Questo contributo fa parte della discussione aperta da questa Rivista sul disegno di legge di riforma costituzionale n. 935, comunicato alla Presidenza del Senato il 15 novembre 2023, che prende il nome di premierato. Si veda anche Premierato sì, ma non così di Stefano Ceccanti.
Trent’anni dopo.
L’Ingegneria costituzionale e le Riforme.
di Alessandro Mangia
Sommario: 1. Che cos’è la forma di governo – 2. Il Triangolo che cambia – 3. La nuova legittimazione duale del Governo. – 4. Partiti e Quirinale – 5. Una riforma limitata – 6. L’eliminazione dei Senatori a vita – 7. L’eliminazione dello scioglimento disgiunto – 8. Il modello Westminster di vent’anni fa. Legge elettorale e i principi ‘supremi’ - 9. La procedimentalizzazione del rapporto di fiducia – 10. Responsabilità giuridica e responsabilità politica – 11 La libertà del parlamentare e l’ingegnere costituzionale – 12. Sapienza politica, educazione alla politica, e ingegneria costituzionale.
1. Che cos’è la forma di governo
Se si deve svolgere una riflessione in margine al Disegno di Legge Costituzionale n. 935/2024, presentato al Senato in data 15 Novembre 2024 (cd. Riforma Meloni) è bene partire subito da una premessa.
E questa premessa è offerta dalla antica osservazione di M. Duverger per cui la forma di governo non è una parte della Costituzione: la ormai ridicolmente celebre ‘Costituzione dei poteri’, isolabile da un ‘Costituzione dei diritti’, da una ‘Costituzione Economica’, o da altro.
Né la forma di governo è una disciplina che può essere esaminata ‘tecnicamente’, come a qualcuno piace dire da trent’anni, nella logica dell’‘ingegnere’ costituzionale, nel tentativo di isolare il proprio discorso dal sovraccarico politico che inevitabilmente accompagna ogni discorso sulle riforme.
La forma di governo è sempre un risultato di fatto in rapporto ad una situazione attuale e concreta: è, cioè, il risultato dell’interazione fra a) le norme costituzionali che distribuiscono la funzione di indirizzo politico tra gli organi dello Stato (e di questo si occupa la riforma in questione); b) la legislazione elettorale, ossia il modo in cui i voti vengono convertiti in seggi (di cui la riforma si occupa in parte, e a grandissime linee); c) la composizione del sistema politico, ossia la sua articolazione in partiti. Che è analizzabile in termini di numero, struttura, divaricazione ideologica, radicamento territoriale. E di cui il diritto non può occuparsi, ma che deve tenere presente, come ben sapeva un Maestro del Diritto costituzionale come L. Elia che, sulla base di questa osservazione, aveva costruito, nel 1970, una sua teoria della forma di governo, tutta incentrata sul ruolo dei partiti[1] e delle ‘forze politiche’.
E, a questa tripartizione classica, andrebbe aggiunta la ricognizione di quella che, in mancanza, di meglio si suole definire ‘prassi’ di azione degli organi costituzionali: perché, invariati quei tre elementi di cui si è appena detto, è la ‘prassi’ a generare, della forma di governo, quelle trasformazioni (Verfassungswandlungen)[2] che i giuristi in passato hanno cercato di ricondurre alle categorie della ‘consuetudine’ o della ‘convenzione’ costituzionale, fino a parlare, in certe fasi, di diritto costituzionale ‘informale’ o ‘non scritto’ (ungeschriebenes Verfassungsrecht) a proposito delle ‘regolarità’ (non delle ‘regole’) di funzionamento delle istituzioni [3].
Se ci si limita ad esaminare uno solo di questi quattro elementi, ogni osservazione non può che essere parziale e di limitata utilità.
2. Il Triangolo che cambia
Qualche tempo fa R. Bin ha provato a spiegare questa peculiarità del discorso attorno alla forma di governo, dicendo che la forma di governo italiana è un Triangolo i cui vertici sono Governo, Parlamento e Presidenza della Repubblica. E questo Triangolo non è fisso, ma si trasforma e cambia nel tempo, restando però sempre un triangolo: quel che si è chiamato, per amor di geometria, ‘isomorfismo’ della forma di governo[4].
Si tratta di una buona metafora. E lo è per diverse ragioni: innanzi tutto perché spiega con un’immagine semplice qualcosa di complesso: e cioè il fatto che le forme di governo ‘divengono’ nel tempo, e quindi costringono gli studiosi a confrontarsi con qualcosa che, ad es., era chiarissimo a chi, all’inizio del XIX Secolo, era già avvertito del fatto che “La Costituzione … è, ma allo stesso tempo diviene: e cioè procede nel suo processo di formazione. Questo procedere è una modificazione che non è immediatamente percepibile e non assume la forma della revisione formale”, sicché “il perfezionarsi di una situazione è apparentemente silenzioso e inosservato. Ed è questa la ragione per cui, con il trascorrere del tempo, una Costituzione può giungere ad essere qualcosa di molto diverso da ciò che è stata in passato” [5].
Ed è, in secondo luogo, quella del Triangolo, una buona metafora perché allarga il campo d’analisi delle riflessioni condotte negli ultimi trent’anni. Che hanno inseguito, con la logica dell’“ingegneria costituzionale”, il mito del ‘Governo di legislatura’. Che si sarebbe dovuto raggiungere attraverso forme di ‘razionalizzazione’ del rapporto politico tra Governo e Parlamento (la famosa ‘sfiducia costruttiva’ ne è un ottimo esempio), o attraverso interventi sulla legislazione elettorale, fino a dar vita ad un genere letterario autonomo, a cavallo tra diritto costituzionale e scienza politica.
L’immagine del Triangolo porta, insomma, nel campo d’indagine quello che del Triangolo è il vertice: ovverosia il Presidente della Repubblica. Ed aiuta così a mettere a fuoco alcune trasformazioni degli ultimi anni, sfuggite a chi si è impegnato solo sul problema della ‘durata’ dei governi, o sulle vicende della legislazione elettorale.
Si tratta di trasformazioni riconducibili alla circostanza per cui la Presidenza della Repubblica avrebbe assunto, rispetto ai tempi della cd. Prima Repubblica, un ruolo talmente stagliato da essere stato, in certe fasi, assolutamente dominante rispetto a Governo e Parlamento, realizzando di fatto durante il Governo Draghi – e questo è stato evidente - una concentrazione di potere politico mai vista prima nella Storia repubblicana.
Il che non è avvenuto per caso. Se in passato - e così è stato dal 1948 fino al triennio 1991/1993 - la Presidenza della Repubblica aveva dato mostra di un profilo non troppo definito rispetto all’asse Governo-Parlamento, imperniato su un sistema dei partiti estremamente stabile (la vecchia idea del ‘Presidente-Notaio della Repubblica), è da allora che all’improvvisa debolezza del sistema politico ha dovuto fare riscontro, con sempre maggiore consapevolezza, il ruolo del Quirinale.
Il Triangolo disegnato qualche tempo fa da R. Bin, insomma, ha preso a cambiare forma allora, con la fine dei partiti della Prima Repubblica. E da allora il vertice ha preso ad allontanarsi dalla base, fino a staccarsene nettamente.
