Un ritardo voluto?
Considerazioni sulla mancata elezione di un giudice costituzionale da parte del Parlamento in seduta comune
di Francesca Biondi e Pietro Villaschi
1. Da quasi un anno ormai, la Corte costituzionale lavora a ranghi ridotti. L’11 novembre 2023 è, infatti, terminato il mandato della Presidente Sciarra e il Parlamento in seduta comune, cui la Costituzione affida l’elezione di un terzo dei quindici componenti del collegio, non ha ancora scelto il successore. Tale ritardo pare destinato ulteriormente ad aggravarsi. Andato, infatti, a vuoto anche l’ultimo scrutinio dello scorso 25 giugno, le Camere riunite si sono aggiornate a data da destinarsi.
Tra le forze politiche sembra serpeggiare l’idea di attendere la scadenza, a dicembre 2024, di altri tre giudici di nomina parlamentare (l’attuale Presidente Barbera e i vice-presidenti Modugno e Prosperetti), per procedere alla loro sostituzione in un’unica tornata. La volontà di seguire una logica “a pacchetto” è evidente spia della difficoltà delle forze politiche di trovare un accordo su un solo nome.
Come noto, per eleggere un giudice costituzionale i quorum fissati dalla Costituzione sono assai elevati (due terzi dei componenti del Parlamento in seduta comune per i primi due scrutini e tre quinti dal terzo in poi) e, dunque, un’intesa con almeno una parte delle forze di opposizione è necessaria. Anche se – va segnalato – oggi sarebbe sufficiente il “soccorso” di una decina di parlamentari di opposizione per permettere all’attuale maggioranza di scegliere “il” o “i” giudici mancanti[1].
Il rinvio dell’elezione, in altri termini, appare rivelatore della volontà di adagiarsi su una logica spartitoria, che è quanto di più lontano dal senso profondo delle maggioranze volute dalla Costituzione[2], che imporrebbero, al contrario, scelte condivise tra maggioranza e opposizione con l’obiettivo di individuare personalità di grande prestigio e competenza da far sedere a Palazzo della Consulta. Quello che se ne ricava è, come già evidenziava G. Zagrebelsky, una «concezione patrimoniale dei posti presso la Corte costituzionale»[3], da occupare con nomi che siano graditi a chi li nomina.
Non solo. Una simile scelta è gravida di ulteriori conseguenze.
Anzitutto, già da mesi la Corte costituzionale lavora con una composizione “squilibrata” e a ranghi ridotti. Mancando, infatti, un giudice di nomina parlamentare, negli equilibri interni alla Corte le altre due componenti (formate dai giudici nominati dal Presidente della Repubblica e dalle supreme magistrature) sono numericamente prevalenti.
Inoltre, essendo l’organo di giustizia costituzionale composto da quattordici membri, il voto del Presidente diviene decisivo qualora si verifichi una situazione di parità in seno al collegio[4].
Quando ci si avvicinerà alla scadenza degli ulteriori tre giudici, tali storture si acuiranno, dal momento che questi ultimi (attuale Presidente compreso) non parteciperanno più alle udienze e alle camere di consiglio in cui si dovessero discutere cause le cui decisioni essi non farebbero in tempo a firmare[5].
Se si attenderà a eleggere il giudice mancante sino a dicembre 2024, i giudici da nominare diventeranno addirittura quattro (situazione questa mai verificatasi nella storia repubblicana), e la Corte dovrà lavorare, per un periodo più o meno lungo, con undici componenti, soglia che la legge n. 87 del 1953 individua come limite minimo affinché la Corte stessa possa funzionare. Si prefigurerebbe, quindi, il rischio che l’inerzia del Parlamento si spinga sino a determinare la paralisi dell’organo supremo di giustizia costituzionale. Prosaicamente, basterebbe un’influenza che colpisca uno degli undici giudici rimasti in carica e tale scenario diverrebbe realtà.
