’art. 395, n. 5 c.p.c., anche alla luce degli artt. 4.3. e 19, 1°comma, 2° alinea TUE, nonché art. 47 della Carta, al fine di consentire un maggior effetto utile e di vincolatività al principio espresso dalla Corte[61].
In fondo, se le sentenze della Corte di giustizia sono vincolanti (il che è finanche scontato) e non sono suscettibili di impugnazione stricto sensu (altro è la necessità-opportunità di ulteriore rinvio per chiarimenti ed approfondimenti), non si vede per quale motivo non si possa, in virtù del principio di equivalenza[62], utilizzare il rimedio della revocazione con la finalità di impedire che in uno Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme “comunitarie”, in conformità alla stessa ratio dell’art. 395 c.p.c. e a quel che accade con pronunce di altre Corti “sopranazionali”.
Una conclusione, infine, che si può trarre da questo nuovo rinvio alla Corte di giustizia è che, come amava dire il Giudice americano Jackson, “only the untaught layman or the charlatan lawyer can answer that procedure matters not”[63].
* Il commento è frutto di una elaborazione comune: il par. 1 è comunque attribuibile a Bruno Nascimbene (già professore ordinario di diritto internazionale e di diritto dell’Unione europea); i parr.2-6 a Paolo Piva (professore associato di diritto dell’Unione europea).
[1]La causa, pendente a seguito dell’ordinanza di rinvio del 18.3.2021, è la C-261/21;per un commento all’ordinanza , cfr. R. Pappalardo, La corsa al dialogo nella discordia sulla giurisdizione (nota a Cons. St., ord. 18 marzo 2021, n. 2327, in questa Rivista. Sulla attuale pendenza avanti alla medesima Corte, causa C-497/20,Randstad , a seguito di rinvio da parte delle S.U della Corte di Cassazione, ordinanza del 18.9.2020, n. 19598 ( in cui viene in rilievo, fra l’altro, in sede di esame di questione di motivi attinenti la giurisdizione ex art. 111, 8° comma Cost., la possibile violazione in modo grave e manifesto del diritto dell’Unione europea da parte del Consiglio di Stato), cfr. l’ordinanza delle S.U. n. 19598/2020 oggetto di una varietà di commenti e di numerosi richiami anche in questa Rivista, per i quali v., senza pretesa di completezza: cfr. F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione, 11 novembre 2020; G. Tropea, Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598);M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, 30 novembre 2020; P.Biavati, Il rilievo della questione pregiudiziale europea fra processo e giurisdizione (nota a Cass., S.U., 30 ottobre 2020, n. 24107). Fra questi, si permette ricordare anche B. Nascimbene, P. Piva Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni grave e manifeste del diritto dell’Unione europea?
[2] Sentenza 23.1.2018, causa C-179/16, Hoffmann La Roche, EU:C:2018:25.
[3] Cons. Stato, VI, 19.7.2019, n. 4990. Sul tema, si vedano L. Arnaudo, R. Pardolesi, La saga Avastin /Lucentis: ultima stagione, in Foro.it, 2010, III, c. 533 ss.
[4] A margine della teoria dell’unità del gruppo (o single economic entity), circa l’irrogabilità della sanzione a carico della succursale o della casa madre, si veda recentemente G. Contaldi, Diritto europeo dell’economia, Torino, 2019, p. 187 ss..
[5] Cfr. il regolamento della Commissione relativo alle sanzioni pecuniarie in caso di violazione di determinati obblighi connessi con le autorizzazioni all'immissione in commercio rilasciate a norma del regolamento (CE) n. 726/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio. In esso si precisa, fra l’altro, la necessità della “completezza e accuratezza delle informazioni e dei documenti contenuti in una domanda di autorizzazione all’immissione in commercio in forza del regolamento (CE) n. 726/2004 ovvero di tutti gli altri documenti e dati presentati all’Agenzia europea per i medicinali istituita da detto regolamento” (corsivo aggiunto).
[6] Tanto parrebbe ancor più vero alla luce delle conclusioni raggiunte dalla stessa Corte nella sentenza 21.11.2018, C-29/17, Novartis Farma c. Aifa e a., EU:C:2018:931, in cui si autorizza l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) a monitorare l’Avastin, il cui impiego per un uso non coperto dall’autorizzazione all’immissione in commercio («off-label») è posto a carico finanziario del Servizio Sanitario Nazionale (Italia) e, se del caso, ad adottare provvedimenti necessari alla salvaguardia della sicurezza dei pazienti. Non sembra, invero, individuabile in concreto “un grado di dannosità per la concorrenza sufficiente perché si possa ritenere che l’esame dei loro effetti non sia necessario” (punto 78, sentenza Hofmann La Roche cit. ). Si aggiunga che, alla luce della nota giurisprudenza Groupement Cartes Bancaires, C-57/13 P, 11.9.2014, EU:C:2014:2204, la Corte di giustizia aveva già avuto modo di criticare e stigmatizzare un approccio largheggiante, sotto questo profilo, da parte del Tribunale nell’individuare ipotesi di restrictions by object: in quella pronuncia si legge infatti che “il Tribunale ha erroneamente ritenuto, al punto 124 della sentenza impugnata, e poi anche al punto 146 della medesima, che la nozione di restrizione della concorrenza «per oggetto» non debba essere interpretata «restrittivamente». Infatti, salvo esimere la Commissione dall’obbligo di provare gli effetti concreti sul mercato di accordi rispetto ai quali non è affatto dimostrato che siano, per loro natura, dannosi per il buon funzionamento del normale gioco della concorrenza, la nozione di restrizione della concorrenza «per oggetto» può essere applicata solo ad alcuni tipi di coordinamento tra imprese che presentano un grado di dannosità per la concorrenza sufficiente perché si possa ritenere che l’esame dei loro effetti non sia necessario. La circostanza che i tipi di accordo menzionati dall’articolo 81, paragrafo 1, CE non esauriscano le possibili ipotesi di collusioni vietate è, a tal proposito, irrilevante” (punto 58). Sul tema si veda, fra gli altri, D. Bailey, Reinvigorating the Role of Article 101(3) under Regulation 1/2003, in Antitrust Law J., vol. 81, n. 1 (2016), 111-144.
[7] Se è vero infatti che per la Corte “la diffusione di informazioni ingannevoli su un medicinale non può essere considerata «indispensabile», ai sensi della terza condizione richiesta, per beneficiare di un’esenzione ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 3, TFUE” (punto 98), è altrettanto vero che queste informazioni presuppongono una induzione in errore di EMA e Commissione che non può dirsi scontata a fronte dell’aggiunta di “avvertenze speciali e precauzioni d’impiego”. In altri termini la stessa esentabilità dell’accordo ex art. 101, par. 3 dal divieto di cui all’art. 101, par.1 TFUE può risultare ammissibile sicut et in quantum sia negata in concreto l’induzione in errore. Si può forse ricordare che, secondo una giurisprudenza risalente ma ancora valida, “non vi può essere, in via di principio, una pratica anticoncorrenziale la quale, quale che sia l’intensità dei suoi effetti su un determinato mercato, non possa essere esentata, qualora siano cumulativamente soddisfatte le condizioni stabilite dall’art. 85, par. 3, del Trattato, [poi art. 101, par. 3, TFUE] e sempre che la pratica di cui trattasi sia stata regolarmente notificata alla Commissione” (causa T-17/93, sentenza 15.7.1994, Matra Hachette SA c. Commissione, EU:T:1994:89). Ovviamente, dopo il Regolamento n. 1/2003, è venuta meno la necessità della previa notifica dell’accordo.
[8] Cfr. il punto 60.
