ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le opposizioni all’esecuzione e le c.d. preclusioni sospensive (a proposito di Cass., sez. III, n. 26285/2019) * di Bruno Capponi
Sommario: 1. Opposizione all’esecuzione e titolo esecutivo - 2.-Crisi del titolo esecutivo e crisi dell’opposizione. 3.-La tutela inibitoria ovvero del diritto a non subire un’esecuzione ingiusta - 4.-Il sistema delle inibitorie e delle sospensioni a fronte delle competenze del giudice dell’impugnazione, del giudice dell’opposizione a precetto e del giudice dell’esecuzione. - 5.-Se quello descritto sia davvero un sistema e se siano concepibili inibitorie e sospensioni “sui generis”. - 6.-Il problema del reclamo avverso il provvedimento inibitorio pronunciato dal giudice dell’opposizione a precetto.- 7.-Orientamenti nomopoietici della Cassazione - 8.-Analisi della sentenza della Sez. III n. 26285/2019. - 9.-Rapporto tra potere inibitorio del giudice dell’opposizione a precetto e potere sospensivo del giudice dell’esecuzione. - 10.-Critica della sentenza n. 26285/2019. - 11.-La consumazione e la preclusione sospensiva: istituti creati ex nihilo dalla Cassazione e apertamente confliggenti con la disciplina positiva. - 12.-L’art. 363 c.p.c.: una norma da rivedere con urgenza
1.-Opposizione all’esecuzione e titolo esecutivo. La formula impiegata dall’art. 615 c.p.c. per identificare il variabile contenuto dell’opposizione all’esecuzione - «contestazione del diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata» - è generica soltanto in apparenza. Essa è infatti idonea ad abbracciare ogni possibile contestazione dell’azione esecutiva, sia essa minacciata o in atto, sia essa fondata sul titolo esecutivo (con riguardo a quello giudiziale, per fatti successivi alla sua formazione), sia su altre ragioni, anche di tipo soggettivo, che non investono direttamente il titolo (sebbene non possano prescindere dalla sua esistenza). È questa la caratteristica propria del nostro istituto: l’opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c., sovente accomunata all’opposizione all’esecuzione perché “di merito”, è in realtà una contestazione sul quomodo, cioè sulla direzione assunta dagli atti esecutivi che hanno colpito beni estranei alla responsabilità patrimoniale del debitore.
Si ritiene comunemente che l’opposizione all’esecuzione tenda ad attaccare il titolo esecutivo; ma così sempre non è, e infatti non sempre l’accoglimento dell’opposizione (di lato il problema dell’efficacia della sentenza) determina la caducazione del titolo a base dell’esecuzione. Al tempo stesso, posto che è dal titolo che deriva la legittimazione all’esecuzione forzata, non sembra corretto affermare che l’opposizione all’esecuzione abbia ad oggetto un diritto astratto all’esecuzione, ovvero una domanda di parte del quale il titolo sarebbe mero presupposto[1]. È vero che il «diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata» sovente non si esaurisce nel titolo, ma affermare che il titolo è istituzionalmente estraneo all’opposizione confligge con la realtà, anche sotto l’aspetto semplicemente statistico.
2.-Crisi del titolo esecutivo e crisi dell’opposizione. Nel nostro sistema non esiste un’autorizzazione giudiziale preventiva all’esecuzione forzata; il creditore istante ha soltanto l’onere di annunciare le attività esecutive (art. 480 c.p.c.), in genere rispettando un termine dilatorio (art. 482 c.p.c.). Ciò anche quando il titolo non sia del tutto “certo” come, ad es., nella tutela dei crediti di mantenimento o nell’esecuzione forzata dell’astreinte. Si è assistito di recente al fenomeno della destrutturazione del titolo esecutivo, derivante da varie forme di eterointegrazione (anche “ipertestuale”). L’art. 2929 bis c.c. ha introdotto un caso di esecuzione forzata in cui il titolo esecutivo è soltanto una delle plurime condizioni legittimanti.
Possiamo ragionevolmente parlare di una fase di “crisi” del titolo esecutivo, per come tradizionalmente inteso. Ad essa corrisponde una “crisi” dell’opposizione ogni volta che si ammetta che, valendosi dell’estinzione atipica, l’esecutato possa far valere dinanzi al g.e. contestazioni tradizionalmente proprie dell’opposizione all’esecuzione.
3.-La tutela inibitoria ovvero del diritto a non subire un’esecuzione ingiusta. Nel 2005, il legislatore si è dato carico di assicurare una tutela più incisiva alla parte destinataria dell’atto di precetto, riconoscendola titolare del diritto a non subire un’esecuzione ingiusta. Lo ha fatto inserendo nel comma 1 dell’art. 615 c.p.c. la seguente espressione: «il giudice, concorrendo gravi motivi, sospende su istanza di parte l’efficacia esecutiva del titolo». Nel 2015 ha poi precisato (superfluamente) che la sospensione può essere anche parziale, «se il diritto della parte istante è contestato solo parzialmente»; in realtà, ha perso un’occasione per chiarire molti punti incerti individuati dalla giurisprudenza, circa la natura e l’estensione del nuovo potere attribuito al giudice dell’opposizione a precetto.
Possiamo chiederci perché il legislatore del 1940 non avesse pensato a una forma di tutela preventiva, posto che l’esecuzione non è soggetta ad autorizzazione. Probabilmente la risposta è nel fatto che il titolo esecutivo giudiziale era di norma la sentenza d’appello; il proliferare, in tempi relativamente recenti, di titoli più sommari e instabili ha acceso un faro sulla funzione garantistica dell’inibitoria.
Partiamo dalla formula utilizzata. Il legislatore del 2005 si è all’evidenza ispirato all’art. 283 c.p.c., che distingue la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo dalla sospensione dell’esecuzione[2]. La distinzione è frutto di una novellazione risalente al 1990, perché la norma nel suo originario dettato parlava di sospensione dell’esecuzione già iniziata e la giurisprudenza, interpretando la previsione alla lettera, escludeva la possibilità di una inibitoria sul titolo. Del resto, l’art. 373 c.p.c. continua tuttora a far riferimento alla sospensione dell’esecuzione, ciò che induce le corti d’appello a richiedere che quantomeno sia stato notificato l’atto di precetto; altrimenti, non provvedono sulla istanza.
Il legislatore del 2005 ha fatto un calcolo che si è rivelato sbagliato: intendendo riconoscere il diritto a non subire atti esecutivi ingiusti, ha ragionato come se il giudice dell’opposizione a precetto potesse provvedere sull’inibitoria prima dell’inizio dell’esecuzione; ciò che non avviene mai, perché nell’ipotesi normale il primo atto esecutivo segue di soli dieci giorni la notificazione del precetto. E in dieci giorni, ben difficilmente si riesce a ottenere un provvedimento di inibitoria, essendo dubbia l’applicabilità tanto dell’art. 625, comma 2, c.p.c., tanto dell’art. 669 sexies, comma 2, c.p.c. Per rendere davvero effettivo il diritto a non subire atti esecutivi, il legislatore avrebbe dovuto riconoscere alla stessa proposizione dell’opposizione a precetto un effetto sospensivo automatico; il giudice, poi, avrebbe dovuto confermare quell’effetto, o altrimenti autorizzare gli atti dell’esecuzione.
4.-Il sistema delle inibitorie e delle sospensioni a fronte delle competenze del giudice dell’impugnazione, del giudice dell’opposizione a precetto e del giudice dell’esecuzione. Sta di fatto che, mettendo insieme le norme che abbiamo richiamato con quelle vigenti nell’esecuzione, ne risulta che il giudice d’appello può sospendere sia l’efficacia esecutiva del titolo, sia l’esecuzione; il giudice dell’opposizione a precetto la sola efficacia esecutiva del titolo; il giudice dell’esecuzione (art. 624 c.p.c.) la sola esecuzione. La distinzione ha una sua logica astratta, perché il giudice dell’opposizione a precetto è estraneo all’esecuzione almeno quanto il giudice dell’esecuzione è estraneo al titolo esecutivo, che guarda dall’esterno. In concreto, però, questa frantumazione di competenze finisce per complicare i problemi.
Il più vistoso dei quali, forse, è dato proprio dal fatto che la contestazione dell’azione esecutiva può anche non riguardare direttamente il titolo (pur presupponendo la sua esistenza: non c’è esecuzione senza titolo); tuttavia, il provvedimento interinale che può ottenersi, in sede di opposizione a precetto, incide proprio e soltanto sul titolo esecutivo. È questo un dato letterale che difficilmente può essere eluso.
5.-Se quello descritto sia davvero un sistema e se siano concepibili inibitorie e sospensioni “sui generis”. Sarebbe importante stabilire se quello delle inibitorie e delle sospensioni sia un fenomeno sostanzialmente unitario, oppure se ciascuna previsione risponda a una sua logica non comune alle altre. La prima soluzione è quella più impegnativa per l’interprete; la seconda è quella che lascia l’interprete libero di ricostruire a suo libito le caratteristiche di ogni singola figura. Vedremo subito che la Cassazione (SS.UU. n. 19889/2019) ha scelto la seconda soluzione a proposito dell’opposizione a precetto, parlando di sui generis e “microsistema”.
Va peraltro precisato – ci verrà utile per l’esame della n. 26285/2019 – che l’art. 623 c.p.c., allorché cita il «giudice davanti al quale è impugnato il titolo esecutivo» intende non il giudice davanti al quale comunque si discuta del titolo bensì esclusivamente quello che può modificarlo, conoscendolo per così dire dall’interno: vale a dire il giudice dell’impugnazione o dell’opposizione a decreto ingiuntivo. Per questa ragione, l’art. 623 è sempre stato giudicato estraneo all’opposizione a precetto e ciò ha costretto il legislatore del 2005 a intervenire sull’art. 615, comma 1. Questa premessa è essenziale per valutare la portata della sentenza, oggetto di questa sessione di studio.
6.-Il problema del reclamo avverso il provvedimento inibitorio pronunciato dal giudice dell’opposizione a precetto. Tra le tante cose che il legislatore del 2005 (e quello successivo) ha omesso di regolare, c’è l’istituto del reclamo avverso il provvedimento sospensivo del giudice dell’opposizione a precetto. La questione ha diviso i tribunali, sino a che le SS.UU. con sentenza n. 19889/2019 non hanno affermato la regola della reclamabilità. Le SS.UU. hanno somministrato una lunga e articolata motivazione, non sempre limpida, volta a dimostrare che il potere (definito cautelare[3]) del giudice dell’opposizione a precetto è esercitato in un contesto sui generis, non inserito nel sistema delle inibitorie e delle sospensioni quale delineato dalle tante norme del c.p.c. che si occupano dell’esecutorietà della sentenza. Di un simile inquadramento “anti-sistematico” non si avvertiva il bisogno: infatti, la precedente Cass. n. 11243/2010, nell’ammettere il reclamo avverso il provvedimento sospensivo pronunciato nell’ambito dell’opposizione agli atti esecutivi (altra dimenticanza del legislatore), non ha avuto bisogno di far capo a “sotto- o micro-sistemi”. Sta di fatto che le SS.UU. si sono impegnate in una serie di dubbie affermazioni: (a) il provvedimento dell’art. 615, comma 1, non è un’inibitoria e non è assimilabile a quella dell’art. 283; (b) ha natura cautelare, ancorché sui generis, laddove la giurisprudenza ha sempre negato la natura cautelare delle inibitorie e così l’applicabilità del procedimento cautelare uniforme; (c) l’opposizione riguarda il diritto di procedere all’esecuzione e dunque interessa più il precetto, o altrimenti la domanda esecutiva, che non il titolo esecutivo in sé; (d) la garanzia del reclamo viene direttamente dall’art. 669 terdecies c.p.c., ma nel contempo viene esclusa l’applicabilità delle altre norme del procedimento cautelare uniforme (in primis revoca e modifica).
Possiamo parlare di una tecnica del patchwork, in cui la soluzione viene dall’assemblaggio di varie “pezze” e in cui il risultato finale – per usare un’espressione francese – non somiglia a niente.
7.-Orientamenti nomopoietici della Cassazione. Alla sentenza delle SS.UU. ha fatto seguito, pochi mesi dopo, la sentenza della sez. III n. 26285/2019, che è l’oggetto precipuo dei lavori odierni.
Le due sentenze sono in realtà un unicum. E se la SS.UU. n. 19889/2019, pur criticabile sotto vari aspetti, giunge a soluzioni che possiamo dire condivise dalla maggioranza della giurisprudenza di merito, la sentenza n. 26285 presenta soluzioni del tutto innovative, che esibiscono vistosi problemi di compatibilità col diritto vigente. Se la sentenza n. 19889 sembra riconoscere una garanzia aggiuntiva, la sentenza n. 26285 sottrae poteri alle parti e allo stesso giudice dell’esecuzione.
La sentenza n. 26285 ha inteso chiarire «come si ripartisce il potere di adottare provvedimenti interinali di carattere sospensivo» (§ 9.1.) tra i giudici indicati rispettivamente nel 1° e nel 2° comma dell’art. 615 c.p.c.; sulla premessa che «la sospensione disposta dal giudice dell’esecuzione (è) strutturalmente diversa da quella disciplinata dall’art. 615, 1° comma, c.p.c.» (§ 9.1.), la differenza si fonderebbe sull’art. 623 c.p.c., laddove si contrappone una sospensione «esterna», pronunciata dal «giudice davanti al quale è impugnato il titolo esecutivo» e una sospensione «interna», che è quella pronunciata dal giudice dell’esecuzione.
Tuttavia, come abbiamo già detto, l’art. 623, nella lettura tradizionalmente recepita e mai ridiscussa, non si occupa del giudice dell’opposizione a precetto, bensì esclusivamente del giudice dell’impugnazione (o dell’opposizione a decreto ingiuntivo); inoltre – e soprattutto – mentre il giudice dell’impugnazione può incidere, con effetti diversi, sia sull’efficacia esecutiva del titolo (inibitoria) sia sull’esecuzione in atto (sospensione), questo secondo potere è formalmente sottratto al giudice dell’opposizione a precetto, titolare soltanto del primo. La Sezione III finirà, dopo un tortuoso ragionamento, per affermare il contrario, palesemente contro la lettera della legge.
Vero quindi che la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo è di tipo «esterno», secondo una consolidata classificazione della dottrina; il problema è se essa – prevista dall’art. 615, comma 1, ovvero dall’art. 623 c.p.c. – risponda a un modello unitario e richieda, per poter essere efficace nell’esecuzione in atto, un provvedimento ricognitivo del g.e. In un primo momento (§ 9.1., in fine), la Corte sembra dare per scontato che il g.e. debba «dichiarare» – nel senso d’una mera «presa d’atto» – la sospensione disposta dal giudice dell’opposizione a precetto così come avviene, ex art. 623 c.p.c., per l’inibitoria del giudice dell’impugnazione; ma nello sviluppo della non breve motivazione giungerà ad affermare che il provvedimento ex art. 615, 1° comma, può autonomamente sospendere l’esecuzione: perché, in sostanza, esso è un omologo di quello che il g.e. può pronunciare a norma dell’art. 624 c.p.c. Risultato, anch’esso, contrastante con la lettera delle norme implicate.
8.-Analisi della sentenza della Sez. III n. 26285/2019. Il passaggio argomentativo centrale è il seguente (§ 9.3.): giacché nessuna norma circoscrive nel tempo il potere del giudice «innanzi al quale è impugnato il titolo esecutivo» (parliamo dunque sempre e soltanto del giudice dell’impugnazione), «è certo che la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo, anche se disposta dopo che sia già stato eseguito il pignoramento, determina parimenti gli effetti sospensivi del processo esecutivo previsti dall’art. 626 c.p.c., che infatti parla genericamente di “processo esecutivo sospeso” senza distinguere a seconda che la sospensione sia stata pronunciata ai sensi degli artt. 623 o 624 c.p.c.». Pertanto, continua la Corte, se il provvedimento del comma 1 dell’art. 615 è inquadrabile quale sospensione «esterna», non soltanto il potere del giudice non è temporalmente circoscritto e perdura anche se nelle more il pignoramento venga compiuto, ma gli effetti del provvedimento inibitorio «non differiranno, nella sostanza, dalla sospensione ex art. 624 c.p.c.: i beni staggiti resteranno soggetti al vincolo di indisponibilità, ma non potranno compiersi ulteriori atti esecutivi» (§ 9.3., in fine).
La Corte omette di considerare che, se il provvedimento del giudice dell’impugnazione può autonomamente sospendere l’esecuzione in atto (art. 623 c.p.c.), quella del giudice dell’opposizione a precetto, che non è una sospensione dell’esecuzione, è sempre, vista dalla prospettiva del g.e., una fattispecie di sopravvenuta carenza dell’efficacia del titolo esecutivo che chiama un provvedimento dello stesso g.e. che incida sull’esecuzione in atto: che sarà pure meramente ricognitivo, non fondato sull’apprezzamento di “gravi motivi” e così non reclamabile, ma che certo non potrà essere del tutto soppresso, se il risultato da raggiungere sarà quello della sospensione del processo esecutivo.
In tal modo, l’art. 615, comma 1, è stato sovrapposto all’art. 623 e allo stesso art. 283, nonostante la chiara diversità delle formule rispettivamente impiegate.