Credo sia questo, più che il vecchio e consumato tema della ‘stabilità’ e della ‘governabilità’, l’elemento su cui si dovrebbe concentrare l’attenzione e su cui si dovrebbe ragionare. Perché è questo l’elemento che ha segnato, dal punto di vista della forma di governo, il percorso della cd. Seconda Repubblica rispetto alla Prima[6]. Qualche rifiuto ad emanare Decreti legge del Governo; la conseguente prassi della contrattazione preventiva del Governo con il Quirinale in ordine al contenuto dei Decreti Legge prima della delibera in Consiglio dei Ministri e della trasmissione al Presidente per l’emanazione ex art. 15 l. 400/1988; un uso quotidiano e troppo consapevole del potere di esternazione, sapientemente amplificato dalla stampa ufficiale; qualche rifiuto di nomina di Ministri proposti dal Presidente del Consiglio incaricato che un tempo si sarebbe confinato nel riserbo dei colloqui tra Quirinale e Presidente del Consiglio – come è sempre stato e che invece è diventato una stupefacente dichiarazione a reti unificate; qualche assunzione di ruolo politico e copertura di Governi cd. ‘tecnici’ o ‘del Presidente’, non solo nella fase della Pandemia, dove questo fenomeno è stato eclatante; la concentrazione in capo al Quirinale del cd. Potere Estero, solo marginalmente disciplinato dall’art. 80 Cost. (non tutti i Trattati devono passare per le Cruna dell’Ago dell’autorizzazione alla ratifica ex art. 80); interventi estemporanei sull’attività di inchiesta del Parlamento; ‘moniti’ al Governo e alle forze politiche puntualmente rilanciati da Uffici Stampa efficientissimi, testimoniano di una trasformazione nel ‘funzionamento’ della forma di governo che non sempre è stata capita fino in fondo dalla cronaca politica. E nemmeno dagli studiosi, se non i più avvertiti[7].
E che è culminata nella creazione per fatti concludenti dell’istituto della rielezione del Presidente della Repubblica sulla base del principio - tutt’altro che pacifico - per cui ciò che è extra legem dev’essere per forza legittimo.
Il che, pur essendo assai discutibile dal punto di vista della logica giuridica, è sembrato d’un tratto un principio ovvio, da sempre presente in Costituzione. E comunque sanzionato dall’acclamazione parlamentare (tanto diversa da un plebiscito popolare?) ad un Presidente rieletto nel 2013 che, a conferma del suo nuovo ruolo di Presidente rieletto, si è subito preoccupato di rimbrottare un Parlamento acclamante.
Il che sembra un’ottima dimostrazione del fatto che la forma di governo dipende sempre, schmittianamente, dalla situazione di fatto e dall’occasione politica. E che le riforme – ad es. l’introduzione dell’istituto della rieleggibilità del Presidente della Repubblica - si compiono assai più per fatti concludenti, come si è detto all’inizio, che per via di legislazione costituzionale[8].
3. La nuova legittimazione duale del Governo
Il punto interessante, però, è che questa progressiva concentrazione di ruolo politico del Quirinale si è realizzata quasi sempre con il consenso, o con l’acquiescenza del sistema politico.
E ciò è avvenuto per molte ragioni, non ultimo il semplice fatto che un sistema dei partiti complessivamente debole e poco autorevole, come era quello della Seconda Repubblica, doveva cercare un elemento di legittimazione fuori di sé. E questo elemento, dopo qualche iniziale fase di conflitto (i tempi dei ‘non ci sto’ del conflitto Scalfaro/Berlusconi), è stato cercato – e trovato – in chi, di volta in volta, ha occupato il Quirinale.
Alla sovralegittimazione del Quirinale da parte di partiti deboli e poco istituzionalizzati, ha fatto così riscontro una prestazione di garanzia da parte del Quirinale stesso nei confronti del sistema politico – o di certe sue parti - che ha ridefinito in termini del tutto nuovi la nozione di organo di ‘garanzia’, che ormai ha assunto, nella vita dello Stato, connotati che un tempo erano propri solo del Diritto civile. E che, si ammetterà, era del tutto sconosciuta ai tempi della Prima Repubblica, quando ad essere garanti della Costituzione erano non gli inquilini del Quirinale (e il relativo aiutantato burocratico, un tempo confinato nei ruoli che gli spettavano), ma i Partiti usciti dall’esperienza Costituente: soprattutto quelli a più forte e diffuso radicamento popolare. Che di quella Costituzione erano i garanti per la semplice ragione di esserne stati i creatori.
Venuto meno quel sistema, e sovraccaricato di funzioni il Quirinale, la forma di governo repubblicana, che nella mente di chi l’aveva pensata doveva essere una forma di governo a legittimazione unica, di tipo monista/parlamentare, ha preso a funzionare secondo i vecchi schemi della legittimazione duale dello Statuto Albertino: dove ad una legittimazione dal ‘basso’ del Governo, espressa dal Parlamento statutario (con i limiti che sappiamo), doveva corrispondere una legittimazione dall’ ‘alto’, di tipo ‘istituzionale/burocratico’, espressa dall’ inquilino di turno del Quirinale.
Ed era. In Età Statutaria, dall’incontro fra queste due legittimazioni – una dal ‘basso’ ed una dall’ ‘alto’ – che dovevano nascere tanto i Governi, nominati dal Monarca e fiduciati dal Parlamento, come le leggi, votate dal Parlamento e sanzionate dal Monarca (art. 3 St. Alb.)[9].
È chiaro che, non esistendo più dal 1946 una Monarchia, non è più questa la situazione, nonostante gli accostamenti – goffamente celebrativi – tra il nome di battesimo di qualche Presidente della Repubblica e il titolo di ‘inquilino del Quirinale’.
Ma è difficile negare che il rapporto strutturale che si è andato a creare fra i vertici del Triangolo non sia divenuto assai simile a quello tipico dell’Età Statutaria.
Se a questo si aggiunge che, da quella fase, il Quirinale, per diverse ragioni, sempre più evidenti dai tempi del Governo Monti del 2011, si è fatto carico del ruolo di terminale delle esigenze riassunte nella formula del ‘vincolo esterno’, proveniente, di volta in volta dall’Unione Europea e dai cd. ‘Mercati’[10], è facile capire come, dopo la crisi del Novembre 2011, il vero problema della forma di governo italiana non sia stata tanto – come si ripete dal 1991-1993 dai cd. ‘ingegneri costituzionali’ – ‘la cronica instabilità’ o la ‘debolezza’ dei Governi.
Il nuovo problema, semmai, è stato la concentrazione di potere politico che si realizza nel momento in cui due vertici del Triangolo – Presidenza della Repubblica e Presidenza del Consiglio - si avvicinano fino ad identificarsi: nel momento, cioè, in cui, per ragioni esogene al sistema dei partiti, sono entrati in scena i Governi del Presidente (Governo Monti 2011; Governo Draghi 2021), che hanno trasformato il Triangolo di R. Bin in una linea retta che ha un unico vertice e un unico punto d’arrivo.
4. Partiti e Quirinale
E questo punto d’arrivo è dato da un Parlamento fatto di partiti deboli, con scarso radicamento popolare e con enorme volatilità di consenso, sempre più popolato da capi locali da tenere a bada da parte dei rispettivi Segretari (o, come si dice oggi, dei Leader), attraverso una contrattazione continua e, soprattutto, attraverso il potere di composizione delle liste elettorali[11]. Che è poi l’unico istituto che garantisce la ‘governabilità’ non dello Stato, ma dei Partiti, sancito dal meccanismo delle liste ‘bloccate’: con conseguente impossibilità per gli elettori di scegliere il proprio rappresentante.
