Un manifesto costituzionale: recensione a Tania Groppi, Oltre le gerarchie. In difesa del costituzionalismo sociale
di Corrado Caruso*
1. Con “Oltre le gerarchie. In difesa del costituzionalismo sociale” (Laterza, 2021), Tania Groppi detta un manifesto per le politiche costituzionali del tempo presente. Non si tratta di una paludata opera di diritto costituzionale, di un volume che, a partire dalla Costituzione repubblicana, si inerpica sulle strade scoscese della tecnica giuridica. Il lavoro di Groppi è invece un agile e colto pamphlet che mira a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle derive individualiste ed elitarie della società contemporanea, per certi versi assai lontana dalla società “promessa” dalla nostra Costituzione. È bene però sgombrare il campo da un possibile equivoco: Groppi non cede alla giaculatoria secolarizzata, non compone un cahier de doléance intriso di pessimismo e rassegnazione. Il volume che qui si recensisce è, piuttosto, un richiamo alla necessità di un’educazione culturale ispirata ai principi costituzionali, che costituiscono le ammorsature su cui innestare le risposte politiche agli attuali squilibri sociali.
Groppi parte da un assunto, dimostrato da una analisi ricca di riferimenti teologici, letterari e artistici: il tratto costitutivo della storia umana è la diseguaglianza politica e sociale. Corollario della diseguaglianza è un’organizzazione sociale retta sul principio di gerarchia. Se la diseguaglianza, infatti, è un «dono» dei processi di civilizzazione (p. 6), la gerarchia definisce la struttura dell’ordine sociale. L’organizzazione gerarchica è talmente interiorizzata nella cultura del mondo occidentale da diventare, secondo il senso comune, la norma fondamentale della struttura sociale. Nella prima parte del lavoro, l’A. mira dunque a decostruire il concetto di gerarchia, svelandone le radici storico-culturali, i significati latenti e i reali obiettivi.
La gerarchica gode di un’aura di sacralità, che risale al proprio etimo (il termine deriva dal greco ieros, sacro, e arkein, comandare). Essa dà luogo a «concettualizzazioni basate su riferimenti spaziali», «che definiscono la positio di un determinato oggetto (davanti/dietro, sopra/sotto, destra/sinistra, vicino/lontano, dentro/fuori)» nel contesto sociale (pp. 7-8). Tra questi riferimenti spaziali, quello prevalente è la diade «sopra/sotto», (…) più frequentemente (…) espressa attraverso gli aggettivi alto/basso» (p. 9). In tal senso, «la metafora spaziale è divenuta la principale forma espressiva del principio di gerarchia, inteso quale principio di ordinazione delle cose attraverso una gradazione asimmetrica, e pertanto diseguale» (ibidem). La storia del pensiero e dell’esistenza umana è costellata di riferimenti verticali: esempi si ritrovano nella società stratificata degli antichi romani (si pensi all’opposizione summi infimique su cui Livio erige la distinzione tra la classe dominante e quella subalterna), nell’«ossessione» tomistica per la gerarchia angelica, persino nella fondazione dello Stato moderno, in cui la «société d’ordres articolata in ceti rigorosamente gerarchizzati (…) culmina nell’immortale corpo politico del re» (p. 13). Rare sono le eccezioni letterarie che prescindono dal culto della gerarchica: tra queste vanno annoverate Gargantua e Pantagruel di Rabelais, che rovescia la gerarchia ascensionale tipica del pensiero e dell’iconografia medievale a favore di «un moto discendente, verso le profondità della terra e del corpo umano», e il mito di Sisifo, ove la fatica ascensionale, consistente nella spinta verso l’alto di un immane macigno destinato, inesorabilmente, a rotolare giù, è segnata dall’inutilità e dalla alienazione di un’umiliante coazione a ripetere (pp. 16, 18).