[9] Il tema, invero, non è propriamente nuovo se solo si pensa che, già ai tempi dei noti precedenti della Corte Lucchini (sentenza 18.7.2007, C-119/05, EU:C:2007:434) e Fallimento Olimpiclub (sentenza 3.9.2009, C-2/08, EU:C:2009:506) la dottrina si era così espressa: è “opportuno che, ad esempio, nel nostro Paese in una prospettiva de iure condendo, non sia la giurisprudenza comunitaria a farsi carico di una lacuna regolamentare al fine di porre rimedio alle ipotesi di violazione dei principi comunitari da parte dei giudici nazionali, bensì direttamente il legislatore mediante una modifica del codice di rito, magari introducendo un n. 7 all’art. 395 c.p.c. che consenta di ridiscutere i provvedimenti definitivi laddove si lamenti la mancata applicazione del principio di primauté del diritto europeo su quello interno [in proposito v. C. Consolo, La sentenza Lucchini della Corte di Giustizia: quale possibile adattamento degli ordinamenti processuali interni e in specie del nostro?, in Riv. dir. proc., 2008, 1, 224 ss.]: in questi termini F. Fradeani, La sentenza «Olimpiclub» della Corte di giustizia CE e la stabilità del giudicato, inhttps://www.treccani.it/magazine/diritto/approfondimenti/diritto_processuale_civile_e_delle_procedure_concorsuali/1_Fradeani_olimpiclub.html.
[10] Cfr. la sentenza 5.10.2010, causa C-173/09, Elchinov, EU:C:2010:581.
[11] Il Cons. Stato ricorda in proposito le sentenze 30.9.2003, C-224/01, Köbler, EU:C:2003:513; 10.6.1999, C-302/97, Konle, EU:C:1999:271.
[12] Cfr. la sentenza del 7.1.2021, IV, n. 175.
[13] Sentenza del 27.11.2019, n. 31032
[14] Sul quale, si vedano, fra gli altri, D. P. Domenicucci, F. Filpo, Art. 47. Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, in AA.VV., Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, a cura di R. Mastroianni, O. Pollicino, S. Allegrezza, F. Pappalardo, O. Razzolini, Milano, 2017, p. 864 ss.
[15] Fra i molti commenti alla pronuncia Köbler, si vedano P.D. Simon, La responsabilité des Etats membres en cas de violations du droit communautaire par une juridiction suprême, in Juris-Classeur, Europe, 2003, p. 3 ss.; O. Dubos, La violation du droit communautaire par une juridiction nationale: quis custodes custodiet? Custodes ipsi, scilicet, J.C.P., La Semaine juridique, Administrations et Collectivités territoriales, 2003, p. 1384 ss.; N. Scafarto, L’effettività del diritto comunitario travolge anche la giurisdizione, in Dir. e giust., 2003, pp. 45, 96 ss; S. Bastianon, Giudici nazionali e responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario, in Resp. civ. prev., 1, 2004, p. 57 ss.; A. Barav, Non discrimination des enseignants en raison de la nationalité dans la jurisprudence de la Cour de Justice des Communautés Européennes, in Libertés, justice, tolérance, Mélanges Gérard Cohen-Jonathan, Bruxelles, 2004, I, p. 189 ss.; D. Sarmiento Ramirez-Escudero, Responsabilidad de los Tribunales Nacionales y Derecho Comunitario, in www.danielsarmirnto.eu/pdf/responsabilidad_tribunales.pdf; P.J.Wattel, Köbler, Cilfit and Welthgrove: We Can’t Go On Meeting Like This, in CML Rev., 41, 2004, 177-190; E. Scoditti, «Francovich» presa sul serio: la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario derivato in Foro it., 2004, IV, 4; N. Zanon, La responsabilità dei giudici, relazione al convegno annuale dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Padova, 22-23 ottobre 2004, in http://www.magna- carta.it/riforme; R. Conti, Giudici supremi e responsabilità per violazione del diritto comunitario, in Danno e resp. 1, 2004, p. 26 ss.; J. Komarek, Federal Elements In The Community Judicial System: Building Coherence In The Community Legal Order, in CML Rev., 42, 2005, p. 9ss. Ci si permette di rinviare anche a P. Piva, La tradizionale irresponsabilità del giudice davanti al diritto comunitario. Note a margine della köblerizzazione del diritto comunitario e del diritto degli Stati membri, in Il dir. della reg., 5-6, 2004, p. 809 ss.. Cfr. inoltre G. Di Federico, Risarcimento del singolo per violazione del diritto comunitario da parte dei giudici nazionali: il cerchio si chiude?, in Riv. Dir. Int. Priv. e Proc., 2004, 1, p. 133 ss. e, più di recente, F. Ferraro, Noterelle sulla recente prassi interna in tema di responsabilità risarcitoria dello Stato per violazione del diritto dell’Unione, in Riv. DPCE Online, Vol 33 No 4 (2017).
[16] Sentenza del 13.6.2006, C-173/03, EU :C:2006:391.
[17] Sentenza del 24.11.2011, C-379/10, EU :C :2011:775.
[18] Cfr. G. Amoroso, Sul bilanciamento tra responsabilità civile dei giudici e garanzie costituzionali della giurisdizione: dubbi di legittimità costituzionale dell’eliminazione del filtro di ammissibilità della domanda risarcitoria, in Giustizia Civile Riv. Trim., 3 – 2015, p. 455 ss.
[19] In questi termini la sentenza Commissione c. Italia cit., punto 35 (ricordando la sentenza Traghetti del Mediterraneo cit.) (grassetto aggiunto).
[20] Cfr. la sentenza del 28.1.1986, n. 17. Sul tema della revocazione, si veda il classico contributo di A. Attardi, La revocazione, Padova, 1959, nonché, sul più specifico problema della revocazione delle pronunce di Cassazione si veda, per tutti, C. Consolo, La revocazione delle decisioni di Cassazione e la formazione del giudicato, Padova, 1989.
[21] Cfr. Cass. VI, 27.4.2016, n. 18619, ord. In questi termini F. Sorrentino, La revocazione delle pronunce della Corte di Cassazione, rinvenibile in www.cortedicassazione.it
[22] Corsivo aggiunto. Anche per l’altro profilo della liceità dell’immissione in commercio del farmaco off-label, sembra un poco limitativo rispondere, ancora una volta, con il richiamo ad un principio (astratto) di diritto: “la prescrizione da parte di un medico dell’uso off- label di un farmaco è in linea di principio lecita (cfr. Corte di Giustizia del 21 novembre 2018, nella causa C-29/17 e Consiglio di Stato 15 luglio 2019, n. 4967 relative al medicinale Avastin), sicché al fine di identificare il mercato rilevante dei prodotti farmaceutici, rilevano le indicazioni terapeutiche fornite dai medici, le quali inevitabilmente fanno sì che, indipendentemente dal contenuto più o meno esteso delle AIC, rientrino nel medesimo mercato tutti i farmaci che i medici nella loro competenza e responsabilità prescrivono per la cura delle medesime patologie”. Cfr., al riguardo, il punto 60 della decisione della Corte.
[23] Di tutt’altro avviso è autorevole dottrina che, in una riflessione sul caso Avastin/Lucentis, ha osservato senza mezzi termini: “il Consiglio di Stato, pronunciatosi sulla questione, non ha dato seguito alcuno a quanto richiesto dalla Corte di giustizia ed anzi ha provveduto direttamente e con affermazioni in contrasto con quanto rilevato dalla Corte di giustizia”: così G. Tesauro, Sui vincoli (talvolta ignorati) del giudice nazionale prima e dopo il rinvio pregiudiziale: una riflessione sul caso Avastin/Lucentis e non solo, in Federalismi.it, 18 marzo 2020, n.6/2020.