In questa situazione non è difficile cogliere le ragioni della trasformazione del ruolo della Presidenza della Repubblica, e dell’assunzione, da parte di questa, di un ruolo arbitrale che in passato - prima della crisi 1991-1993 - non aveva mai avuto. E che nemmeno era stato immaginato in quell’Assemblea Costituente in cui il ruolo degli appena ricostituiti Partiti era forte e definito, appoggiato com’era da un consenso popolare diffuso quanto erano diffuse le speranze di ricostruzione dopo lo sfacelo della II Guerra Mondiale.
System der Bedürfnisse) >span class="s1">a base economica, stavolta nemmeno legato ad un territorio, come poteva essere ancora nel XIX Secolo[12].
Sicché, quando ci si è accorti che il Triangolo era cambiato, il Notaio era già diventato, nel migliore dei casi, Arbitro attivo. E questo, per una ragione o l’altra, è stato accettato da tutti, a dimostrazione del fatto che la forma di governo è sempre una ‘situazione attuale e concreta’ in senso schmittiano (il risultato di una combinazione complessa di variabili), e solo in parte una disciplina da analizzare tecnicamente.
Prova ne siano – se ce ne fosse bisogno - i dubbi e le polemiche agitati nei mesi scorsi sulla stampa in ordine alla possibilità che il Quirinale non firmasse – ex art. 87 Cost. - un Disegno di Legge governativo che incidesse, almeno in parte, sulle sue prerogative.
5. Una riforma limitata
La riforma Meloni consta di cinque punti, chiaramente messi in luce dalla Relazione di accompagnamento. E si presenta programmaticamente come una riforma ‘minimale’.
E senz’altro lo è, almeno rispetto ai discorsi sulle macroriforme della II parte della Costituzione andate a referendum nel 2016 (Riforma Renzi), nel 2006 (Riforma Berlusconi), nel 2001 (Riforma del Titolo V), figlie del dibattito trentennale sulle riforme che, si diceva sopra, ha dato vita ad un genere letterario ormai autosufficiente. E lo è, a maggior ragione, una riforma limitata se messa a confronto con il materiale e gli articolati accumulatisi negli anni a far data della Bicamerale De Mita-Jotti e (1993) e dalla Bicamerale Berlusconi-D’Alema (1997) e delle proposte di Semipresidenzialismo e di Premierati ‘forti’ e ‘deboli’ che vi trovavano formulate.
Per inciso, molto di quanto prodotto in quella sede è stato trasposto nella riforma del Titolo V approvata con referendum nel 2001, i cui prodotti sono ben noti a quanti hanno dimestichezza con il Diritto delle Regioni.
6. L’eliminazione dei Senatori a vita
Il primo punto è dato dalla abrogazione dell’art 59/2 Costituzione, relativo alla prerogativa presidenziale di nominare cinque Senatori a vita “che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo artistico, scientifico e letterario”. Sul che non c’è troppo da dire, se non del fatto che sarebbe l’eliminazione di un istituto oggettivamente privo di funzione, che ha dato men che mediocre prova di sé, che è stato usato maldestramente in occasione della nomina di qualche Governo tecnico.
E la cui presenza nel sistema non è nient’altro se non un omaggio riservato ai Costituenti al vecchio art. 33 St. Alb., per il quale il Senato avrebbe dovuto essere “composto di membri nominati a vita dal Re, in numero non limitato, aventi l'età, di quarant'anni compiuti, scelti fra le categorie seguenti:
1° Gli Arcivescovi e Vescovi dello Stato;
2° Il Presidente della Camera dei Deputati;
3° I Deputati dopo tre legislature, o sei anni di esercizio;
4° I Ministri di Stato;
5° I Ministri Segretarii di Stato;
6° Gli Ambasciatori;
7° Gli Inviati straordinarii, dopo tre anni di tali funzioni;
8° I Primi Presidenti e Presidenti del Magistrato di Cassazione e della Camera dei Conti;
9° I Primi Presidenti dei Magistrati d'appello;
10° L'Avvocato Generale presso il Magistrato di Cassazione, ed il Procuratore Generale, dopo cinque anni di funzioni;
11° I Presidenti di Classe dei Magistrati di appello, dopo tre anni di funzioni;
12° I Consiglieri del Magistrato di Cassazione e della Camera dei Conti, dopo cinque anni di funzioni;
13° Gli Avvocati Generali o Fiscali Generali presso i Magistrati d'appello, dopo cinque anni di funzioni;
14° Gli Uffiziali Generali di terra e di mare. Tuttavia i Maggiori Generali e i Contr'Ammiragli dovranno avere da cinque anni quel grado in attività;
15° I Consiglieri di Stato, dopo cinque anni di funzioni;
16° I Membri dei Consigli di Divisione, dopo tre elezioni alla loro presidenza;
17° Gli Intendenti Generali, dopo sette anni di esercizio;
18° I membri della Regia Accademia delle Scienze, dopo sette anni di nomina;
19° I Membri ordinarii del Consiglio superiore d'Istruzione pubblica, dopo sette anni di esercizio;
20° Coloro che con servizi o meriti eminenti avranno illustrata la Patria;
21° Le persone, che da tre anni pagano tremila lire d'imposizione diretta in ragione de' loro beni, o della loro industria “.
Che il Costituente, all’atto di rendere il Senato elettivo, abbia conservato solo la categoria 20°, adattandola alla problematica nozione di ‘Patria’, è significativo. Così come è significativo, e non può essere salutata se non con favore, la proposta dell’abolizione definitiva della curiosa categoria del Senatori a vita, che altro non sono se non un residuato, privo di qualunque funzione, della forma di Stato monarchica[13].
7. L’eliminazione dello scioglimento disgiunto
Il secondo punto è dato dalla abrogazione della parte dell’art. 88 che garantisce la possibilità per il Presidente di sciogliere una sola delle due Camere. Si tratta, in realtà, di una norma che poteva avere senso fino al 1963, quando è stata allineata la durata delle Camere e il sistema parlamentare è stato trasformato, dal sistema a debole differenziazione che era stato pensato in Costituente, in un bicameralismo perfetto. Non è difficile capire che si tratta di una norma che, dal 1963, non ha molto senso, non ha mai trovato applicazione, ed è caduta in desuetudine. In un sistema bicamerale perfetto lo scioglimento è del Parlamento tutto, oppure non è. Ma questo sarebbe ininfluente, e l’art. 88 potrebbe tranquillamente restare com’è, non fosse che questa disposizione indebolisce il cuore della riforma medesima, che si trova nella riforma dell’art. 92 Cost. sulle modalità di investitura del Presidente del Consiglio.
8. Il modello Westminster di vent’anni fa. La legge elettorale e i principi ‘supremi’
Il terzo punto, infatti, è rappresentato dalla riscrittura integrale dell’art. 92, ed è orientato a portare, all’interno della forma di governo statale, quel ‘modello Westminster’ del simul stabunt simul cadunt che è stato poi inserito nell’attuale art. 126 Cost., che, sulla base della elezione ‘diretta’ del Presidente della Regione, regola i rapporti fra Presidente e Consiglio. E che, in buona sostanza, faceva già parte delle proposte della Bicamerale D’Alema-Berlusconi del 1997[14].