La gerarchia non si limita a descrivere un ordine reale: nella narrazione collettiva assume una valenza ideale, un ordine da raggiungere perché intrinsecamente giusto. Nel senso comune maturato nei secoli, ciò che sta in alto è necessariamente bene. A questa narrazione contribuiscono ragioni cosmologiche, teologiche e antropomorfe (pp. 21-29). L’alto è, infatti, in «pressoché tutte le culture e religioni (…), il luogo del divino». Anche la parola “Dio”, che rimanda all’indoeuropeo deiwos - luminoso, celeste -, si contrappone all’homo, soggetto terrestre, come testimonia la sua origine etimologica (da humus, terra). L’altezza di Dio ritorna nelle sacre scritture (dalla sommità della scala sognata da Giacobbe, Dio lo rassicura sull’avvenire del popolo d’Israele), mentre nel Nuovo Testamento, che esprime l’ordine gerarchico anche attraverso la relazione di precedenza “davanti/dietro”, la giustizia divina si contrappone alla gerarchia terrestre, dalla prima sovvertita a favore dei più deboli: nel messaggio evangelico gli ultimi saranno i primi o, come sottolinea Gesù nel discorso ai Farisei, nel Regno dei Cieli «chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». È questa la conversione dello sguardo che assiste anche la Regola benedettina, nel senso che con «l’esaltazione si discende e con l’umiltà si sale» (p. 28).
La metafora verticale trova giustificazione anche in ragioni antropomorfiche: la verticalità della posizione umana (la testa dell’uomo «è in alto in rapporto dell’ordine dell’universo», ricorda l’A., richiamando Aristotele, p. 23), serve a legittimare gli squilibri sociali, a giustificare diseguaglianze e discriminazioni di ogni genere (p. 31).
2. Il costituzionalismo, movimento politico-filosofico che origina dalle rivoluzioni liberali del XVII e del XVIII secolo, nasce proprio per ribaltare l’ordine gerarchico dello status quo, sostituendo all’homo hierarchicus, il soggetto che è tale in quanto gerarchicamente situato, l’homo aequalis, e cioè «il singolo considerato in quanto essere umano individuale» (p. 38).
La lotta del costituzionalismo è una lotta contro i privilegi tipici della società organicista dell’ancien régime, ed è volta a riaffermare l’eguaglianza di tutti gli individui nelle libertà, a prescindere dalle condizioni di nascita, come recita l’art. 1 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. L’eguaglianza rivendicata dal costituzionalismo degli esordi è, però, una eguaglianza astratta, che si premura di garantire diritti contro l’intervento dello Stato (le cd. libertà negative e il diritto di proprietà) a prescindere dalle concrete condizioni sociali in cui versa l’individuo. Nello stato borghese, il «diritto “oggettivo” – a partire dal codice civile, il vero testo normativo fondamentale di questa società – diventa uno strumento a garanzia dei nuovi canali ascensionali che in quel periodo si aprono in campo economico e sociale per le figure emergenti come l’uomo imprenditore, vincente e di successo in confronto ai vecchi nobili, etichettati come “parassiti nullafacenti”». Simile evoluzione riflette una nuova distribuzione del potere politico, a favore della frazione di popolazione di censo elevato che concorre a formare le assemblee elettive. Queste rappresentano gli interessi della classe egemone: lo stato assoluto cede il passo alla nazione, un’entità collettiva fondata sulla «grande finzione del suffragio limitato su base censitaria e di genere» (nell’Italia del 1861, ricorda l’A., la nazione, e cioè la parte politicamente attiva del corpo sociale, coincideva con l’1,9% della popolazione, p. 41).
Il costituzionalismo degli albori, sostiene Groppi, non ha rovesciato l’organizzazione verticale tipica delle precedenti organizzazioni politiche: ha solo mutato l’ordine di precedenza dei soggetti egemoni senza scalfire l’esprit della gerarchia sociale. Da questo nuovo ordine restano fuori coloro che non possiedono beni e formano classi subalterne «che continuano una vita misera a dispetto di tutte queste ‘formali’ aperture di possibilità». Lo sbocco naturale di questa divisione sociale è il conflitto di classe, che ricomprende al suo interno le diverse fratture misconosciute dalla omogenea società liberale: i cleavages di natura razziale, culturale, di genere scorrono sottotraccia, assorbiti dalla grande questione economica che divide gli haves dagli haves not. L’eguaglianza rivendicata dal costituzionalismo liberale, nonostante sia presentata sotto il segno dell’universalità, sottintende in realtà un determinato tipo sociale: l’individuo bianco, maschio, proprietario (p. 42).
