Come un romanzo. Recensione a Elisabetta Lamarque, Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana. Nuova stagione, altri episodi
di Corrado Caruso*
1. Con il volume che qui si recensisce, Elisabetta Lamarque ha rivisitato un suo precedente saggio monografico, risalente a una decina di anni fa, e ne verifica le tesi allora sostenute alla luce del diritto giurisprudenziale sopravvenuto. Come fosse un romanzo, “Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana. Nuova stagione, altri episodi”, è una appassionata e brillante narrazione sul controllo incidentale di costituzionalità nell’esperienza repubblicana, sui protagonisti di questa gloriosa avventura e sulle loro relazioni, costellate da avvicinamenti e temporanei distacchi, da dialoghi orientati all’intesa intervallati da temporanee incomprensioni e improvvisi irrigidimenti. Un romanzo che non ha la presunzione di esaurire la storia degli interpreti di questa vicenda, ma che pure esprime una tesi fondamentale se non, forse, un lieto fine: all’esito di una approfondita analisi giurisprudenziale, Lamarque conclude che Giudice delle leggi e giudici comuni hanno «progressivamente dato vita a un unico grande potere giudiziario» (p. 43), incaricato di garantire, con strumenti e poteri diversi, la Costituzione dagli abusi della politica legislativa.
L’evoluzione del controllo di costituzionalità ha dunque riunito, nel nome della Costituzione, Corte costituzionale e giurisdizione comune, «i due fratelli separati dalla nascita» (p. 34), la prima originariamente destinata ad applicare (e intrepretare) la Costituzione, la seconda dedita all’applicazione (e interpretazione) della legge. Nel disegno voluto dai Costituenti – che istituirono un giudice ad hoc per la particolare sensibilità politica che questo avrebbe vantato nel valutare la legge (non a caso le sinistre insistettero molto, senza successo, sulla estrazione parlamentare di tutti i componenti del collegio, p. 46) – le due istituzioni avrebbero dovuto collocarsi in un regime di separazione funzionale. Un assetto, ricorda Lamarque, icasticamente evocato dal primo Presidente della Corte costituzionale, De Nicola, quando, nell’udienza inaugurale della Corte, raffigurò «la Corte […] vestale della Costituzione» e «la Magistratura […] vestale della Legge» (p. 82).
La divisione del circuito della legalità (la legalità costituzionale da un lato, quella ordinaria dall’altra) rifletteva una separazione istituzionale che lo stesso Costituente non portò però fino in fondo: l’accesso in via incidentale, introdotto ad opera della l. cost. n. 1 del 1948, approvata in tutta fretta dall’Assemblea costituente in prorogatio, insieme alla previsione di una quota di giudici eletti dalle supreme magistrature, innestarono le ammorsature necessarie alla successiva fusione di orizzonti che le giurisdizioni hanno poi realizzato nell’esperienza repubblicana.
2. Questa unione di intenti, volta a rafforzare la garanzia giurisdizionale della Costituzione, si è sviluppata, scrive Lamarque, lungo due periodi fondamentali, che conoscono al loro interno diverse fasi di sviluppo. Il primo periodo, successivo all’entrata in funzione della Corte costituzionale e capace di coprire i suoi primi quarant’anni di funzionamento, vede gli interpreti di questa storia «faticosamente alla ricerca di regole empiriche condivise per riempire le voragini lasciate dalle scarne previsioni positive sul funzionamento del sistema incidentale di controllo di costituzionalità» (p. 87). È questa la stagione delle «prove d’orchestra», con la Corte costituzionale che ricerca «con maggiore insistenza» l’appoggio dei giudici, «proponendo le soluzioni a loro più gradite e rimodulando le proprie offerte a seguito dei non infrequenti rifiuti» (p. 87). L’A. suddivide questa stagione in tre fasi, distinte a seconda del grado di coordinamento raggiunto dai due protagonisti, i quali, per approssimazioni progressive, giungono a delineare, alla fine degli anni ’90, un sistema integrato di giustizia costituzionale. Simile risultato è stato raggiunto all’esito di una stagione costellata da compromessi e riconoscimenti reciproci sul piano, soprattutto, dei poteri interpretativi sulla legge, di cui la giurisdizione comune per lunghi tratti è stata gelosa custode.