Il senso della riforma è indicato dalla Relazione di accompagnamento, laddove si specifica che si vuole introdurre ‘un meccanismo di legittimazione democratica diretta del Presidente del Consiglio, eletto a suffragio universale e diretto, con apposita votazione popolare che si svolge contestualmente alle elezioni per le Camere”, assai simile a quello proposto a suo tempo da S. Galeotti, in margine ai lavori del cd. Gruppo di Milano[15]. Si tratta di una variante definita ‘forte’ tra gli addetti ai lavori rispetto alla proposta di premierato ‘debole’ avanzata a suo tempo da A. Barbera nel 1995[16], i cui pregi e difetti sono stati analizzati, e da tempo, dalla dottrina giuridica[17].
«Art. 92. – Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni.
Le votazioni per l’elezione delle due Camere e del Presidente del Consiglio avvengono contestualmente. La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i princìpi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio dei ministri.
Il Presidente del Consiglio dei ministri è eletto nella Camera nella quale ha presentato la sua candidatura. Il Presidente della Repubblica conferisce al Presidente del Consiglio dei ministri eletto l’incarico di formare il Governo e nomina, su proposta del Presidente del Consiglio, i Ministri».
La novità più significativa – e allo stesso tempo il punto più critico – nella redazione del nuovo art. 92 è dato dall’inserimento in Costituzione di una disciplina sul sistema elettorale, che viene sottratta al rituale dibattito politico istituzionale che ha accompagnato fin dall’inizio il discorso sulle riforme, imponendo un sistema elettorale maggioritario, che assegni (almeno) il 55 per cento dei seggi al candidato Presidente vincitore e alle liste collegate, nel tentativo di assicurare al Governo una maggioranza stabile e certa. Il che di per sé è apprezzabile.
L’interrogativo però che sorge subito è che una disciplina del genere può funzionare e non generare effetti di sovra- o sotto-rappresentazione solo in presenza di un sistema dei partiti in cui sia presente un numero limitato di liste. Che genere di rappresentanza garantirebbe una lista (o una coalizione) che raggiungesse – ad esempio – il 20 per cento dei voti espressi, con un tasso di astensione oscillante, come è avvenuto, tra il 36,09 per cento del 2022, il 27,07 del 2018, il 24,80 del 2013, il 21,90 del 2008?
Riemergono qui le osservazioni iniziali sulla struttura della nozione di forma di governo. Una forma di governo funziona in modo differenziato a seconda della concorrenza o meno di alcuni elementi fattuali, quali la composizione del sistema dei partiti, l’affluenza al voto, la distribuzione del consenso tra le liste partecipanti alla consultazione. E questi elementi fattuali non possono essere controllati o indirizzati, se non in minima parte, dal legislatore, costituzionale o meno che sia.
Il fatto che si inseriscano in Costituzione due principi generali, finora appannaggio della scienza politica, e cioè ‘governabilità’ e ‘rappresentatività’, dimostra, da parte dei redattori del nuovo art. 92, piena consapevolezza del problema, ed il tentativo di circoscriverne la portata.
Va da sé che, a rigore, l’inserimento in Costituzione del criterio per cui la legge elettorale deve garantire almeno il 55 per cento al Governo supererebbe molti dei paletti precedentemente posti dalla Corte costituzionale nella sua giurisprudenza in materia elettorale (si cfr., a tacer d’altro, C. cost. 1/2014; C. cost. 35/2017) e che costituiscono oggi un limite alla progettazione di una ennesima legge elettorale. Per inciso, quante sono state le leggi elettorali in vigore in Italia dall’introduzione del Mattarellum e quanti i progetti di riforma[18]? Si ricordi qui solo il dibattito svoltosi in margine al referendum costituzionale del 2020 (cd. ‘Taglio’ dei parlamentari) all’interno del quale si sosteneva la necessità di un ennesimo intervento sulla legislazione elettorale per adeguare gli effetti del (malaugurato) ‘Taglio’ sulla ‘rappresentatività’ degli organi: un dibattito poi spentosi durante l’emergenza Covid.
Ciò detto, pare difficile ritenere che una norma costituzionale espressa possa essere tacciata di incostituzionalità, come pure qualcuno ha generosamente fatto, alla luce dei principi di ‘governabilità’ e ‘rappresentatività’. Così come è difficile pensare che la Corte costituzionale possa estendere il suo sindacato ad una norma costituzionale di deroga espressa, nonostante le invocazioni alla giurisprudenza sui ‘principi supremi’ inaugurata con C. cost. 1146/1988 e proseguita con 238/2014. Quali sarebbero i ‘principi supremi’ in gioco in questo caso? E quanto ‘ideologica’, se non schiettamente ‘politica’, è la loro invocazione?
Anche perché, prendendo sul serio questi argomenti, che si fondano, come al solito, sul parametro della ragionevolezza, una disciplina elettorale che garantisse almeno il 55 per cento dei seggi a liste sovrarappresentate non sarebbe incostituzionale in sé, ma sarebbe, di volta in volta, e di elezione in elezione, incostituzionale a seconda dell’affluenza elettorale e della distribuzione dei voti. A seconda, cioè che si verifichi o no quell’effetto distorsivo della rappresentanza che è implicito in ogni formula elettorale diversa dal ‘proporzionale’ puro.
Insomma, l’asserita incostituzionalità del nuovo art. 92 Cost. in rapporto agli impalpabili ‘principi supremi’, invocati dagli interpreti di un certo ‘neocostituzionalismo’, dipenderebbe in concreto dall’affluenza alle urne, dal numero delle liste, e dalla distribuzione dei voti: sicché, per capirci, a seconda dei casi, l’art. 92 riformato potrebbe essere prima costituzionale, poi incostituzionale, e poi ancora costituzionale in concreto a seconda di come vadano le elezioni.
Il che, si converrà, non sembra un grande modo di ragionare di Costituzione in termini che non vogliano essere, diciamo così, strumentali; o, per dirla in altro modo, improntati ad un certo ‘neocostituzionalismo’ di maniera che vive di ‘principi’ alti e ‘altissimi’, che stanno al di sopra del legislatore costituzionale. E che però sarebbero liberamente e definitivamente – e cioè senza possibilità di impugnazione ex art. 137 Cost. - ‘bilanciabili’ dalla Corte costituzionale.
Anzi, l’esempio della disciplina costituzionale, prima costituzionale, poi incostituzionale, e poi ancora costituzionale, a seconda dell’esito del voto, dovrebbe bastare a mettere in luce quanto strumentali possano essere certe invocazioni che confondono diritto e opzioni politiche. E quanto contraddittori e paradossali siano gli esiti di un sindacato di costituzionalità ridotto, a tacer d’altro, alla libera applicazione di ‘proporzionalità’ e ‘ragionevolezza’ a qualunque fattispecie.
Il problema che queste invocazioni mettono in luce, semmai, è un altro. Ed è il problema di valutare l’opportunità di approvare o meno una riforma, più o meno ben fatta, più o meno utile, più o meno rispondente alle esigenze messe in luce dalla Relazione di accompagnamento: in una battuta, più o meno rispondente agli obiettivi schiettamente ‘politici’ di ogni proposta di riforma costituzionale. Ma qui dovrebbe weberianamente fermarsi il discorso del giurista che non voglia essere attore politico che non aspiri al ruolo di Giudice-Profeta cui ci ha abituati un certo tipo di giurisprudenza, non solo costituzionale[19].