9.-Rapporto tra potere inibitorio del giudice dell’opposizione a precetto e potere sospensivo del giudice dell’esecuzione. Il risultato sa di posticcio: i poteri del giudice dell’impugnazione e quelli del giudice dell’opposizione a precetto vengono totalmente identificati, al punto che, nel § 9.4., potrà affermarsi che «la sospensione del processo esecutivo – che sia disposta ai sensi tanto dell’art. 615, 1° comma, c.p.c., quanto dell’art. 624 c.p.c. – ha natura cautelare (quantomeno in senso lato) tant’è che essa è in entrambi i casi reclamabile ex art. 669-terdecies c.p.c.». Ma non si aggiunge che nel caso dell’art. 624 c’è un’espressa previsione di legge, mentre nel caso dell’art. 615, comma 1, questa espressa previsione manca.
Quando poi si giunge a scrutinare il rapporto tra il potere inibitorio del giudice dell’opposizione a precetto e il potere sospensivo del g.e., sembrerà quasi naturale affermare (§ 9.4.) che «il provvedimento di sospensione disposto ex art. 615, 1° comma, c.p.c. comprende in sé anche gli effetti della sospensione che il giudice dell’esecuzione potrebbe pronunciare ex art. 624 c.p.c.: ed allora, l’opponente che abbia già richiesto la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo al giudice dell’opposizione pre-esecutiva non può rivolgersi per le medesime ragioni anche al giudice dell’esecuzione». E non sorprenderà neppure l’affermazione successiva, secondo cui il suo potere è consumato, «a prescindere dalla circostanza che sull’istanza si sia già provveduto oppure no».
Il potere processuale – nulla conta che inibitoria e sospensione siano oggettivamente due istituti diversi – si consuma anche se il giudice dell’opposizione a precetto ometta di provvedere (come molti giudici fanno, una volta iniziata l’esecuzione) e pertanto il g.e., richiesto della sospensione, dovrà preliminarmente verificare (i) se sia stata proposta un’opposizione a precetto fondata sulle medesime ragioni e (ii) se sia stato richiesto in quella sede il provvedimento inibitorio del comma 1 dell’art. 615: circostanze in presenza delle quali i suoi poteri sospensivi, ex art. 624 c.p.c., risulterebbero irrimediabilmente elisi. Qualora, invece, l’istanza di inibitoria non fosse stata presentata al giudice dell’opposizione a precetto riemergerebbe (o non sarebbe consumato) il potere sospensivo del g.e., previa introduzione di un’opposizione all’esecuzione: con la «particolarità» che la competenza del g.e. sarebbe limitata alla sola sospensione (fase sommaria), mentre il giudizio di merito continuerebbe dinanzi al giudice dell’opposizione a precetto: «è come se con il ricorso ex art. 615, 2° comma, c.p.c. si rivolgesse un’istanza cautelare in corso di causa ad un giudice dotato, ai soli fini sospensivi, di una competenza funzionale mutuamente alternativa a quella del giudice del merito» (§ 9.5.).
10.-Critica della sentenza n. 26285/2019. I principali punti critici della sentenza ci sembrano i seguenti:
a) essa non parla mai di inibitoria e, in generale, dei poteri del giudice dell’impugnazione (il cui prototipo è nell’art. 283 c.p.c.), che pure sono presupposti nell’art. 623 c.p.c., norma dalla quale l’intero ragionamento muove; essa, cioè, non dà mai conto del perché il giudice dell’impugnazione sia dotato (i) di un potere inibitorio che incide sul titolo esecutivo, vòlto a prevenire l’inizio in senso tecnico dell’esecuzione; (ii) di un potere che quest’ultima sospende. In conseguenza, la sentenza non dà mai conto delle differenze che si registrano nei due poteri che l’art. 283 tiene formalmente distinti;
b) la sentenza non si interroga sul perché il giudice dell’opposizione a precetto risulti dotato soltanto del potere inibitorio, e non anche di quello sospensivo (e, specularmente, del perché il g.e. sia dotato del solo potere sospensivo e non anche di quello inibitorio: cioè del perché il g.e. non possa occuparsi del titolo esecutivo), confondendo l’uno con l’altro[4];
c) non avendo valorizzato le differenze tra inibitoria e sospensione, la sentenza, quando parla – a proposito del giudice dell’opposizione a precetto, che sappiamo non essere considerato dalla norma – di sospensione «esterna» richiamando l’art. 623 c.p.c., pone sullo stesso piano il potere inibitorio e quello sospensivo, che pure hanno caratteristiche e oggetti distinti e che richiamano una diversa attività conformativa del giudice dell’esecuzione;
d) di qui quella confusione di riferimenti che fa dire alla Corte che la sospensione «esterna» ha un regime unitario che deriva dall’art. 623 c.p.c., laddove il potere del giudice dell’opposizione a precetto è tutto e soltanto nell’art. 615, 1° comma: la cui stessa esistenza si giustifica – tutto al contrario – proprio sul riflesso che la norma è da sempre considerata estranea all’àmbito di applicazione dell’art. 623;
e) la sentenza afferma, correttamente, che il pignoramento sopravvenuto (cioè l’inizio dell’esecuzione) non fa venir meno il potere sospensivo del giudice dell’opposizione a precetto, che è potere sul titolo; ma al tempo stesso ignora che quel potere – anche e proprio in ragione del richiamato art. 5 c.p.c. (§ 9.3.) – non può convertirsi in potere di sospendere l’esecuzione: se non altro perché l’art. 623 c.p.c. quel potere assegna, alternativamente ma esclusivamente, al giudice dell’impugnazione e al giudice dell’esecuzione, non anche al giudice dell’opposizione a precetto; e inoltre perché l’art. 5 c.p.c. può perpetuare una competenza che esiste, ma non può creare o trasformare competenze che non esistono;
f) la sentenza dà per scontato che i provvedimenti inibitori, una volta l’esecuzione iniziata, si convertano automaticamente in sospensivi. Ma così certamente non è: la prassi comunemente seguìta richiede un’attività ricognitiva del g.e. che prende atto della sospensione «esterna», cioè della sopravvenuta carenza di efficacia del titolo esecutivo, ed è proprio tale attività che arresta l’esecuzione (perché l’inibitoria sul titolo un siffatto potere non ha).
11.-La consumazione e la preclusione sospensiva: istituti creati ex nihilo dalla Cassazione e apertamente confliggenti con la disciplina positiva. Una volta posti sullo stesso piano il potere inibitorio e quello sospensivo, la Corte si avventura – ecco il punto indubbiamente più critico – sullo scivoloso terreno della «continenza cautelare» (§ 9.4.) spingendosi ad affermare che la semplice proposizione dell’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo consuma il potere di richiedere al g.e. la sospensione dell’esecuzione (che è cosa diversa) e questa affermazione, di per sé inedita e sorprendente, funge da premessa per una ricostruzione dei rapporti tra opposizione a precetto e opposizione all’esecuzione che non sembra sorretta da alcuna norma né del Libro I, né del Libro III.
Possiamo anzi dire che contrasta in modo palese col diritto vigente: al punto che il mancato esercizio di un potere non previsto dalla legge (il reclamo avverso il provvedimento ex art. 615, comma 1) consuma il solo potere previsto dalla legge (il reclamo avverso il provvedimento sospensivo ex art. 624 c.p.c.) e, prima ancora, la mera richiesta di inibitoria (anche se non seguita da alcun provvedimento) consuma il potere di richiedere la sospensione al g.e.: il quale, pur avendo la direzione del processo esecutivo, si trova privato del fondamentale strumento di raccordo con la contestazione dell’azione esecutiva. Ancora una volta, in assenza di un’esplicita previsione di legge. Questa conseguenza è davvero inaccettabile, e lo sarebbe, credo, anche se la regola della competenza «mutuamente esclusiva» fosse prevista per legge: perché nessun g.e., a fronte di una fondata contestazione e magari dinanzi alla vendita imminente, può essere privato del potere di sospendere la procedura. Nessun g.e. può accettare di essere privato di un simile potere: soluzione che abrogherebbe l’art. 624 c.p.c. e che tradisce lo spirito dello stesso art. 623 c.p.c., che indica come residuale proprio il potere sospensivo del g.e.
12.-L’art. 363 c.p.c.: una norma da rivedere con urgenza. Abbiamo detto che le sentenze n. 19889 e n. 26285/2019 vanno lette come un tutto unitario. Hanno anche una genesi comune, trattandosi di pronunce emesse ex art. 363 c.p.c.: la prima a seguito di una richiesta del P.G., la seconda in occasione di un ricorso dichiarato inammissibile per tardività, ma che ha dato alla Corte l’occasione di pronunciare d’ufficio “nell’interesse della legge” ben otto principi di diritto: due in relazione al ricorso non deciso, sei a seguito di «un’ulteriore riflessione» (§ 8.), che ha interessato appunto la c.d. “preclusione sospensiva” (istituto creato ex nihilo dalla Cassazione).
Il fenomeno non può non indurre a riflettere sulla legittimità dell’utilizzo del potere ex art. 363 c.p.c.[5], che non dovrebbe estendersi ad aspetti in alcun modo transitati nel giudizio e che vengano identificati dalla Corte, in contraddittorio con alcuno, seguendo uno schema simile a quello che la Consulta adotta allorché dichiara le illegittimità c.d. “consequenziali”: ma autorizzata da un’espressa previsione di legge[6].
Inoltre, la lettura dei sei principi di diritto dedicati alla “preclusione sospensiva”, concepiti quasi come autonome norme (una sorta di “foglio di allungamento” del codice), mostra che la Cassazione non ha nel caso assicurato «l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge» (art. 65 ord. giud.) bensì ha integrato la disciplina positiva con previsioni generali e astratte in alcun modo collegate con le norme che ha scrutinato: in nessuna norma si parla infatti di «competenza mutuamente esclusiva» tra giudice dell’opposizione a precetto e giudice dell’esecuzione, e ciò per l’ottima ragione che tali giudici intervengono in fasi processuali diverse esercitando poteri diversi: l’uno sul titolo, l’altro sul processo. In nessuna norma è previsto che, pendente l’opposizione a precetto, il g.e. della fase sommaria non debba assegnare il termine di cui all’art. 616 c.p.c., dovendosi limitare a provvedere sulla sospensione soltanto se l’inibitoria non sia già stata richiesta al giudice dell’opposizione a precetto. In nessuna norma si prevede che l’istanza di inibitoria proposta al giudice dell’opposizione a precetto consumi il potere di richiedere al g.e. la sospensione dell’esecuzione. Senza considerare che la peculiare lettura della norma che regge tutta la fragile impalcatura – l’art. 623 c.p.c. – contrasta frontalmente con orientamenti consolidati, mai messi in discussione.
Ove volessimo collegare le nuove regole create dalla Corte col diritto dell’esecuzione, dovremmo prendere atto che esse non possono essere riferite ad alcuna norma, ovvero che sono espressione di una lettura innovativa (e generalmente non condivisa) di norme che da sempre dicono altro: lettura che la Cassazione ha realizzato in totale solitudine, senza alcun tipo di contraddittorio culturale o anche processuale, di dibattiti preparatori e soprattutto senza alcun riferimento col caso che avrebbe dovuto decidere. Il risultato ne ressemble a rien, è cioè un’elaborazione molto libera, che non ha punti di contatto con la disciplina codicistica.
Siamo dinanzi, insomma, a un precedente fortemente negativo, che la Corte dovrebbe sforzarsi di mai più replicare. Ove dovesse essere replicato, ci si dovrebbe porre urgentemente il problema della riforma dell’art. 363 c.p.c. (per questo aspetto, in vigore dal 2006), perché la Corte di cassazione è un giudice, non un legislatore di complemento né un consulente giuridico né un libero dispensatore di regole di comportamento indirizzate ai pratici. La Corte ha il compito di affermare il principio di diritto quando decide il ricorso (art. 384, comma 1, c.p.c.) e la portata dell’art. 363, forse mal valutata dal legislatore delegato del 2006, deve intendersi del tutto eccezionale perché, qui, non c’è decisione del ricorso.
L’abnorme applicazione dell’art. 363 è peraltro frutto dell’attuale tendenza della Corte, manifestatasi per la prima volta con la notissima sentenza che, a norma invariata, ha sostanzialmente riscritto l’art. 37 c.p.c., a correggere la norma scritta secondo una sua visione “evolutiva” del diritto, anche processuale; ma si tratta di una tendenza che manifesta aspetti eversivi, che l’art. 65 ord. giud. in alcun modo giustifica.
Fortunatamente, le sentenze della Cassazione non hanno gli stessi effetti di quelle della Corte costituzionale, e dunque i giudici e la comunità dei giuristi sono tenuti a considerarle col massimo rispetto, senza però esserne vincolati. E io credo che la maggior parte dei giudici dell’esecuzione italiani non si sentano vincolati da una pronuncia “a sorpresa”, su argomenti mai seriamente discussi, che ha per effetto di privarli dei loro poteri di direzione del procedimento; e ciò grazie a interpretazioni oltremodo dubbie delle norme vigenti ovvero a libere ricostruzioni che, al di là della loro plausibilità, appaiono definitivamente distaccate dal dato positivo.
[1] È quanto opinato dalla SS.UU. n. 19889/2019, secondo cui «oggetto dell’opposizione pre-esecutiva è la contestazione del creditore di agire in executivis: pertanto, oggetto dell’azione non è il titolo esecutivo, il quale, se giudiziale, è intangibile in quanto tale, mentre, se stragiudiziale, si risolve in un atto di parte insuscettibile di impugnazione in senso tecnico». Entrambe le affermazioni paiono assai dubbie, ma non possono scrutinarsi qui.
[2] È necessaria sul punto una piccola precisazione. L’art. 283 utilizza la disgiuntiva “o”, il che indurrebbe a credere che prima dell’inizio dell’esecuzione vi sarebbe spazio per l’inibitoria, ad esecuzione già iniziata per la sospensione. In realtà, il provvedimento sospensivo della Corte d’appello compendia i due aspetti, perché da un lato occorre privare il titolo impugnato della sua efficacia esecutiva, dall’altro lato occorre sospendere l’esecuzione, se già iniziata. È appena il caso di precisare che la caducazione degli atti esecutivi è un fenomeno estraneo all’inibitoria, perché presuppone una pronuncia di merito (riforma o cassazione) di caducazione del titolo (art. 336, comma 2, c.p.c.).
[3] Il punto rimane controverso, perché i “gravi motivi”, presupposto della inibitoria come della sospensione, riguardano esclusivamente il fumus boni juris, non anche il periculum in mora che nell’esecuzione forzata non è prospettabile.
[4] Accettando la logica della sentenza, dovrebbe ritenersi che anche il provvedimento del g.e., che riguarda la sola esecuzione, non potrebbe che estendersi al titolo, sospendendone l’efficacia; conclusione contrastante con l’opinione consolidata e mai ridiscussa, che rinviene un solido fondamento testuale nell’art. 624 c.p.c. e nello stesso art. 623 c.p.c.
[5] Si consideri che la stessa Cassazione (sent. 11 gennaio 2011, n. 404) s’è posta il problema di individuare un limite per l’iniziativa del P.G., opinando che non si può «trarre occasione o spunto da una causa (magari ben decisa) per sollecitare l’interpretazione della Corte su questioni astratte, o, in ogni caso, non pertinenti alla specifica vertenza». L’art. 363 non consente infatti «interventi di tipo, per così dire, preventivo o addirittura esplorativo», perché il P.G. può attivarsi «soltanto nel caso di pronuncia contraria alla legge per denunciarne l’errore e chiedere alla Corte di ristabilire l’ordine, chiarendo il reale significato e l’esatta portata della normativa di riferimento».
[6] Si tratta dell’art. 27, della legge n. 87/1953: la Corte costituzionale, «quando accoglie una istanza o un ricorso relativo a questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, dichiara, nei limiti dell’impugnazione, quali sono le disposizioni legislative illegittime» e, inoltre, «dichiara, altresì, quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata».
(*) Relazione presentata al convegno nazionale organizzato dal Cespec a San Servolo – Venezia (24, 25 e 26 settembre 2021) su Le fasi delle procedure immobiliari: criticità e questioni controverse nella giurisprudenza di merito e di legittimità, nell’ambito della sessione su Le opposizioni ex art. 615 c. 1 e c. 2 e le preclusioni sospensive. L’origine dello scritto giustifica l’assenza di note di riferimenti.
Green pass e protezione dei dati personali (nota a Cons. Stato, Sezione Terza, 17 09 2021 n. 5130)
Lamentando la lesione del loro diritto alla riservatezza sanitaria, il rischio di discriminazioni nello svolgimento di attività condizionate al possesso della certificazione verde, nonché il pregiudizio economico derivante dalla necessità di sottoporsi a frequenti tamponi, svariati ricorrenti impugnano innanzi al giudice amministrativo il DPCM 17 giugno 2021, recante le disposizioni attuative dell’articolo 9, comma 10, del decreto legge 22 aprile 2021 n. 52, relative al sistema di prevenzione, contenimento e controllo sanitario dell’infezione SARS-CoV-2, mediante l’impiego della certificazione verde COVID-19 (cd. “Green pass”).
Chiedendo l’integrale annullamento, previa sospensione, del DPCM, i ricorrenti assumono in buona sostanza la prevalenza dell’interesse alla protezione dei dati personali sanitari rispetto all’interesse pubblico perseguito dal provvedimento impugnato, nel duplice presupposto che la riservatezza sia un diritto fondamentale dell’individuo e che i dati sanitari non possano essere trattati dall’amministrazione senza l’esplicito consenso dell’interessato.