In definitiva, il ritardo nella scelta dei giudici costituzionali da parte del Parlamento in seduta comune si risolve in una lesione di quel principio di leale collaborazione che dovrebbe presiedere i rapporti tra gli organi dello Stato: subordinando l’adempimento di un dovere costituzionale ai tempi e alle alchimie della politica, il Parlamento espone il collegio al rischio di funzionare a ranghi ridotti e squilibrati, se non, addirittura, di paralizzarsi[6].
2. Allargando lo sguardo rispetto alla contingente vicenda, va ricordato che l’individuazione del meccanismo di rinnovo dei giudici della Corte costituzionale e le problematiche connesse al possibile ritardo da parte delle Camere nella sostituzione dei posti vacanti non costituiscono una novità di questi ultimi anni. Si tratta, al contrario, di questioni dalle radici antiche, che impegnano la riflessione costituzionalistica sin dalle origini[7].
In principio, l’art. 135 della Costituzione e, soprattutto, la legge costituzionale n. 1 del 1953 e la legge ordinaria n. 87 del 1953, regolavano l’elezione dei cinque giudici della Corte costituzionale per mano del Parlamento in seduta comune in modo diverso da quello attuale.
Anzitutto, era richiesta la maggioranza dei tre quinti dei componenti l’Assemblea nei primi due scrutini e dei tre quinti dei presenti negli scrutini successivi al terzo. Si trattava, quindi, di quorum più bassi rispetto a quelli odierni, ma che, comunque, richiedevano un’ampia convergenza (non fu considerata la proposta, pure avanzata in dottrina[8], di non prevedere alcuna maggioranza qualificata)[9].
Ma soprattutto, per quello che qui più interessa, differente era il sistema di rinnovo delle cariche.
L’art. 4 della legge costituzionale n. 1 del 1953, nel testo originario, optò, infatti, per un rinnovo parziale della Corte costituzionale, con l’obiettivo di assicurare il più possibile la sua indipendenza dalle forze politiche che avevano avuto modo di partecipare alla sua prima elezione. E così, era previsto che il mandato dei giudici durasse dodici anni, ma anche che, tra i giudici nominati alla scadenza dei dodici anni dalla prima formazione della Corte, due per ciascuna componente (scelti mediante sorteggio dalla Corte stessa) sarebbero stati rinnovati anticipatamente decorsi nove anni, mentre i restanti nove sarebbero stati sostituiti al termine del dodicennio. Quanto ai rinnovi successivi, la disposizione conteneva un comma di dubbia interpretazione (definito in dottrina un “rompicapo”[10]), in quanto stabiliva: «successivamente si rinnovano ogni nove anni i giudici rimasti in carica dodici anni». Insomma, la legge costituzionale n. 1 del 1953, nel testo originario, presupponeva il rinnovo contestuale dei giudici costituzionali in due “blocchi” di sei e nove e, per quanto riguarda il Parlamento in seduta comune, prefigurava, l’elezione contestuale di due giudici (dopo nove anni di attività della seconda formazione) e di tre giudici (dopo dodici anni). Questo sistema, che, nelle intenzioni del legislatore costituzionale, avrebbe determinato a regime un rinnovo scaglionato nel tempo, poteva tuttavia in concreto funzionare solo se tutti i giudici avessero terminato il mandato alla data prestabilita[11]. Invece, ben dieci giudici su quindici, per varie ragioni, si dimisero prima, tanto che ci si chiese se, per assicurare il funzionamento del congegno previsto dal legislatore del 1953, i giudici che fossero eletti in sostituzione di un giudice dimessosi anticipatamente, dovessero restare in carica per l’intero mandato oppure per il tempo residuo del mandato del giudice che venivano a sostituire.