3. Lo stato borghese non reggerà al confitto di classe e alle tragedie del Novecento. Dalle ceneri della Seconda guerra mondiale nasce, in Europa, una nuova forma di stato, lo stato costituzionale, che segna l’ingresso delle masse dei lavoratori sul proscenio della storia e sigla il grande compromesso tra capitale e lavoro o, come scrive l’A., tra capitale e democrazia, sistema politico contraddistinto «dall’eguaglianza politica» (p. 45). Lo Stato costituzionale è uno Stato pluralista, che fa proprie le «differenze di interessi, di convinzioni ideologiche, di visioni della vita» e redistributivo: esso promuove la coesione sociale, «un insieme di legami di affinità e di solidarietà tra individui» (p. 43).
La coesione sociale richiede un intervento dei poteri pubblici volto ad appianare le gerarchie sociali attraverso una molteplicità di interventi, di natura anche economica. Le Costituzioni del dopo guerra richiedono la predisposizione di «meccanismi redistributivi basati sull’attrazione in capo al settore pubblico di una parte rilevante delle risorse, al fine di destinarle alla spesa sociale» (ibidem). Non a caso, la nostra Carta costituzionale positivizza una nuova generazione di diritti, i diritti sociali, che non proteggono dall’intervento dello stato, ma richiedono, all’opposto, l’intervento dei pubblici poteri sotto forma di prestazioni socio-economiche.
Questo deciso cambio di paradigma può essere riassunto in una norma annoverata, non a caso, tra i principi fondamentali della Costituzione: l’art. 3 enuncia, a fianco dell’eguaglianza formale di cui al comma 1, l’eguaglianza sostanziale (comma 2), «che prende in considerazione l’individuo nella realtà della sua vita e delle sue relazioni, economiche e sociali, rendendo legittimi, anzi necessari, interventi “diseguali”, allo scopo di riequilibrare le condizioni di fatto in favore di quelli che stanno “in basso”» (p. 48). All’art. 3.2 Cost si affianca l’art. 2 Cost., che nel richiedere l’inderogabile adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale, determina una «identità costituzionale incentrata sulla fraternità e sulla vicinanza tra le persone» (p. 49). Queste coordinate costituzionali richiamano tutti i soggetti istituzionali della Repubblica al loro inveramento: «[c]he si tratti di soggetti appartenenti al circuito della decisione politica, come il parlamento, il governo, le regioni, o piuttosto di giudici – comuni o costituzionali – è a essi che spetta dare effettività ai principi costituzionali» (p. 49).
4. L’eguaglianza sostanziale «ci proietta in una dimensione nella quale la crescita individuale è funzionale sia allo sviluppo personale sia a quello della società nel suo insieme: in tal modo pone le basi per scavalcare la contrapposizione-contraddizione tra individuo e gruppo sociale, tra diritti individuali e bene comune (…) che aveva dilaniato lo Stato liberale ottocentesco fino a scardinarlo» (pp. 51-52). È la persona, nei suoi concreti rapporti sociali, nelle sue plurime reti di interlocuzione, a richiedere tutela, non un astratto figurino individuale che sottintende, in realtà, un determinato tipo sociale. L’art. 3.2 Cost. disegna una società «pronta non solo ad accogliere, ma ad incoraggiare e sostenere il cambiamento e i cammini di ciascuno, ove ogni persona liberata dalla zavorra che la tiene immobilizzata (…) possa fiorire e trovare il posto più consono alle sue aspirazioni inclusa la partecipazione alla classe dirigente» (p. 55).