Sotto il profilo del contemperamento dei contrapposti interessi, anche se operato nei soli presupposti e limiti del giudizio cautelare, la pronuncia si segnala per ritenere meramente potenziale e comunque recessivo “il rischio di compromissione della sicurezza nel trattamento dei dati sensibili connessi alla implementazione del cd. Green pass”, rispetto a quello di sicuro “depotenziamento degli strumenti (quali, appunto, quello incentrato sull’utilizzo del cd. Green pass) destinati ad operare in modo coordinato, anche al fine di garantirne l’efficacia sul piano della regolazione delle interazioni sociali (con particolare riguardo ai contatti tra soggetti vaccinati, o altrimenti immunizzati, e soggetti non vaccinati), con la campagna vaccinale in corso”, con conseguente pregiudizio dell’esigenza primaria di salvaguardia della salute dei cittadini.
In tema su questa Rivista v. anche , F. Francario, Protezione dati personali e pubblica amministrazione; le prime pronunce cautelari del TAR Lazio sull’obbligo del green pass per il personale scolastico; Perché la Costituzione impone, nella presente congiuntura, di introdurre l’obbligo della vaccinazione a tappeto contro il Covid-19 di Antonio Ruggeri; Del green pass, delle reazioni avverse ai vaccini e di altre cianfrusaglie pandemiche come problemi biogiuridici: elementi per una riflessione di Aldo Rocco Vitale; note sul decreto legge 105/2021 che estende il green pass a attività e servizi della vita quotidiana di Giuliano Scarselli
Le misure patrimoniali penali e la liquidazione giudiziale nel codice della crisi. L’insostenibile leggerezza dei diritti dei creditori di fronte alle ragioni della prevenzione penale*.
di Paola Filippi
Sommario: 1. Liquidazione giudiziale, misure di prevenzione e misure cautelari penali. La direttiva della legge delega n. 155 del 2017 in materia penale. - 2. Il Titolo VIII “Liquidazione giudiziale e misure cautelari penali” del Codice della crisi e dell’insolvenza. - 3. Gli interessi sottesi alla liquidazione giudiziale e gli interessi sottesi alla misura penale. - 3.1. I soggetti che subiscono gli effetti ablativi della misura patrimoniale penale sul patrimonio dell’imprenditore commerciale insolvente. - 3.2. Gli effetti dell’adozione delle misure cautelari penali reali. - 3.3. L’obiettivo del salvataggio dell’azienda. - 3.4. La diseconomicità e l’inefficienza della prevalenza della misura patrimoniale penale sulla liquidazione giudiziale senza limiti temporali o di fase. - 4. Il coordinamento del fallimento e le misure patrimoniali penali nella giurisprudenza di legittimità. - 5. Le ragioni pubblicistiche sottese alla prevalenza della misura patrimoniale finalizzata alla confisca. - 5.1. La falcidia dei crediti - 6. Profili di criticità dell’art. 317 del Codice della crisi e dell’insolvenza. - 6.1. L’incomprensibile dissonanza dei commi quarto e quinto dell’articolo 63 d.lgs. n. 159/2011, un refuso? - 7. L’articolo 318. La prevalenza della liquidazione giudiziale, aperta ai sensi dell'art. 49 CCI, sul sequestro impeditivo. - 7.2. Il ruolo del curatore. - 8. Il sequestro ai danni dell’ente ex art. 53 d.lgs. n. 231/2001. - 9. La legittimazione del curatore. - 10. Conclusioni.
1. Liquidazione giudiziale, misure di prevenzione e misure cautelari penali. La direttiva della legge delega n. 155 del 2017 in materia penale.
L’art. 13 della legge n. 155/2017, rubricato “Rapporti tra liquidazione giudiziale e misure penali”, ha conferito al Governo la delega a adottare “disposizioni di coordinamento con il codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, stabilendo condizioni e criteri di prevalenza, rispetto alla gestione concorsuale, delle misure cautelari adottate in sede penale, anteriormente o successivamente alla dichiarazione di insolvenza”[1]. Nonché ad “adottare disposizioni di coordinamento con la disciplina di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, e in particolare “con le misure cautelari previste dalla disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, nel rispetto del principio di prevalenza del regime concorsuale, salvo che ricorrano ragioni di preminente tutela di interessi di carattere penale”.
Le direttive di cui all’art. 13, con quella di cui all’art. 4 lett. h) (contenente delega a prevedere una causa di non punibilità per il delitto di bancarotta semplice e un’attenuante ad effetto speciale quali misure premiali per il tempestivo accesso del debitore alle procedure di composizione assistita) sono le sole direttive della legge delega che hanno riguardato la materia penale.
L’art. 2 lett. a), con riferimento alla materia fallimentare penale ha previsto il coordinamento delle disposizioni penali con sostituzione del termine fallimento con il termine liquidazione giudiziale.
Ciò detto, sono stati inseriti nel codice della crisi, attraverso mera trasposizione, le fattispecie di reato del sovraindebitato e dei componenti degli organismi di composizione della crisi, introdotti dall’articolo 16 legge 10.1.2012 n. 3 (recante disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento), successivamente modificato dal decreto legge n.179/2012 convertito in legge n. 221/2012.
Dette fattispecie ora trovano la loro collocazione all’articolo 344, ai commi primo e terzo, del codice della crisi. In questo contesto – senza specifica delega - era stato introdotto l’art. 345, - estensione dei reati propri del falso attestatore, come descritti dall’art. 236 bis l.fall.- ai compenti dell’OCRI, (ndr articolo abrogato con d.lgs.n. 83/22) In assenza di delega, le fattispecie di cui all’art. 236 bis legge fallimentare, inserite all’ articolo 342 del codice della crisi sono state modificate.
L’articolato licenziato dalla commissione Rordorf nel dicembre del 2017 è stato ridotto con eliminazione degli articoli che realizzavano nel dettaglio il coordinamento tra le misure di prevenzione, le misure penali e la liquidazione giudiziale e quelli che introducevano disposizioni di coordinamento tra le procedure concorsuali e la disciplina della responsabilità dell’ente in attuazione della direttiva di cui all’art. 13 n. 2.
In sintesi, da un lato, ci sono stati eccessi di delega; dall’altro - nonostante il ristretto margine di riforma della materia penale - la delega, alle fine, non è stata esercitata in tutta la sua estensione.
2. Il Titolo VIII “Liquidazione giudiziale e misure cautelari penali” del Codice della crisi e dell’insolvenza.
Il Titolo VIII, “Liquidazione giudiziale e misure cautelari penali”, contiene quattro articoli (gli articoli 317, 318, 319 e 320).
Due soltanto coordinano la liquidazione giudiziale, aperta ai sensi dell'art. 49 CCI, con le misure di prevenzione e le misure cautelari adottate in sede penale: l’articolo 317 e l’articolo 318.
L’articolo 319, rubricato sequestro conservativo, si riferisce all’articolo 316 cod. proc. pen. Trattasi di misura cautelare civile, espressione della previsione di cui all’art. 150 CCI – che riproduce l’art. 51 legge fall. – contenente divieto all’esericizio o alla prosecuzione di azioni esecutive e cautelari individuali, divieto compendiato nella previsione secondo la quale “Salvo diversa disposizione della legge, dal giorno della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale nessuna azione individuale esecutiva o cautelare anche per crediti maturati durante la liquidazione giudiziale, può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nella procedura” [2] (v. par. 6).
L’articolo 320, inserito nel medesimo titolo, codifica il prinicipio della legittimazione del curatore a ricorrere [3], sul presupposto che il curatore agisce nell’interesse della massa dei creditori, contro i provvedimenti di sequestro, principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità [4], sino alla sentenza dalle Sezioni unite Uniland S.p.a., 2014 [5] ma riconfermato dalle Sezioni Unite, Mantova Petroli S.r.l. in liquidazione, 2019.
3. Gli interessi sottesi alla liquidazione giudiziale e gli interessi sottesi alla misura penale.
Ogni considerazione in ordine al coordinamento tra misure patrimoniali penali e procedure esecutive concorsuali (fallimento, liquidazione giudiziale secondo il codice della crisi) e, la scelta della prevalenza non può prescindere dalla preventiva risposta a tre domande:
- chi subisce gli effetti della misura patrimoniale penale?
- qual è coordinamento che implementa le chances di salvataggio dei beni produttivi?
- qual è il criterio di prevalenza che meglio realizza il principio del giusto processo?
3.1. I soggetti che subiscono gli effetti ablativi della misura patrimoniale penale sul patrimonio dell’imprenditore commerciale insolvente.
Il combinato disposto degli articoli 150, 151 e 152 del codice della crisi e dell’insolvenza, ha confermato il principio secondo il quale la “liquidazione giudiziale apre il concorso dei creditori sul patrimonio del debitore e che, salvo diversa disposizione della legge, dal giorno della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale nessuna azione individuale esecutiva o cautelare anche per crediti maturati durante la liquidazione giudiziale, può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nella procedura”.
Trattasi di espressione del principio generale di cui all’articolo 2740 del codice civile che assegna ai beni del debitore l’inderogabile destinazione di patrimonio a garanzia delle pretese creditorie, “il debitore risponde dell’adempimento con tutti i suoi beni presenti e futuri”.
Va poi considerato che il patrimonio del debitore, in quanto garanzia dei creditori, è insensibile alla provenienza.
In applicazione dell’art. 2740 del codice civile entrano a far parte del patrimonio dell’imprenditore anche i beni di provenienza illecita[6].
A seguito dell’apertura della liquidazione giudiziale l’intero patrimonio dell’imprenditore commerciale è dunque sottoposto a esecuzione ai fini della soddisfazione dei creditori, che deve realizzarsi nel rispetto della par condicio creditorum.
È trasposto all’art 152 CCI l’art. 52 della legge fallimentare secondo cui: “ La liquidazione giudiziale apre il concorso dei creditori sul patrimonio del debitore. Ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o prededucibile, nonché ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal capo III del presente titolo, salvo diverse disposizioni della legge”.
Il credito ex delictu, è bene sottolinearlo, non è destinatario di rango speciale ma è un credito chirografario. Questo è un elemento da tener presente quando si considera il credito della persona offesa, al pari del credito dell’ente nei casi di responsabilità amministrativa ex d.lgs. 231/2001.
Lo Stato, con riferimento ai crediti dipendenti da reato gode di privilegio mobiliare ex art. 2768 c.c. e, ex art. 27 della legge n. 231/2001, con riferimento all’ente, così come mero privilegio mobiliare è riconosciuto ai crediti erariali.
Tanto evidenzia l’antinomia tra disposizioni penali in tema di prevalenza della misura patrimoniale penale e il principio della par condicio creditorum con il suo regime dei privilegi.
La scelta del legislatore, confermata dal codice della crisi, è stata quella della parità, salvo i privilegi richiamati, del creditore privato, rispetto a quello pubblico, scelta coerente con l’obiettivo che il danno dell’insolvenza sia solidarizzato anche in presenza dello Stato.
I creditori concorsuali sono in maggioranza imprenditori commerciali e dunque la solidarizzazione, ripartendo il danno, avvantaggia l’imprenditoria nazionale e con essa l’intera economia nazionale.
3.2. Gli effetti dell’adozione delle misure cautelari penali reali.
In caso di apertura di procedura liquidatoria concorsuale – sia che la misura cautelare sia disposta prima dell’apertura sia che venga disposta dopo – gli effetti si riverberano non sugli interessi patrimoniali del debitore, che con l’esecuzione concorsuale viene forzosamente spossessato dei suoi beni (v. art. 42 legge fall. e 152 CCI), bensì sugli interessi patrimoniali dei creditori.
3.3. L’obiettivo del salvataggio dell’azienda.
L’obiettivo precipuo del codice della crisi è quello del salvataggio dell’azienda e degli asset produttivi, obiettivo la cui realizzazione passa attraverso un sistema complesso che connota anche la procedura esecutiva liquidatoria.
Il recupero del patrimonio produttivo è difficilmente attuabile in sede penale, ad esempio attraverso il sequestro della prevenzione oppure ai sensi delle disposizioni di cui all’art. 104 bis disp. att. cod. proc., richiamato dall’art. 317 CCI, e ciò in ragione dei tempi irragionevolmente lunghi della liquidazione in sede penale, che inizia con la definitività della confisca.
È, d’altro canto, assolutamente fisiologica l’inattitudine del procedimento cautelare penale alla valorizzazione del patrimonio, e ciò in ragione della finalizzazione impeditiva e sanzionatoria della misura patrimoniale penale.
La confisca, nella quale si trasforma il sequestro all’esito del procedimento penale, si riferisce all’oggetto, senza distinzioni che tengano conto degli interessi patrimoniali di terzi.
La tutela dei creditori concorsuali è questione che, in sede penale, si presenta in via eventuale ed è trattata solo in via incidentale.
Non si teme di essere smentiti quando si afferma che nel procedimento penale la soddisfazione dei creditori costituisce un orpello collaterale e non è, come nella liquidazione giudiziale, l’obiettivo del procedimento.
Si pensi, ad esempio, ai casi della custodia sino alla vendita per confisca definitiva o, in ipotesi di assoluzione, alla restituzione, momento dal quale l’esecuzione concorsuale potrebbe, e dovrebbe, riprendere il suo corso.
Se si pone mente alle disposizioni di cui all’art. 213, comma 4, CCI, che regolano il programma di liquidazione, e alle disposizioni di cui all’art. 214 CCI, che regolano la vendita dell’azienda o i suoi rami o i beni o i rapporti in blocco, la risposta alle domanda “qual è coordinamento che implementa le chances di salvataggio dei beni produttivi?” è scontata.
3.4. La diseconomicità e l’inefficienza della prevalenza della misura patrimoniale penale sulla liquidazione giudiziale senza limiti temporali o di fase.
A prescindere dalla lunghezza dei tempi di soddisfazione dei creditori concorsuali, irragionevolmente lunghi se affidati ai tempi della misura penale, la prevalenza, senza limiti temporali e di fase, della misura patrimoniale penale sulla liquidazione giudiziale determina anche sotto il profilo dell’economicità dei mezzi processuali effetti aberranti.
Si pensi, ad esempio, al caso in cui – conclusa la fase di liquidazione e formalizzato il riparto, ovvero semplicemente prima della sottoscrizione dei mandati di pagamento in favore degli stremati creditori concorsuali – intervenga il sequestro penale; in ragione della prevalenza senza limiti di fase la misura patrimoniale penale determina non solo il congelamento delle somme liquidate al fine di soddisfare i creditori concorsuali ma anche la perdita delle spese sostenute da questi per il recupero del credito, con l’effetto dell’inutilità assoluta della dispendiosa attività compiuta in sede esecutiva concorsuale. Senza contare l’inutile dispendio di attività giurisdizionale svolta in sede concorsuale.
L’esempio appena citato non è un esempio astratto ma si riferisce al caso concreto sotteso alla massima secondo la quale “è legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di somme di denaro appartenenti alla società fallita e assegnate ai creditori con piano di riparto dichiarato esecutivo ma non ancora eseguito, in quanto il provvedimento del giudice delegato si limita ad accertare giudizialmente la misura dei crediti aventi diritto al riparto e ad ordinarne al curatore il pagamento, ma l'effetto traslativo del denaro appartenente alla società fallita si produce solo con la materiale "traditio" delle somme” (Sez. 4, Sentenza Sansone del 2019).
Il caso richiamato, che riguarda una procedura esecutiva concorsuale conclusa con creditori concorsuali prossimi alla soddisfazione, evoca il gioco dell’oca.
Tutto questo ha un costo che, attraverso il danno del singolo creditore, si riverbera sull’economia nazionale, e, attraverso l’inutilità ex post dell’esercizio della giurisdizione, sull’efficienza della giustizia e così, inevitabilmente, sulle scelte degli imprenditori europei in ordine alla dislocazione delle loro attività sul territorio dell’Unione.
Il percorso verso l’efficienza della risposta di giustizia alla quale l’Europa condiziona il recovery fund sembra assai arduo quando le scelte del legislatore e le scelte giurisprudenziali, a processo esecutivo finito, consentono di riportare gli utenti della giustizia “alla casella del via”. Anche la risposta alla terza domanda, quella della migliore scelta ai fini della realizzazione del principio del giusto processo, è scontata.
4. Il coordinamento del fallimento e le misure patrimoniali penali nella giurisprudenza di legittimità.
La legge fallimentare non contiene alcun tipo di coordinamento tra procedura fallimentare e misure patrimoniali penali e le regole del coordinamento hanno fonte giurisprudenziale.
Il criterio di prevalenza, coerente con i principi di sistema, è ben sintetizzato nell’affermazione contenuta nella sentenza della Quinta Sezione, Sajeva 2003, estensore Alberto Macchia secondo cui “il sequestro preventivo avente ad oggetto un bene confiscabile in via obbligatoria deve ritenersi assolutamente insensibile alla procedura esecutiva concorsuale, in ragione della prevalenza da attribuire all'esigenza di inibire l'utilizzazione di un bene intrinsecamente e oggettivamente "pericoloso" in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato” (nel caso considerato dalla Corte si trattava di denaro depositato in un conto corrente intestato alla società fallita)[7].
Con riguardo al principio di diritto enunciato dalla sentenza Sajeva, che pur si condivide, in un’ottica che estremizza la valorizzazione dell’obiettivo della soddisfazione dei creditori, potrebbe opporsi che l’illiceità della detenzione del bene a confisca obbligatoria, in alcuni casi potrebbe essere rimossa con specifica autorizzazione (si pensi alla pistola regolare o all’immobile abusivo suscettibile di sanatoria, o alla cannabis per usi terapeutici per cui astrattamente potrebbe autorizzarsi la cessione a impresa farmaceutica); trattasi di tesi che, come si vedrà (v. paragrafo 7), il legislatore ha accolto alla luce dell’inciso di cui all’art. 318 “sempre che la loro fabbricazione, uso, porto, detenzione e alienazione non costituisca reato e salvo che la fabbricazione, l'uso, il porto, la detenzione e l'alienazione possano essere consentiti mediante autorizzazione amministrativa”, ma come si dirà l’inciso è disarmonico rispetto al resto delle previsioni.