Per superare le resistenze dei giudici, la Corte costituzionale ha modulato le sue tecniche decisorie: le sentenze interpretative, di fronte alle resistenze “applicative” della giurisdizione comune, hanno lasciato il passo alle sentenze di accoglimento parziale. La scelta, ad opera del Giudice delle leggi, di agire sul testo della disposizione piuttosto che sul significato normativo dei testi legislativi sarà poi ulteriormente rafforzata con l’introduzione, in via pretoria, delle sentenze manipolative (additive e sostitutive, che non si limitano a caducare la disposizione legislativa ma integrano o sostituiscono porzioni della legge censurata). La Corte costituzionale, nella stagione delle prove d’orchestra, non ha solo riaffermato la sua posizione di fronte al sistema giurisdizionale, ma ha anche valorizzato il contributo dei giudici al sindacato di costituzionalità: così è stato, per esempio, per la funzione svolta dal cd. diritto vivente, e cioè da orientamenti consolidati della giurisdizione comune che impediscono al Giudice delle leggi di proporre interpretazioni eccentriche o «militanti» della legge censurata (p. 125). Mutata la sensibilità politico-culturale nei confronti del nuovo testo costituzionale, i giudici comuni hanno riempito gli interstizi lasciati dalla legislazione ordinaria attraverso l’applicazione diretta della Costituzione, secondo una tecnica sostanzialmente avallata dalla Corte costituzionale (con riferimento, ad esempio, alla nota vicenda del quantum retributivo prescritto dall’art. 36 Cost., alla risarcibilità del danno biologico, alla tutela del diritto all’identità personale, p. 121).
Dal canto loro, i giudici comuni hanno abbandonato l’originario atteggiamento di competizione e diffidenza nei confronti del Giudice delle leggi. È stata così riconosciuta efficacia normativa alle sentenze interpretative di rigetto, quanto meno nel senso di rinvenire, a carico del giudice a quo, un vincolo negativo, un obbligo di esclusione, dal novero delle interpretazioni possibili, del significato della legge ritenuto dalla Corte costituzionale non compatibile con la Costituzione (p. 116). La giurisdizione comune ha poi riconosciuto non solo l’efficacia retroattiva della dichiarazione di accoglimento (pur con talune, non irrilevanti oscillazioni, pp. 131-133), in conformità a quanto previsto dall’art. 30 della l. n. 87 del 1953, ma ha anche ottemperato, dopo una inziale resistenza, alle sentenze manipolative e alla formula di volta in volta inserita nel dispositivo (p. 135).
La sent. n. 356 del 1996 della Corte costituzionale segna lo zenit di questo reciproco percorso di riconoscimento e, allo stesso tempo, l’ultima tappa delle prove d’orchestra. Con tale pronuncia, la Corte costituzionale richiede al giudice, ai fini dell’ammissibilità della questione, di dimostrare l’impossibilità di una interpretazione conforme a Costituzione della norma indubbiata. L’intervento della Corte costituzionale diviene, di fatto, sussidiario: l’eventuale pronuncia di incostituzionalità giunge nei limiti in cui l’interpretazione adeguatrice dei giudici comuni trovi un ostacolo insormontabile nella littera legis.
Viene così ad essere smentita la rappresentazione del Presidente De Nicola (p. 128), che separava il circuito della legalità (costituzionale e ordinaria) e delle rispettive garanzie. A quarant’anni dell’udienza inaugurale della Corte costituzionale, è possibile affermare che i giudici comuni condividono il «potere di adeguare la legge alla Costituzione» (p. 128) e partecipano alla funzione di giudicare la legge (l’A. scrive di una loro promozione a «giudici delle leggi» p. 138). In un simile contesto, gli elementi di diffusone del sindacato di costituzionalità sono inevitabilmente rafforzati. Non va dimenticato che, qualche anno prima, la Corte costituzionale, sulla scorta della sentenza Simmenthal della Corte di giustizia, aveva sancito il potere/dovere dei giudici comuni di non dare applicazione alla legge interna contrastante con il diritto comunitario direttamente applicabile (sent. n. 170 del 1984). Interpretazione conforme, applicazione diretta della Costituzione e non applicazione della legge interna contraria al diritto sovranazionale self-executing sono gli strumenti con cui il giudice comune partecipa alla funzione di garantire la supremazia della Costituzione sull’ordinamento sottostante.
