Il decalogo dell’oppressione[1]
di Maria Teresa Covatta
In 114 pagine i talebani compendiano nuove e vecchie regole che dovranno normare la vita dei cittadini afghani e preservare la loro virtù, secondo i criteri indicati dal Ministero per la promozione della virtù e la repressione del vizio, creato appositamente per prevenire qualunque forma di cedimento a comportamenti ritenuti amorali.
Regole naturalmente indirizzato in gran parte alle donne e al loro corpo che evidentemente si presenta come una vera e propria ossessione per il regime: se agli uomini si prescrive di non portare pantaloni al di sopra del ginocchio e di non radersi, alle donne si prescrive il totale occultamento del corpo, occhi compresi, e di non parlare in pubblico perché anche la voce, oltre ai capelli, a una mano o un piede, è considerata idonea a indurre in tentazione e corrompere la morale degli uomini.
Al di là dell'obbligo del burqa, già stabilito come primo provvedimento adottato alla presa del potere dei Talebani dopo la terribile debacle del 15 agosto del 2021; e dopo la sospensione del diritto all'istruzione, il divieto di svolgimento di attività lavorative fuori casa, il divieto di uscire di casa se non per ragioni eccezionali (quali?), viene ora la proibizione di parlare in pubblico, ascoltare musica e di cantare. ultimo atto di una strategia che vuole annientare e rendere invisibili le donne in quanto tali.
Caterina Caselli ha pubblicato in questi giorni un video in cui, con voce quasi rotta dal pianto, ci ha raccontato che cosa significa per l'essere umano cantare, intima espressione del proprio io e manifestazione del proprio pensiero, del dolore come della gioia, insomma della propria esistenza in generale; e ci ha ricordato che neanche agli schiavi era proibito cantare in nessuno dei tanti vergognosi periodi in cui l'essere umano ha ritenuto possibile assoggettare un altro essere umano alle proprie regole e ai propri voleri, nella vita e finanche nella morte.
In un interessante report su quanto sta accadendo in Afghanistan, dal titolo evocativo di “il silenzio delle innocenti”, l’Ispi, l'Istituto per gli Studi Politici Internazionali, ha commentato il contenuto del documento pubblicato dal governo talebano corredandolo con precisisi dati statistici: circa tre milioni le studentesse delle scuole secondarie escluse dalle classi; 12 anni è l'età oltre la quale l'istruzione femminile è “temporaneamente sospesa” da circa 3 anni; il 17% delle bambine si sposa ben prima dei 15 anni; una bambina su quattro mostra profondi segni di depressione (Fonte BBC, Save the Children, Unicef).
Dati che non lasciano spazio ad alcun dubbio su quanto sta succedendo nel Paese da tre anni a questa parte, a quanto pare sempre più consolidando il potere del clero oltranzista, a dispetto di tutte le proteste che comunque le donne afghane stanno continuando a manifestare, non solo quelle espatriate all'estero ma persino quelle rimaste sul territorio, nonostante arresti, fustigazioni ed altre forme di violenza fisica e morale utilizzati per placare il dissenso.
Lo dimostra il video pubblicato on line e di cui ha dato notizia ieri (28.8) ANSA.Mondo.it, che mostra le donne afghane che si filmano mentre cantano per strada per contestare il divieto: decine di donne che hanno dato vita a un movimento di protesta online, sfidando il divieto della nuova legge.
La violazione dei diritti umani insita in questo nuovo compendio normativo, così come la violazione degli articoli che compongono la dichiarazione dei diritti dell'uomo, è di tutta evidenza perché codifica il divieto per le donne di accesso alle cure mediche, alla giustizia, di assumere impieghi e incarichi pubblici, di frequentare saloni di bellezza, palestre o persino di camminare nei parchi pubblici, anche se accompagnate.
Parlando con l’emittente Rukhsana Media, il presidente dell'associazione degli avvocati afghani Mr Wahid Sadat ha spiegato che “da un punto di vista legale questo documento non solo contraddice i principi fondamentali dell'Islam in cui la promozione della virtù non è mai stata definita attraverso la forza, la coercizione, la tirannia, ma viola le leggi interne del Paese e contravviene a tutti gli articoli della dichiarazione universale dei diritti umani”.