Il sequestro così detto impeditivo, considerato il venir meno dell’esigenza della prevenzione per il fatto stesso dello spossessamento conseguente all’apertura della liquidazione giudiziale, recede rispetto alla procedura fallimentare, come si legge nella richiamata sentenza nei casi in cui “il carattere "preventivo" finisca per coincidere con la finalità di impedire la dispersione delle garanzie patrimoniali cui è preordinato il sequestro conservativo, misura che essendo naturalmente anticipatoria rispetto ad una azione esecutiva individuale nei confronti dell'obbligato da delitto, ricade, in ipotesi di fallimento, nella generale inibitoria di cui all'art. 51 legge fall., con conseguente inefficacia nei confronti della massa patrimoniale”.
Il principio di diritto affermato con la sentenza Sajeva è stato sostanzialmente ribadito, con alcuni distinguo, dalle Sezioni Unite Focarelli 2004, che hanno affermato: “È legittimo il sequestro preventivo, funzionale alla confisca facoltativa, di beni provento di attività illecita e appartenenti ad un'impresa dichiarata fallita, nei cui confronti sia instaurata la relativa procedura concorsuale, a condizione che il giudice, nell'esercizio del suo potere discrezionale, dia motivatamente conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare”.
In ordine alle altre tipologie di sequestro le Sezioni Unite hanno precisato in motivazione che: “a) il sequestro probatorio può legittimamente essere disposto su beni già appresi al fallimento e, se anteriore alla dichiarazione di fallimento, conserva la propria efficacia anche in seguito alla sopravvenuta apertura della procedura concorsuale, trattandosi di una misura strumentale alle esigenze processuali, che persegue il superiore interesse della ricerca della verità nel procedimento penale; b) il sequestro conservativo previsto dall'art. 316 cod. proc. pen., in quanto strumentale e prodromico ad una esecuzione individuale nei confronti del debitore ex delicto, rientra, in caso di fallimento dell'obbligato, nell'area di operatività del divieto di cui all'art. 51 l. fall., secondo cui dal giorno della dichiarazione di fallimento nessuna azione individuale esecutiva può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento; c) il sequestro preventivo c.d. impeditivo, previsto dall'art. 321 comma 1 cod. proc. pen., di beni appartenenti ad un'impresa dichiarata fallita è legittimo, a condizione che il giudice, nel discrezionale giudizio sulla pericolosità della res, operi una valutazione di bilanciamento del motivo di cautela e delle ragioni attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori, anche attraverso la considerazione dello svolgimento in concreto della procedura concorsuale; d) il sequestro preventivo avente ad oggetto un bene confiscabile in via obbligatoria deve ritenersi assolutamente insensibile alla procedura fallimentare, prevalendo l'esigenza di inibire l'utilizzazione di un bene intrinsecamente e oggettivamente "pericoloso" in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato).[8]
Le Sezioni unite Uniland S.p.a. 2014 hanno mutato orientamento affrontando la questione del sequestro per equivalente con riferimento alla responsabilità dell’ente. Oltre ad affermare la mancanza di legittimazione del curatore fallimentare a proporre impugnazione avverso il provvedimento di sequestro preventivo funzionale alla confisca dei beni della società fallita, le richiamate Sezioni unite, hanno affermato che “In tema di responsabilità da reato degli enti, la confisca per equivalente, in quanto sanzione principale ed autonoma, è obbligatoria, al pari di quella diretta, atteso che il ricorso da parte del legislatore, nel secondo comma dell'art. 19 D.Lgs. n. 231 del 2001, alla locuzione "può", non esprime l'intenzione di riconoscere ad essa natura facoltativa, ma la volontà di vincolare il dovere del giudice di procedervi alla previa verifica dell'impossibilità di provvedere alla confisca diretta del profitto del reato e dell'effettiva corrispondenza del valore dei beni oggetto di ablazione al valore di detto profitto”. (Sez. U, n. 11170 del 25/09/2014, dep. 2015, Uniland S.p.a.)
Le Sezioni unite Mantovani Petroli S.r.l. in liquidazione 2019 hanno infine chiarito che “non ha senso distinguere in ordine a principi di priorità temporale[9] in quanto come disposto dall'art. 42, comma 1, legge fall. (disposizione trasposta all’articolo 152 CCI), «la sentenza che dichiara il fallimento priva dalla sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento». La disponibilità di tali beni, da quel momento, si trasferisce dal fallito agli organi della procedura fallimentare. Di essi, il curatore è incaricato dell'amministrazione della massa attiva nella prospettiva della conservazione della stessa ai fini della tutela dell'interesse dei creditori, come indiscutibilmente affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, n. 17749 del 17/12/2018, dep. 2019, Casa di cura Trusso s.p.a., Rv. 275453; Sez. 5, n. 48804 del 09/10/2013, Fallimento Infrastrutture e Servizi, Rv. 257553); ed in questa veste, l'art. 43 legge fall. gli attribuisce la rappresentanza in giudizio dei rapporti di diritto patrimoniale compresi nel fallimento (Sez. 2 civ., n. 11737 del 15/05/2013, Rv. 626734)”.
La giurisprudenza civile si colloca sulla stessa lunghezza d’onda della giurisprudenza penale. Il principio affermato dalla prima Sezione civile della Corte è che “il carattere obbligatorio e sanzionatorio della confisca diretta o per equivalente del profitto dei reati tributari, prevista dall'art. 12 bis comma 1, del d.lgs. n.74 del 2000, comporta che il sequestro preventivo ad essa funzionale, benché sopravvenuto rispetto alla proposizione di una domanda di concordato preventivo, sia opponibile ai creditori, non potendo in contrario invocarsi l'art. 168 l.fall., il quale vieta l'inizio delle azioni cautelari in costanza di procedura, posto che una siffatta inibizione non sussiste per la potestà cautelare che lo Stato esercita, non a tutela del suo credito, bensì nell'interesse alla repressione dei reati”. (Sentenza n. 24326 del 03/11/2020). La prevalenza del sequestro preventivo funzionale alla confisca obbligatoria diretta e per equivalente è giustificato dalla prima Sezione civile in base all’argomento che “trattasi, senz'altro, di principi convincenti, tenuto conto, da un lato, che l'elaborazione giurisprudenziale consolidatasi alla luce dei criteri (da considerarsi generali) espressi dal cd. codice antimafia spinge per la netta prevalenza delle ragioni pubblicistiche sottese alle procedure di sequestro finalizzate alla confisca”, insomma un obiter dictum.
5. Le ragioni pubblicistiche sottese alla prevalenza della misura patrimoniale finalizzata alla confisca.
Ma quali sono le ragioni pubblicistiche sottese alla scelta della prevalenza?
La risposta che si trae dalla giurisprudenza di legittimità è che la ragione pubblicistica va individuato nell’interesse penale sanzionatorio preventivo – repressivo.
Ma come si realizza l’interesse pubblicistico considerato che ai creditori concorsuali è comunque riconosciuto il diritto a insinuarsi ai sensi degli articoli 52 d.lgs n. 159/2011, per far accertare il credito e la buona fede nell’ambito del procedimento di prevenzione o nell’ambito del procedimento ex art. 12 bis d.lgs. n. 74/2000 ?
Come scrive il Giorgio Costantino “Se il reo o l’autore dell’illecito viene privato della disponibilità dei beni, mediante il pignoramento o lo spossessamento conseguente all’apertura della liquidazione giudiziale, la questione consiste nello stabilire chi ha il potere di gestire i beni e di liquidarli e chi è competente a verificare i crediti e la sussistenza della buona fede dei creditori. La questione riguarda, pertanto, i rapporti tra giudici penali e giudici civili. Al fondo del problema, questi sono soltanto gli interessi in gioco. Nonostante l’enfasi con la quale è affrontato il problema, questo appare di basso profilo: si tratta di stabilire chi ha il potere di gestire i beni in pendenza del sequestro ovvero di nominare i professionisti che se ne occupano. Dopo l’apertura della liquidazione giudiziale, come dopo la dichiarazione di fallimento, non sembra assumano rilevanza le «esigenze pubblicistiche penali», pur richiamate dalla giurisprudenza, anche civile ed amministrativa: l’autore dell’illecito è stato spossessato e i creditori di mala fede non possono essere soddisfatti[10].
Se il problema è tutto nell’accertamento della buona fede, perché detto accertamento non potrebbe essere svolto dal giudice fallimentare (rectius giudice della liquidazione giudiziale)? L’accertamento della buona fede è poca cosa da aggiungere all’accertamento ben più complesso demandato al giudice delegato nella sede propria della liquidazione giudiziale.
Vale la pena rinunciare a svolgere la liquidazione nella sede propria, con collaudati programmi di liquidazione, disciplina specifica per le vendite e istituti vari finalizzati al salvataggio degli asset produttivi, solo ai fini di far accertare le buona fede al giudice penale?
A ciò si aggiungano, da porre sul piatto della bilancia dei pro e dei contra, i tempi di attesa della definitività della confisca che condizionano l’accesso alla fase della liquidazione.
5.1. La falcidia dei crediti.
All’irragionevole durata della liquidazione si aggiunge poi la falcidia dei crediti.
Nel procedimento accessorio della prevenzione i creditori ammessi, dunque in buona fede, sono infatti soddisfatti nella misura del 60%, come prevede l’art. 53 D.lgs. n. 159/2011.
Si tratta di disposizione irragionevole, in termini della disparità di trattamento. La falcidia del 40% dipende infatti esclusivamente da una qualità del debitore, qualità non nota ai creditori in buona fede nel momento in cui hanno avuto con quel debitore rapporti commerciali[11].
La falcidia assume effetti sanzionatori, nei termini definiti dalla CEDU, non giustificati dall’accertamento di condotte oggetto di disapprovazione.
6. Profili di criticità dell’art. 317 del Codice della crisi e dell’insolvenza.
Rispetto al testo licenziato dalla commissione Rordorf nel dicembre del 2017 che, in applicazione dei principi esposti, proponeva un coordinamento delle misure patrimoniali penali e della liquidazione giudiziale che tenesse conto degli obiettivi di salvataggio della procedura di liquidazione giudiziale e, conseguentemente, aveva articolato lo schema di legge nel senso della prevalenza della misura penale solo con riferimento ai beni dei quali, per espressa disposizione normativa, fosse vietata e non autorizzabile la vendita o la detenzione, nonché ai beni non suscettibili di liquidazione[12] in sede di approvazione, si è fatto un passo indietro.
È stato inserito l’art. 317 rubricato “Principio di prevalenza delle misure cautelari reali e tutela dei terzi”. L’art. 317 prevede che le condizioni e i criteri di prevalenza, rispetto alla gestione concorsuale, delle misure cautelari reali sulle cose indicate dall'articolo 142 CCI siano regolate dalle disposizioni del Libro I, titolo IV del decreto legislativo n. 159/2011, salvo quanto previsto dagli articoli 318, 319 e 320. In realtà, il riferimento significativo in termini di deroga al principio generale, riguarda solo l’articolo 318, essendo l’art. 319 mera esplicazione dell’art. 150 CCI, trasposizione dell’art. 51 della legge fallimentare. Pacifico, d’altro canto, anche senza tale norma il divieto di sequestri conservativi, come già nelle vigenza del Regio decreto senza necessità di alcuna specifica previsione. Il sequestro conservativo è infatti una di quelle azioni prodromiche alle esecuzioni sottesa a pretese private che possono trovare soddisfazione solo attraverso l’insinuazione allo stato passivo, misura che dunque nulla ha a che vedere con il sequestro ex art. 321 cod. proc. pen., quanto piuttosto è misura cautelare civile disciplinata dall’art. 316 cod. proc. pen. (v. paragrafo 2).
La tecnica adottata dal legislatore nella stesura dell’art. 317 CCI è quella del rinvio, il che rende particolarmente ostica l’interpretazione della norma se non addirittura la lettura della stessa.
È significativo della mancata focalizzazione dell’obiettivo satisfattivo della procedura esecutiva concorsuale, che per riferirsi alla prevalenza sia utilizzato il termine gestione concorsuale (mutuato letteralmente dalla legge delega) mentre sarebbe stato meglio utilizzare la dizione liquidazione giudiziale, visto che con il richiamo all’articolo 142 CCI si fa riferimento alla liquidazione giudiziale.
Il riferimento alla gestione anziché alla liquidazione svela l’attenzione eccentrica all’amministrazione dei beni sottoposti a vincolo da parte del legislatore delegato, piuttosto che all’aspetto del salvataggio degli asset produttivi o alla cessione per finalità satisfattive. D’altro canto anche nella sentenza delle Sezioni Unite Mantovana Petroli S.r.l. in liquidazione si fa riferimento all’amministrazione e alla conservazione.
Trattasi di plastica dimostrazione della sottovalutazione della finalità della liquidazione giudiziale.
Per le condizioni e i criteri di prevalenza il rinvio è all’articolo 63 d.lgs. n.158/2011, rubricato “Dichiarazione di fallimento successiva al sequestro”, e all’articolo 64 d.lgs. n.158/2011, rubricato “Dichiarazione di fallimento successiva al sequestro”. Sono questi gli articoli in che, attraverso il richiamo al Libro I, titolo IV del Testo unico antimafia, integrano la disposizione di cui al primo comma dell’art. 317 CCI.
In realtà non sono contenute in detti articoli disposizioni che stabiliscono “criteri e condizioni di prevalenza” ma semplicemente è ivi stabilita la prevalenza delle misure di prevenzione nonché la modalità di passaggio della massa attiva dalla procedura esecutiva concorsuale alla prevenzione.
L’art. 65 d.lgs. n. 158/2011 regola invece il controllo giudiziale, che non è una misura patrimoniale che realizza un vincolo sulla res, dando prevalenza alla liquidazione giudiziale. Con riguardo a detto articolo il richiamo al Libro I, titolo IV del Testo unico antimafia è dunque in eccesso.
Il secondo comma dell’art. 317 del Codice della crisi contiene la definizione di misure cautelari reali. Si legge nell’articolo “per misure cautelari reali di cui al comma 1 si intendono i sequestri delle cose di cui è consentita la confisca disposti ai sensi dell'articolo 321, comma 2, cod. proc. pen., la cui attuazione è disciplinata dall' articolo 104 bis norme di att. coor. e trans. del cod. proc. pen.”
L’articolo 104 bis disp att. cod. proc. pen. si riferisce all’amministrazione dei beni sottoposti a “sequestro preventivo” e “a sequestro e confisca in casi particolari” ovvero ai sequestri di aziende, società e beni di cui sia necessario assicurare l’amministrazione. Trattasi di articolo introdotto dalla legge n. 94/2009 e modificato dal d.lgs. n. 21 /2018. L’amministratore è nominato ai fini della gestione dei beni, come è fisiologico che sia, trattandosi di misura finalizzata a spossessare per ragioni preventivo- repressive l’autore del reato o dei traffici delittuosi.
Il richiamo all’art. 104 bis disp att. cod. proc. pen è senz’altro insoddisfacente a definire la misura cautelare penale e ciò anche a voler tener conto del rinvio all’art. 240 bis cod. pen., relativo sempre all’amministrazione, o al d.lgs. n. 159/2011.
La definizione comunque fa riferimento all’oggetto e non alle ragioni del sequestro che prevalgono sulla liquidazione giudiziale.
6.1. L’incomprensibile dissonanza dei commi quarto e quinto dell’articolo 63 d.lgs. n. 159/2011, un refuso?
Per effetto del rinvio al Libro I, titolo IV del Testo unico antimafia si riverbera sull’art. 317 l’antinomia contenuta ai commi quarto e quinto dell’art. 63 d.lgs. n. 159/2011.
Il comma quarto stabilisce che “Quando viene dichiarato il fallimento, i beni assoggettati a sequestro o confisca sono esclusi dalla massa attiva fallimentare. La verifica dei crediti e dei diritti inerenti ai rapporti relativi ai suddetti beni viene svolta dal giudice delegato del tribunale di prevenzione nell'ambito del procedimento di cui agli articoli 52 e seguenti”.
Il comma quinto stabilisce che “Nel caso di cui al comma 4, il giudice delegato al fallimento provvede all'accertamento del passivo e dei diritti dei terzi nelle forme degli articoli 92 e seguenti del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 , verificando altresì, anche con riferimento ai rapporti relativi ai beni sottoposti a sequestro, la sussistenza delle condizioni di cui all’articolo 52, comma 1, lettere b), c) e d) e comma 3 del presente decreto.”
Non si comprende il senso del riferimento al giudice delegato al fallimento, al quinto comma, quando al quarto comma, cui il quinto rinvia, il riferimento è al giudice delegato del tribunale della prevenzione. Giudice delegato della prevenzione o il giudice delegato della procedura concorsuale?
Le due disposizioni si negano a vicenda. Nella prassi si intende come non scritto il riferimento al giudice delegato al fallimento. Si tratta di un refuso che nello schema licenziato dalla commissione Rordorf nel dicembre del 2017 si era tentato di correggere.
7. L’articolo 318. La prevalenza della liquidazione giudiziale, aperta ai sensi dell'art. 49 CCI, sul sequestro impeditivo.
L’articolo 318 coordina la liquidazione giudiziale con il sequestro preventivo di cui all’art. 321 cod. proc. pen. Trattasi di disciplina in deroga al principio di prevalenza delle misure penali sancito all’art. 317, che gode di migliore intellegibilità e coordinazione della previsione generale.