Il sistema integrato inveratosi nella prassi segna una certa discontinuità con la sua matrice originaria. I giudici comuni cessano di essere gli umili «portieri» di Palazzo della Consulta (secondo la nota immagine di Calamandrei) per divenire i co-inquilini del Giudice delle leggi nella spaziosa dimora del sindacato di costituzionalità. Il nuovo ruolo dei giudici conduce, a cascata, a variare la struttura del giudizio incidentale e la stessa posizione della Corte costituzionale. Risultano infatti «enfatizzati gli elementi di contatto tra il giudizio principale e il giudizio di costituzionale, con una duplice conseguenza: […] l’esito del giudizio costituzionale diviene maggiormente dipendente dal caso della vita che si discute nel giudizio da cui è sorta la questione e primariamente orientato alla sua risoluzione […]; «[…] l’attività della Corte costituzionale tende sempre più a somigliare all’attività quotidiana di un qualsiasi altro giudice dell’ordinamento, dato che essa viene a occuparsi, al pari di quel giudice, della difesa dei diritti delle persone più che del problema astratto di depurare l’ordinamento dalle leggi incostituzionali» (p. 141).
3. L’interazione tra Corte costituzionale e giudici comuni ha condotto, dunque, a una correzione del sindacato incidentale.
Ristrutturati gli architravi del sistema, sorge però l’esigenza di governare il nuovo assetto per mantenere gli equilibri così faticosamente raggiunti. Si apre, così il secondo, lungo periodo, in cui è tuttora immerso il giudizio costituzionale: la stagione del «tango».
In essa «si assiste a una successione di figure di danza che i due attori nel sistema incidentale mettono in scena applicando, con adattabilità e creatività, le regole giurisprudenziali da loro stessi in precedenza elaborate». Con un ruolo di guida svolto dalla Corte costituzionale: rispetto alle «prove di orchestra», quando era il Giudice delle leggi a «rincorrere i giudici, […], proponendo le soluzioni a loro più gradite e rimodulando le proprie offerte a seguito dei non infrequenti rifiuti […] negli ultimi venticinque anni le parti sono invertite, perché sono i giudici a seguire la Corte, la quale detta il ritmo e segue la danza» (p. 87).
Lamarque suddivide la danza delle giurisdizioni in due fasi: la stagione della «briglia sciolta» e quella in cui «ogni lasciata è persa» (p. 172, p. 174). Nella prima, situata tra fine degli anni Novanta del secolo scorso e il primo decennio del nuovo secolo, la Corte costituzionale «opera nei confronti dei giudici la più ampia devoluzione di funzioni di controllo sulla legge, o comunque lascia che essi facciano da soli il più possibile […] in tutti i casi in cui sembra possibile farlo, e a volte oltre, fino a forzare il dato testuale della legge». Questo laissez faire ha una giustificazione culturale e un obiettivo strategico: quanto alla prima, la Corte «sa di poter contare su una comprovata sintonia […] con la magistratura e […] confida nella propria capacità di dialogare con essa attraverso le motivazioni delle sue pronunce». Quanto al secondo, il rafforzamento della posizione dei giudici comuni consente di disinnescare la conflittualità tra Corte costituzionale e potere politico: in particolare, l’interpretazione conforme a Costituzione «presenta il vantaggio di avere un impatto molto più soft sulla sfera della politica rispetto a una sentenza che dichiara l’incostituzionalità della legge e spesso raggiunge il medesimo risultato applicativo» (p. 173).
Vari fattori inducono però la Corte costituzionale a correggere tale tendenza e a comprendere ben presto che ogni lasciata è persa. Il primo campanello d’allarme «è la netta diminuzione quantitativa delle ordinanze di rimessione a partire dal 2008 […]: a forza di delegare funzioni ai giudici e di richiedere loro di procedere sempre e comunque all’interpretazione della legge conforme alla Costituzione, sbattendo loro la porta in faccia con decisioni di inammissibilità ingiustificatamente severe quando le sue richieste non sono accolte, la Corte sembra davvero uscire di scena» (p. 173). Molte inammissibilità sono di natura processuale, e spesso si poggiano su una nozione stringente di rilevanza; non poche però le sentenze di inammissibilità sostanziale, cui il Giudice delle leggi ricorre perché la soluzione (additiva o sostituiva) prospettata dal giudice a quo è eccessivamente creativa e potenzialmente lesiva, dunque, della discrezionalità politica del legislatore. A fronte però di simili inammissibilità, che non rispondono al quesito di costituzionalità sollevata, sorge l’impressione, scrive Lamarque, che «i giudici a quibus, […] messi […] con le spalle al muro da una pronuncia della Corte costituzionale che non li aiuta a risolvere il caso concreto in modo conforme alla legge e insieme alla Costituzione, scelgono senz’altro la Costituzione e disapplicano la legge» (p. 206).