Attiene, insomma, a quella sfera della discrezionalità politica del legislatore, ordinario o costituzionale, che in altri tempi si diceva non avrebbe dovuto essere oggetto di intervento da parte del Giudice costituzionale. E che l’art. 28 l.87/1953 – apparentemente ancora in vigore – intendeva proteggere, fissando così il perimetro entro il quale avrebbe dovuto muoversi la cognizione del Giudice costituzionale, prima ancora che i ‘principi supremi’ fossero immaginati.
9. La procedimentalizzazione del rapporto di fiducia
Il terzo punto riguarda l’intervento sull’art. 94 Cost., che detta una disciplina pure ricalcata sulla logica dell’attuale art 126 Cost. Fermo restando il principio per cui “Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere” (co. 1), e che “Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e mediante appello nominale (co. 2)”; e ferma restando la disciplina della mozione di sfiducia contenuta nei co. 4 e 5, le innovazioni riguardano il co. 3, dove si legge che:
«Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. Nel caso in cui non sia approvata la mozione di fiducia al Governo presieduto dal Presidente eletto, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo. Qualora anche in quest’ultimo caso il Governo non ottenga la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere»;
e un eventuale, ultimo co. 6 dove si legge che
«In caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio eletto, il Presidente della Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia. Qualora il Governo così nominato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio subentrante, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere».
È evidente che, nel complesso, si tratta di una disciplina che mira da un lato (art. 92) ad automatizzare il procedimento di scelta del Presidente del Consiglio, spostandolo dal Capo dello Stato al corpo elettorale; dall’altro mira a procedimentalizzare (art. 94 co. 3) il conferimento della fiducia da parte delle Camere prevedendone lo scioglimento pressoché immediato nel caso in cui, con il voto di fiducia, non intendessero confermare l’indicazione uscita dalla consultazione elettorale. E nella fase successiva mira a garantire che il Programma di Governo approvato dagli elettori prosegua per la durata della legislatura.
Il che è in linea con l’ambizione trentennale di avere governi ‘stabili’ e ‘duraturi’ che garantiscano la ‘governabilità’ del Paese. Il che sembra confermato dall’esperienza di applicazione del cd. ‘Modello Westminster’ all’interno degli Esecutivi regionali.
In realtà, riprendendo i termini di un dibattito vecchio di almeno vent’anni, è lecito dubitare che le dinamiche di funzionamento del sistema di relazioni fra Presidente e Consiglio verificatesi dopo la riforma del 1999 siano destinate a riprodursi a livello nazionale, dove i Governi si trovano a gestire rapporti e interessi – innanzi tutto in sede di redazione ed approvazione della legge di bilancio che li fa essere destinatari di sollecitazioni che le Regioni – con i loro enormi problemi - non devono affrontare.
Ed è lecito dubitare della capacità di tenuta del meccanismo, di per sé molto chiaro e lineare, disegnato nella riforma, per il fatto che questo meccanismo pretende di irreggimentare in uno schema fisso una serie di variabili non compiutamente prevedibili, vincolando l’azione di Governo - che sia guidato dal Presidente del Consiglio investito dall’elezione politica, o da un suo eventuale ‘continuatore’ - alle “dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici” enunciati in origine.
Il che dà per scontato ciò che scontato non è: ovverosia che la vita dello Stato possa essere irreggimentata in una situazione di regolarità perenne, prevedibile dalla politica, e sanzionabile dal corpo elettorale in termini di voto sul ‘programma’ all’atto delle elezioni. E che quel voto sia parametro di legittimazione della successiva azione del governo, guidato che sia dal ‘premier’ o da un suo successore.
Come dovrebbe comportarsi la maggioranza in presenza di un evento imprevisto, perché in natura imprevedibile, come una situazione di tensione internazionale o una Pandemia, o soltanto una crisi finanziaria dipendente da variabili esogene, non controllabili dal Governo? Dovrebbe seguire la linea politica enunciata dal Premier di fronte al caso imprevisto perché imprevedibile, e quindi al di fuori del ‘programma’ originario, oppure dovrebbe rompersi la maggioranza?
E che senso avrebbe in questo caso conferire il mandato a formare un nuovo Governo ad un “un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto“ se la maggioranza si è già dissolta?
E, ancora, che senso avrebbe, esaurito questo passaggio, sciogliere le Camere e mandare il Paese ad elezioni in una situazione di crisi finanziaria, o sanitaria, o di politica internazionale con conseguente campagna elettorale e governo dimissionario in carica per il disbrigo degli ‘affari correnti’ ?
È chiaro che irrigidire il ‘programma di governo’ trasformandolo in un parametro di legittimazione dell’azione di un Governo sconta il fatto di vincolare l’azione di ogni governo ad un complesso di previsioni e di indirizzi che possono avere senso all’atto delle elezioni, ma che è destinato a perdere via via attualità e praticabilità con l’allontanarsi nel tempo del momento della elezione/investitura.
In altri termini: avrebbe senso, oggi, nel 2024, un governo vincolato ad un programma politico elaborato nel 2019 e sanzionato dal voto popolare del 2019?
Ma non si tratta soltanto di questo. Chi ci dice che, fermo restando lo schema disegnato dalla riforma, la maggioranza di governo, pur restando compatta, non si traduca, di fatto, in un governo diverso attraverso il ‘sostegno esterno’ di forze politiche uscite sconfitte dalla consultazione elettorale? Siamo sicuri che una norma del genere di quella contenuta nel d.d.l. 935/2023 prevenga il trasformismo, non solo del parlamentare, ma delle stesse maggioranze di Governo? Cosa impedirebbe, di fatto, al Presidente del Consiglio ‘eletto’, in una mutata situazione di fatto (ecco tornare la ‘situazione’ schmittiana), di guidare, con il consenso di tutti, un ‘Governo di unità nazionale”, eludendo o aggirando l’“investitura” o il “mandato popolare” ricevuto solo qualche anno prima in contrapposizione a chi oggi sostiene il Governo dall’esterno e ne condiziona le scelte [20]?
10. Responsabilità giuridica e responsabilità politica
In realtà il punto debole di questa proposta di procedimentalizzazione è l’idea che il ‘programma elettorale’ di un dato momento, costruito su una data ‘situazione attuale e concreta’, possa essere irrigidito e assolutizzato fino a divenire parametro unico di legittimazione di un Governo. Sicché, allontanatosi quel Governo dal programma originario, quel Governo dovrebbe automaticamente cadere con ritorno ad elezioni.
Il che, per quanto paradossale, dipende da un certo modo di accostarsi al problema della stabilità dei governi: che, come si è detto, è quello tipico dell’ingegneria costituzionale. Ma dipende, soprattutto da una mancata comprensione della natura della responsabilità politica che il Parlamento può far valere, in un sistema parlamentare, nei confronti del Governo; e, corrispondentemente, della responsabilità politica che l’elettore può far valere nei confronti del singolo parlamentare.
Come è stato messo bene in luce da V. Angiolini anni fa, il discrimine fra responsabilità giuridica e responsabilità politica è la natura del parametro alla luce del quale quella responsabilità può essere fatta valere[21]. La responsabilità giuridica è tale perché – si tratti di responsabilità civile nelle sue diverse forme, penale, o contabile – è sempre una responsabilità a parametro fisso, precostituito dalla legge o comunque dall’ordinamento. E la fissità del parametro è al tempo stesso criterio di giudizio, e garanzia di chi può, potenzialmente, essere ritenuto giuridicamente ‘responsabile’.