Nel complesso il combinato disposto degli articoli 317 e 318 non realizza un chiaro coordinamento tra misure patrimoniali penali e liquidazione giudiziale in quanto non chiarisce il regime di prevalenza in relazione all’oggetto.
Ma andiamo per ordine. Il primo comma dell’articolo 318 stabilisce il principio della prevalenza del sequestro preventivo ex art. 321, comma primo, cod. proc. pen. sui beni oggetto della procedura esecutiva concorsuale ovvero i beni di cui all’art. 142 CCI - dai quali vanno esclusi i beni che non possono essere appresi ex art. 146[13] e beni non suscettibili di liquidazione-. La prevalenza è insensibile a principi di priorità temporale.
Il sequestro non può essere disposto sui beni di cui all’art. 142 CCI quando la procedura è aperta e se disposto prima deve essere revocato quando è aperta la liquidazione giudiziale.
Il primo comma dell’art. 318 prevede infatti che non può essere disposto sequestro preventivo sulle cose di cui all'articolo 142 CCI e il secondo comma dell’art. 318 prevede che quando viene disposto il sequestro preventivo, ed è dichiarata l'apertura di liquidazione giudiziale sulle medesime cose, il giudice è tenuto a revocare il decreto di sequestro e disporre la restituzione delle cose alla procedura di liquidazione.
La prevalenza riguarda le cose per cui fabbricazione, uso, porto, detenzione e alienazione non costituisca reato ma, in applicazione del principio di cui all’art. 2740 cod. civ., viene dato spazio alla possibilità di “sanatoria” e così, ai fini della massima redditività della liquidazione giudiziale, la prevalenza vale anche con riferimento a beni a detenzione e alienazione vietata quanto sia possibile ottenere un’autorizzazione amministrativa che renda lecita la detenzione e quindi l’alienazione.
L’inciso di cui al primo comma ultima parte dell’art. 318 è infatti “salvo che la fabbricazione, l'uso, il porto, la detenzione e l'alienazione possano essere consentiti mediante autorizzazione amministrativa”.
L’eccezione dell’autorizzazione amministrativa rende ancora più complessa la definizione di misura cautelare penale, formulata attraverso il richiamo all’art. 104 bis disp att. cod. proc. pen., destinata a prevalere sulla liquidazione giudiziale.
7.1. I flussi informativi tra giudice penale e giudice delegato.
A parte le criticità che sono state evidenziate, ma che riguardano innanzitutto l’articolo 317, il coordinamento ha il pregio di aver disciplinato i flussi informativi tra Uffici penali e Uffici della liquidazione giudiziale prima lasciati alla buona volontà degli organi delle procedure. Si tratta di flussi informativi destinati a semplificare i passaggi dei beni, agevolare la trasformazione dei vincoli e limitare i contrasti.
7.2. Il ruolo del curatore.
Il codice della crisi riconosce al curatore un ruolo fondamentale nell’ambito del coordinamento tra misure patrimoniali penali e liquidazione giudiziale.
È infatti riconosciuta al curatore la legittimazione a chiedere al giudice penale la revoca del sequestro penale quando viene aperta la liquidazione giudiziale.
Il curatore è tenuto altresì ad informare l’autorità penale del venir meno – per qualsiasi causa del vincolo derivante dall’apertura della liquidazione giudiziale affinché il sequestro riprenda efficacia.
Si tratta di compiti i quali costituiscono diretta manifestazione della legittimazione a svolgere azioni recuperatorie dell’attivo ovvero esercizio di facoltà collegata alle previsioni di cui agli artt. 142, 143 e 347 CCI, di cui anche l’art. 320 CCI, sulla legittimazione del curatore, è espressione.
L' articolo 318 al comma 1, prevede infatti che su richiesta del curatore il giudice revochi il decreto di sequestro e disponga la restituzione delle cose in favore della massa[14].
Sono posti in capo al curatore obblighi di comunicazione. Al terzo comma dell’art. 321 è previsto infatti che il curatore comunichi all’autorità giudiziaria che aveva disposto o richiesto il sequestro, il provvedimento di revoca o chiusura della liquidazione giudiziale, nonché l'elenco delle cose non liquidate e già sottoposte a sequestro.
È rimesso infine al curatore il compito di provvedere alla cancellazione delle iscrizioni e trascrizioni decorsi novanta giorni dalla comunicazione di cui al primo periodo.
La previsione, in tale occasione anche della comunicazione “della dichiarazione dello stato di insolvenza e di apertura della procedura della liquidazione giudiziale” è un chiaro refuso dovuto all’accorpamento, in fase di approvazione finale dell’articolato licenziato dalla commissione Rordorf, di disposizioni scritte nell’ambito di un più ampio articolato.
Il curatore, se deve comunicare la chiusura della procedura concorsuale, ha senz’altro già comunicato l’apertura della stessa. Le comunicazioni di cui al terzo comma si riferiscono infatti a quelle che il curatore è tenuto ad effettuare in relazione a vicende successive alla revoca del sequestro e che riguardano i beni acquisti alla massa in ragione dell’apertura della liquidazione giudiziale.
8. Il sequestro ai danni dell’ente ex art. 53 d.lgs. n. 231/2001.
L’articolo 318, come licenziato dalla commissione Rordorf, al primo comma, richiamava non solo il sequestro per equivalente e il sequestro di beni a confisca obbligatoria, ma anche il sequestro disposto ai sensi dell’art. 53 d.lgs. n. 231/2001.
Secondo la previsione proposta con lo schema la liquidazione giudiziale prevaleva su detto sequestro. Il silenzio del legislatore delegato e la natura di norma generale della previsione di cui al primo comma dell’art. 317 conduce a ritenere che con il silenzio serbato a seguito dell’eliminazione di quanto previsto nello schema Rordorf si sia voluto ricondurre il sequestro di cui all’art. 53 d.lgs. n. 231/2001 nello schema delle misure patrimoniali prevalenti.
Il sequestro di cui all’art. 53 d.lgs. n. 231/2001, e quello relativo alla confisca di cui all’art. 19 decreto legislativo n. 231/2001 riguarda il prezzo e il profitto del reato nonché la confisca per equivalente. Valgono, con riferimento a detto sequestro, le considerazione svolte a paragrafo 3. A ciò si aggiunga, per sottolineare l’antinomia riscontrata, che l’articolo 27, secondo comma, d.lgs. n. 231/2001 riconosce ai crediti dello Stato derivanti dagli illeciti amministrativi dell’ente il privilegio secondo le disposizioni del codice di procedura penale sui crediti dipendenti dal reato. La prevalenza della misura penale non è coerente con il sistema. Da un lato, per espressa disposizione di legge il credito gode solo di privilegio e dall’altro la prevalenza della misura penale determina l’ablazione del patrimonio in danno della massa, con effetti sanzionatori che ricadono sui debitori.
9. La legittimazione del curatore.
Corona la disciplina in tema di coordinamento la previsione di cui all’art. 320 rubricato “Legittimazione del curatore” che prevede che contro il decreto di sequestro e le ordinanze in materia di sequestro il curatore può proporre richiesta di riesame e appello nei casi, nei termini e con le modalità previsti dal codice di procedura penale. Nei predetti termini e modalità il curatore è legittimato a proporre impugnazione contro i provvedimenti dell’autorità giudiziaria penale.
Trattasi di disposizione avente natura di interpretazione autentica non collegata ad alcuna modifica normativa[15] – la previsione di cui all’art. 318 manifestazione di tale legittimazione e non viceversa - sono infatti rimaste le disposizioni di cui agli artt. 42, 43 e 240 legge fall. solo trasposte agli artt. 142, 143 e 347 CCI che fondavano l’affermazione anche prima di detta codificazione della legittimazione del curatore come peraltro affermato pacificamente dalla giurisprudenza di legittimità sino alle Sezioni unite Uniland S.p.a. e poi successivamente.
La circostanza che la disposizione entrerà in vigore il 16 maggio 2022 non rileva in ordine all’immediata applicazione della stessa.
L’espressa enunciazione del potere del curatore di agire in giudizio contro provvedimenti cautelari, lesivi della garanzia patrimoniale dei creditori è stata introdotta per “correggere” l’affermazione delle Sezioni unite Uniland S.p.a., che aveva relegato il curatore alla figura di “soggetto terzo rispetto al procedimento cautelare”, “soggetto senza titolo rispetto ai beni in sequestro, senza potere di azione e di rappresentanza dei creditori” e sostanzialmente ribadire quanto già affermato dalla Sezioni Unite Focarelli dal tempo della sentenza Sajeva 2004 [16].
10. Conclusioni.
In sintesi la disciplina in materia di coordinamento tra liquidazione giudiziale, aperta ai sensi dell'art. 49 CCI, e misure patrimoniali penali di cui agli artt. 318, 319 e 320 del codice della crisi offre soluzioni scarse e come si è visto di non agevole interpretazione.
L’osticità di lettura dell’art. 317, sulla sub valenza della liquidazione giudiziale, nonché le questione del coordinamento con l’art. 318, sulla prevalenza della liquidazione giudiziale, costituiscono la plastica rappresentazione, ahimè codificata, del contrasto tra i sostenitori della prevalenza dell’interesse alla repressione penale - che si attua come ha scritto G. Costantino con l’assegnazione delle decisioni al giudice penale - e i sostenitori della prevalenza degli interessi dei soggetti coinvolti nell’insolvenza, agli interessi dell’imprenditoria italiana e, attraverso i passaggi dei quali si è fatto cenno in questo breve saggio, dell’efficienza della risposta di giustizia con danno finale della competitività dell’Italia.
Il ceto creditorio coinvolto nelle procedure concorsuali è per il 60% composto da imprenditori commerciali. Su tale ceto si ripercuote l’irragionevole durata delle procedure esecutive e la scarsa misura di soddisfazione finale delle loro pretese e ciò senz’altro si riverbera nelle scelte commerciali degli imprenditori esteri.
La disciplina introdotta al titolo VIII del codice della crisi, sotto altro profilo è senz’altro apprezzabile quanto alla regolazione introdotta all’art. 318, al chiarimento in ordine alla legittimazione del curatore in coerenza con i principi di sistema [17] e all’introduzioni delle disposizioni in tema di revoca del sequestro e dei flussi informativi.
[1] Nella relazione alla legge di attuazione si legge: “Il tenore letterale della disposizione avrebbe consentito due possibili soluzioni: 1) il mero coordinamento fra normativa in tema di misure di prevenzione e liquidazione giudiziale, imponendo la prevalenza delle misure adottate nel procedimento di prevenzione rispetto alla normale attività di liquidazione giudiziale, in tal caso intendendo il riferimento alle “misure cautelari adottate in sede penale” in senso atecnico, atteso che i sequestri di prevenzione non sono annoverabili tra le misure cautelari adottate in sede penale; 2) la disciplina del rapporto fra misure cautelari penali in senso proprio, sequestri preventivi e conservativi, e procedure concorsuali secondo il sistema delineato dal decreto legislativo 6 settembre 2011, n.159. Così inteso, il coordinamento consiste nello stabilire condizioni e criteri di prevalenza non dissimili da quelle dettate dal citato decreto legislativo, sul presupposto che i sequestri penali e di prevenzione abbiano una funzione comune, quella di assicurare nell’ambito dei procedimenti in cui si inseriscono l’ablazione finale del bene e dunque la sua confisca”.
[2] Sul punto V. Sezioni Unite Focarelli 2004.
[3]Alla luce della lettura delle disposizioni di cui agli artt. 42, 43 e 240 L.fall, ora trasposte agli artt. 152, 153 e 347 CCI , non si ritiene condivisibile l’affermazione secondo cui “ il fatto che il legislatore abbia ritenuto di dover conferire al curatore tale facoltà confermi la mancanza della stessa nell'attuale assetto normativo” (Sez. 2, n. 27262 del 16/04/2019, Fallimento Eurocoop s.coop., Rv. 276284) in quanto la norma ha portata interpretativa ed è stata introdotta con lo specifico scopo di chiarire l’ambito dei poteri e della legittimazione del curatore fallimentare.
[4] V. V Sezione, Sajeva 2003 e poi Sezioni unite Focarelli 2004.
[5] Si tratta di legittimazione esclusa dalle Sezioni unite Uniland S.p.a. 2014 senza adeguata considerazione circa le finalità recuperatorie che devono orientare l’agire e quindi il potere del curatore ai fini della concreta realizzazione della previsione di cui all’art. 42, manifestazione del medesimo potere riconosciutogli ex art. 43 e all’art. 240 l. fall. (347 CCI). Si legga Cerqua F. Le Sezioni Unite precisano i rapporti tra il sequestro preventivo a carico degli enti ed il fallimento, in Il fallim.2016, 179; Romano E., Confisca e tutela dei terzi: tra buona fede e colpevole affidamento, Cass. Pen. 2016, 2894; Bontempelli M, Sequestro preventivo a carico della società fallita, tutela dei creditori di buona fede e prerogative del curatore, Archivio penale, 2015, 2894; Alesci T, Il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione contro il provvedimento di sequestro adottato sulla base dell'art. 19 del D.lgs. 231/2001., in Processo penale e giustizia, 2015, 41; Bianchi D., Automatismi nel meccanismo sequestro-confisca ex D.Lgs. n.231/01 e ricadute problematiche sulla procedura fallimentare, in G.I 2015,1995.
[6] I frutti che l'imprenditore si procura attraverso attività criminose e, in particolare, mediante truffe contrattuali, pur provenendogli per effetto di negozio concluso con induzione in errore o mediante dolo e, quindi, soggetti ad annullabilità per vizi di consenso, ugualmente entrano a far parte del patrimonio del fallito e ad esso fanno capo fino all'esito positivo di una eventuale azione di annullamento da intentarsi ad opera del deceptus. Una volta fatto ingresso nel patrimonio del fallito, tali beni diventano cespiti sui quali i creditori possono pretendere di soddisfare le proprie ragioni, con la conseguenza ulteriore — si è pure affermato — che le eventuali sottrazioni operate su di essi configurano, in caso di dichiarazione di fallimento dell'imprenditore, il reato di bancarotta per distrazione (cfr. fra le altre, Cass., Sez. III, 28 febbraio 1992, Duval, nonchè, più di recente, e sia pure con riferimento ad una ipotesi particolare, Cass., Sez. V, 22 marzo 1999, Di Maio) Il reato di bancarotta fraudolenta, invero, non è escluso dal fatto che i beni distratti siano pervenuti alla società, poi dichiarata fallita, con sistemi illeciti, come ad esempio mediante truffe o appropriazioni indebite, atteso che il patrimonio di una società deve ritenersi costituito anche dal prodotto di attività illecite realizzate dagli amministratori in nome e per conto della medesima ( Sez. V Sentenza n. 37525/2020, Morandi). Tutta la disciplina delle misure di prevenzione patrimoniali, nonché delle misure interdittive indica il contrario. Pecunia olet ogniqualvolta il preposto non possa dimostrare la provenienza della ricchezza. Il sequestro per equivalente impone di valutare le fonti della ricchezza.
[7] Filippi P. Il sequestro penale di beni del fallito” nota a sentenza della Corte di Cassazione 3.6.2003, n. 24160 , in Il Fallimento, 2004, 12,1365
[8] Sez. U, Sentenza n. 29951 del 24/05/2004, Focarelli. La richiamata giurisprudenza superava l’affermazione secondo cui Quanto al sequestro preventivo finalizzato alla confisca di somme di denaro che costituiscono "profitto del reato". L’affermazione costante è nel senso che tale sequestro è ammesso sia quando la somma si identifichi in quella acquisita attraverso l'attività criminosa sia quando sussistano indizi per i quali il denaro di provenienza illecita sia stato depositato in banca ovvero investito in titoli, trattandosi di assicurare ciò che proviene dal reato e che si è cercato di occultare (vedi Cass., Sez. 6^, 25 marzo 2003, n. 23773, Madaffari). È evidente, a tal proposito, che la fungibilità del denaro e la sua funzione di mezzo di pagamento non impone che il sequestro debba necessariamente colpire le medesime specie monetarie illegalmente percepite, bensì la somma corrispondente al loro valore nominale, ovunque sia stata rinvenuta, purché sia attribuibile all'indagato (vedi Cass., Sez. 6^, 1 febbraio 1995, n. 4289, Carullo). Deve pur sempre sussistere, comunque, il rapporto pertinenziale, quale relazione diretta, attuale e strumentale, tra il danaro sequestrato ed il reato del quale costituisce il profitto illecito (utilità creata, trasformata od acquisita proprio mediante la realizzazione della condotta criminosa). In particolare, in relazione agli illeciti fiscali, devono escludersi collegamenti esclusivamente congetturali, che potrebbero condurre all'aberrante conclusione di ritenere in ogni caso e comunque legittimo il sequestro del patrimonio di qualsiasi soggetto venga indiziato di illeciti tributari. Il sequestro diretto nella specie si trattava di un sequestro, funzionale alla confisca diretta del profitto del reato, che attingeva beni non costituenti tale profitto e già nella disponibilità della procedura fallimentare. Conf. Sez. un., 24 maggio 2004, curatela fall. in proc. Romagnoli, non massimata sul punto.