In questa nuova fase, le preoccupazioni legate a un uso distorto della interpretazione conforme, capace di varcare le soglie della disapplicazione, orientano le strategie della Corte costituzionale. Preoccupazioni accentuate dai «movimenti esterni all’ordinamento nazionale, provenienti tanto dalla Cedu che dall’Unione europea […] capaci di provocare una svolta in senso diffuso del sistema italiano di controllo sulla legge» (p. 173). Pur collocate su piani diversi del sistema delle fonti, le Carte dei diritti (internazionali o sovranazionali) sono considerate, da una parte dell’autorità giurisdizionale, repertori di valori da cui trarre argomenti knock down contro la legge, giustificandone la disapplicazione anche oltre i peculiari rapporti tra diritto interno e diritto sovranazionale.
Questa nuova fase risponde a una duplice esigenza: per un verso, evitare l’instaurazione surrettizia di un sistema diffuso di giustizia costituzionale (p. 175), analogo al judicial review of legislation di stampo nord-americano, ove ciascun giudice disapplica, con effetti retroattivi ed inter partes, la legge contrastante con la Costituzione; per altro verso, garantire una tutela sistemica e non frazionata dei diritti fondamentali, altrimenti lasciati alle esiziali oscillazioni delle applicazioni case by case (p. 219). Se tutte le sentenze della Corte costituzionale, a prescindere dal verso della decisione, presentano un valore indubbiamente persuasivo, solo le pronunce di accoglimento, grazie alla loro portata erga omnes, sono in grado di imporsi per forza propria su tutti i soggetti che costellano l’ordinamento.
4. Gran parte degli orientamenti più recenti possono essere spiegati, secondo Lamarque, attraverso la duplice chiave di lettura appena menzionata. In questa prospettiva, trova collocazione la lettura ampia e obiettiva della rilevanza, che consente, attraverso l’azione di accertamento esercitata nel giudizio principale, di portare davanti alla Corte qualsiasi violazione dei diritti fondamentali (arrivando persino a sindacare la legge elettorale, loi politique par excellence), così da evitare «zon[e] franc[he] dalla giustizia costituzionale e dalla giustizia tout-court» incompatibili con lo «Stato di diritto» (sent. n. 48 del 2021, ma l’orientamento risale alla nota sent. n. 1 del 2014, p. 177). Tramontano progressivamente le inammissibilità sostanziali, a favore di pronunce fortemente manipolative: la Corte costituzionale si premura di setacciare l’ordinamento per rinvenire la soluzione più adeguata a rispondere alla domanda di giustizia proveniente dai giudici a quibus, distaccandosi persino dai petita delle ordinanze di rimessione (in particolare – ma non solo – rispetto alla dosimetria della sanzione penale, p. 178). Non sempre però la risposta a un problema di costituzionalità conduce alla immediata espunzione della norma impugnata: con un meccanismo inaugurato in ambiti eticamente sensibili (il suicidio assistito), ma poi esteso ad altre ipotesi (l’ergastolo ostativo, la pena detentiva per i giornalisti), la Corte costituzionale ha dato vita alle ordinanze di incostituzionalità «differita», che rinviano al Parlamento la modifica delle legge censurata, trattenendo la causa in decisione con fissazione di un termine che, una volta spirato, porta il Giudice delle leggi alla declaratoria di incostituzionalità (p. 179).
Novità si registrano anche sul fronte delle questioni che coinvolgono le fonti esterne, ove è manifesta l’esigenza di imbrigliare le corti comuni, arginandone la creatività. Così, dopo aver affermato il rango interposto della CEDU, come interpretata dalla sua Corte, il Giudice delle leggi si è premurato di specificare che non tutte le pronunce dei giudici di Strasburgo esprimono un medesimo vincolo per gli interpreti nazionali: solo quelle che si inseriscono in un orientamento consolidato della giurisprudenza convenzionale o che intervengono a valle di una procedura pilota possiedono una forza precettiva tale da imporsi alle giurisdizioni interne (sent. n. 49 del 2015, p. 215).