In generale, comunque, l’obiettivo di tale complesso sistema era quello di evitare una scadenza in blocco di tutti i giudici costituzionali e di consentire, al contrario, un rinnovo parziale in tempi differenti e prestabiliti. La scelta di anticipare la scadenza di sei giudici (due di nomina presidenziale, due di nomina parlamentare, due scelti dalle supreme magistrature) mirava, inoltre, all’obiettivo di impedire proprio la logica delle nomine “a pacchetto” di più di tre giudici contemporaneamente: in altre parole, stante la disciplina originaria, non sarebbe stato possibile per il Parlamento - come accade invece oggi - procrastinare le nomina dei giudici per arrivare a eleggerne ben quattro in un’unica tornata.
Tuttavia, il meccanismo delineato dal legislatore del 1953 risultò eccessivamente rigido, complicato e di difficile applicazione pratica, tanto da sollevare, sin dal principio, più di una riserva[12]. Particolarmente significativo è che, nel settembre del 1963, il Presidente della Repubblica Segni abbia inviato un messaggio alle Camere con il quale criticava duramente proprio il sistema prefigurato dall’art. 4 della legge costituzionale n. 1 del 1953, che, riprendendo le parole del Capo dello Stato, nel disciplinare il rinnovo dei membri della Corte, poteva «produrre gravi inconvenienti», con particolare riferimento alla «durata variabile e incerta della nomina». Segni invitava, pertanto, le forze politiche ad abrogare, quanto prima, siffatta disciplina, per tornare al modello delineato originariamente dalla Costituzione, che prevedeva più semplicemente un mandato di dodici anni decorrente dalla data del giuramento[13].
Tali inviti furono recepiti pochi anni più tardi con l’approvazione della legge costituzionale n. 2 del 1967, che ha modificato l’art. 135 Cost.
Anzitutto, si decise di innalzare i quorum necessari per l’elezione dei giudici costituzionali da parte del Parlamento in seduta comune, richiedendo la maggioranza dei due terzi dei componenti l’Assemblea nei primi due scrutini e dei tre quinti negli scrutini successivi al terzo (art. 3 della legge costituzionale n. 2 del 1967). Tale ampliamento delle maggioranze necessarie per l’elezione dei giudici costituzionali è spiegato, in dottrina, con la volontà di “spoliticizzare” ancora di più la scelta dei giudici costituzionali di nomina parlamentare. È però anche possibile collegare l’allargamento delle maggioranze necessarie per eleggere i giudici costituzionali da parte delle Camere riunite con l’abrogazione del meccanismo di rinnovazione parziale-contestuale “a blocchi” previsto proprio dalla legge costituzionale n. 1 del 1953 e poc’anzi descritto.
Con la riforma del 1967, infatti, l’art. 4 della legge costituzionale n. 1 del 1953 fu abrogato per introdurre un meccanismo, più lineare, che sancisce oggi il rinnovo parziale e progressivo di tutti i giudici della Corte costituzionale al venire meno dei singoli mandati: questi, senza distinzioni, rimangono quindi in carica per nove anni decorrenti dalla data del rispettivo giuramento e alla scadenza del termine cessano dall’ufficio e dalle funzioni esercitate sino a quel momento senza poter essere rinominati (art. 1 della legge costituzionale n. 2 del 1967, che ha riscritto l’art. 135 Cost.). Non è, quindi, prevista alcuna forma di prorogatio e, dunque, quando un giudice termina il proprio mandato, il suo posto rimane vacante sino alla nomina del sostituto.
Una norma transitoria ha poi fissato in dodici anni - decorrenti dalla data del giuramento - la durata del mandato dei giudici nominati prima dell’entrata in vigore della legge costituzionale n. 2 del 1967, chiarendo che anche a questi ultimi si sarebbe applicato l’art. 135, comma 4, Cost., in base al quale alla scadenza del mandato i giudici costituzionali cessano dalle loro funzioni.
Il meccanismo entrato in vigore nel 1967 e mai più modificato prevede, quindi, un rinnovo parziale e continuo dei giudici costituzionali allo scadere dei rispettivi mandati novennali. Non è esclusa, in linea puramente teorica, una perfetta coincidenza nella scadenza dei mandati, ma si tratta di un’ipotesi limite, tanto è vero che nella prassi i vari giudici non scadono mai tutti insieme.