Invece ciò che, per approssimazione a questa, i giuristi definiscono responsabilità politica è strutturalmente altro. È, cioè, una forma di responsabilità a parametro mobile: a parametro, cioè, di volta in volta fissato da chi ha il potere (o il dovere) di far valere questa forma di responsabilità, esercitando un controllo sull’azione di chi vi è soggetto. Ed in questa circostanza si esprime un principio di ‘libertà’ della politica, che non sopporta irreggimentazioni o vincoli.
Forse che un Governo che adempia idealmente per una legislatura in modo preciso e puntiglioso il programma enunciato ha diritto a restare in carica? O i parlamentari hanno in ogni momento il potere e il dovere di sfiduciarlo nell’interesse della Nazione, qualora ritengano che l’azione di quel Governo sia inadeguata alla ‘situazione’ del momento, anche se quell’azione è stata perfettamente rispondente alle “dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici” assunti al momento dell’entrata in carica?
È chiaro che in questi casi si sconta una indebita sovrapposizione tra lo schema di funzionamento della responsabilità in senso proprio – che è quella ‘giuridica’ – e quella che, in mancanza di meglio, e per approssimazione, i giuristi hanno definito nel tempo responsabilità ‘politica’[22].
La quale, si badi, non si ritrova soltanto nel rapporto fiduciario intercorrente tra Governo e Parlamento ex art. 94 Cost., ma si ritrova, con le medesime caratteristiche, nell’art. 67 Cost. e nella disciplina del ‘libero mandato’ che regge il sistema della rappresentanza[23].
Forse che il Parlamentare che adempie scrupolosamente per una legislatura agli impegni assunti (non si sa più verso chi? Verso i propri elettori o verso la Nazione di cui ci parla l’art. 67 ?) ha diritto alla rielezione nella legislatura successiva? E il Parlamentare che invece non cambi casacca e gruppo parlamentare deve essere sanzionato perché ritenuto politicamente responsabile con esclusione dalla legislatura successiva? O invece l’elettore, in quanto titolare del potere di far valere – o meno - la responsabilità politica dell’eletto può decidere di riconfermarlo ad onta della sua fedeltà alle ‘dichiarazioni’ elettorali? E con lui riconfermare quella maggioranza più o meno fedele agli ‘indirizzi programmatici’?
11. La libertà del parlamentare e l’ingegnere costituzionale
Semmai, è proprio riflettendo sulla natura dell’art. 67 Cost., e sul principio del libero mandato che vi è racchiuso, che è possibile cogliere il fatto che, per quanto ci si sforzi di ingabbiare una maggioranza all’interno di una logica di premi e punizioni che incentivino o meno certi comportamenti, finché resta il principio del libero mandato a tutelare la libertà di voto del singolo parlamentare non esiste meccanismo che possa garantire nel tempo la durata di una maggioranza.
Il che è stato scoperto ancora trent’anni fa quando si gettava la croce sui governi di coalizione e sulla legge elettorale proporzionale e si raccontava che una legge maggioritaria avrebbe restituito lo Scettro al Principe, e che con una legge elettorale maggioritaria i governi sarebbero stati di legislatura[24]. Poi si è scoperto in fretta che i Governi del maggioritario cadevano per le stesse identiche crisi di coalizione che segnavano i tempi della Prima Repubblica; e che le maggioranze di governo variavano con frequenza anche maggiore di quanto non avvenisse ai tempi della Prima Repubblica.
Ciò che ogni riforma prodotta con la logica dell’ingegneria costituzionale, affermatasi trent’anni fa come soluzione al problema della crisi dei Partiti, sconta è l’irriducibilità della libertà del Parlamentare, garantita dal divieto del mandato imperativo ex art. 67 Cost., ad un sistema di premi e punizioni (se si preferisce, di incentivi e disincentivi) di tipo comportamentale.
Il che è soltanto l’altra faccia del problema derivante dal fatto che, alla caduta del sistema dei Partiti della Costituente, e al vuoto generatosi in quel momento, si è creduto di poter ovviare attraverso una sorta di Automa politico: uscendo, cioè, dalla prospettiva del Costituzionalismo come tecnica per la limitazione e il temperamento di un potere politico già esistente in premessa[25], e prendendo a guardare alla Costituzione come ad una ‘macchina’ che avrebbe dovuto produrre ‘politica’ e ‘decisioni’ in un contesto di stabilità ed efficienza, imposta dalla nuova logica della ‘concorrenza’ del ‘sistema paese’ con altri ‘sistemi paese’ codificata in Maastricht 1992[26].
“Bentham disse una volta che i due grandi ‘motori’ (engines) della realtà sono la punizione e il premio. E sicuramente ‘ingegneria’ deriva da engine. Mettendo assieme metafora e etimologia, sono arrivato a ‘ingegneria costituzionale’ per rendere l’idea, primo, che le costituzioni sono qualcosa di simile a macchine o meccanismi che devono ‘funzionare’ e che devono dare comunque risultati; e, secondo, che è improbabile che le costituzioni funzionino a dovere (come dovrebbero), a meno che non impieghino i ‘motori’ di Bentham, e cioè punizioni e premi”[27]. Così, nel 1995, G. Sartori descriveva il nuovo approccio, mutuato dalle scienze sociali, che avrebbe dovuto sostituire – e che di fatto ha sostituito con i risultati fallimentari che sappiamo – il vecchio ‘metodo giuridico’ nell’affrontare il problema delle ‘riforme’.
Trent’anni di esperienze fallimentari dei sedicenti ingegneri costituzionali - di quanti cioè hanno creduto opportuno importare il metodo empirico delle scienze sociali per ‘misurare’ le rese dei sistemi istituzionali[28] e applicare il behaviourismo alla politica - dovrebbero averci mostrato i grossi ed evidenti limiti di questo approccio
Chi ragiona in questo modo lascia in ombra il fatto che non si può chiedere alla Costituzione e agli artifici tecnici di fare ciò che la politica dovrebbe fare, e cioè fabbricare maggioranze per produrre decisioni condivise e socialmente accettabili e, magari, anche giuste. E lascia in ombra il fatto – ben chiaro a chi, come V. E. Orlando, distingueva nettamente fra ‘diritto’ e ‘politica’ - che c’è uno spazio che spetta alla Costituzione così come c’è uno spazio che spetta alla politica. Perché questi spazi, nella mente del fondatore del ‘metodo’ giuridico, erano separati e separati dovevano restare: nel rispetto reciproco[29].
La Costituzione può fornire un quadro normativo, e alcuni meccanismi di razionalizzazione dei procedimenti attraverso i quali giungere a queste decisioni, ma non può fare molto di più.
E ciò si può dire perché, fino a quando sta in Costituzione il pilastro dell’art. 67, a garanzia della libertà d’azione del parlamentare, il parlamentare ha tutto il diritto di uscire dalla maggioranza di cui fa parte, a prescindere dal sistema di ‘premi’ e ‘punizioni’ inventati dagli ‘scienziati sociali’ improvvisatisi giuristi.