[9] Questa sostanziale limitazione dell'operatività del principio, stabilito con la sentenza Uniland, ai casi nei quali la dichiarazione di fallimento sia successiva al sequestro, è stata successivamente confermata in base alla considerazione per la quale il fallimento non determina una successione a titolo particolare della curatela nei diritti del fallito (Sez. 3, n. 28090 del 16/05/2017, Falcone). Ma le conclusioni della sentenza Amista, nella parte in cui risultano ammissive della legittimazione del curatore all'impugnazione là dove il sequestro sia invece successivo alla dichiarazione di fallimento, hanno trovato positiva affermazione nell'esclusione della possibilità di eseguire il sequestro su beni appartenenti alla massa fallimentare, e quindi in una situazione cronologica di posteriorità rispetto alla dichiarazione di fallimento, in quanto sui beni che si trovano in questa condizione si è ormai costituito un potere di fatto della curatela (Sez. 3, n. 45574 del 29/05/2018, Evangelista)
[10] Giorgio Costantino Misure di prevenzione patrimoniali e procedure concorsuali (Relazione all’incontro «Processo penale e processo civile», Roma Tre, 2 dicembre 2019), in Processo penale e processo civile: interferenze e questioni irrisolte, Roma, 2020, 119
[11] La ratio della presente norma sarebbe quella di assicurare allo Stato, all'esito del procedimento di confisca, un saldo positivo netto onde evitare che l'impegno dello stato fosse finalizzato esclusivamente alla soddisfazione dei creditori del preposto L. De Gennaro, N. Graziano; Sequestri penali, Misure di prevenzione e procedure concorsuali, 2018, 102, D.lgs. 12.1.2019 n. 14 art. 317, Principio di prevalenza delle misure cautelari penali e tutela dei terzi a cura di F. Grieco, Fallimento, Codice commentato; I rapporti fra misure ablatorie penali e liquidazione giudiziale nel CCII, di Salvo Leuzzi in Fall., 2019, 12, 1440
[12] Nello schema di decreto legislativo licenziato dalla commissione Rordorf il primo comma dell’articolo 318 così stabiliva “La dichiarazione di liquidazione giudiziale prevale sulla misura cautelare reale del sequestro preventivo avente ad oggetto beni di cui all’art. [142], ivi compreso il sequestro per equivalente, il sequestro di beni a confisca obbligatoria e il sequestro disposto ai sensi dell’art. 53 decreto legislativo n. 231/01”.
L’articolato proseguiva con un sistema di utilizzabilità degli atti tra una procedura e l’altra , prevedeva flussi informativi, semplificazioni a tutela dei creditori per agevolare l’accertamento dei crediti nonché un sistema di comunicazioni con riferimento agli esiti dei due procedimenti paralleli interessanti i medesimi beni.
[13] i beni non compresi nella liquidazione giudiziale sono: a) i beni e i diritti di natura strettamente personale; b) gli assegni aventi carattere alimentare, gli stipendi, le pensioni, i salari e ciò che il debitore guadagna con la sua attività, entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della sua famiglia; c) i frutti derivanti dall'usufrutto legale sui beni dei figli, i beni costituiti in fondo patrimoniale e i frutti di essi, salvo quanto è disposto dal’art. 17° l.f.; d) le cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge.
[14] Con l’entrata in vigore del codice della crisi non sarà più valida l’affermazione secondo cui la legittimazione a rihiedere la revoca è condizionata dalla previa autorizzazione del giudice delegato (Sez. 5, Sentenza n.27334/2021)
[15] Non si condivide, per le ragioni esposte la decisione della secondo cui “Il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione avverso il provvedimento di sequestro preventivo, anche per equivalente, emesso anteriormente alla dichiarazione di fallimento di un'impresa non essendo titolare di alcun diritto sui beni del fallito, né in proprio, né quale rappresentante dei creditori del fallito i quali, prima della conclusione della procedura concorsuale, non hanno alcun diritto restitutorio sui beni.” (In motivazione la Corte ha richiamato, a conferma dell'attuale assenza di legittimazione, la previsione del "nuovo codice della crisi di impresa" che, solo a decorrere dalla entrata in vigore nel 2020, attribuisce al curatore la legittimazione a proporre, nei confronti del decreto di sequestro e delle ordinanze in materia di sequestro, richiesta di riesame ed appello nonché ricorso per cassazione) (Sez. 2, Sentenza n. 27262/2019 curatela fallimento Eurocoop soc. coop. in liquidazione)
[16] Da ultimo v. Sez. 5 - , Sentenza n. 27050 del 30/04/2021, Cantile in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, è inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso per cassazione proposto dall'imputato avverso il provvedimento di confisca di uno o più beni della fallita, non potendo egli vantare alcun diritto alla restituzione. (In motivazione la Corte ha precisato che legittimato ad impugnare la misura ablatoria è il curatore fallimentare, in quanto portatore dell'interesse dei creditori alla rimozione di statuizioni incidenti sulla consistenza patrimoniale dell'attivo).
[17] “contro le ordinanze in materia di sequestro preventivo, legittimato a proporre appello, ai sensi dell'art. 322 bis cod. proc. pen., è anche il curatore del fallimento che, nell'espletamento dei compiti di amministrazione del patrimonio fallimentare, chieda la restituzione delle somme di denaro sequestrate, riferibili alla società fallita, ancorché derivanti da condotte illecite poste in essere dall'imprenditore”, (Sez. 2, sentenza n. 24160 del 16.5.2003, PM in proc. Sajeva) e quindi all’affermazione secondo cui “il curatore del fallimento, nell'espletamento dei compiti di amministrazione del patrimonio fallimentare, ha facoltà di proporre sia l'istanza di riesame del provvedimento di sequestro preventivo, sia quella di revoca della misura, ai sensi dell'art. 322 cod. proc. pen., nonché di ricorrere per cassazione ai sensi dell'art. 325 stesso codice avverso le relative ordinanze emesse dal tribunale del riesame”(Sezioni Unite, sentenza n. 29951 del 24.5.2004, proc. Focarelli). Il curatore fallimentare è legittimato a chiedere la revoca del sequestro preventivo a fini di confisca e ad impugnare i provvedimenti in materia cautelare reale (Sez. U - , Sentenza n. 45936 del 26/09/2019 fallimento Mantova Petroli S.r.l.)
In tema di reati tributari, è legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di somme di denaro appartenenti alla società fallita e assegnate ai creditori con piano di riparto dichiarato esecutivo ma non ancora eseguito, in quanto il provvedimento del giudice delegato si limita ad accertare giudizialmente la misura dei crediti aventi diritto al riparto e ad ordinarne al curatore il pagamento, ma l'effetto traslativo del denaro appartenente alla società fallita si produce solo con la materiale "traditio" delle somme. Sez. 4 - , Sentenza n. 7550 del 05/12/2018 ric. Sansone.
*Tratto dalla Relazione “I rapporti tra procedure regolatrici della crisi di impresa e misure penali patrimoniali” per il corso “Il diritto penale fallimentare e il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza” organizzato dalla formazione decentrata della Corte di cassazione il 18 maggio 2021.
Tra (dis)proporzionalità e (in)efficienza, un nuovo giudizio immediato (art. 72-bis c.p.a.) per la giustizia amministrativa
di Rosanna De Nictolis
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Presupposti e ambito. Le cause suscettibili di “immediata definizione”: solo in rito o anche in merito? solo per questioni di rito che non consentono già l’utilizzo del decreto monocratico? - 3. Rilevazione delle cause di immediata definizione. - 4. I termini del rito: rito cautelare ex art. 55 c.p.a.; applicabilità del rito camerale ex art. 87 c.p.a.? Necessità o meno dell’istanza di fissazione dell’udienza. - 5. I termini per gli atti di parte, assenza di repliche, discussione orale, rinvio della causa e termini a difesa. - 6. Il rilievo d’ufficio delle questioni di rito. - 7. La fissazione dell’udienza pubblica per le cause non definibili in rito. - 8. La decisione in forma semplificata. - 9. Conclusioni.
1. Introduzione
L’art. 72-bis c.p.a., introdotto dalla l. 6.8.2021 n. 113 in sede di conversione del d.l. 9.6.2021 n. 80, ha frettolosamente creato un nuovo rito immediato privo di adeguata ponderazione, che costituisce una sorta di obbrobrio giuridico destinato a restare, come altre norme processuali, un istituto meramente astratto, per la sua scarsissima utilità e praticabilità, oltre che sovrapposizione e contraddizione con altri istituti vigenti e collaudati.
Si prevede, in estrema sintesi, un processo in camera di consiglio, che si svolge con gli stessi termini dell’incidente cautelare, per definire con sentenza in forma semplificata le cause suscettibili di “immediata definizione”, ma solo “in rito”.
2. Presupposti e ambito. Le cause suscettibili di “immediata definizione”: solo in rito o anche in merito? solo per questioni di rito che non consentono già l’utilizzo del decreto monocratico?
Il presupposto operativo del nuovo rito è che vi siano ricorsi suscettibili di “immediata definizione”: un concetto giuridico del tutto indeterminato, di cui non si chiarisce la differenza o la identità con le “situazioni manifeste” descritte dall’art. 74 quali presupposto per la decisione con sentenza in forma semplificata.
Sicché il primo dubbio giuridico è se la “immediata definizione” costituisca o meno una categoria autonoma rispetto alle fattispecie dell’art. 74 c.p.a.
La risposta è che non vi è perfetta coincidenza tra le situazioni di immediata definizione ai sensi dell’art. 72-bis e le situazioni manifeste dell’art. 74 c.p.a.
Infatti l’art. 74 c.p.a. fa riferimento a situazioni manifeste sia in rito che in merito.
Invece, l’art. 72-bis, pur sembrando nel suo incipit ipotizzare che la definizione immediata possa afferire sia al rito che al merito, in realtà nella sua successiva narrazione cambia strada e fa riferimento solo alla definizione in rito. Infatti, a fronte di cause suscettibili di immediata definizione, viene fissata una udienza in camera di consiglio in cui, se si verifica che la causa “non è definibile in rito”, va fissata una ulteriore udienza pubblica. Quindi, una eventuale situazione manifesta nel merito, non può costituire il presupposto per tale tipo di giudizio immediato.
Sarebbe perciò logico attendersi che a fronte di una causa suscettibile di “immediata definizione nel merito”, essa non venga affatto fissata per un giudizio immediato camerale: perché sarebbe attività superflua, posto che la norma ordina che se la causa non è definibile in rito, occorre fissare una udienza pubblica. Sicché fissare una udienza camerale, al solo fine di fissare una successiva udienza pubblica, sarebbe un inutile dispendio di tempo e attività processuali di segreterie, giudici e difensori. Né si può pensare di dare una interpretazione diversa alla norma, nel senso che anche cause suscettibili di immediata definizione in merito potrebbero essere decise con il rito camerale: la norma letteralmente non lo consente, laddove perentoriamente afferma che “se la causa non è definibile in rito, il collegio con ordinanza fissa la data dell’udienza pubblica”, e le deroghe alle forme e ai termini dell’udienza pubblica devono essere ritenute di stretta interpretazione.
Tra le ragioni di merito di pronta definizione, e che tuttavia non ricadono nell’ambito dell’art. 72-bis c.p.a. che si riferisce solo alle definizioni in rito, rientra la cessazione della materia del contendere, che per volere dei compilatori del c.p.a., rientra tra le sentenze di merito (art. 34 c. 5 c.p.a.), e pertanto non può essere pronunciata con decreto monocratico (art. 85 c.p.a. che si riferisce solo a pronunce di rito dell’art. 35 c.p.a.).
Tra le ragioni di rito che consentono la immediata definizione in una udienza camerale, poi, vanno escluse, per evidenti ragioni di economia processuale, quelle ragioni di rito che già consentono la definizione con decreto monocratico fuori udienza.
Avuto riguardo alle pronunce di rito di cui all’art. 35 c.p.a., le ragioni di improcedibilità di cui all’art. 35, c. 1, lett. c), c.p.a., e le ragioni di estinzione di cui all’art. 35, c. 2, c.p.a., già consentono la definizione con decreto monocratico (art. 85 c.p.a.).
Per cui sarebbe del tutto dispendioso fissare una udienza collegiale.
Ancora, la stessa l. n. 113/2021, mediante novella dell’art. 79 c.p.a., ha consentito, anzi imposto, che l’interruzione del processo sia dichiarata con decreto presidenziale, quindi fuori udienza. Quindi anche l’interruzione del processo è una questione di rito che esula dall’ambito dell’art. 72-bis c.p.a., non necessitando di trattazione in udienza.
Residuano, quindi, i casi di irricevibilità e inammissibilità di cui all’art. 35, c. 1, lett. a) e b) c.p.a.
L’irricevibilità comprende i casi di tardiva notifica e di tardivo deposito del ricorso.
L’inammissibilità comprende, a titolo esemplificativo, i casi di difetto di legittimazione ad agire, difetto originario di interesse o di contraddittorio, difetto di giurisdizione, difetto di competenza,
Peraltro, non sembra esservi perfetta equivalenza tra questione di rito e immediata definizione.
Il fatto che un ricorso possa apparire irricevibile o inammissibile non significa necessariamente che la questione sia di “immediata definizione”.
Invero, il concetto di “immediata definizione” che, come si è detto, è un concetto giuridico indeterminato, rievoca casi di causa “liquida”, di “pronta definizione” perché vi sia una situazione “manifesta”, come afferma già l’art. 74 c.p.a.
Ci sono cause in cui la affermazione della irricevibilità o inammissibilità del ricorso esige la soluzione di questioni controverse, e la causa di rito è tutt’altro che manifesta.
E’ evidente che un conto è il caso, quasi del tutto di scuola, in cui il ricorso sia tardivo perché manifestamente fuori termine, un conto è il caso in cui per affermarsi la irricevibilità occorre affrontare complesse questioni in fatto e in diritto su quale sia l’atto lesivo e la sua data di conoscenza, al fine del decorso del termine di ricorso.
O si pensi alla questione di rito, rimessa alla Plenaria, se in materia edilizia la c.d. vicinitas sia titolo sia di legittimazione e interesse ad agire, o di sola legittimazione ad agire. Non pare che una ragione di rito di questo tipo possa integrare un caso di “immediata definizione”.
E tuttavia, tale esegesi, che parrebbe logica, di ritenere che il giudizio immediato si giustifica solo a fronte di situazioni di rito “manifeste”, appare contraddetta dallo stesso art. 72-bis c.p.a.: esso infatti prevede che all’udienza camerale, la questione di rito che non sia eccepita da una parte, viene rilevata d’ufficio e sottoposta al contraddittorio delle parti. Nel caso in cui la questione di rito sia di “particolare complessità” va concesso alle parti un termine a difesa per memorie.
Ma una questione di rito “di particolare complessità” sembra contraddire al presupposto della suscettibilità della causa di una “definizione immediata”.
Dunque la norma parrebbe dire che il giudizio immediato si deve celebrare ogni volta che vi sia una questione di rito, anche se di “particolare complessità”. Ma con tale esegesi, si pongono seri dubbi di costituzionalità dell’intero impianto dell’art. 72-bis: perché la strozzatura dei termini ordinari di fissazione dell’udienza, dei termini ordinari per il deposito di documenti, memorie e repliche, può giustificarsi, senza sacrificio del diritto di difesa, solo a fronte di situazioni manifeste, non a fronte di situazioni di “particolare complessità”.
E dunque una esegesi costituzionalmente orientata impone di ritenere che il presupposto applicativo della disposizione è che vi sia una questione di rito di pronta e agevole soluzione.
Il riferimento a questioni di “particolare complessità” va allora spiegato nel senso che una questione che all’ufficio del processo e al presidente pareva “semplice”, a seguito delle deduzioni di parte si è rivelata “complessa”.
A conclusione di tale disamina, dunque, si può affermare, quanto ai presupposti applicativi dell’art. 72-bis c.p.a., che esso ha un ambito ben più ridotto di quello cui potrebbe far pensare la sua rubrica; i casi di “immediata definizione”:
a) riguardano solo questioni di immediata definizione in rito, e non nel merito, con esclusione persino del caso di cessazione della materia del contendere (che dà luogo a una sentenza di merito e non di rito);
b) nell’ambito delle questioni di rito, riguardano solo i casi di irricevibilità e inammissibilità, e non anche gli altri motivi di rito elencati nell’art. 35 c.p.a. che consentono la definizione con decreto monocratico, e nemmeno il caso in cui occorre dichiarare l’interruzione del processo, posto che in virtù del novellato art. 79 c.p.a. la interruzione si dichiara con decreto presidenziale;
c) nell’ambito dei casi di irricevibilità e inammissibilità, si deve trattare di casi “manifesti” e non di casi in cui la irricevibilità o inammissibilità consegua a un complesso ragionamento in fatto e/o in diritto.
3. Rilevazione delle cause di immediata definizione
L’art. 72-bis introduce nel c.p.a. inediti aspetti organizzativi. Precisa infatti che l’iniziativa di fissare le cause suscettibili di immediata definizione spetta al Presidente.
Ma aggiunge, “anche a seguito della segnalazione dell’ufficio del processo”.
In tal modo, si introduce in una norma processuale un aspetto organizzativo interno, per di più facendo riferimento a una entità organizzativa, “l’ufficio del processo” di cui il codice presuppone l’esistenza senza definirlo.
Ma ciò che appare distonico è aver inserito in una norma processuale la definizione dei compiti di un ufficio interno. Nella pratica giudiziaria le cause da fissare in udienza vengono selezionate dai presidenti con l’apporto collaborativo delle segreterie, ma nessuna disposizione del c.p.a. ha mai specificato in una norma che il presidente procede anche su segnalazione delle segreterie. Si tratta di profili organizzativi interni che non hanno nessuna necessità di essere introdotti in una norma processuale.