[24] Probabilmente il Consiglio di Stato si riferisce all’ipotesi del doppio rinvio (un secondo rinvio, dopo il primo, non ritenuto esaustivo, essendo ritenuti necessari dei chiarimenti) non potendo la Corte interpretare in via pregiudiziale le proprie sentenze: in tal senso 16.5.1968, ord. causa 13/67, Becher, EU:C:1968:26, pp. 262-263; 18.10.1979, ord., causa 40/70, Sirena, EU:C:1979:236, p. 3171; 9.2.2011, ord., causa C-262/88 INT., Barber, EU:C:2010:795, punto 3. Quanto al ricorso per interpretazione ex art. 43 Statuto Corte e art. 158 Reg. procedura si vedano i commenti di F. Spitaleri, in C. Amalfitano, M. Condinanzi, P. Iannuccelli (a cura di), Le regole del processo dinanzi al giudice dell’Unione europea, Napoli, 2017, pp. 205, 809 ss., nonché di G. Grasso sull’art. 104 Reg. procedura, ibidem, p. 651. Sulla possibilità del doppio rinvio, fra le altre, 27.3.1963, cause riunite 28, 29 e 30/62, Da Costa, EU:C:1963:3; 5.3.1986, ord., causa 69/85, Wünsche, EU:C:1986:104, punti 11-14; 11.6.1987, causa 14/86, Pretore di Salò, EU:C:1987:275, punto 12; sull’ampio potere del giudice nazionale di disporre un rinvio pregiudiziale, sentenza Elchinov cit., punti 26, 29-31.
[25] Cfr. ex multis, G. Arieta, F. De Santis, L. Montesano, Corso di base di diritto processuale civile, VII ed., Milano, 2019, p. 628. Annota fra gli altri E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, XII ed., Milano, 2010, p. 923: “si ricordi che la revocazione è un rimedio generale: esso è ammesso nei confronti delle ordinanze cautelari (art. 58, c.p.a.) ed è ritenuto esperibile avverso le decisioni amministrative rese in materia di ricorso straordinario e di ricorso gerarchico”.
[26] G. Vandersanden, De l’autorité de chose jugée de arrêts préjudiciels d’interprétation rendus par la Cour de justice(nota a Cassazione belga 24.12 1970), in Revue cr. Jur. Belge, 1972, p. 572.
[27] Cfr. la sentenza cit. alla nota 24 e ivi i riferimenti circa la possibilità di un rinvio successivo al primo.
[28] Cfr. la sentenza 1.6.1999, causa C-126/97, Eco Swiss, EU:C:1999:269, spec. punto 46.
[29] Sentenza Köbler cit., punto 39.
[30] Sentenza Köbler cit., punto 38.
[31] Sentenza 13.1.2004, causa C-453/00, Kühne & Heitz, EU:C :2004 :17. Si vedano, sul tema, D. Simon, Obligation de réexamen d'une décision administrative définitive. L'autorité d'un arrêt préjudiciel en interprétation postérieur à une décision administrative devenue définitive impose la prise en compte de la demande de retrait de celle-ci, Europe 2004 Mars Comm. nº 66 p.14 ss., nonché il commento di R. Caranta, in Common Market Law Review, 2005, p.179 ss.. Sull’importanza del principio stabilito in Kühne & Heitz è tornato, recentemente, F. FERRARO, Giudice nazionale, centro di gravità e doppia pregiudiziale, in ANNALI AISDUE, Napoli, 2021, p. 511 ss.
[32] Cfr. la sentenza cit., punto 28.
[33] Cfr. la sentenza cit., punto 24.
[34] Sentenza 16.3.2006, causa C-234/04, Kapferer, EU:C:2006:178.
[35] Sentenza cit., punto 23.
[36] Cfr. le conclusioni del 17.6.2003, EU:C:2003:350, causa C-453/00, Kühne & Heitz, punto 66.
[37] Sentenza 12.2.2008, causa C-2/06, Kempter, EU:C:2008:78.
[38] Sentenza cit., punto 46.
[39] Sentenza cit., punto 60.
[40]Sentenza 18.7.2007, causa C-119/05, Lucchini, EU:C:2007:434. La pronuncia ha avuto un interessante restatement nella sentenza 11.11.2015, causa C-505/14, Klausner, ECLI:EU:C:2015:742, in virtù del quale “il diritto dell’Unione osta, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, a che l’applicazione di una norma di diritto nazionale volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata impedisca al giudice nazionale, il quale abbia rilevato che i contratti oggetto della controversia sottopostagli costituiscono un aiuto di Stato, ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 1, TFUE, attuato in violazione dell’articolo 108, paragrafo 3, terza frase, TFUE, di trarre tutte le conseguenze di questa violazione a causa di una decisione giurisdizionale nazionale, divenuta definitiva, con cui, senza esaminare se tali contratti istituiscano un aiuto di Stato, è stata dichiarata la loro permanenza in vigore”.
[41] Sentenza 21.9.1983, causa C-205/82, Deutsche Milchkontor, EU:C:1983:233.
[42] Sentenza Lucchini cit., punto 63.
[43] Sentenza Fallimento Olimpiclub cit., punto 32.
[44] Sentenza 10.7.2014, causa C-213/13, Pizzarotti, EU:C:2014:2067, punto 64.
[45] Sentenza 4.3.2020, causa C-34/19, Telecom, EU:C:2020:148, punto 71.
[46] Conclusioni del 14.1.2021, causa C‑64/20, UH , EU:C:2021:14, punti 47-48.
[47] Conclusioni cit., punti 47-49. Sul tema si veda anche E. Storskrubb, Civil Procedure and EU Law, A Policy Area Uncovered, Oxford, 2008, p. 13 ss.
[48]Cfr. D.A. Wyatt, A.Dashwood, European Union Law, London, 2011, p. 278.
[49] Conclusioni del 25.6.1964, causa C-6/64, Costa c. Enel, EU:C:1964:51
[50] Conclusioni del 13.7.1982, causa C-283/81, CILFIT, EU:C:1982:267. L’avvocato generale richiamava come una sorta di leading case il precedente della Corte, proprio in materia di antitrust, in cui i Giudici di Lussemburgo, inter alia, avevano “posto in evidenza, al punto 5 della motivazione, sia la finalità dell'articolo 177 (poi 267 TFUE) («garantire che il diritto comunitario sia interpretato e applicato in modo uniforme in tutti gli Stati membri»), sia lo scopo specifico del terzo comma («impedire che in uno Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme comunitarie»): si tratta, in particolare, della sentenza 24.5.1977, causa C-107/76, Hoffmann-La Roche. EU:C:1977:89.
[51] Osserva l’avvocato generale Jacobs (con il solito acume e franchezza) che qualunque lettura dell’art. 267 TFUE volta a trovare un bilanciamento degli interessi in gioco e una corretta visione del riparto di competenze fra giudici nazionali e Corte (e potremmo aggiungere anche quella dell’avvocato generale Bobek nelle sue conclusioni del 15.4.2021 in causa C-561/19, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi, EU:C:2021:291) “will not in any event resolve the problem if the national court is deliberately taking a different view”: F. Jacobs, The Role of National Courts and of the European Court of Justice in ensuring the uniform application of Community Law: is a new approach needed ?, in AA.VV., Studi in onore di F. Capotorti, Vol. II, Milano, 1999, p. 175 ss. L’idea, in ogni caso, è che “any application of Community law can be regarded as raising a question of interpretation” (ancora F. Jacobs, op. cit., ibidem). Il che ci riporta all’attualità del rinvio Randstad e al dibattito dottrinale, non sempre giustificato, che la stessa ordinanza n. 19598/2020 delle S.U. della Cassazione cit. ha sollevato: cfr. la nota 1 per riferimenti. Sulle conclusioni dell’avvocato generale Bobek sopra richiamate, si veda P. De Pasquale La (finta) rivoluzione dell’avvocato generale Bobek: i criteri CILFIT nelle conclusioni alla causa C-561/19, in Osservatorio europeo, maggio 2021, p. 1 ss.