Non solo Cedu, però. La «dimensione europea della giustizia italiana» (p. 211) si coglie anche nelle relazioni con la Corte di giustizia. Dal 2013 in avanti è prassi ormai, per la Corte costituzionale, servirsi del rinvio pregiudiziale, così da presentarsi sulla scena europea come «uno dei tanti giudici dell’ordinamento italiano, sia pure dotato di una speciale competenza e autorevolezza» (p. 213). Va inoltre consolidandosi la tendenza a conoscere direttamente dei contrasti tra diritto interno e diritto sovranazionale (anche self-executing) quando in gioco vi sia la tutela dei diritti fondamentali. Per evitare che l’entrata in vigore della Carta dei diritti (con il Trattato di Lisbona) e la generosa giurisprudenza della Corte di giustizia (che riconosce a molte disposizioni della Carta effetto diretto) conducano a una disinvolta disapplicazione della normativa interna, la Corte costituzionale ha ritenuto «opportuno […] che il giudice solleciti prima di tutto – e quindi prima di investire la Corte di giustizia […] e/o prima di disapplicare la legge» lo stesso Giudice delle leggi (p. 218, principio di diritto espresso dalla sent. n. 269 del 2017, affinato in seguito da decisioni successive).
Questi nuovi orientamenti, scrive Lamarque, non devono essere considerati punitivi nei confronti dei giudici comuni. Non a caso, gli stessi giudici, dopo una «prima reazione […] di rifiuto», hanno «compreso le ragioni della Corte costituzionale, e in linea di massima preferiscano ancora lasciarsi portare, nel tango, dal loro vecchio partner» (ibidem). Sembra essere passato dunque il messaggio del «valore aggiunto», per la tutela dei diritti fondamentali, della pronuncia di incostituzionalità rispetto alla puntinistica disapplicazione della legge; inoltre, «come contropartita […]», la Corte costituzionale ha comunque assicurato che, al termine del giudizio di costituzionalità, resta ferma il potere dei giudici di disapplicare la disposizione interna o di rinviare, anche per gli stessi profili, la questione alla Corte di giustizia (p. 219).
Questo atteggiamento di fiducia si spiega anche per l’apertura di credito che, in questa nuova stagione, il Giudice delle leggi ha concesso alla giurisdizione comune su altri temi. Un esame a tutto tondo della più recente giurisprudenza costituzionale smentisce la tesi di un netto accentramento del controllo di costituzionalità in capo alla Corte medesima.
Nel tango, infatti, non mancano passi «centrifugh[i]», che valorizzano gli ancheggiamenti dei vecchi compagni di balera. A questo proposito, Lamarque enumera: a) il ruolo crescente delle sentenze additive di principio, che affidano al giudice comune il compito di specificare la norma generale delineata dalla Corte; b) le pronunce che dichiarano illegittimi gli automatismi normativi, delegando ai giudici il bilanciamento in concreto, che serve a includere «anche i beni costituzionali che il legislatore aveva ignorato» (in relazione, ad esempio, alla tutela del minore di età o delle persone particolarmente fragili o, ancora, agli automatismi legislativi della custodia cautelare in carcere, pp. 181- 182).
Non siamo, dunque, di fronte a un radicale accentramento del giudizio di costituzionale, ma ad una riaffermazione della natura integrata del sistema di giustizia costituzionale e della centralità dei diritti fondamentali. Lamarque dà un giudizio positivo al rinnovato protagonismo del Giudice delle leggi e alle nuove regole di convivenza con i giudici comuni, le quali delineano un insieme corale capace di evolvere senza trasfigurare la propria identità.
5. Al termine di un lavoro che si candida ad entrare nella ristretta cerchia dei classici della giustizia costituzionale, al lettore rimangono taluni interrogativi, inevitabilmente sollecitati dall’opera.
La prima questione attiene al rapporto che la Corte costituzionale intrattiene con il suo processo. La tendenza, sempre più evidente, a manipolare le tecniche decisorie e, più in generale, a derogare alle disposizioni che attengono al giudizio costituzionale rischiano di minare la legittimazione procedurale della Corte, oscurandone quella vocazione giurisdizionale che pure l’A. ritiene, a ragione, un attributo essenziale del controllo di costituzionalità.