A parere dell’A., il disegno delineato dall’art. 3.2 Cost. rinvia a una concezione orizzontale dei rapporti sociali che rende incompatibile con la Costituzione le strategie che mirano a riprodurre, sotto mentite spoglie, una logica ascensionale di tipo verticale. Così è per il concetto di mobilità sociale che, pur patrocinata da autori di diverso orientamento ideologico, trasforma «le disparità e le sperequazioni in fenomeni naturali», innescando «processi competitivi improntati al darwinismo sociale». Essa contribuirebbe a «cristallizzare (…) una visione del mondo articolata secondo l’asse verticale alto-basso e orientata al mantenimento dello status quo», producendo «invidia per quelli che stanno sopra (…) e disprezzo per quelli che stanno sotto» (pp. 56-57). Stesso discorso vale, a parere dell’A., per la retorica del merito, concetto «quanto mai ambiguo e ideologico» (p. 58). I talenti non sono misurabili: non sono meriti ma «doni» ricevuti per motivi insondabili o, all’opposto, per motivi «anche troppo facilmente sondabili, come la famiglia, la ricchezza, l’eredità». In altri termini, «quello che a prima vista consideriamo un “merito” è invece il frutto di condizioni economico-sociali, proprie o dei propri antenati, che condizionano lo sviluppo psicofisico e culturale della persona umana» (p. 59). Il discorso sul merito si intreccia con l’acritica valorizzazione della eguaglianza di opportunità, che in realtà ridurrebbe i rapporti tra individui a una «competizione (…) nella quale tutti (…) debbono essere messi in condizioni di gareggiare (…) per emergere e primeggiare» (p. 61). Anche la creazione di percorsi di eccellenza per «i capaci e i meritevoli», per utilizzare i termini della nostra Costituzione (art. 34), assumerebbe un significato discriminatorio ed escludente: sulla scia di Don Milani, Groppi sostiene che la «meritocrazia» non sarebbe altro che una forma di valorizzazione dei forti e di disprezzo dei deboli. «In definitiva», conclude l’A., «l’unica concezione di mobilità sociale compatibile con la nostra Costituzione è quella che, depurata da ogni accezione gerarchica e meritocratica, sta ad indicare il diritto di ciascuna persona (…) al pieno sviluppo della sua personalità e alla sua partecipazione, su un piano di parità, all’adozione delle decisioni politiche» (p. 65).
5. Groppi dedica l’ultima parte del volume ad un bilancio e alle prospettive del costituzionalismo sociale, volto alla realizzazione dell’eguaglianza sostanziale. Non vi è dubbio, ricorda l’A., che la forza normativa della Costituzione abbia contribuito a una significativa redistribuzione della ricchezza, orientando l’edificazione dello Stato sociale. A partire dalle politiche neo-liberali degli anni ’80 dello scorso secolo, è iniziato però un processo di regressione delle tutele sociali, che ha messo in crisi la forza normativa della Costituzione (p. 73). L’A. accenna alla crisi di progressività del sistema fiscale, richiesta dall’art. 53 Cost., «svaporata in un profluvio di tributi non progressivi» (p. 74), o alla svalutazione prescrittiva dei diritti sociali «propugnata in nome di presunte razionalizzazioni della spesa pubblica», di cui non resterebbe che la garanzia del nucleo essenziale, come in effetti affermato dalla Corte costituzionale (ibidem). L’impoverimento delle tutele sociali troverebbe conferma nella modifica, realizzata sull’onda della crisi finanziaria del 2012, dell’art. 81 Cost e dall’introduzione del principio dell’equilibrio di bilancio, che avrebbe sopravanzato le ragioni del contenimento della spesa pubblica alle garanzie sociali della Costituzione.