[52] Per un commento all’art. 94 del Reg. di procedura della Corte, cfr. G. Grasso, in C. Amalfitano, M. Condinanzi, P. Iannuccelli (a cura di), Le regole cit., p. 586 ss.
[53] Sentenza del 5.7.2016, causa C-614/14, Ognyanov, EU:C:2016:514.
[54] Sentenza cit., punto 30.
[55] Cfr. per esempio le note cause Foglia c. Novello, C-104/79, sentenza 11.3.1980, EU:C:1980:73 e C-244/80, sentenza 16.12.1981 , EU:C:1981:302; Mosconi, ord. 5..2004 in G.U.U.E. C 118/25 del 10.4.2004 e sentenza 21.2.2013, C-111/12, EU:C:2013:100. Sull’ipotesi del doppio rinvio si vedano, inoltre, i riferimenti nella nota 24.
[56] Sul tema dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ex art. 267, 3° comma, TFUE, si veda, per tutti, F. Ferraro, Le conseguenze derivanti dalla violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale, in F. Ferraro, C. Iannone (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, Torino, 2020, p. 139 ss., e A. Adinolfi, C. Morviducci, Elementi di diritto dell’Unione europea, Torino, 2020, p. 180 ss. Sulla giurisprudenza della Corte EDU in argomento, con particolare riguardo all’ipotesi del mancato rinvio, cfr. B. Nascimbene, Le renvoi préjudiciel de l’article 267 TFUE et le renvoi prévu par le protocole no. 16 à la CEDH, in Annuaire de droit de l’Union Européenne, 2019, p. 127 ss. Sul più recente dibattito in Italia in relazione alla giurisdizione amministrativa, cfr. S. Foa’, Giustizia amministrativa e rinvio pregiudiziale alla CGUE: da strumento “difensivo” a mezzo per ridiscutere il sistema costituzionale, in Federalismi.it, 10 febbraio 2021, n. 4/2021, p. 126 ss. Si vedano altresì A. Guazzarotti, Un “atto interruttivo dell’usucapione” delle attribuzioni della Corte costituzionale? In margine alla sentenza n. 269/2017, in Forum di Quaderni costituzionali,http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wpcontent/uploads/2017/11/nota_269_2017_guazzarotti.pdf; R. Mastroianni, Da Taricco a Bolognesi, passando per la ceramica Sant'Agostino: il difficile cammino verso una nuova sistemazione del rapporto tra Carte e Corti, in Osservatorio sulle fonti, 1/2018, pp. 1-36. Va da sé che il significato della giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenze 19.1.2009, in causa C-314/08, Filipak, EU:C:2009:719; 20.12.2017, causa C-322/16, Global Starnet, EU:C:2017:985 e 24.6.2019, causa C-573/17, Popławski, EU:C:2019:530, fra le altre) non è propriamente in linea con Corte costituzionale n. 269/2017, come correttamente rilevato da attenta dottrina (cf. R. Mastroianni, op. cit., rilevando peraltro un improvvido inciso “per altri profili”: p. 27, 28). Sul tema si veda, da ultimo, L.R. Rossi, Effetti diretti delle norme dell’Unione europea ed invocabilità di esclusione: i problemi aperti dalla seconda sentenza Popławski, in questa Rivista, 3 febbraio 2021. Ancora, sul tema delle difficoltà di gestire i rapporti fra Giudici supremi e primato del diritto dell’Unione, nell’ottica della distribuzione interna della giurisdizione, cfr., da ultimo, G. Agrati, A. Ciprandi, R. Torresan, Il rinvio pregiudiziale nel “caso Randstad”: riflessioni critiche sul fragile primato del diritto dell’Unione europea, I Post di AISDUE, III (2021), aisdue.eu Sezione “Note e commenti”, n. 2, 10 giugno 2021.
[57] Sull’ordinanza n.19598/2020 cfr. i riferimenti nella nota 1.
[58] Cfr. da ultimo la sentenza Ognyanov cit.
[59] Cfr. l’ordinanza, VI sezione, del 7.12.2020, n. 7713. Sul tema, si vedano R. Whish, D. Bailey, Competition Law, VII th ed., Oxford, 2015, p. 2010 ss.
[60] Per un rinvio alle norme indicate del TFUE e della Carta si veda il secondo quesito posto dall’ordinanza delle S.U. Randstad cit. (con i commenti ricordati nella nota 1).
[61] Sulla rilevanza del principio dell’interpretazione conforme si veda, fra le altre, la sentenza Poplawski cit., punti 56-58.
[62] Sui principi di autonomia, equivalenza ed effettività, si veda fra gli altri K. Lenaerts, I. Maselis, K. Gutman, EU Procedural Law, Oxford, 2014, p.107 ss.
[63] Nella sua dissenting opinion in U.S. Supreme Court, Shaughnessy v. Mezei, 345 U.S. 206, 224-225 (1953).
La mediazione demandata dalla “Cour de cassation” e il “Conseil national de la médiation”. Nuove prospettive per la mediation judiciaire in Francia e spunti di riflessione per la riforma della mediazione italiana.
di Marco Marinaro
Sommario: 1. La relazione finale del “Groupe de travail sur la médiation devant la Cour de cassation”. - 2. Verso l’istituzione del “Conseil national de la médiation”. - 3. La promozione e la gestione “des modes amiables de résolution des litiges”. - 4. La possibilità di utilizzare la mediazione nel corso del giudizio di Cassazione. - 5. Le modalità attuative della mediazione demandata presso la Cassazione. - 6. La formazione alla mediazione presso lo Corte di cassazione. - 7. La mediazione presso la Cassazione francese e il “Comité de pilotage”. - 8. La riforma italiana della mediazione e le sollecitazioni del modello francese.
1. La relazione finale del “Groupe de travail sur la médiation devant la Cour de cassation”.
Nel mentre in Italia entra nel vivo la discussione sul maxiemendamento presentato dalla Ministra della Giustizia Marta Cartabia per l’approvazione dei princìpi di legge delega che condurranno entro il prossimo anno alla seconda riforma della mediazione, in Francia è stata recentemente presentata relazione finale (“Rapport 2021”) redatta dal gruppo di lavoro “La médiation devant la Cour de cassation” istituito nell’autunno 2020 presso la Suprema corte francese per riflettere sull'opportunità e sulla possibilità di introdurre la mediazione dinanzi alla medesima Corte.
La relazione predisposta dal gruppo di lavoro - composto da magistrati della Cassazione e della Procura generale, dalla Direttrice della cancelleria nonché dai rappresentanti degli avvocati patrocinanti dinanzi alla Cassazione ed al Consiglio di Stato - è stata presentata ai giudici della medesima Corte nella seduta della Gran Camera del 25 giugno 2021.
Le conclusioni cui perviene lo studio redatto dall’autorevole gruppo di lavoro presieduto da Mme Chantal Arens, primo presidente della Suprema corte, sono di particolare interesse: nella fase del ricorso in Cassazione, la mediazione dispone di un potenziale formidabile ed è possibile avviarla in base alla normativa vigente pur risultando opportuno adottare modalità attuative e, quindi, norme regolamentari, adeguate a rendere efficace e sostenibile la mediazione dinanzi alla Cassazione.
All’esito della riflessione condotta dal gruppo di lavoro l’obiettivo diviene quello di inserire la Corte di cassazione nella dinamica di promozione della mediazione già sperimentata dai giudici del merito, strutturandone il procedimento, senza irrigidirla, al fine di non mortificarne la flessibilità.
Le proposte formulate nella relazione finale per garantire uno sviluppo duraturo e sostenibile della mediazione presso la Cassazione, sono dunque destinate a partecipare alla promozione delle modalità amichevoli di composizione delle controversie.