Tanto più che l’averlo ora fatto per l’ufficio del processo, posto che le norme devono avere un significato utile, fa interrogare sulle possibili conseguenze, processuali e non, della mancata fissazione in udienza, da parte del Presidente, di cause che siano state “segnalate” dall’ufficio del processo, come suscettibili di immediata definizione.
Il che apre un tema di grandissima serietà, che è quello della idoneità professionale ed esperenziale di un ufficio del processo a individuare cause di immediata definizione, assolvendo a un compito tipicamente magistratuale di studio delle cause, che semmai andrebbe assegnato ad una sezione “filtro”, composta di giudici, come esistente in Corte di cassazione. Laddove l’ufficio del processo si compone di non magistrati, e peraltro è destinato ad essere “potenziato” (ammesso che di potenziamento possa parlarsi) con la partecipazione di neolaureati assunti a tempo determinato per non oltre 30 mesi (d.l. n. 80/2021).
E’ da ritenere che la “segnalazione dell’ufficio del processo” non escluda il vaglio critico del presidente, che ben potrà ritenere che cause segnalate non siano di immediata definizione, e dunque non fissarle in udienza.
4. I termini del rito: rito cautelare ex art. 55 c.p.a.; applicabilità del rito camerale ex art. 87 c.p.a.? Necessità o meno dell’istanza di fissazione dell’udienza
I termini del rito sono di fatto coincidenti con quelli dell’incidente cautelare, anche se l’art. 55 c.p.a. non è richiamato. I ricorsi suscettibili di immediata definizione sono fissati alla prima camera di consiglio utile, che è quella successiva al ventesimo giorno dal perfezionamento, anche per il destinatario, dell’ultima notificazione, e altresì, al decimo giorno dal deposito del ricorso. Come nel rito cautelare, le parti possono depositare memorie e documenti fino a due giorni liberi prima della camera di consiglio.
Sono dunque introdotti, per un giudizio di merito, i termini dell’incidente cautelare.
Inoltre, si deroga all’udienza pubblica e si prevede una udienza in camera di consiglio.
Il che fa interrogare sul se debbano o meno essere rispettati tutti gli altri termini previsti dall’art. 87 c.p.a. per i riti camerali.
La risposta sembra essere negativa.
Anzitutto, l’art. 87 c.p.a., pur menzionando, tra i riti camerali, anche quello cautelare, disciplina i termini solo dei riti camerali diversi da quello cautelare.
E, come si è detto, l’art. 72-bis segue il modello del rito cautelare.
In secondo luogo, l’art. 87 c.p.a. fa riferimento a riti camerali che sono tali ab initio (silenzio, accesso, ottemperanza, questioni di giurisdizione), perché ci sono norme specifiche che per determinate materie prevedono i riti camerali.
Non è questo il caso dell’art. 72-bis, che ipotizza un rito camerale ex post per qualunque materia, ove risulti che la causa sia suscettibile di immediata definizione. Sicché le parti, al momento della notifica e deposito del ricorso, non possono stabilire se si tratti di materia soggetta a rito camerale o meno.
Ciò detto, non si può escludere che i presupposti dell’art. 72-bis si verifichino in relazione a ricorsi che già ex ante seguono il rito camerale (silenzi, accessi, ottemperanze, etc.), e in tal caso ci si chiede se sia necessario fissare la causa con i tempi dell’art. 72-bis piuttosto che con quelli dell’art. 87 c.p.a.
Così come, ci si deve chiedere se l’art. 72-bis debba essere applicato se il presupposto della immediata definizione riguardi una causa in cui ci sia anche domanda cautelare, e che dunque va fissata alla prima udienza utile ex art. 55 c.p.a. coincidente esattamente con quella ex art. 72-bis. E’ da ritenere che in tale ipotesi prevalga l’art. 55 c.p.a. sull’art. 72-bis, e che quindi la causa vada fissata per la fase cautelare, e in sede cautelare ben si potrà addivenire a una sentenza immediata, nel ricorrere dei presupposti dell’art. 60 c.p.a.
Ulteriore questione che l’art. 72-bis c.p.a. fa sorgere è se i termini di cui all’art. 72-bis c.p.a. si applichino a qualsiasi causa, comprese quelle che per legge sono sottoposte a termini dimezzati (riti camerali ex art. 87 c.p.a., contenzioso elettorale, artt. 119 e 120 c.p.a.), ovvero se in tali ulteriori cause i termini dell’art. 72-bis c.p.a. debbano subire un ulteriore dimezzamento.
Sembra da ritenere, ma solo per ragioni di buon senso, e non strettamente giuridiche, che i termini dell’art. 72-bis si applichino in qualunque rito, senza ulteriori dimezzamenti. Non è tuttavia una soluzione giuridica agevole, perché l’art. 87 c.p.a., l’art. 119, l’art. 120 c.p.a. prevedono il dimezzamento di “tutti i termini processuali” e, quindi, potrebbe opinarsi, anche quelli di cui all’art. 72-bis c.p.a.
Posto che viene previsto un rito camerale, sembra applicabile anche la deroga, prevista per i riti camerali, alla necessità di una istanza di fissazione di udienza.
Quindi, sembrerebbe che la causa di immediata definizione possa essere portata in udienza anche se non c’è una istanza di fissazione di udienza. Il che pone un ulteriore problema quando il collegio ritenga che la causa non sia definibile in rito, e fissa l’udienza pubblica.
Fin qui, i dubbi di tipo giuridico che la tempistica del nuovo rito pone.
Ma si pongono ben più consistenti dubbi di agibilità pratica della previsione: essa ipotizza che le cause “nuove” man mano che sopraggiungono, possono essere fissate alla prima udienza utile, il che significa nell’arco di un mese circa dal deposito del ricorso.
Ma tale prescrizione si scontra con la realtà organizzativa concreta dai ruoli di udienza, come imposta dalle regole processuali: infatti, secondo il c.p.a., nel rito ordinario l’avviso di udienza va dato alle parti almeno sessanta giorni prima dell’udienza stessa, e nei riti speciali almeno trenta giorni prima. Il che implica che le cause vengono calendarizzate con un anticipo ben maggiore di quello ipotizzato dall’art. 72-bis c.p.a., sicché quando si verifica il presupposto applicativo dell’art. 72-bis c.p.a., i ruoli delle udienze di merito sono già pieni, e diventa non praticabile calendarizzare ulteriori cause. Tanto, avuto riguardo ai “vincoli interni” imposti dall’Organo di autogoverno, sul numero massimo di affari assegnabili ad udienza per ciascun magistrato.
Va poi considerato che in media almeno il 60% delle cause sono corredate di domanda cautelare, quindi vengono già fissate in una udienza camerale con i tempi dell’art. 55 c.p.a. coincidente con i tempi dell’art. 72-bis c.p.a.
Nel residuo 40% di affari di merito privi di domanda cautelare, il numero di cause suscettibili di immediata definizione in rito, rispetto al totale, è una percentuale del tutto esigua, che per la sua esiguità non giustifica la elaborazione di un rito specifico. Sarebbe bastato prevedere una nuova causa di priorità nella trattazione dei ricorsi, per quelli suscettibili di immediata definizione in rito. O bastava ampliare l’ambito applicativo del già vigente, e ampiamente disapplicato, art. 72 c.p.a. che prevede la fissazione prioritaria dei ricorsi “su questione unica”.
5. I termini per gli atti di parte, assenza di repliche, discussione orale, rinvio della causa e termini a difesa
Come nel rito cautelare, le parti possono depositare memorie e documenti fino a due giorni liberi prima della camera di consiglio.
Nonostante si tratti di un giudizio di merito, sembra soppressa la possibilità di depositare repliche, posto che c’è un termine unico e uguale per tutte le parti, per il deposito di memorie e documenti. E se tale deposito avviene a ridosso dell’ultimo momento utile, le controparti non hanno la pratica possibilità di depositare in tempo una replica.
Il contraddittorio scritto è pertanto molto strozzato, e potrà essere compensato solo dalla discussione orale o dalla possibilità di chiedere il rinvio della causa.
Quanto alla discussione orale, trattandosi di rito camerale, deve trovare applicazione l’art. 87, c. 3, c.p.a., secondo cui nella camera di consiglio sono sentiti i difensori che ne fanno richiesta.
Quanto al rinvio, viene stabilito che può essere chiesto e concesso solo per “eccezionali motivi”.
La previsione dà adito a serie perplessità sotto il profilo della tutela del contraddittorio, perché mal si concilia con la previsione dell’art. 60 c.p.a. relativo alla sentenza immediata in esito alla udienza cautelare, che incontra un limite nella esplicita richiesta di parte di termine a difesa per la proposizione di motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza, regolamento di giurisdizione.
Ci si chiede se tra gli “eccezionali motivi” i redattori dell’art. 72-bis c.p.a. abbiano o meno inteso includere il caso di richiesta di rinvio per termini a difesa per attività processuali che rientrano tra i diritti processuali delle parti.
E, invero, considerati i tempi di fissazione dell’udienza camerale di cui all’art. 72-bis c.p.a., alla data della udienza verosimilmente sono ancora in corso, nella normalità dei casi, i termini per ricorso incidentale, motivi aggiunti, regolamento di competenza e giurisdizione. Sicché, a ben vedere, la richiesta di rinvio per termini a difesa rischia di essere la regola, e non l’eccezione.
Posto che delle norme va data una interpretazione costituzionalmente orientata, si deve ritenere che tra gli eccezionali motivi che giustificano il rinvio rientrano a pieno titolo i casi di richiesta di termini a difesa, senza che il giudice possa compiere alcun vaglio prognostico sulla ammissibilità e utilità in relazione a motivi aggiunti, ricorso incidentale, etc. E’ da ritenere che basti l’istanza di parte di rinvio per tali esigenze, a rendere doveroso il rinvio.
La previsione sul rinvio per eccezionali motivi dà adito a perplessità anche di ordine formale e sistematico. I compilatori dell’art. 72-bis hanno evidentemente obliterato che essi stessi hanno contemporaneamente novellato l’art. 73 c.p.a., con l’introduzione del c. 1-bis che in termini generali ora afferma che “il rinvio della trattazione della causa è disposto solo per casi eccezionali” (che sono riportati nel verbale di udienza ovvero, se il rinvio è disposto fuori udienza, nel decreto presidenziale che dispone il rinvio).
Ci si chiede se ci sia una differenza tra gli “eccezionali motivi” dell’art. 72-bis e i “casi eccezionali” dell’art. 73, c. 1-bis. A lume di buon senso, non c’è nessuna differenza, ma ci si chiede perché due norme coeve, collocate in un medesimo articolo di legge, per disciplinare il medesimo istituto, non solo lo duplichino, ma usino termini diversi, peraltro affidandosi a concetti giuridici indeterminati.
Dunque l’art. 72-bis, ponendosi autoreferenzialmente come microsistema, non fa che clonare una previsione già introdotta in termini generali nell’art. 73 c.p.a.
Trattandosi poi di una clonazione solo parziale, resta il dubbio esegetico se anche nel caso di rinvio accordato ai sensi dell’art. 72-bis, occorra applicare la regola ulteriore, indicata nell’art. 73, c. 1-bis, che le ragioni del rinvio vanno riportare nel verbale di udienza o nel decreto presidenziale che dispone il rinvio fuori udienza. E la risposta dovrebbe essere senz’altro affermativa.
Se il rinvio è concesso, la causa va fissata secondo l’art. 72-bis c.p.a., “alla prima camera di consiglio utile successiva”. In tal caso, la prima camera di consiglio “utile” va intesa non in termini di “calendario delle udienze” come prima udienza di calendario immediatamente successiva, ma come prima udienza “utile” dopo il termine necessario per garantire le esigenze della difesa. In caso di rinvio per motivi aggiunti o ricorso incidentale, ad es., occorrerà rispettare i termini pieni del codice per notifica e deposito di motivi aggiunti o ricorso incidentale, e per il deposito delle conseguenti memorie e repliche, e la prima udienza utile sarà solo quella successiva all’espletamento pieno delle attività difensive.
Va infatti ribadito che per tali attività non vi è alcun dimezzamento di termini, se si tratta di cause che seguono il rito ordinario, perché il procedimento dell’art. 72-bis c.p.a., al di fuori dei termini stringati per la fissazione della udienza camerale, non prevede né consente in via esegetica alcun altro dimezzamento dei termini processuali assegnati alle parti.
Sulle modalità del rinvio, deve segnalarsi una ulteriore differenza foriera di dubbi esegetici tra l’art. 72-bis e l’art. 73, c. 1-bis. L’art. 72-bis si preoccupa di indicare a quando si fa il rinvio (la prima camera di consiglio utile). L’art. 73, c. 1-bis, pur ammettendo la possibilità di rinvio in casi eccezionali, nulla dice sulla data del rinvio, lasciando adito al dubbio che il rinvio possa farsi sia a data fissa che a data da destinarsi. Ma un rinvio a data da destinarsi sarebbe un aggiramento del neointrodotto divieto di cancellazione della causa dal ruolo, contenuto nel medesimo art. 73, c. 1-bis, unitamente alla regola sulla eccezionalità del rinvio. Peraltro, lo stesso divieto di cancellazione dal ruolo, è stato introdotto dimenticando che di cancellazione della causa dal ruolo continua a esistere nell’art. 71 c.p.a. Una abrogazione espressa dell’inciso contenuto nell’art. 71 c.p.a. sarebbe stato un serio contributo al dovere di chiarezza delle norme processuali.
6. Il rilievo d’ufficio delle questioni di rito
Il presupposto della “immediata definizione” della causa è, come si è detto, l’esistenza di una questione di rito, circoscritta ai casi di irricevibilità o inammissibilità del ricorso, che siano manifesti.
Nella normalità dei casi, vi sarà già una eccezione di parte.
E questo è il caso più semplice in cui la causa può essere effettivamente definita nella camera di consiglio fissata allo scopo.
Diverso è il caso in cui il presidente abbia fissato la causa alla camera di consiglio ritenendo d’ufficio che vi sia una possibilità di definizione in rito.
In questo caso, infatti, occorre assicurare il contraddittorio delle parti sulla questione di rito, in ossequio al divieto delle sentenze “a sorpresa”, divieto sotteso al già vigente art. 73 c. 3 c.p.a.
L’art. 73 c. 3 c.p.a. già prevede un meccanismo per sottoporre a contraddittorio delle parti una questione rilevata d’ufficio. Esso ipotizza la sottoposizione della questione alle parti in udienza, dando ad esse solo il contraddittorio orale, anche se nella prassi talora si consentono, nei casi più complessi, termini a difesa, dopo aver rilevato la questione in udienza. Sempre l’art. 73 c. 3 c.p.a. impone il contraddittorio scritto solo se la questione d’ufficio emerge solo dopo il passaggio della causa in decisione. In tal caso la decisione viene riservata e alle parti è assegnato un termine non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie.
Da tale meccanismo si discosta l’art. 72-bis c.p.a., prevedendo, oltre che il rilievo d’ufficio della questione in udienza, il contraddittorio scritto come obbligatorio nei casi di particolare complessità, sempre su questione rilevata in udienza. Ma con un termine inferiore a quello dell’art. 73 c. 3 c.p.a., non più trenta giorni, ma solo venti giorni. E con la precisazione che in tal caso la sola camera di consiglio decisoria (ossia la riunione dei soli giudici) è differita alla scadenza del termine assegnato, ma non occorre una nuova udienza camerale con la partecipazione delle parti.
Il meccanismo ipotizzato dall’art. 72-bis c.p.a. appare processualmente preferibile a quello ipotizzato dall’art. 73 c. 3 c.p.a.
Come si è detto, l’art. 73 c. 3 c.p.a. non prevede la possibilità di contraddittorio scritto se la questione di rito è rilevata d’ufficio in udienza: le parti sono tenute a “improvvisare” la discussione. Solo in via di prassi non scritta, nei casi più complessi il collegio assegna un termine a difesa, rinviando non solo la decisione, ma anche l’udienza. Il meccanismo di cui all’art. 73 c. 3 c.p.a. si discosta dal modello processuale contenuto nel c.p.c. all’art. 101 c. 2, c.p.c., che al contrario prevede sempre l’assegnazione di un termine a difesa anche quando la questione è rilevata d’ufficio in udienza alla presenza delle parti.
La soluzione recata dall’art. 72-bis c.p.a. appare una “via di mezzo” tra il modello dell’art. 101 c. 2 c.p.c. (contraddittorio scritto sempre), e quello dell’art. 73 c. 3 c.p.a. (contraddittorio scritto mai, se la questione è rilevata in udienza), consentendo, in una logica di bilanciamento, un solo contraddittorio orale nei casi semplici, e l’ammissione del contraddittorio scritto nei casi “di particolare complessità” della questione sollevata.
Tuttavia, non ha alcun senso far coesistere nel c.p.a. due meccanismi differenti di contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio, uno nell’art. 72-bis c.p.a. e uno nell’art. 73, c. 3 c.p.a. Bisognava semplicemente sostituire, mediante novella, la norma recata nell’art. 73 c. 3 c.p.a., anziché duplicarla.
7. La fissazione dell’udienza pubblica per le cause non definibili in rito
Dispone l’art. 72-bis c. 2 che “se la causa non è definibile in rito, il collegio con ordinanza fissa la data dell’udienza pubblica”.
Si è già osservato che da tale norma si desume che il presupposto della possibilità di “immediata definizione” della causa va circoscritto alle questioni di rito. Invece le questioni di merito, quand’anche la causa appaia nel merito “manifestamente” fondata o infondata, non giustificano la fissazione di una udienza camerale. Sarebbe un inutile dispendio di tempi e attività processuali, fissare una udienza camerale in cui il collegio dovrebbe limitarsi a rilevare che la causa va decisa nel merito, e fissare una udienza pubblica.