Vi è poi un problema di prevedibilità delle soluzioni adottate dalla Corte, sia per quanto attiene alle condizioni di accesso al giudizio incidentale sia per ciò che concerne le tecniche decisorie. In effetti, quanto più la Corte allarga o restringe, a sua discrezione, le maglie di accesso tanto più corre il rischio di scivolare in un cherry picking giurisdizionale, in una selezione occulta dei casi da decidere realizzata sulla scorta delle proprietà rilevanti della singola questione. Restano oscure le ragioni che accompagnano talune scelte: vi sono criteri oggettivi (e prevedibili) che guidano la Corte nell’individuazione, nella trama dell’ordinamento, della norma adeguata al caso concreto o si tratta di puro intuizionismo? Quali le ragioni per cui, in talune occasioni, la Corte preferisce manipolare il testo legislativo e, in altre, rinviare al Parlamento sospendendo temporaneamente il giudizio? Non vi è, anche in queste ipotesi, un problema di garanzia dei diritti situati nel limbo della sospensione? Ed è realmente rispettata la discrezionalità del Parlamento (obiettivo che pure i giudici di Palazzo della Consulta affermano di perseguire) in questa sorta di giudizio di ottemperanza, con le istituzioni rappresentative chiamate a deliberare, secondo le direttive imposte dal Giudice delle leggi, entro un termine rigido e non particolarmente disteso?
Un’ulteriore questione, di carattere generale, attiene alla posizione istituzionale dei protagonisti del sistema integrato di giustizia costituzionale. L’ascesa delle corti ha segnato una crescente gurisdizionalizzazione dei rapporti politici e sociali. Dal composito excursus tratteggiato da Lamarque emerge la metamorfosi della tradizionale funzione di garanzia giurisdizionale della Costituzione. L’apertura semantica del testo costituzionale, la sua vocazione assiologica, l’effervescenza del pluralismo (nelle sue diverse dimensioni) hanno reso il controllo di costituzionalità un eccezionale istituto di trasformazione, strumentale alla promozione e al riconoscimento delle pretese emergenti nella società. Fino a che punto però questa metamorfosi è compatibile con la centralità della legge e con l’assetto dei poteri previsti dalla Costituzione repubblicana? Il nuovo ruolo delle giurisdizioni (costituzionale, ma non solo) non corre il rischio di avallare uno spostamento di legittimazione delle Corti? La ragione d’essere di queste ultime riposa nella loro istituzionalizzazione in un testo giuridico superiore o nei risultati che sono in grado di raggiungere, nelle «risposte diversificate e al tempo stesso contingenti», per dirla con Carlo Mezzanotte, che le Corti offrono alle sollecitazioni provenienti dalla società?
Tali interrogativi rinviano al problema, altrettanto generale, dello spazio di decisione attualmente riservato agli organi democratico-rappresentativi legittimati dal principio di maggioranza (valore fondante del costituzionalismo, esso riflette il pluralismo ideologico e il diritto dei cittadini all’eguale partecipazione politica). Non va dimenticato che le decisioni di incostituzionalità (e gli argomenti portati per sostenerle) portano sempre con sé un plusvalore di politicità: ad essere sopravanzato non è solo l’interesse perseguito dalla legge dichiarata illegittima, ma anche la libertà dei fini del legislatore. Peraltro, nelle motivazioni delle sentenze, come acutamente sottolinea la stessa A. (p. 139), le norme positive, i diritti costituzionalmente posti e i principi costituzionali vengono diluiti in argomentazioni, che, se da un lato promuovono un dialogo con le istituzioni rappresentative e la comunità degli interpreti, dall’altro restringono l’universo del discorso politico, pretendendo di orientare le scelte degli altri attori istituzionali oltre le peculiarità del caso giudiziale.
La diluzione delle norme positive in argomenti interpretativi pone un problema di precettività del testo costituzionale, che rischia di smarrire la sua funzione ordinante: diluito nel diritto giurisprudenziale, esso smarrisce la capacità di conformare rapporti sociali e istituzionali. Rischia così di essere rovesciato il rapporto di strumentalità che, fin dalla nascita del judicial review of legislation, lega Costituzione (o meglio: una determinata Costituzione) e giustizia costituzionale. Quanto più si allarga il divario fra testi costituzionali ed evolutive giurisprudenze, tanto più emergono letture soggettivistiche della Costituzione, applicata non per quello che dice ma per quello che i suoi custodi affermano di trovarvi.