E quando questa libertà si colloca in un sistema multipartitico, dove un governo per forza di cose deve essere governo di coalizione, l’instabilità delle coalizioni non è una patologia del sistema, ma ne è la fisiologica conseguenza nel momento in cui gli interessi dei componenti della coalizione divergono.
Ed è un bene che sia così, perché la libertà del parlamentare è soltanto la proiezione, sul piano delle istituzioni, di quella libertà dell’elettore che è garantita dall’art. 48 Cost. E che è il fondamento di quell’idea di ‘sovranità popolare’ su cui dovrebbe reggersi l’organizzazione della Repubblica[30].
12. Sapienza politica, educazione alla politica, e ingegneria costituzionale
Insomma, ciò che non si capisce – o non si vuole capire – è che senza un sistema di partiti stabile e sufficientemente istituzionalizzato non c’è espediente tecnico che regga di fronte alla imprevedibilità delle situazioni che costellano la vita dello Stato. E, di converso, anche la peggiore (sulla carta) forma di distribuzione del potere di indirizzo tra gli organi di vertice dello Stato può funzionare benissimo in presenza di una classe politica adeguatamente formata e consapevole del proprio ruolo.
Che in un sistema parlamentare le maggioranze vadano e vengano, si compongano, e si ricompongano – giova ripeterlo - è semplice fisiologia del sistema.
La stranezza è arrivata dopo, quando, con una classe politica, è venuta meno anche quella che, in mancanza di meglio, si definiva un tempo ‘sapienza politica’. E si è preteso di sostituire questa ‘sapienza’ con l’‘Ingegneria costituzionale’: e cioè il tentativo di ricreare a tavolino ciò che era venuto meno assieme al sistema politico della Prima Repubblica. La curiosa idea del ‘pilota automatico’ che dovrebbe guidare un Paese, nelle dichiarazioni di un certo funzionariato europeo, è, in fondo, figlia della stessa cultura benthamiana applicata alle istituzioni, e di cui ci parlava, lucidamente, G. Sartori ancora nel 1995[31].
Il problema, semmai, messo da parte Bentham e i suoi epigoni, più o meno consapevoli, è un altro, ed è quello con cui ci confrontiamo da almeno trent’anni: e cioè che se viene meno un sistema dei partiti, viene meno anche la funzione di educazione alla politica che i partiti hanno svolto attraverso le loro scuole di politica e che ne garantiva la replicazione nella continuità.
M. Weber, più di un secolo fa, ci diceva che la politica è una professione (in realtà un Beruf) che si impara. Se una società non educa e non forma, si preclude la replicazione sociale e si ritrova a breve senza una classe politica[32]. E senza una classe politica addestrata all’ufficio di cui ci parlava Weber la libertà del parlamentare – da garanzia della libertà del cittadino – si trasforma, e diventa uno scherzo insopportabile[33]. E dà spazio ai surrogati della politica, i cui frutti sono stati bene espressi da trent’anni di Ingegneria costituzionale.
Di cui, vale la pena di dirlo, questo progetto di riforma, stante la sua brevità, non è nemmeno il frutto peggiore. Semmai è solo un frutto un po’ troppo maturo, e dal sapore già noto.
[1] L. Elia, Governo (forme di), in Enc. Dir., XIX, 1970, ora in Costituzione, Partiti, Istituzioni, Il Mulino, Bologna 2009, 161.
[2] A. Mangia, Mutamento costituzionale e dogmatica giuridica, in Lo Stato n. 18/2022, 61 ss., sulla scorta di G. Jelllinek, Verfassungsänderung und Verfassungswandlung. Eine staatsrechtlich-politische Abhandlung, Berlin, Verlag von O. Haring, 1906, dove, fra l’altro, si parla di ‘mutamento costituzionale per mancato esercizio di funzione (nicht Ausübung) da parte di un organo dello Stato‘. Una traduzione parziale della riflessione di Jellinek si trova ora in M. Carducci (a cura di), Mutamento costituzionale, Lecce, Pensa Editore, 2004
[3] Una sintesi recente del dibattito sul punto del diritto costituzionale ‘non scritto’ si trova ora in H. A. Wolff, Ungeschriebenes Verfassungsrecht unter dem Grundgesetz, Tübingen, Mohr, 2019.
[4] R. Bin R., Il Presidente Napolitano e la topologia della forma di governo, in Quad. Cost. 1/2019,
[5] G. F. W. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, oder Naturrecht und Staastwissenschaft im Grundrisse, herausgegeben von Dr. Eduard Gans, II Aufl, Berlin 1840, § 298: «(Die Entwickelung der Verfassung.) Die Verfassung muß an und für sich der feste geltende Boden sein, auf dem die gesetzgebende Gewalt steht, und sie muß deswegen nicht erst gemacht werden. Die Verfassung ist also, aber ebenso wesentlich wird sie, d. h., sie schreitet in der Bildung fort. Dieses Fortschreiten ist eine Veränderung, die unscheinbar ist und nicht die Form der Veränderung hat … So ist also die Fortbildung eines Zustandes eine scheinbar ruhige und unbemerkte. Nach langer Zeit kommt auf diese Weise eine Verfassung zu einem ganz anderen Zustande als vorher». La trad. it. si trova in Lineamenti di filosofia del diritto. Nuova edizione riveduta, con le Aggiunte di Eduard Gans, a cura di G. Marini, Roma-Bari, Laterza, 2021, 375.
[6] Fondamentale qui resta G. U. Rescigno, A proposito di Prima e Seconda Repubblica, in Studi parl. e di pol. cost. 103/1994, 5.
[7] M. Gorlani, Libertà di esternazione e sovraesposizione funzionale del capo dello Stato, Milano, Giuffré, 2012; D. Galliani, I sette anni di Napolitano. Evoluzione politico costituzionale della Presidenza della Repubblica, Milano, 2012, Università Bocconi Editore, 2012; A. Pertici, Presidenti della Repubblica. Da De Nicola al secondo mandato di Mattarella, Bologna, il Mulino, 2022
[8] A. Mangia, Potere, procedimento, e funzione nella revisione referendaria, in Rivista AIC 3/2017.
[9] P. Colombo, Storia costituzionale della Monarchia italiana, Laterza, Roma-Bari 2001.
[10] Esemplari le considerazioni che si ritrovano in Guerra G., Appunti sul ruolo del Presidente della Repubblica dopo Maastricht, in Democrazia e Diritto 2/2002, 101
[11] G. Sapelli, La democrazia trasformata. La rappresentanza fra territorio e funzione: un’analisi teorico-interpretativa, Milano, Bruno Mondadori, 2007.
[12] Hegel, G. F. W., Grundlinien der Philosophie des Rechts, p. 248. Sulla necessaria separazione (Trennung) fra Stato e società nella prospettiva del governo del ‘Sistema dei Bisogni’ cfr. E. Forsthoff, Der Staat der Industriegesellschaft, C.H. Beck Verlag, München, 1971, trad. it Lo Stato della società industriale, Milano, Giuffré, 2011, a cura di A. Mangia.
[13] S. Bonfiglio, Il Senato in Italia. Riforma del bicameralismo e modelli di rappresentanza, Laterza, Roma-Bari, 2006.