Queste previsioni vanno poi coordinate con l’art. 16, comma 2, della legge n. 87 del 1953, che stabilisce che la Corte non può funzionare con meno di undici giudici e con l’art. 5 della legge costituzionale n. 2 del 1967 che richiede il rinnovo della carica vacante entro il termine (come sappiamo rivelatosi meramente ordinatorio) di un mese.
3. Il sistema vigente, più funzionale rispetto a quello originariamente previsto, ha sin qui consentito il costante rinnovo parziale della Corte costituzionale: quando un giudice termina il mandato, quale che sia la ragione, può essere immediatamente sostituito.
Ci sono stati, per la verità, ritardi, anche consistenti, nella nomina dei giudici della Corte costituzionale di elezione parlamentare[14]. Basti ricordare che, per sostituire i giudici Casavola e Spagnoli, ci vollero ben undici mesi; nel caso del giudice Caianiello, addirittura venti mesi; nel caso di Guizzi e Mirabelli, diciassette mesi; per Vaccarella, ben diciotto mesi[15].
In anni più recenti, però, la sensazione è che il rinvio dell’elezione sia stato sempre più spesso “voluto” per avere un “pacchetto” di cariche da coprire nella stessa tornata: talvolta, l’elezione del giudice costituzionale mancante è stata favorita dal fatto che le Camere o il Parlamento in seduta comune erano chiamati a eleggere i componenti di altri organi (il Csm, ad esempio); in altri casi, invece, come nel 2015, si attese che ben tre fossero i giudici della Corte da eleggere così da favorire un accordo in sede parlamentare (in un’unica tornata furono eletti i giudici Barbera, Modugno e Prosperetti).
Anche oggi, la direzione verso cui ci si sta orientando è quella di attendere la scadenza di altri tre giudici per nominarne quattro tutti insieme alla fine del 2024.
Se, quindi, il ritardo nella nomina dei giudici costituzionali da parte del Parlamento è una costante della storia repubblicana, la novità va rinvenuta nel numero elevato di giudici da eleggere contemporaneamente e, forse, nelle ragioni che sottostanno al rinvio.
Sono infatti ormai venute meno alcune risalenti convenzioni costituzionali che, pur rispondendo a logiche “spartitorie”, avevano quantomeno il pregio di regolare i rapporti tra le forze politiche, riducendo il rischio di stalli eccessivamente lunghi (e potenzialmente pericolosi per il funzionamento stesso dell’organo di giustizia costituzionale) e l’individuazione da parte della maggioranza di tutti (o quasi) i candidati da eleggere. Nel corso della c.d. Prima repubblica, si era affermata una convenzione costituzionale secondo la quale due giudici spettavano alla Democrazia cristiana, uno al Partito socialista, uno al Partito comunista ed uno ai partiti laici minori (liberale e repubblicano) a rotazione[16]. Pertanto, quando terminava il mandato un giudice indicato, ad esempio, dalla Democrazia cristiana, si provvedeva subito (o quasi) a sostituirlo con altro indicato dallo stesso partito, e così via.
In seguito, seguendo una logica “maggioritaria”, il Parlamento ha inaugurato una prassi differente, in base alla quale erano eletti due giudici indicati dalla maggioranza e due dall’opposizione “a blocchetti”, mentre il quinto giudice era indicato dalla maggioranza “del momento” con il gradimento dell’opposizione secondo una logica bipartisan[17].
Negli ultimi anni, si assiste ad una rottura di qualunque prassi pre-definita: le forze di maggioranza, se hanno i numeri, tendono a scegliere candidati a loro più graditi, eventualmente riservando all’opposizione un posto. In questa logica, avere più posti da coprire favorisce accordi anche dentro la maggioranza.
Oltre alle conseguenze già segnalate, si può ipotizzare che questa prassi non favorisca la scelta di personalità di ampio e condiviso prestigio: un conto, infatti, è trovare un accordo su uno o più nomi condivisi, sulla cui competenza nessuno può obiettare, altro è dividersi previamente i posti da coprire e lasciare a ciascun partito la scelta del “suo” candidato.