Simile processo sarebbe dovuto a una pluralità di fattori, alcuni di essi esterni ai confini nazionali: anzitutto, il peso rilevante delle istituzioni della globalizzazione (come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, la Commissione europea) che avrebbero svuotato il potere politico dei governi, ridotti a meri esecutori di scelte altrui. Questo svuotamento dei poteri democratici interni causato dalla globalizzazione avrebbe portato alla diffusione di una sorta di apatia politica, di una percezione, da parte dei cittadini, circa «l’inutilità di partecipare a processi decisionali che [non influiscono] sulle grandezze che stanno alla base della propria vita, soprattutto per quanto riguarda le politiche economiche, finanziarie, e del lavoro» (p. 80). Questa perdita di fiducia verso i circuiti democratico-rappresentativi, insieme al timore di un arretramento della sicurezza sociale, porta i cittadini ad assecondare svolte autoritarie, come avvenuto in Polonia e in Ungheria. Tali esperienze hanno reso nuovamente attuale il fenomeno delle cd. illiberal democracy, caratterizzate dalla «compresenza» di elementi democratici e autoritari (p. 79).
A questo deve aggiungersi il «processo di individualizzazione», e cioè «la ricerca di soluzioni individuali a problemi collettivi», con la promozione di dinamiche concorrenziali tra individui e «l’indebolirsi dei legami di solidarietà e collaborazione», che portano alla crisi di formazioni sociali e corpi intermedi (p. 77). Simile tendenza è favorita dalle nuove forme di comunicazione di massa offerte dalle piattaforme digitali, che, per mezzo di algoritmi, favoriscono la creazione di eco chambers, di gruppi chiusi che consentono agli internauti di incontrare e diffondere opinioni e commenti con soggetti che condividono i medesimi orientamenti politico-culturali. Viene meno dunque una delle caratteristiche della democrazia pluralista, «che si nutre, al contrario, di “incontri non pianificati”» e di «esperienze condivise» frutto di reciproca comprensione (p. 81).
Per Groppi, dunque, la crisi della democrazia risiede anzitutto nel tramonto del sentimento di comune appartenenza al corpo politico: «[i]l venire meno di una comune appartenenza mina, a sua volta, lo stesso legame comunitario, favorendo la divisione e la polarizzazione» (p. 84). Tale polarizzazione è acuita dalle incertezze economiche del nostro tempo, che generano «una molteplicità di emozioni negative: risentimento, rancore, invidia, sfiducia, insicurezza, paura e finanche rabbia». Queste incertezze, unite alle penurie di risorse, provocano una sorta di guerra tra ultimi: la rabbia sociale non viene indirizza verso chi muove le leve del potere reale, ma verso i più poveri (i migranti, ad esempio), considerati responsabili del progressivo impoverimento collettivo.
6. Di fronte a questo quadro tutt’altro che rassicurante, Groppi propone di “tornare” alla Costituzione. I diritti sociali e i corollari dell’eguaglianza sostanziale non sono semplici opzioni politiche (come nell’ordinamento statunitense, ad esempio), sempre reversibili alla luce degli equilibri che vanno determinandosi in un determinato contesto, ma sono veri e propri principi normativi che conferiscono identità all’ordinamento costituzionale. È necessario, dunque, «”trarre dall’oblio”» le norme costituzionali: «il diritto [costituzionale] non è una variabile indipendente nel mare magnum delle politiche economiche e sociali, ma ha carattere prescrittivo, cioè deve improntare di sé programmi politici, elettorali e di governo, atti normativi di ogni ordine e grado, sentenze di ogni ordine e grado» (p. 91).
Deve essere poi riscoperto l’art 11 Cost., che segna l’apertura internazionalistica dell’ordinamento e impegna l’Italia a dare vita ad organizzazioni internazionali che promuovano la pace e la giustizia tra le nazioni. In altri termini, l’Italia deve portare a livello europeo e internazionale i temi «dello sviluppo e della giustizia (…) in nome degli ultimi, degli oppressi, di chi sta in basso» (p. 91).