[14] G.G. Floridia – S. Sicardi, I progetti presentati alla Commissione, in P. Costanzo - G. F. Ferrari- G.G. Floridia -R. Romboli - S. Sicardi, La commissione Bicamerale per le riforme costituzionali. I Progetti, i Lavori, i Testi approvati, Cedam, Padova 1998, 139: “In un primo gruppo di progetti, il capo del governo o Primo Ministro è eletto dall’assemblea rappresentativa su designazione del Presidente della Repubblica o su candidature presentate da un terzo dei deputati con un voto a maggioranza assoluta … Un secondo gruppo di progetti prevede invece l’investitura elettorale del premier, ma secondo due modalità alquanto diverse. (i) La prima ipotesi è quella della elezione a suffragio universale, contestuale alle elezioni parlamentari, per lo più a maggioranza assoluta dei voti validi (con un eventuale ballottaggio tra i due candidati più votati) ma talora anche a maggioranza semplice, e spesso accompagnata dall’elezione di un Vice primo Ministro destinato a subentrare sino alla fine del mandato, in caso di morte o impedimento permanente (nel caso di dimissioni si prevede invece il ricorso ad elezioni anticipate delle Camere o del primo Ministro). (ii) La seconda ipotesi è quella di una sua designazione indiretta attraverso un collegamento vincolante con le coalizioni che si formano per le elezioni politiche, per cui il Presidente della Repubblica deve nominare il Primo Ministro candidato collegato allo schieramento che abbia ottenuto il maggior numero di parlamentari… Per l’ipotesi di rottura del rapporto fiduciario si prevedono generalmente lo scioglimento e le elezioni anticipate nel caso in cui sia approvata una mozione di sfiducia a maggioranza assoluta della Camera dei Deputati o del parlamento in seduta comune.”
[15] S. Galeotti, Un Governo scelto dal popolo. “Il Governo di legislatura”. Contributo per una ‘Grande Riforma’ istituzionale, Milano Giuffrè, 1984, su cui G. Pitruzzella, Forme di governo e trasformazioni della politica, cit., 227.
[16] A. Barbera, in Liberal 9/1995, 44.
[17] G. Pitruzzella, Forme di governo e trasformazioni della politica, Laterza, Roma-Bari, 1996, 229: “La seconda versione del neoparlamentarismo si deve soprattutto all’elaborazione di Barbera, il quale, in una delle ultime proposte, ha prospettato un sistema articolato nel modo seguente: a) viene chiesto il collegamento di ciascun candidato nei collegi uninominali a un candidato ; b) viene designato Premier il candidato la cui coalizione proponente abbia conseguito la maggioranza dei seggi (calcolata sulla quota eletta nei collegi uninominali e sulla quota che verrebbe eletta nella proporzionale qualora non si operi alcuna correzione); c) in mancanza di tale maggioranza viene corretta la distribuzione proporzionale del 25 % dei seggi in modo da assicurare la maggioranza del 55 % dei seggi alla lista che sia arrivata prima; d) vengono indette nuove elezioni in caso di rottura della coalizione che ha espresso il Premier designato (da realizzare per convenzione costituzionale senza una modifica della norma costituzionale) … Rispetto alla versione ‘forte’ del neoparlamentarismo c’è qualcosa in meno, perché non esiste la votazione diretta ed esclusiva per il Premier. La versione ‘debole’ del neoparlamentarismo vuole raggiungere un risultato: si è eletti Premier in quanto leader di una maggioranza, e non in quanto singoli. L’obiettivo è quello di collegare la scelta elettorale ed il successivo giudizio di responsabilità ad una piattaforma programmatica e non esclusivamente al fascino personale del candidato Premier, evitando che tra quest’ultimo e il popolo si possa instaurare un circuito plebiscitario.” Semmai è da osservare che è l’ambiguità dell’articolato proposto a generare i problemi a suo tempo messi in luce da G. Pitruzzella, non essendo chiaro, se non dalla Relazione di accompagnamento al d.d.l., che si vuole introdurre ‘un meccanismo di legittimazione democratica diretta del Presidente del Consiglio eletto a suffragio universale e diretto, con apposita votazione popolare che si svolge contestualmente alle elezioni per le Camere”. Nel che sta il punto critico della riforma, rilevato da più parti, e la variante rispetto allo schema proposto da Barbera nel 1995.
[18] Un elenco delle leggi elettorali che si sono susseguite dal 1992 in poi si ritrova in A. Mangia, Legge proporzionale? Cosa nasconde il finto ritorno alla Prima Repubblica (intervista resa a F. Ferraù), in www.ilsussidiario.net (13 09 2019).
[19] A. Mangia, L’interruzione della Grande Opera. Brevi note sul dialogo fra le Corti, in DPCE 3/2019, 859.
[20] Osservazioni analoghe si trovano in Bin R., Il Premierato è una bufala e ha due corni, in www.lacostituzione.info , 22 marzo 2024. Ma critiche analoghe, rivolte all’originario Modello Westminster, si ritrovano in G. Pitruzzella, Forme di governo e trasformazioni della politica, cit., 231.
[21] Angiolini V., Il diritto costituzionale e le ‘braci’ della responsabilità politica, Riv. Dir. Cost. 3/1998, 57
[22] G. U. Rescigno, La responsabilità politica, Giuffré, Milano 1967.
[23] Zanon N., Il libero mandato parlamentare. Saggio critico sull’art. 67 della Costituzione, Giuffré, Milano, 1991.
[24] G. Pasquino, Restituire lo Scettro al Principe. Proposte di riforma istituzionale, Laterza, Roma-Bari 1986.
[25] N. Matteucci, Costituzionalismo, in Dizionario di politica diretto da N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Torino, Utet, 1983, 249.
[26] A. Mangia A., Costituzione e partiti politici. Le riforme tra mito e realtà, in Vita & Pensiero 4/2006, 68.
[27] G. Sartori, Ingegneria costituzionale comparata, Il Mulino, Bologna 1995, 9.
[28] Un buon esempio di questo approccio misurativo/classificatorio è dato dal fin troppo celebre Lijphart A., Patterns id Democracy. Government Forms and Performance in Thirty-Six Countries, Yale University press, 2012, trad. it. Le democrazie contemporanee, Il Mulino, Bologna.
[29] B. Sordi, Diritto pubblico e Diritto privato. Una genealogia storica, Il Mulino, Bologna, 2020, 118. Ma di rilievo sul punto, è anche L. Elia, La Scienza del diritto costituzionale dal Fascismo alla Repubblica, in Costituzione, Partiti, Istituzioni, cit., 317.
[30] G. Guarino, Lezioni di diritto pubblico, I, Milano, Giuffré, 1967, 78 per il quale la sovranità popolare di cui all’art. 1 Cost., lungi dall’essere una sostanza impalpabile, non sarebbe null’altro se non la somma delle libertà e delle posizioni soggettive (poteri, facoltà e interessi legittimi) riconosciute all’individuo dall’ordinamento sulla base dell’art.48 Cost.
[31] J. Bentham, Un Frammento sul Governo, a cura di E. Castrucci, Milano, Giuffré, 1990.
[32] A. Mangia, Merito e trasmissione del sapere nei processi di replicazione sociale. Art. 34 Cost., in I. Rizzi, (a cura di), Per Merito, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2023.
[33] In questo senso già E. Forsthoff, Lo Stato moderno e la virtù, in Stato di diritto in trasformazione, a cura di C. Amrante, Milano 1973.
Nell'immagine: Seduta inaugurale del primo parlamento italiano (18 febbraio 1861), xilografia, 1861, R0480004, Museo del Risorgimento, Torino.