4. Non è un caso che diversi siano stati, in dottrina, i rimedi prospettati per provare a ovviare all’inerzia parlamentare[18].
Il primo è quello di un messaggio formale alle Camere da parte del Presidente della Repubblica, al fine di richiamarle all’osservanza dei propri doveri istituzionali. Il 7 novembre 1991 il Presidente Cossiga, nell’inviare un messaggio, si spinse a minacciare lo scioglimento anticipato nel caso di perdurante inerzia del Parlamento in seduta comune. Il messaggio sortì l’effetto sperato, visto che in meno di una settimana si procedette all’elezione dei giudici mancanti. Tuttavia, la minaccia di scioglimento anticipato pare davvero una soluzione limite e rischia, peraltro, di rivelarsi un’arma spuntata, non potendo garantire che le Camere procedano in tempo utile all’elezione dei giudici[19].
Richiami da parte dei Presidenti della Repubblica nella loro funzione di garanti della regolarità del funzionamento delle istituzioni non sono comunque mancati: dal messaggio di Segni del 16 settembre 1963, a quello di Ciampi del 26 febbraio 2002, al comunicato di Napolitano del 3 ottobre 2008, alle recentissime parole espresse il 25 luglio 2024 dal Presidente Mattarella in occasione della Cerimonia del Ventaglio.
Qualora il ritardo si dovesse spingere sino a rischiare di compromettere il funzionamento stesso della Consulta, è stata prospettata la possibilità che la Corte stessa, prima che la paralisi si verifichi, sollevi di fronte a se stessa un conflitto di attribuzione nei confronti del Parlamento in seduta comune, in cui si accerti la menomazione della propria sfera di attribuzioni a causa dell’inerzia parlamentare; in quella sede, la Corte potrebbe, in ipotesi, anche auto-sollevarsi una questione di costituzionalità sulla disposizione (che però è di rango costituzionale, ossia l’art. 135, comma 4, Cost., così come riformato dalla legge costituzionale n. 2 del 1967) che vieta la prorogatio dei giudici costituzionali, per violazione del principio supremo dell’ordinamento che richiede la piena e costante operatività dell’organo di giustizia costituzionale[20].
Si è anche ragionato della possibilità di introdurre l’istituto della prorogatio con revisione costituzionale, modificando appunto l’art. 135, comma 4, Cost. Trattasi di una soluzione che, per un verso, scongiurerebbe il rischio di paralisi, dall’altro, però, potrebbe ulteriormente dilatare i tempi di sostituzione dei giudici, determinando nei fatti un allungamento del mandato di quelli scaduti ben oltre i limiti temporali tracciati dalla Costituzione[21].
Una ulteriore modifica consisterebbe nell’abbassamento del quorum di funzionamento della Corte oggi previsto dalla legge n. 87 del 1953. Si tratta di un requisito fissato in una legge ordinaria, che in ipotesi potrebbe essere abbassato a 10 per evitare che l’inerzia del Parlamento blocchi l’attività della Corte costituzionale: quand’anche tutti e 5 i membri di nomina parlamentare mancassero, vi sarebbero, infatti, quelli di nomina presidenziale e quelli eletti dalle supreme magistrature. Tale soluzione avrebbe, però, l’inconveniente di legittimare la prassi secondo cui l’organo supremo di giustizia costituzionale può lavorare a ranghi ridotti e con una composizione “squilibrata” e potrebbe aggravare la tendenza a procrastinare la scelta dei giudici da parte del Parlamento.
Ancora, è stata prospettata l’ipotesi di una modifica costituzionale che consenta, in via eccezionale, di avocare il potere di nomina in capo al Presidente della Repubblica e/o alle supreme magistrature o ancora alla stessa Corte costituzionale[22].