Ma la norma in commento ha anche un ulteriore significato, anche avuto riguardo alla sua collocazione subito dopo la previsione secondo cui la questione di rito viene sottoposta al contraddittorio delle parti.
Può accadere che il Collegio, sia autonomamente, sia dopo aver sottoposto la questione di rito al contraddittorio delle parti, si convinca che la questione di rito non sia fondata, e che la causa vada decisa nel merito.
In tal caso, il rito va convertito e la causa va trattata in udienza pubblica.
La disposizione prevede che in tale evenienza il Collegio “con ordinanza fissa la data dell’udienza pubblica”.
La prima questione che si pone, già accennata, è se l’udienza pubblica possa essere fissata anche se non c’è istanza di parte di fissazione dell’udienza.
Si è detto che nella prima fase del rito, camerale, sembra non necessaria l’istanza di fissazione dell’udienza. Ma se si converte il rito da camerale a udienza pubblica, non vi sono ragioni per derogare alla regola che occorre istanza di parte di fissazione di udienza.
Quindi, presupposto implicito della possibilità per il Collegio di fissare la data dell’udienza pubblica, è che vi sia una istanza di parte di fissazione dell’udienza.
In mancanza, l’ordinanza si dovrà limitare a ritenere la causa non definibile in rito e a rimetterla sul ruolo delle cause in attesa di fissazione.
Occorre poi interrogarsi sul contenuto di tale ordinanza: la stessa non può infatti limitarsi a fissare la data dell’udienza pubblica, dovendo invece anche dare conto del presupposto della conversione del rito da camerale a pubblico e del rinvio della trattazione. Il presupposto è che “la causa non è definibile in rito”.
Occorre chiedersi quale sia la natura e l’effetto di una ordinanza che affermi che “la causa non è definibile in rito”.
Potrebbe infatti trattarsi di una decisione “parziale” sul rito, che quindi affronta la questione di rito con attitudine al giudicato. E in tal caso, al di là del nomen iuris, si tratta di una sentenza parziale, suscettibile, se resa in primo grado, di appello immediato o di riserva di appello.
Ovvero, l’ordinanza collegiale potrebbe più genericamente limitarsi ad affermare che non ricorre una situazione manifesta per definire la causa in rito, senza pronunciarsi sulla questione di rito in modo definitivo, e rinviando ad un approfondimento nell’udienza pubblica, oltre che del merito, anche del rito.
In questo caso, l’ordinanza non decide la questione di rito, e non preclude che nella successiva udienza pubblica la causa possa avere, a seguito di maggiore approfondimento, un esito in rito invece che in merito.
La previsione dell’art. 72-bis sulla ordinanza che fissa l’udienza pubblica se il collegio ritiene che la causa non è definibile in rito, è troppo vaga e generica per consentire all’interprete di optare per una delle due soluzioni sopra viste. E siccome la realtà concreta è più complessa e variegata di quanto la norma possa immaginare e contenere, e siccome l’art. 72-bis non pregiudica in alcun modo i poteri valutativi che altre norme processuali attribuiscono al collegio, è da ritenere che entrambe le soluzioni siano praticabili. Sia quella di una sentenza parziale che respinge la questione di rito con attitudine al giudicato, e conseguente appellabilità, sia quella di una ordinanza che rinvia all’udienza pubblica la decisione sia in rito che in merito, limitandosi ad affermare che la causa non è definibile in rito con immediatezza, senza alcun pregiudizio per una decisione in rito all’esito di un esame più approfondito in udienza pubblica.
Nel primo caso, la decisione è appellabile, perché definisce la questione di rito con attitudine al giudicato.
Nel secondo caso, la decisione non è appellabile, perché non definisce la questione di rito, ma si limita ad affermare che la stessa non è di agevole definizione in udienza camerale.
8. La decisione in forma semplificata
L’art. 72-bis c.p.a. si conclude con la perentoria affermazione che “in ogni caso la decisione è adottata con sentenza in forma semplificata”.
Dato che la previsione non indica il contenuto della decisione in forma semplificata, si deve ritenere che faccia implicito rinvio all’art. 74 c.p.a. che indica la “tecnica di redazione” della sentenza in forma semplificata.
Meno chiaro è l’ambito applicativo della sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 72-bis c.p.a. Occorre attribuire significato all’inciso “in ogni caso”.
Ci si chiede se la previsione si riferisca solo ai casi in cui la causa è decisa in udienza camerale. Perché solo per una decisione “immediata” di una causa di “pronta definizione” si giustifica la sentenza in forma semplificata.
O se invece la previsione si riferisca pure ai casi in cui il Collegio ritiene che la causa non è definibile in rito, e quindi dispone il rinvio della causa per trattazione in pubblica udienza.
Il dubbio esegetico si pone a causa della collocazione sistematica della previsione. Infatti, l’art. 72-bis prima stabilisce che se la causa non è definibile in rito, il collegio fissa la data dell’udienza pubblica. E subito dopo aggiunge “in ogni caso” la decisione è adottata con sentenza in forma semplificata.
Il che potrebbe far pensare che la decisione in forma semplificata si adotta anche nel caso in cui viene fissata l’udienza pubblica.
Ma si tratta di un risultato esegetico illogico e sproporzionato, sicché il criterio della esegesi letterale deve essere superato dal criterio della interpretazione logica e sistematica.
Quindi la decisione in forma semplificata si adotta solo se la causa viene decisa in rito in esito all’udienza camerale, e non se la causa viene rinviata alla pubblica udienza.
9. Conclusioni
Il nuovo rito processuale introdotto dall’art. 72-bis c.p.a. appare, se non addirittura del tutto superfluo, sproporzionato rispetto agli obiettivi.
Le situazioni che intende regolare erano già agevolmente fronteggiabili con gli strumenti processuali vigenti, quali:
1) il decreto monocratico per le questioni di rito consistenti in improcedibilità o estinzione;
2) la sentenza immediata in esito all’udienza cautelare;
3) la fissazione prioritaria dei ricorsi con questione unica;
4) la generalizzata sentenza in forma semplificata nei casi di situazioni manifeste;
5) i numerosissimi riti con termini dimezzati o ulteriormente ridotti, già previsti dal c.p.a.
Sicché si può anche dubitare della sussistenza del duplice presupposto della necessità e urgenza per l’inserimento di tale disposizione in sede di conversione di un decreto legge.
L’art. 72-bis inoltre si pone come una monade nel tessuto del c.p.a., senza un adeguato coordinamento con le altre previsioni, utilizzando concetti giuridici indeterminati e inediti che si sovrappongono ad altre analoghe espressioni del c.p.a., come il concetto di “immediata definizione”, di “eccezionali motivi”, “particolare complessità”.
Ancora, l’art. 72-bis crea un regime differenziato sul contraddittorio sulle questioni rilevabili d’ufficio, rispetto all’art. 73 c. 3 c.p.a., di difficile giustificazione costituzionale, oltre che un regime differenziato sulle modalità del rinvio delle cause, rispetto al neointrodotto art. 73, c. 1-bis.
L’art. 72-bis c.p.a. strozza il contraddittorio su cause di merito, senza una effettiva ragione ed esigenza.
Ancora una volta è stato commesso il comune e ricorrente errore di regolare un ambito dell’ordinamento come se fosse una tabula rasa, senza alcuna memoria storica di ciò che già esiste e con una povera consapevolezza di come ciò che già esiste funziona o non funziona in concreto.
Ancora una volta, è stato commesso il comune e ricorrente errore di affidare a norme processuali pseudo-salvifiche la soluzione del problema dell’arretrato degli uffici giudiziari, che ha invece bisogno di scelte organizzative e non processuali.
Il tutto, poi, senza una adeguata ponderazione e analisi di impatto nella fase di elaborazione della norma, senza alcuna partecipazione e alcuna audizione preventiva degli attori del processo, giudici e avvocati.
Finché si perdura in norme processuali illusorie in una sorta di autoinganno collettivo, non si rende alcun buon servizio né alla macchina processuale né ai cittadini che attendono fiduciosamente una decisione che sia giusta e tempestiva.
La causa. Romanzo di Bruno Capponi
Recensione di Alfredo Storto
“Gli studiosi di problemi giudiziari sanno che per comprendere come funzionano le leggi di procedura bisogna conoscere da vicino la psicologia dei giudici e degli avvocati: solo così ci si accorge che in realtà i pregi o i difetti delle leggi non sono che le virtù o i vizi di coloro che le fanno vivere nella realtà dei processi”.
Così ammoniva Piero Calamandrei nei suoi Appunti sul professionismo parlamentare, pubblicati in Critica sociale del 5 ottobre 1956.
In effetti questa sembra essere l’anima del romanzo di Bruno Capponi, La causa, uscito nel 2019 per i tipi di Novecento editore e dedicato a quell’umanità varia e inesplicabile che popola a vario titolo gli uffici giudiziari civili.
L’esca del racconto è semplice.
Una persona qualunque un bel giorno apprende dall’avvocato del proprio defunto padre che è stata riassunta, cioè riportata in vita nei suoi confronti, una causa intentata nel 1950 contro il genitore e altre centinaia di persone. Apprende inoltre, dal testamento paterno, che questa causa va in qualche modo preservata, che bisogna impedirne l’estinzione, cioè la fine.
Benché consulti l’avvocato e uno zio il quale, pur essendo libero docente dal 1973, non è né avvocato né professore, non riesce a capire chi ha intentato la causa e perché, chi sono le altre parti e per quale ragione il padre teneva tanto alla lite.
Anzi, finisce per spingere involontariamente il povero zio, un’esile creatura rifiutata sia dal foro sia dall’accademia, a frequentare pericolosamente proprio i luoghi dai quali la vita l’aveva tenuto lontano: gli studi d’avvocato (l’uno che esce direttamente da un doloroso passato del docente, l’altro che incarna il topos del professionista senza scrupoli), il tribunale (di Roma in questo caso: il più grande d’Europa), i magistrati e, in particolare, il Presidente.
Per scoprire, infine, che i codici consentono di tenere in vita una causa della quale non si sa nulla e nulla si può sapere perché le carte processuali sono finite al macero e che nei sotterranei del palazzo di giustizia uomini delle istituzioni, che di queste assumono un’amara veste parodistica, cercano ancora un’idea di giustizia e sembrano disposti a farlo anche a costo di sacrificarla.
L’intreccio narrativo a questo punto sembra restituire un dramma.
Ma così non è.
Vale la pena di riannodare qualche filo.
Bruno Capponi qualche anno fa (2015) ha scritto un libro significativamente intitolato Salviamo la giustizia civile. Cosa dobbiamo dare, cosa possiamo chiedere ai nostri giudici. All’esame, accurato e mai noioso, dei mali del processo civile seguiva la petizione ultimativa di un cambiamento copernicano di prassi e mentalità di giudici, di avvocati e di politici, senza il quale presto sarebbe scomparsa l’idea stessa della tutela civile dei diritti. Dalle ultime pagine del volume emergeva tuttavia la disillusione dello studioso e dell’appassionato per un vero mutamento delle cose: troppe poche le risorse umane, intellettuali, materiali; troppa ormai la distanza culturale tra la complessità del processo civile e coloro che se ne occupano.
Da questo epilogo, tratto sul piano scientifico e documentario, nasce la palingenesi letteraria che abbiamo sotto gli occhi. Dal dolore che pervade le pur scorrevoli pagine del saggio, lo scrittore che sgòmita con lo studioso estrae il romanzo, abbandonando nell’impalpabile cosmo dell’invenzione letteraria tutta la zavorra delle regole, del galateo del diritto, del rigore scientifico.
La stessa materia, che lo scultore giuridico aveva faticato a modellare nella sua intollerabile fisicità quotidiana, l’acquerellista letterario recupera con apparente levità, utilizzando gli strumenti a lui consueti del paradosso, dell’ironia e del grottesco. Le figure professionali e umane, che da una parte appaiono inani e grigie, dall’altra si dilatano e si deformano secondo i canoni di una nuovissima persistenza della memoria e, inevitabilmente, si trasformano in altrettanti bozzetti letterari che si muovono senza più tempo né regole sulla concretissima scena del Tribunale di Roma.
Un vero suq il Tribunale di Roma, un labirinto per uomini e donne inghiottiti da una porticina (vera) che qui separa idealmente il mondo di fuori dal vorace stomaco della giustizia civile. Un labirinto nelle cui pieghe più nascoste l’invenzione letteraria immagina siano ospitati i suoi veri generali (presidente, procuratore, militari, perfino un professore) impegnati a dotare di soluzioni accettabili, ancorché spesso fuorilegge, processi che codici e prassi della vita reale hanno trasformato in enigmi e in ingiustizie permanenti, assegnandoli al limbo della non decisione, come altrettanti tragici urobori.
La progressione tra reale e immaginario segna inevitabilmente la scrittura secondo un percorso che costituisce una delle parti più originali del libro.
Innanzitutto, gli istituti giuridici e pratici: la riassunzione, l’estinzione, il convenuto, il primo smistamento, la ricostruzione del fascicolo, lo sfalcio d’archivio, solo per citarne alcuni. Tutto il serissimo campionario lessicale del processo civile perde, pagina dopo pagina, la sua consistenza reale e lievita, attraverso l’artificio della parola letteraria, verso una dimensione ulteriore. Così la causa che, uno degli avvocati del romanzo ammonisce essere cosa con la quale non si scherza, subito dopo si anima secondo le regole dell’incantesimo romanzesco e diventa «lenta, difficile, sinuosa, iterativa, carsica, indolente, infingarda, bugiarda, inattendibile, traditrice, manipolatrice, ulissiaca», come una vera eroina romantica, se non come una divinità pagana dal vindice imprevedibile braccio. E, infatti, secondo una felice progressione antropomorfa, «le cause, il giudice le conosce appena prima di deciderle e quasi sempre le decide senza neppure conoscerle troppo bene», anche perché «le cause civili si muovono da sole, si spostano da udienza a udienza, si accomodano docili nei faldoni, dai faldoni si trasferiscono negli armadietti dei giudici, dagli armadietti scivolano negli archivi delle sezioni, dagli archivi raggiungono i sotterranei e il giudice non si accorge di nulla (…); vangando per il tribunale nel tanto libero che hanno, le cause prendono consistenza, accumulano carte, si scambiano documenti come fossero figurine, si aggiungono parti, figliano, si riuniscono, si accoppiano (…)».
Allo stesso modo, come si è già detto, i protagonisti del processo civile abbandonano i propri panni mondani e vengono consegnati, nella trasfigurazione letteraria, a dimensioni oscillanti tra l’onirico e il grottesco.
È il caso dell’avvocato che ha curato la riassunzione della vecchia causa. Da incerte origini geografiche («calabresi o lucane o molisane – nel tempo le aveva rivendicate tutte, anche parlando con le stesse persone») sortisce un professionista, solitario come un lupo del quale ha lo sguardo e che si dice sia «l’ultima evoluzione della delinquenza forense», il quale non possiede un vero e proprio studio, spesso non compare in mandato, ma può essere utile che assista nei fatti la parte contro la quale ha agito.
Dello zio, creatura giuridica ermafrodita e irrisolta abbiamo già detto, mentre il Presidente del tribunale di Roma, diventatolo per uno sbaglio del Consiglio Superiore della Magistratura, è un vecchio magistrato che ha fatto la gavetta e girato mezza Italia, vivendo «in conventi, alberghi, locande, pensionati, motel, ostelli, affittacamere, campeggi, a casa di amici» e che governa «l’unità di crisi» della giustizia civile che si riunisce, carbonara, nei sotterranei dell’ex caserma di viale Giulio Cesare ai cui piani superiori è ospitato l’Ufficio giudiziario.
Come si è accennato, ciascuno di questi personaggi, al pari degli altri che affollano il romanzo, rinuncia, parola dopo parola, alla propria dimensione reale per diventare il genius loci di una connotazione della giustizia civile che ne delimita a sua volta un vizio: il difensore inadeguato e quello delinquente, il giurista non giurista, il professore di diritto processuale che abita quel non luogo collocato a metà tra filosofia e diritto, il magistrato animato da un sano ed efficiente pragmatismo che forse è solo l’esito di una lucida follia, perfino il colonnello dell’esercito (siamo o no in un’ex caserma?) che, con una geniale pennellata alla Buñuel, impersona il colonnello dell’esercito.
Tra le pieghe di questo campionario, tratteggiato con leggerezza divertita e grondante una saggezza ai confini con la pazzia, forse è la parte più riposta del romanzo. Qui il succo del racconto che evoca le parole di Calamandrei: i vizi e le virtù della legge e, in definitiva, della giustizia, sono nient’altro che il riflesso di quelli degli uomini che la chiedono e la somministrano e che, nel loro vivere curtense tra gli alti muri del diritto, spesso perdono il senso dell’orientamento.
Rimane, alla fine, un interrogativo.
La consapevolezza e la virtù negate alla giustizia amministrata alla luce del sole, possono essere recuperate di notte, nei sotterranei del tribunale dagli stessi protagonisti? In altre parole, il pessimismo dell’Autore, che traspare dalle conclusioni del saggio sulla giustizia civile, potrà essere riscattato col filtro visionario del romanzo?
Se una buona recensione è solo un modo per suscitare interesse, allora al recensore non è consentito altro che lasciar intravedere, com’è in certe vecchie gallerie, fitte di luce nel tunnel dell’ombra.
Cosa ci sia in fondo spetta al lettore scoprirlo. In fin dei conti, è il suo piacevole mestiere.
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