Il vero cambiamento deve essere però culturale: è necessario, secondo l’A., riscoprire i sentimenti collettivi che legano insieme la società, lasciando da parte, come insegnano autorevoli neuroscienziati (l’A. cita i lavori di Damasio sul ruolo delle emozioni nel ragionamento umano e nell’assunzione di decisioni individuali), il semplice calcolo razionale o utilitaristico: tra tali sentimenti collettivi, «il sentimento di giustizia, o meglio, di rifiuto dell’ingiustizia, (…) faccia inevitabile dell’empatia, cioè della fraternità, svolge, per la sua fondamentale natura relazionale, il ruolo centrale» (p. 95). Anche i sentimenti, naturalmente, vanno educati: rovesciando il diktat di Margareth Thatcher, che in una famosa intervista richiamò la necessità di «cambiare il cuore e l’anima» dei lavoratori per renderli funzionali alle esigenze del capitale, è dal cuore che, secondo Groppi, bisogna ripartire. Cuore inteso come «unione di sentimento, intelletto e volontà e che spesso viene definito “coscienza”» (p. 96). La voce della coscienza, «nella quale si radica il sentimento di giustizia, è sepolta giù (…) negli insondabili abissi di ogni cuore umano. Essa deve e può essere raggiunta (…) attraverso la crescita spirituale e umana di ognuno. Ritornando alle (…) metafore spaziali, è in basso che occorre cercare, è dal basso che può germogliare la vita, come sempre accade sulla terra» (p. 97).
Quale è il posto del diritto e dei suoi chierici in questo processo, individuale e collettivo, di sensibilizzazione delle coscienze? I costituzionalisti, scrive Groppi, devono uscire dall’autoconfinamento, «concentrati come sono sugli aspetti più “tecnici” [della disciplina], come il costo dei diritti sociali, le garanzie giurisdizionali, i vincoli europei, al punto di lasciare la democrazia in balia di una diseguaglianza con essa inconciliabile» (p. 100). Il giurista, sembra dire l’A., ha da essere engagé, dedito alla attuazione del programma costituzionale, immerso nei «piccoli luoghi vicino a casa» dove nascono i diritti (secondo la nota espressione di E. Roosevelt, p. 101), votato all’inveramento di una democrazia progressiva, guidata «dai principi del costituzionalismo (…) sociale» (ibidem). Oggi, conclude Groppi, «abbiamo bisogno che il diritto, muovendo dai grandi principi, si traduca in contesti in cui “il pieno sviluppo della persona umana” si realizzi effettivamente: ci serve un “diritto piccolo”, che trasformi i principi in politiche che tengano conto di ogni essere umano nella sua concretezza e unicità, scardinando visioni basate su stereotipi, sostenute da fuorvianti metafore» (ibidem).
Non sfugge all’A. che questo rinnovato umanesimo giuridico deve concretizzarsi in una adeguata azione istituzionale: le politiche necessarie a realizzare una trasformazione sociale in senso egualitario devono essere realizzate da «maggioranze politiche che credano nella democrazia costituzionale, da rappresentanti di un’opinione pubblica e di elettori capaci di vedere altro. E vanno attuate attraverso la scuola, le amministrazioni, specie locali, la società civile, le famiglie e in definitiva col contributo di ciascuno di noi» (p. 101).
Anche i giudici e le istituzioni di garanzia sono destinati ad avere un ruolo rilevante, anche in ragione della stasi e dell’incapacità decisionale delle istituzioni politiche. In effetti, «la funzione di presidiare la precettività (…) del diritto (…) implica che sulle loro spalle si scarichi il compito di supplire alle omissioni della politica, dando effettività ai principi nei casi concreti». L’azione giurisdizionale, là ove lasci interagire i principi costituzionali con le concrete dinamiche sociali, dà vita a un «diritto mite», come lo ha definito Gustavo Zagrebelsky, che tuttavia rischia di arrivare in ritardo, quando le violazioni della Costituzione sono «già avvenute e molte volte irrecuperabili» (p. 102).