In tal senso, si propone anche l’istituzione un comitato (comité de pilotage) per valutare regolarmente lo sviluppo della mediazione dinanzi alla Corte suprema.
2.- Verso l’istituzione del “Conseil national de la médiation”.
Per meglio comprendere l’importanza del lavoro svolto ed il contesto nel quale si avvia questo percorso del tutto innovativo, occorre segnalare che il 6 maggio 2021 è stato adottato in prima lettura dalla ‘Commissione per le leggi costituzionali, la legislazione e l'amministrazione generale della Repubblica all'Assemblea nazionale’ un emendamento al progetto di legge per la fiducia nell'istituzione giudiziaria.
Questo emendamento, che compare anche nel testo approvato dall'Assemblea nazionale il 25 maggio 2021, completa la legge 95-125 dell'8 febbraio 1995 (relativa all'organizzazione delle giurisdizioni e alla procedura civile, penale e amministrativa) con gli articoli 21-6 e 21-7, istituendo un Consiglio nazionale della mediazione (“Conseil national de la médiation”), incaricato tra l'altro di formulare pareri nel settore della mediazione e di proporre ai poteri pubblici tutte le misure atte a migliorarlo.
Più precisamente, si prevede che il “Consiglio nazionale della mediazione” (da incardinarsi presso il Ministero della Giustizia) sia incaricato di: formulare pareri nel settore della mediazione e proporre al governo tutte le misure a loro favore; proporre un codice etico applicabile alla pratica della mediazione; proporre norme nazionali per la formazione dei mediatori e formulare ogni raccomandazione sulla formazione; presentare proposte sui requisiti per l'inserimento nell’elenco dei mediatori. È previsto altresì che nello svolgimento dei suoi compiti, il Consiglio nazionale raccolga tutte le informazioni quantitative e qualitative sulla mediazione.
La composizione del Consiglio nazionale della mediazione prevede la partecipazione di persone qualificate e rappresentanti di associazioni che operano nel campo della mediazione, delle amministrazioni pubbliche, dell’ordine giudiziario e delle professioni legali (la maggior parte dei suoi membri deve avere esperienza pratica o formazione in mediazione). Alla decretazione del Consiglio di Stato vengono poi rimesse l'organizzazione, i mezzi e le modalità di funzionamento, oltre che le modalità di nomina dei membri.
3.- La promozione e la gestione “des modes amiables de résolution des litiges”.
Questa riforma legislativa risponde ad alcune raccomandazioni, in particolare formulate da Chantal Arens, prima in qualità di presidente del Tribunale di Parigi, poi in qualità di primo presidente della Corte d'Appello di Parigi ove aveva costituito un gruppo di lavoro incaricato di redigere una relazione sulla promozione e l'inquadramento delle modalità amichevoli di risoluzione delle liti (Groupe de travail de la cour d’appel de Paris, La promotion et l’encadrement des modes amiables de règlement des différends, mars 2021).
L'emendamento dunque costituisce una delle più rilevanti iniziative che rendono evidente il crescente interesse per la composizione amichevole delle controversie ed in tale solco si colloca anche la riflessione avviata al fine di introdurre la mediazione nella fase del giudizio di cassazione.
La mediazione – quale percorso di composizione amichevole utile alla “désescalade du conflit” – è orientata a ristabilire il dialogo delle parti nell’intento di pacificazione delle relazioni guardando al futuro delle stesse.
In questa prospettiva, secondo le riflessioni del gruppo di lavoro, un processo che prosegue dopo la sentenza di appello trova spesso le parti stanche essendo trascorsi anche diversi anni e avendo spesso maturato la consapevolezza di poter solo ottenere una pronuncia che conduca ad una decisione di rinvio al giudice del merito. D’altro canto, nel corso del processo non è infrequente la possibilità che le parti abbiano ricevuto pronunce contrastanti nei gradi del merito e ciò costituisce ragione di sfiducia nei confronti delle vie tradizionali della giustizia.
Infine, la “mediation judiciaire” (mediazione demandata dal giudice con il consenso delle parti), qualora intervenisse nella fase del ricorso in Cassazione, verrebbe proposta in un momento in cui le parti possono (ancora) riappropriarsi della lite.
In questo contesto di crescente interesse per le modalità alternative di composizione delle controversie Madame Chantal Arens, in qualità di primo presidente della Corte di cassazione, lo scorso anno ha deciso di istituire un nuovo gruppo di lavoro (“La médiaton devant la Cour de cassation”) cui è stato affidato il compito di valutare concretamente l’introduzione della mediazione dinanzi alla Suprema corte.
Il gruppo - che ha limitato la sua riflessione alla materia civile, commerciale e sociale - ha organizzato i suoi lavori intorno alle seguenti questioni: esistono ostacoli all'attuazione della mediazione presso la Cassazione? La legislazione vigente consente di ricorrervi? Occorre completarla per tener conto delle specificità procedurali proprie della Cassazione? Si dovrebbe prendere in considerazione la creazione di una lista nazionale di mediatori? Tali questioni, affrontate nel corso dei lavori, hanno condotto alla constatazione che non sussistono ostacoli alla mediazione presso la Corte suprema ed hanno permesso di individuare le modalità di attuazione di tale pratica dinanzi alla stessa.
4.- La possibilità di utilizzare la mediazione nel corso del giudizio di Cassazione.
La prima parte della relazione finale redatta dal gruppo di lavoro francese contiene l’esame della normativa vigente al fine di verificare la possibilità di ricorrere alla mediazione nel corso del processo dinanzi alla Cassazione.
In primo luogo, si rileva che secondo quanto previsto dal codice di procedura civile «il giudice investito di una controversia può, previo accordo delle parti, designare una terza persona, per ascoltare le parti e confrontare i loro punti di vista per consentire loro di trovare una soluzione al conflitto che le oppone» (articolo 131-1, come inserito dal decreto di applicazione 96-652 del 22 luglio 1996 della legge 95-125 dell'8 febbraio 1995).
D’altronde, per mediazione «si intende qualsiasi procedura strutturata, indipendentemente dalla sua denominazione, mediante la quale due o più parti tentano di raggiungere un accordo per la composizione amichevole delle loro controversie, con l'assistenza di un terzo, il mediatore, da esse scelto o designato, con il loro consenso, dal giudice investito della controversia» (articolo 21 della legge dell'8 febbraio 1995, modificato dall'ordinanza 2011-1540 del 16 novembre 2011 che recepisce la Direttiva 2008/52/CE).
Al riguardo, occorre tenere presente che il processo in Cassazione si distingue da quello dinanzi alle giurisdizioni di merito in quanto il giudice supremo statuisce in diritto, come si deve altresì rilevare che gli avvocati patrocinanti in Cassazione sono dotati di uno specifico statuto e che la procedura nell'ambito del ricorso per cassazione è prevalentemente scritta.
Tuttavia, se è vero che la Suprema corte non conosce nel merito le cause (articolo L. 411-2 del Codice dell'organizzazione giudiziaria) ciò – ad avviso del gruppo di lavoro - non costituisce un ostacolo allo sviluppo della mediazione dinanzi alla stessa, nella misura in cui il giudice si limita ad ordinarla con l'accordo delle parti. Pertanto, la questione se il giudice possa o meno statuire nel merito si ritiene indifferente, considerato che il giudice di Cassazione non conduce la mediazione e che l'accordo raggiunto dalle parti si rivela spesso una soluzione che si discosta dalle norme di diritto e alla quale il giudice non sarebbe comunque potuto pervenire.
Peraltro, tale specificità che caratterizza la Cassazione necessita di essere relativizzata considerato che ormai la Corte ha la possibilità di statuire nel merito in materia civile quando lo giustifichi l'interesse di una buona amministrazione della giustizia (articolo L. 4113 bis. 2 del Codice dell'organizzazione giudiziaria).