Il volume ripercorre l’evoluzione del sindacato incidentale in una prospettiva storica. Simile evoluzione va di pari passo con la progressiva centralità che la tutela dei diritti fondamentali ha assunto nel nostro ordinamento. In un viaggio lungo quasi settanta anni, la Corte costituzionale, sembra dirci Lamarque, ha abbondato l’asettico ruolo di giudice delle leggi per farsi custode dei diritti: a voler parafrasare una sua nota pronuncia, la Corte costituzionale giudica di leggi ma si pronuncia, ormai, su diritti.
Difficile dissentire da questa conclusione. Tra le righe del volume, traspare però una complessiva (e quasi impercettibile) sfiducia dell’A. nei confronti dell’operato del legislatore, quasi che i giudici siano riusciti, nell’esperienza repubblicana, a tutelare i diritti contro (o quanto meno nonostante) le istituzioni politiche. Questo sentimento di sfiducia, particolarmente diffuso nel ceto dei giuristi (e che trova diverse e non sempre coincidenti spiegazioni storiche e culturali), rischia di sfociare in una compenetrata apologia della giurisdizione che sottostima il contributo delle istituzioni politiche allo sviluppo dell’ordinamento costituzionale. Non può negarsi, infatti, che anche queste ultime abbiano dato un fondamentale apporto all’inveramento, in senso progressivo, dei valori della Costituzione. Come classificare, altrimenti (e per limitarsi ad alcuni esempi), la (pur parziale) riforma agraria realizzata nei primi anni ’50 del secolo passato, l’adesione alla Comunità economica europea e gli impulsi necessari alla nascita dell’Unione, lo statuto del lavoratori del 1970 (la “Costituzione nelle fabbriche”), la riforma del diritto di famiglia, la legge sull’interruzione di gravidanza, l’istituzione di un sistema sanitario universale (che va oltre le cure gratuite ai soli indigenti, di cui all’art. 32 Cost.), la legge quadro sulla disabilità del 1990 o, per venire a tempi più recenti, la legge sulle unioni civili o sul testamento biologico?
Si avverte il pericolo che il processo di trasformazione surrettizia dell’oggetto del giudizio di costituzionalità (dalla legge ai diritti) porti a una frammentazione dei diritti fondamentali, a un sostanzioso avallo di pulsioni individualistiche a detrimento della sintesi politica realizzata dalla legge. In altri termini, la Corte costituzionale rischia di cadere negli stessi difetti che essa implicitamente imputa alla Corte edu, chiamata a garantire la posizione dell’individuo contro lo Stato, a prescindere da quegli interessi, di natura pubblicistica, che cementificano l’appartenenza della persona alla comunità politica. Si va così affermando una lettura totalizzante della Costituzione o, meglio una pancostituzionalizzazione dei rapporti sociali: tutte le istanze di riconoscimento emergenti nella società pretendono di trovare una univoca ed immediata soddisfazione nella Costituzione o, più correttamente, nel diritto fondamentale ad avere diritti, che di quest’ultima diventa la norma presupposta.
D’altro canto, non può escludersi che, nella giurisprudenza costituzionale, il discorso sui diritti abbia rappresentato un abbellimento retorico per arrestare le fughe giurisdizionali dalla sovranità nazionale (e, in fondo, dalla sovranità della Costituzione). In talune occasioni, i giudici comuni hanno operato da agenti decentrati della Corte di giustizia che, dal canto suo, ha progressivamente smesso i panni del custode delle competenze dell’Unione per assumere una funzione federatrice dell’ordinamento sovranazionale (si pensi non solo al noto caso Åkerberg Fransson ma a tutte quelle pronunce che, tramite il richiamo alla CDFUE o ai suoi contenuti hanno riconosciuto effetti orizzontali alle direttive).
Queste considerazioni esorbitano dal pregevole lavoro di Elisabetta Lamarque. La profondità e la ricchezza degli argomenti portati dall’A. possono però dare inizio a feconda discussione, magari stimolata dalle nuove danze in cui i protagonisti di questa storia vorranno lanciarsi. D’altronde, il sottotitolo del volume (Nuova stagione, altri passaggi) lascia presagire che, come nelle migliori saghe, il meglio deve ancora venire.
* Professore associato di diritto costituzionale, Università di Bologna (corrado.caruso@uniboit)
*In coda la quarta di copertina del volume.