Non bastano, però, i giudici, secondo Groppi, a realizzare la trasformazione sociale richiesta dalla Costituzione. È necessario invece affidarsi a uno «Stato costituzionale diffuso, depurato dalle reminiscenze gerarchiche, e per il quale occorre al più presto cercare nuove rappresentazioni spaziali». È necessario uno sforzo istituzionale plurale, fondato sull’eterarchia e sulla gestione reticolare dei processi di produzione del diritto (p. 103). Solo in questo modo è possibile riaffermare la precettività del diritto e soddisfare il suo fine ultimo, che risiede nel «contrapporsi alla forza, al privilegio, all’ingiustizia, in una parola a scardinare l’odiosa gerarchia che sottomette chi sta in basso a chi sta in alto» (p. 103).
7. Il lavoro di Tania Groppi è una appassionata apologia dell’eguaglianza sostanziale, considerata, non a torto, condizione di effettività del sistema democratico. Un libro da leggere, per riscoprire l’importanza dell’educazione costituzionale, del sentimento collettivo di appartenenza di una comunità di destini unita nel segno della Costituzione.
La lettura del volume solleva però alcuni interrogativi, sia sul piano teorico sia sotto il profilo istituzionale, che in questa sede non possono che essere accennati. Non vi è dubbio che la Costituzione repubblicana tuteli l’homme situé, secondo l’espressione di Georges Burdaeau, e cioè la persona nelle sue plurime declinazioni sociali. Per la Costituzione, titolari dei diritti sono i cittadini, i lavoratori (anche minori di età), le donne lavoratrici, gli «inabili e i minorati», la madre, il figlio, i coniugi, lo studente e così via. Questa frammentazione degli status è in fondo conseguenza dell’eguaglianza sostanziale riconosciuta nell’art. 3, secondo comma, Cost., che richiede di intervenire sulle particolari situazioni sociali evocate dalle successive disposizioni costituzionali. Vanno però valutate con attenzione le conseguenze di una lettura estensiva di tale principio, il quale richiede, per sua natura, una estesa differenziazione giuridica. Se, infatti, compito del diritto è individuare le condizioni che, di volta in volta, situazione per situazione, ostacolano la piena realizzazione individuale, l’eguaglianza sostanziale richiede un costante processo di individualizzazione giuridica, traducendosi, nei fatti, in una diffusa diseguaglianza normativa. Fino a che punto questo percorso è compatibile con l’eguaglianza formale (eguaglianza davanti alla legge senza distinzioni di condizioni personali e sociali), che rappresenta l’altro corno dell’art. 3 Cost.? L’estrema valorizzazione delle differenze non rischia di incidere sulla stessa coesione sociale, sulla possibilità di fondare una appartenenza condivisa alla comunità politica? Questa sorta di diritto differenziato non rischia di frammentare l’identità collettiva della comunità politica, a favore di un egoistico individualismo, peraltro fortemente criticato dalla stessa A.? In fondo, lo stesso principio di ragionevolezza, sorto grazie alla giurisprudenza costituzionale, ha rappresentato il ponte di connessione tra il secondo e il primo comma dell’art. 3 Cost., individuando, allo stesso tempo, la necessità e il limite delle differenziazioni costituzionalmente richieste.
La sintesi politica realizzata dalla legge, che trova nel proprio etimo la necessità di legare insieme (ligare) la comunità politica, rischia altrimenti di cedere il passo a un diritto singolare, ridotto a conferire dignità giuridica a qualsiasi pretesa portata avanti dall’individuo. Questa attenzione ai bisogni individuali porta con sé precise conseguenze istituzionali, avallando una sovraesposizione delle corti a detrimento delle istituzioni politiche. L’A. è ben consapevole dei limiti di un gouvernement des juges, incapaci, per la loro posizione istituzionale, di offrire una risposta sistematica alle sfide poste dalla diseguaglianza. A parere di chi scrive, si può però evidenziare anche un potenziale (ed esiziale) spostamento (ed accentramento) di potere: la decisione giurisdizionale rischia di diventare un trasformatore permanente di energia sociale in pretese giuridicamente assistite.