Per cui, indipendentemente dalle peculiarità dell'ufficio del giudice di Cassazione, i membri del gruppo di lavoro – anche all’esito dell’audizione di alcuni esperti - hanno concluso che l'attuazione della mediazione dinanzi alla Corte suprema sembra già possibile senza richiedere modifiche legislative o regolamentari.
D’altro canto, è il momento della Corte di cassazione per inserirsi in una dinamica simile a quella avviata da altre giurisdizioni, come presso la Corte d'Appello di Parigi sopra indicata, o presso la Corte d'Appello di Pau ove è stata istituita un'unità di mediazione giudiziaria, o ancora presso la Corte d'Appello di Lione, dove negli ultimi anni sono state svolte diverse sperimentazioni nel campo della mediazione, o ancora presso la Corte d'Appello di Rouen la cui prima presidente Marie-Christine Leprince ha avviato iniziative per far conoscere e promuovere la mediazione.
Rendere espressamente possibile il ricorso alla mediazione dinanzi alla Corte di cassazione – come si legge nella relazione finale - rientra naturalmente in una politica giurisdizionale avviata da un certo numero di anni che accorda un posto sempre più importante ai metodi alternativi di risoluzione delle controversie.
5.- Le modalità attuative della mediazione demandata presso la Cassazione.
La seconda parte della relazione redatta dal gruppo di lavoro è dedicata poi alla riflessione e alle proposte relative alle modalità attuative della mediazione dinanzi alla Corte di cassazione.
L'obiettivo indicato è quello di individuare le modalità attraverso cui la mediazione possa essere implementata nel corso del processo davanti alla Suprema corte.
L’analisi condotta dal gruppo di lavoro è estremamente interessante e parte dal presupposto che per promuovere il ricorso alla mediazione in Cassazione occorra ripensare ai diversi momenti processuali rispondendo alle seguenti domande: come individuare le controversie suscettibili di essere oggetto di mediazione? Qual è il momento giusto per proporre alle parti di ricorrere alla mediazione? Quali condizioni deve soddisfare il mediatore designato in sede di cassazione? Chi è competente per la nomina? Qual è la natura del provvedimento che dispone la mediazione? A chi depositare la cauzione sul compenso del mediatore? Da quale momento decorre il termine di durata della mediazione? Le parti possono essere assistite nell'ambito della mediazione; se del caso, da parte di chi? Al termine della mediazione, secondo quali modalità deve essere esercitato il controllo sull'accordo concluso tra le parti? Infine, come affrontare, più in generale, la procedura di mediazione nell’ambito del processo dinanzi alla Corte di cassazione?
Ad ogni quesito il gruppo di lavoro dedica una riflessione più o meno articolata all’esito della quale formula una proposta sempre con l’obiettivo di implementare al meglio la mediazione dinanzi alla Cassazione, ma senza coartare la flessibilità tipica della mediazione. Viene quindi ritenuta essenziale la ricerca di un punto di equilibrio tra una migliore strutturazione della mediazione dinanzi al giudice di Cassazione da un lato e la libertà caratteristica dei modi amichevoli di risoluzione delle controversie d'altra parte.
6.- La formazione alla mediazione presso lo Corte di cassazione.
Particolare attenzione viene riservata poi al tema della formazione. Invero, sebbene la mediazione occupi un posto di rilievo crescente nella giustizia a vari livelli, si rileva preliminarmente come esistano tuttora ostacoli allo sviluppo e alla diffusione di questa modalità alternativa di risoluzione delle controversie.
Secondo i componenti del gruppo di lavoro, questa resistenza deriva in particolare da una conoscenza ancora insufficiente di questa procedura.
Alla luce di questa diagnosi, si pone in evidenza la necessità di instaurare una vera e propria politica di sensibilizzazione e di formazione alla mediazione al fine di normalizzare il ricorso a questa modalità di composizione amichevole rendendola così un modo ben identificato di composizione delle liti.
A tal fine, il gruppo di lavoro propone l’organizzazione di sessioni di formazione destinate ai magistrati della Corte suprema, similmente a quanto già sperimentato presso alcune Corti d'appello.
7.- La mediazione presso la Cassazione francese e il “Comité de pilotage”.
Non è questa la sede per condurre un esame analitico e completo della relazione finale approntata dal gruppo di lavoro francese istituito presso la Suprema corte, tuttavia le conclusioni cui perviene sono di indubbio interesse e rilievo.
Infatti, nella prospettiva indicata dalla relazione la mediazione costituisce una modalità alternativa di composizione delle controversie ormai consolidata. L’evoluzione e l’affermazione della mediazione scaturiscono soprattutto dalle qualità inerenti a questa via di composizione amichevole che offre alle parti la possibilità di esprimersi in un contesto flessibile, spesso più propizio alla risoluzione del conflitto di quello che può offrire la giurisdizione.
Secondo il gruppo di lavoro, spetta ora alla Corte di cassazione inserirsi in questa dinamica di promozione della mediazione già sviluppata presso alcune giurisdizioni del merito. E per assicurare una prospettiva di lungo periodo, infine, si raccomanda l'istituzione di un comitato (comité de pilotage) composto per ciascuna sezione da un magistrato della Cassazione e da un magistrato della Procura generale, incaricato di valutare, una o due volte all'anno, lo sviluppo della mediazione dinanzi alla Corte di cassazione al fine di garantire un seguito all'attuazione delle raccomandazioni formulate nella relazione e, se del caso, di individuare le prassi suscettibili di miglioramento. Questo monitoraggio regolare e a lungo termine potrà garantire così uno sviluppo duraturo della mediazione a livello di cassazione.
8.- La riforma italiana della mediazione e le sollecitazioni del modello francese.
Le riflessioni svolte oltralpe non possono non suscitare interesse anche in Italia ove – come si è detto – avanza convintamente il percorso per la riforma della mediazione e ove si segnalano esperienze significative e buone prassi di mediazione demandata dal giudice presso alcuni tribunali (si pensi, in particolare, a Firenze ove con il supporto dell’Ateno fiorentino è stato attivato un progetto anche presso la Corte di Appello con la presidenza della dott.ssa Margherita Cassano).
Resta per contro una silente resistenza soprattutto presso le Corti d’appello e la scelta francese di implementare la mediazione anche presso la Cassazione costituisce un segnale importante di apertura della magistratura che deve indurre ad una riflessione approfondita anche in Italia per il potenziamento dell’intero sistema della mediazione demandata (anche in appello) avendo cura di avviare percorsi formativi a cura della Scuola Superiore della Magistratura sia a livello centrale sia a livello decentrato per stimolare il più diffuso e corretto utilizzo dello strumento mediativo.
Con specifico riguardo poi alla Cassazione, i dati statistici che possono rilevarsi dalla relazione del primo presidente Pietro Curzio (inaugurazione dell’anno giudiziario, 29 gennaio 2021) sono preoccupanti in quanto, nonostante la riduzione delle nuove iscrizioni registrata nel 2020, non vi è stata una corrispondente riduzione del contenzioso pendente, il cui aumento, sia pur limitato a +2,9%, può ascriversi al ruolo determinante della crisi sanitaria pandemica. Ed esaminando i dati sulla pendenza civile complessiva (120.473 ricorsi rispetto ai 117.033 del 2019) si può rilevare come il 56% del contenzioso sia costituito dai ricorsi in materia di protezione internazionale (13.101), civile e lavoro (53.890), mentre il 44% ricade nella materia tributaria (53.482).