In dottrina si è infine ragionato della possibilità che il Presidente della Camera, quale Presidente del Parlamento in seduta comune, convochi le Camere riunite e faccia ripetere ininterrottamente gli scrutini fintanto che non si arrivi ad una scelta condivisa, così da imporre l’adempimento di un preciso dovere costituzionale fissato dall’art. 135 Cost. In questo modo, si ritiene che, giocoforza, i gruppi parlamentari sarebbero costretti ad addivenire ad un accordo, eventualmente preceduto da una rosa di nomi che possa essere discussa tra le forze politiche[23].
5. Per concludere, il ritardo che le Camere stanno perpetuando nella scelta dei giudici costituzionali costituisce uno “strappo” del “tessuto costituzionale”, cui sarebbe necessario porre rimedio al più presto.
La Costituzione, nel definire la composizione e le modalità di scelta dei componenti della Corte costituzionale non detta, infatti, solo regole operative, ma delinea un preciso equilibrio, che mira a garantire il funzionamento dell’intero sistema di giustizia costituzionale.
Che il Parlamento, titolare della funzione legislativa e depositario della rappresentanza politica nazionale, si spinga a compromettere questo equilibrio, è atto che si pone ai limiti della scorrettezza istituzionale nei confronti di un organo, la Corte costituzionale, deputato a garantire proprio l’osservanza della Costituzione. È un po’ come se il “controllato” mettesse in discussione la legittimità e l’operatività del “controllore”, subordinando le regole costituzionali alle contingenze e alle alchimie della politica.
Non può, quindi, che auspicarsi che il Parlamento si decida ad ovviare alla propria inerzia.
L’attivazione, infatti, dei rimedi sopra prospettati costituirebbe il segno dell’incapacità delle forze politiche di cogliere il senso profondo delle regole fissate in Costituzione, che richiedono, anzitutto, che i rapporti tra i poteri dello Stato siano improntati al principio di leale collaborazione, così che l’intero sistema costituzionale si mantenga in equilibrio e possa funzionare fisiologicamente.
[1] La maggioranza di centro-destra è, infatti, complessivamente pari a circa 350 parlamentari, e la maggioranza dei tre quinti del Parlamento in seduta comune è poco più alta, ossia 360 componenti.
[2] Cfr. A. Pugiotto, «Se non così, come? E se non ora, quando?» Sulla persistente mancata elezione parlamentare di un giudice costituzionale, in Forum di Quaderni costituzionali, 22 ottobre 2008, 1-14.
[3] G. Zagrebelsky, La Giustizia costituzionale, Il Mulino, Bologna, 1988, 74.
[4] Cfr. art. 17, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
[5] Lo evidenzia P. Faraguna, Il giudice vacante alla Corte costituzionale: una questione di numeri, in LaCostituzione.info, 19 febbraio 2024.
[6] Evenienza questa peraltro verificatasi, per un breve periodo, nel 2002, quando la Corte dovette rinviare un’udienza per mancanza del numero legale. In quell’occasione i giudici vacanti per ritardo del Parlamento erano “solo” due, cui però si aggiunsero un giudice assente per lutto, uno per incompatibilità, uno per malattia, come ricorda M. Torrisi, La Consulta senza numero legale per la prima volta in quarantasei anni, in Dir e giur., 13/2002, 39.
[7] Sul punto, nella dottrina più risalente, si vedano G. Guarino, Deliberazione-nomina-elezione (A proposito delle modalità di elezione da parte del Parlamento dei giudici della Corte costituzionale), in Riv. it. sc. giur., 1954, 97 ss.; L. Elia, Durata in carica e prorogatio dei giudici costituzionali, in Giur. it., 1966, IV, 330 ss.; A. Pizzorusso, Art. 135, in Comm. Cost. Branca, Bologna-Roma, 1981, 147 ss.; R. Pinardi, Il problema dei ritardi parlamentari nell’elezione dei giudici costituzionali tra regole convenzionali e rimedi de jure condendo, in Giur. cost., 2003, 1819 ss. Più di recente, cfr. le acute riflessioni di A. Pugiotto, Come e perché vincere la tentazione di una Corte costituzionale ad assetto variabile, in Quaderni costituzionali, 2/2024, 411-414.