Groppi sottolinea, inoltre, come la retorica del merito sia utilizzata per giustificare l’assetto gerarchico verticistico, perciò profondamente ineguale, della società. Tale conclusione presenta più di un aspetto di verità, soprattutto qualora le logiche meritocratiche siano calate su un tessuto sociale squilibrato, con punti di partenza differenziati, sfavorevoli per i meno abbienti. La cultura della valutazione, se correttamente applicata, può però anche portare dei benefici, proteggendo i più deboli da logiche di selezione ispirate ad altri criteri (familistici, corporativi, biecamente corruttivi, etc.). In fondo, è questa la ratio del diritto allo studio sancito dall’art. 34 Cost., laddove richiede di assicurare, ai capaci e ai meritevoli, il raggiungimento dei gradi più alti degli studi.
Per correggere le disarmonie sociali, ed evitare che il merito legittimi e garantisca la sopravvivenza di gerarchie precostituite, c’è senz’altro bisogno di politiche redistributive ed inclusive. Nel nostro ordinamento, come opportunamente sottolinea Groppi, lo stato sociale esprime una formula prescrittiva, che deve essere inverata (e rispettata) da tutti i pubblici poteri.
A parere di chi scrive, le politiche sociali chiamano in causa soprattutto l’intermediazione legislativa. Per ragioni di teoria generale, anzitutto: i diritti sociali, quanto meno quelli che consistono in una prestazione resa dai pubblici poteri, richiedono l’individuazione delle risorse, degli apparati amministrativi necessari a fornire il servizio, della platea dei beneficiari. Inoltre, l’intermediazione legislativa è imprescindibile per ragioni eminentemente politiche, legate alla necessità di imboccare un coerente percorso di riforme. Da tempo sono noti i difetti e le mancanze dello stato sociale italiano: ascrivibile al modello mediterraneo di welfare state, il nostro sistema si caratterizza per un’elevata spesa pensionistica, per essere legato a “categorie” tradizionali di soggetti protetti e per la sua spiccata arretratezza sul piano dei servizi, sbilanciato come è sul versante dei sussidi. Questo assetto, che porta a supplenze “familiste”, cioè a prestazioni di cura e assistenza realizzate dalla famiglia a favore dei suoi componenti più deboli, marginalizza il contributo dello Stato, che interviene solo a fronte dell’impossibilità di fornire assistenza all’interno della famiglia. Proprio la necessità di aggiornare le finalità e l’organizzazione dello stato sociale chiama in causa le responsabilità della politica e la necessità del riformismo legislativo (come insegna la storia, l’Inghilterra adottò uno dei tra più avanzati esperimenti di welfare grazie alla coraggiosa politica laburista del governo Attlee, che diede dignità normativa al rapporto Beveridge).
Tali riforme possono però essere realizzate solo rafforzando i circuiti della decisione politica, oggi dispersa in mille rivoli istituzionali. È senz’atro auspicabile, come scrive l’A., trasformare l’organizzazione del potere, passando da un assetto verticistico a un modello reticolare, ove ciascun centro istituzionale porti il proprio contributo al processo di decisione politica. Rimane però imprescindibile, a seguito di un simile confronto orientato all’intesa, individuare il soggetto incaricato della scelta finale, garantirgli uno spazio di azione politica al riparo da possibili veti incrociati e attivare meccanismi che ne facciano valere la responsabilità di fronte ai cittadini. In fondo, l’apatia e il distacco dei cittadini dalla politica, evidenziata da Groppi, dipendono anche dalla incapacità della democrazia rappresentativa di rispondere alle plurime esigenze del corpo sociale e di calmierare i conflitti che possono sorgere nella cornice pluralista. Di fronte all’accidia democratica, i populismi di oggi e di domani hanno già pronta la soluzione, suadente e sinistra: se una democrazia è immobile o inefficiente, perché non affidare il proprio destino ad un dittatore (più o meno) illuminato?
* Professore associato di diritto costituzionale, Università di Bologna.