D’altro canto, come non raccogliere la sollecitazione francese per l’istituzione di un “Conseil national de la médiation”. Dopo oltre undici anni dall’avvio del “sistema mediazione” ormai da tempo viene evidenziata l’esigenza di un organismo istituzionale specializzato istituito presso il Ministero della Giustizia composto da esperti che possa monitorare e guidare lo sviluppo della mediazione e dei sistemi complementari di giustizia.
L’attenzione della Ministra Cartabia in tal senso sembra essere una garanzia nella direzione indicata, posto che già nelle linee programmatiche ha precisato con chiarezza che «è tempo di ripensare il rapporto tra processo davanti al giudice e strumenti di mediazione» in una prospettiva sinergica, tenendo presente che «questi strumenti, se ben calibrati, tracciano percorsi della giustizia che tengono conto delle relazioni sociali coinvolte, risanano lacerazioni e stemperano le tensioni sociali».
Queste parole sembrano trovare una loro naturale e virtuosa convergenza con quelle pronunciate il 29 gennaio 2021 per l’inaugurazione dell’anno giudiziario dal primo presidente della Cassazione Pietro Curzio il quale, nell’affrontare il tema della riforma della giustizia civile, ha invocato l’intervento del legislatore «per prevenire la sopravvenienza di un numero patologico di ricorsi, mediante forme di risposta differenziate rispetto a quelle tradizionali in grado di giungere alla definizione del conflitto senza percorrere necessariamente i tre gradi di giurisdizione».
In questa prospettiva il presidente Curzio ritiene che in ambito civile debba essere valorizzata la mediazione «nelle sue molteplici potenzialità», segnalando a tal fine il lavoro del Tavolo tecnico per le procedure stragiudiziali istituito dal ministro della Giustizia nel dicembre 2019 e ponendosi in piena sintonia con le riflessioni svolte in quella sede.
Difatti, nel solco del “Manifesto della giustizia complementare” sottoscritto nel marzo 2020 dagli esperti del Tavolo tecnico ministeriale, in un momento di grave crisi sociale ed economica che richiede soprattutto l’implementazione di strumenti per la coesione sociale, il primo presidente della Cassazione ha evidenziato come la cultura della mediazione costituisca un «collante sociale, non solo per la riattivazione di una comunicazione interrotta fra le parti del conflitto, ma anche per la generale condivisione dei valori dell’autonomia, della consapevolezza e della responsabilità».
Inoltre, sempre seguendo le parole del presidente Curzio, la mediazione «avvicina il cittadino alla giustizia, perché lo rende finalmente partecipe delle modalità di risoluzione del conflitto e fiducioso dell’adeguatezza di tale servizio rispetto alle sue esigenze» e «assicura, infine, la deflazione del contenzioso giudiziale con conseguente ottemperanza al principio della ragionevole durata del processo, risposta celere alle parti in lite, riduzione dei costi della giustizia, più elevata efficienza del servizio e maggiore fiducia da parte dell’utenza».
Un sistema coesistenziale, complesso e sostenibile della giustizia che possa contribuire al cambiamento per la piena tutela dei diritti in chiave solidaristica nella prospettiva assiologica dettata dal Costituente.
E riprendendo l’originale metafora di Neil Andrews, può concludersi riconoscendo che, laddove sia appropriata, la mediazione rappresenta la cosa migliore dopo il pane a fette, senza che per questo sia stato eliminato il pranzo a tre portate (processo dinanzi alle Country Courts), né tantomeno il banchetto di cinque portate (processo dinanzi alla High Court).
Decreto-legge n. 105 del 2021. Proroga della normativa d’emergenza per i processi penali. Un aiuto alla lettura.
di Giuseppe Santalucia
Sommario: 1. Premesse. 2. Le disposizioni in materia penale prorogate. 3. Le disposizioni di ordinamento penitenziario prorogate. 4. Deroga alla previsione di proroga: le disposizioni temporaneamente non applicabili. 5. Le deliberazioni in camera di consiglio da remoto. 6. Il temporaneo congelamento del cd. processo scritto in cassazione e del giudizio di appello cameralizzato. 7. Condizioni per l’applicazione delle norme d’emergenza.
1. Premessa.
Il decreto-legge n. 105 del 23 luglio 2021, entrato in vigore in pari data, ha preso atto della persistenza delle condizioni di rischio legate alla situazione pandemica da COVID-19 e ha prorogato sino al 31 dicembre 2021 la vigenza delle misure urgenti già operative per la regolazione dei processi civili e penali.
L’articolo di riferimento è il 7, che si compone di due commi.
La disposizione del comma 1 elenca le varie previsioni emergenziali la cui vigenza, prima fissata sino al 31 luglio 2021, viene prorogata sino al 31 dicembre 2021; quella del comma immediatamente successivo indica, invece, quali tra queste previsioni non trova applicazione per un breve periodo, pur compreso nell’arco temporale della ridefinita emergenza, costituito dai mesi di agosto e settembre, specificamente in riferimento ai procedimenti per i quali l’udienza di trattazione è fissata in quei due mesi.
Come appena detto, l’elenco delle disposizioni prorogate e quello delle disposizioni non operative nei prossimi due mesi estivi non sono sovrapponibili.
Il primo è più ricco del secondo.
Prima di indagare, con lo sguardo rivolto esclusivamente al processo penale, le ragioni della differenziazione temporale, conviene richiamare il contenuto delle disposizioni che continueranno ad essere applicate.
2. Le disposizioni in materia penale prorogate.
Il primo testo normativo che viene in rilievo è il decreto-legge n. 34 del 2020, il cd. decreto Rilancio, convertito con modificazioni dalla legge n. 77 del 2020, il cui articolo 221 contiene numerose disposizioni in materia di giustizia, per la gran parte relative al processo civile.
Quella qui di interesse, perché inerente alla materia penale e fatta oggetto della previsione di proroga sino al 31 dicembre 2021, attiene ai colloqui dei detenuti e specificamente alla possibilità che siano svolti con collegamento a distanza su richiesta del detenuto o se ricorrono ragioni cogenti di salvaguardia della salute della popolazione carceraria – comma 10 –.
2.1. Il secondo testo normativo interessato dalla normativa di proroga è il decreto-legge n. 137 del 2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 176 del 2020.
Gli articoli di questo decreto puntualmente richiamati sono il 23, il 23-bis e il 24, ma non nella loro integralità.
Soltanto alcune previsioni dei menzionati articoli di questo importante documento sono oggetto di proroga.
2.2. Esse sono, quanto all’art. 23 e sempre con attenzione esclusiva al giudizio penale:
2.3. In ordine, poi, all’articolo 23-bis, rilevano:
2.4. Circa, infine, l’articolo 24, il richiamo è a tutti i commi di cui esso si compone, sicché sono prorogate sino al 31 dicembre 2021 tutte le disposizioni che attengono al deposito telematico di atti, documenti, memorie e richieste, specie presso gli uffici delle Procure della Repubblica, e alla proposizione mediante posta elettronica certificata delle impugnazioni, comunque denominate.
3. Le disposizioni di ordinamento penitenziario prorogate.
Secondo quanto disposto dall’articolo 6 del decreto-legge n. 105, la proroga sino al 31 dicembre 2021 riguarda la vigenza di un rilevante numero di disposizioni contenute in svariati testi normativi e che sono puntualmente richiamate nell’allegato A al decreto stesso.
Sempre con specifico interesse per la materia penale, si ricorda che sono prorogate:
- le disposizioni relative al tempo delle licenze straordinarie per i condannati in regime di semilibertà – art. 28, comma 2, decreto-legge n. 137 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 176 del 2020 –;
- le disposizioni sulla concedibilità di permessi-premio in deroga a particolari categorie di detenuti – art. 29, comma 1, decreto-legge n. 137 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 176 del 2020 –;
- le disposizioni relative alla esecuzione domiciliare delle pene detentive brevi in deroga ad alcuni ordinari limiti – art. 30, comma 1, decreto-legge n. 137 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 176 del 2020 –.