Anche tra gli attivisti e le organizzazioni internazionali il dissenso è unanime.
Grida inascoltate sicché è dato chiedersi se, a fronte del silenzio delle innocenti, non vi sia un altro silenzio ancora più pesante che può definirsi il silenzio dei colpevoli: l'assordante silenzio della comunità internazionale che in omaggio ad interessi geopolitici ed economici manca completamente di qualunque forma di reazione, condanna e sanzione a fronte di quella che correttamente è stato definito come il più devastante “apartheid di genere” dei nostri tempi, ora messo nero su bianco al fine di statuire tutte le regole cui le donne si devono conformare, riunite in una sorta di testo unico dell'orrore che non lascia spazio a interpretazioni o a forme di comprensione neppure rispetto ad un ideale comportamentale connesso alla religione.
In una intervista alla CNN Fawzia Koofi, già prima donna vicepresidente del deposto Parlamento afghano, ha criticato l'implicita complicità della comunità internazionale che sta lentamente normalizzando i rapporti con il governo talebano.
Quello che sta accadendo, ha detto, è spaventoso “eppure il mondo intero si comporta come se fosse normale; ci sono state pochissime reazioni o commenti alla normativa emessa e i talebani sono incoraggiati da questa indifferenza”.
Com’era immaginabile, del resto, l’interesse economico e geopolitico per l’Afghanistan ha consentito a molti Paesi, benché non siano ancora registrati veri e propri riconoscimenti ulteriori rispetto a quelli già fatti nell'immediatezza dell'insediamento del potere talebano, di avvicinarsi all’Afghanistan per interessi specifici, soprattutto connessi alle materie prime necessarie per le produzioni mondiali di items tecnologici indispensabili per il mondo occidentale, cellulari al primo posto.
Interessi economici o geopolitici che hanno coperto, così come è accaduto per il grido delle donne iraniane, la messa al bando della donna in Afghanistan, senza distinzioni di ceto sociale o di appartenenza. O meglio sarebbe dire la mattanza dei diritti e di qualunque forma di manifestazione della vita.
Certo si può ritenere che si tratti di una ideologia talmente forte da resistere persino all’esigenza di riottenere le somme congelate presso le banche americane, la cui restituzione è stata subordinata al rispetto dei diritti umani nel Paese e di cui il popolo afgano avrebbe bisogno per risollevarsi dalla povertà e dalla fame.
Ma forse si potrebbe anche ritenere che, forti del rinnovato interesse economico e geopolitico palesato da alcune grandi potenze, il nuovo decalogo normativo e la sua pubblicazione sia uno stress test fatto alla comunità internazionale, passando sul corpo e sula vita delle donne.
A fronte di tutto questo non resta che sperare e affidarsi alla società civile.
Ancorché abbia subito, così come le determinazioni dell'ONU, considerevoli sconfitte, come dimostrato dalle tante manifestazioni in favore delle donne iraniane che allo stato sembrano non aver sortito nessun effetto sul destino del sesso femminile in quel Paese, la protesta civile esprime il senso della coscienza dei cittadini del mondo, inarrestabile e che, in quanto tale, prima o poi otterrà dei risultati.
Pensare il contrario, anche se forse è realistico, non consente di dormire la notte.
[1] Si veda anche L’Afghanistan: cronistoria di una crisi annunciata di Maria Teresa Covatta, pubblicato su Giudice donna, n. 2/2021, apparso poco dopo la presa del potere dei Talebani. Su Questa Rivista, si veda Per non dimenticare le donne afghane di Maria Teresa Covatta, Il dramma dell’Afghanistan: è fallita l’esportazione della democrazia o il sistema internazionale dei diritti umani? di Tania Groppi, Il Ministero per la promozione della Virtù e la prevenzione del Vizio di Maria Teresa Covatta.
Foto: Marius Arnesen, Women in burqa with their children in Herat, Afghanistan, 2009, via Wikimedia Commons.