[8] Ad esempio, da S. Galeotti, Sull’elezione dei giudici costituzionali di competenza del Parlamento, in Rass. dir. pubbl., 1954, 56 ss.
[9] Ricostruisce il dibattito in merito F. Bonini, Storia della Corte costituzionale, La nuova Italia, Firenze, 1996, 85 ss.
[10] In questi termini A. M. Sandulli, Intervento, in G. Maranini (a cura di), La giustizia costituzionale, Vallecchi, Firenze, 1966, 428.
[11] Evidenzia tale criticità F. Bonini, Storia della Corte costituzionale, cit., 86.
[12] Cfr., sul punto, C. Mortati, Istituzioni di Diritto pubblico, Giappichelli, Torino, 1962, 970; F. Pierandrei, voce Corte costituzionale, in Enc. Dir., X, Milano, 1962, 987.
[13] V. il Messaggio del Presidente della Repubblica sulla elezione e la nomina dei giudici della Corte costituzionale e sulla non rieleggibilità del Presidente della Repubblica, in Il Foro Italiano, n. 86/1963, 73-76. Di particolare interesse lo scambio di missive tra il Presidente Segni e il Prof. L. Elia antecedenti alla formulazione del messaggio, che ora possono leggersi nel volume Antonio Segni e i giuspubblicisti Carteggio sui poteri del Presidente della Repubblica, a cura di S. Mura, FrancoAngeli, Milano, 2024.
[14] Come ricorda A. Pugiotto, Come e perché, cit., 413.
[15] In quell’occasione, vi fu addirittura un’iniziativa di Marco Pannella, che per protestare contro il ritardo del Parlamento, iniziò un lungo sciopero della sete, accompagnato da un appello del 5 ottobre 2008, sottoscritto da ben 506 parlamentari, con cui si chiedeva al Presidente della Camera, quale Presidente del Parlamento in seduta comune, di convocare le Camere riunite a oltranza “fino al formarsi delle decisioni necessarie”.
[16] Cfr. A. Pizzorusso, Art. 135, cit., 151 ss.; ed anche J. Luther, I giudici costituzionali sono giudici naturali?, in Giur. cost., 1991, 2478 ss.
[17] Su cui R. Pinardi, Il problema dei ritardi, cit., 1819 ss.; U. Spagnoli, I problemi della Corte. Appunti di giustizia costituzionale, Giappichelli, Torino, 1996, 20 ss.
[18] Sul punto, cfr. R. Pinardi, Il problema dei ritardi, cit., 1819-1855; G. Guarino, Deliberazione-nomina-elezione, cit., 99 ss.; A. Pugiotto, Se non così, come?, cit., 1-14.
[19] V. la ricostruzione di R. Pinardi, Il problema dei ritardi, cit., 1840.
[20] Cfr., sul punto, le considerazioni di A. Pugiotto, Se non così, come?, cit., 12-14. Rileva una serie di criticità di questa soluzione R. Pinardi, Il problema dei ritardi, cit., 1835-1836.
[21] Sui rischi e sui benefici dell’estensione della prorogatio ai giudici costituzionali, cfr. A. Pugiotto, Se non così, come?, cit., 13. Si segnala che, originariamente, la prorogatio era prevista dall’art. 18 del regolamento generale della stessa Corte costituzionale, che stabiliva che ciascun giudice restasse in carica «fino alla data del giuramento del giudice chiamato a sostituirlo».
[22] Su queste ulteriori soluzioni cfr. sempre R. Pinardi, Il problema dei ritardi, cit., 1819-1855.
[23] Soluzione questa prospettata da G. Guarino, Deliberazione-nomina-elezione, cit., 99 ss. e ripresa da A. Pugiotto, Come e perché, cit., 414.