4. Deroga alla previsione di proroga: le disposizioni temporaneamente non applicabili.
All’interno del sistema emergenziale le norme che, seppure sia prorogata la loro vigenza sino al 31 dicembre 2021, non trovano applicazione in riferimento a taluni procedimenti e per i mesi di agosto e settembre, ciò in ragione della espressa previsione del comma 2 dell’art. 7 del decreto-legge n. 105, sono:
- le disposizioni sul cd. processo scritto in cassazione;
- le disposizioni sul processo camerale in appello contro le sentenze, e sul giudizio di appello cautelare e di prevenzione.
Nessun limite applicativo subiscono invece le disposizioni relative al deposito telematico di atti e documenti, alla proposizione a mezzo della posta elettronica certificata delle impugnazioni, alla tenuta della camera di consiglio per la deliberazione nelle forme del collegamento da remoto.
5. Le deliberazioni in camera di consiglio da remoto.
L’omesso richiamo al comma 9 dell’art. 23 d. l. n. 137 del 2020, conv. con modificazioni dalla legge n. 176 del 2020 tra le disposizioni di cui è esclusa l’applicazione nei procedimenti con udienza fissata dal 1° agosto al 30 settembre 2021, significa che nel detto periodo non vi sono ostacoli a che le deliberazioni collegiali in camera di consiglio possano essere assunte mediante collegamenti da remoto, fatta sempre eccezione, perché così già previsto dal menzionato comma 9, delle deliberazioni conseguenti alle udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio, svolte senza il ricorso a collegamento da remoto”.
Ciò però non vale per i giudizi di cassazione e di appello suscettibili di cameralizzazione secondo le disposizioni menzionate dal comma 1 dell’art. 7 ai fini del mantenimento della vigenza, e poi richiamate dal comma 2 al solo fine di escluderne l’applicabilità ai procedimenti la cui udienza di trattazione sia fissata in detto periodo.
Siccome la possibilità di provvedere alla deliberazione in camera di consiglio con collegamento da remoto è, in quest’ambito, strettamente collegata allo svolgimento dei procedimenti nelle forme del procedimento scritto e camerale, è ovvio che, non potendo procedere in tal modo, non è consentito, di conseguenza, adottare il modulo da remoto per le relative camere di consiglio.
6. Il temporaneo congelamento del cd. processo scritto in cassazione e del giudizio di appello cameralizzato.
Durante il periodo di sospensione feriale dei termini e per l’intero mese di settembre i giudizi di cassazione e di appello si svolgeranno nelle ordinarie forme, quindi con la presenza delle parti all’udienza ex art. 127 o alla pubblica udienza di appello – art. 602 cod. proc. pen. – e di cassazione – art. 614 cod. proc. pen. –.
Il riferimento è ai procedimenti le cui udienze di trattazione siano fissate in detto periodo, e quindi ai procedimenti in cui l’udienza sia stata già disposta al momento di entrata in vigore del decreto-legge e a quelli per i quali l’udienza potrà essere individuata successivamente, ovviamente sempre che collocata nei due mesi indicati.
La ragione di questa deroga alle previsioni dell’emergenza non è evidente. Se durante il periodo di sospensione feriale è possibile ipotizzare che le udienze non siano in tal numero da compromettere le esigenze di prevenzione dei rischi connessi all’andamento pandemico, non così può dirsi per il successivo mese di settembre.
Può ora provarsi a ricostruire la ragione sottesa alla scelta operata dal decreto-legge.
6.1. Il perno della disciplina di trasformazione dei riti è costituito dalla previsione della facoltà delle parti di richiedere la discussione orale nei procedimenti che, in assenza di una richiesta in tal senso, soggiacciono alla trasformazione secondo modelli di svolgimento che prescindono dall’udienza con presenza delle parti. Come è noto, l’esercizio di tale facoltà è condizionata da precisi limiti temporali: per il giudizio di cassazione deve intervenire entro il venticinquesimo giorno libero prima dell’udienza, senza distinzione tra udienza dibattimentale e udienza camerale cd. partecipata; per il giudizio di appello deve invece esser fatta entro il quindicesimo giorno libero prima dell’udienza.
Il termine di richiesta è perentorio. Come affermato, in riferimento al giudizio di cassazione, da Sez. 5, n. 6207 del 17/11/2020, dep. 2021, Rv. 280412 – e lo stesso principio deve valere per il giudizio di appello –, il mancato rispetto del termine, che si ha se l’ufficio giudiziario non opera in modo tale da assicurare alle parti il tempo utile per l’esercizio della facoltà, “integra un'ipotesi di nullità generale ai sensi dell'art. 178, comma 1, lett. b) e c) cod. proc. pen.”.
È allora probabile che il legislatore del decreto, consapevole di intervenire con sostanzioso ritardo in riguardo alle esigenze organizzative degli uffici giudiziari che si erano rapportati alla previsione del termine ultimo di cessazione della normativa emergenziale al 31 luglio 2021, abbia inteso evitare il pericolo di strozzature temporali, anche in considerazione dell’imminente inizio del periodo di sospensione feriale dei termini processuali.
6.2. Benché emanato a una settimana dalla scadenza del termine da prorogare, il decreto-legge avrebbe però potuto muoversi sulla falsariga del precedente n. 137 del 2020 ed escludere espressamente l’applicazione delle regole sulla trasformazione del rito nei procedimenti per i quali l’udienza fosse già fissata in un predeterminato arco temporale dalla sua entrata in vigore; e al contempo prevedere un termine più breve per l’esercizio della facoltà di richiesta della discussione orale per il periodo immediatamente successivo.
Ciò avrebbe consentito di applicare la disciplina emergenziale anche nel mese di settembre, seppure per una parte di esso.
Se in tal modo non ha regolato il meccanismo emergenziale è perché – si può presumere – ha ritenuto che i vantaggi di una più rapida applicazione delle disposizioni d’eccezione non fossero tali da indurre a rinunciare ad una precisa ed espressa determinazione del tempo di applicazione delle norme in proroga, che certo si fa maggiormente apprezzare per chiarezza applicativa.
7. Condizioni per l’applicazione delle norme d’emergenza.
Ma un’altra, e forse più importante, conseguenza interpretativa si collega ad una siffatta previsione. Essa, infatti, priva di validità la tesi, pure in ipotesi sostenibile, che l’intero complesso della disciplina fosse applicabile anche in riferimento a procedimenti con udienze collocate oltre il termine di cessazione delle norme temporanee sol che il provvedimento di fissazione delle udienze stesse fosse stato adottato durante la loro vigenza.
Proprio per evitare gli inconvenienti determinati dal susseguirsi dei decreti-legge di proroga senza il rispetto di cadenze temporali compatibili con le esigenze organizzative degli uffici giudiziari, si sarebbe potuto affermare che il regime di svolgimento delle udienza fosse quello previsto al momento del provvedimento di fissazione, con indifferenza, una volta emesso il relativo decreto, per la sorte della normativa, se prorogata o se, invece, lasciata cessare alla scadenza già determinata.
Deve però prendersi atto che l’esclusione dell’applicazione delle regole prorogate ai procedimenti con udienze fissate nei due mesi indicati impedisce di dare rilievo, per individuare lo statuto processuale, al tempo del decreto di fissazione e che, di contro, l’applicabilità dell’apparato normativo di emergenza è condizionata alla vigenza, proprio al momento in cui il processo si svolge, di quelle regole.
Soluzione questa che, per quanto imposta in modo che appare difficilmente superabile, non persuade e introduce inutili incertezze in un fenomeno eminentemente diacronico quale è il processo, quando in gioco sono normative temporanee collegate ad emergenze dall’andamento scarsamente prevedibile.
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