GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Angelo Costanzo intervista Alessandro Corbino

    Rigore è quando l’arbitro fischia. Il mito della legalità è il titolo del saggio appena pubblicato (per i tipi di Jovene) dove Alessandro Corbino tratta della difficoltà che gli ordinamenti europei incontrano nel governare il diritto con il modello della separazione dei poteri.

    Alessandro Corbino ha insegnato diritto romano in diverse Università italiane (ha peraltro fondato la Facoltà di Giurisprudenza di Catanzaro di cui è stato preside) e dirige IVRA, una delle più prestigiose riviste internazionali del settore. Non si è sottratto all’impegno civile, svolgendo il ruolo di difensore civico nel Comune di Catania, e ha maturato una esperienza giudiziaria come giudice della Sezione giurisdizionale siciliana del Consiglio di Stato.

    Angelo Costanzo, magistrato presso la Corte di Cassazione, gli ha rivolto alcune intriganti domande, ricevendone risposte utili ad alimentare approfondimenti emancipati dalle occasioni contingenti.

    - Qual è la più importante differenza fra la rappresentanza politica nei sistemi antichi e quella contemporanea?

    La comunità politica moderna non è più la piccola “città” (di poche decine di migliaia di “cives”, insediati in uno spazio geografico limitato), nella quale ebbe origini la cultura di autogoverno, alla quale ci richiama l’idea stessa della rappresentanza. Essa è una realtà complessa (uno “stato”, come ora diciamo) di milioni di cives, distribuiti in uno spazio, la cui estensione impedisce una “immediata” (tendenzialmente totalizzante come nella città antica) reciproca relazione degli stessi. Nella quale non sono possibili dunque pratiche di governo che prevedano un diretto esercizio delle relative funzioni.

    Nell’esperienza antica, l’assemblea dei cives (che, anche nelle realtà più importanti, restava costituita da un numero relativamente ristretto di persone: nella Roma della fine del III secolo a.C., già potenza imperiale mediterranea, essi non superavano di molto quello di 200.000) votava le leggi, eleggeva i propri governanti e decideva le cause giudiziarie criminali di maggiore rilievo.

    Negli stati moderni (costituiti da milioni di soggetti) la evenienza di un’assemblea analoga è stata (almeno fino alla rivoluzione tecnologica in atto) impossibile (e se ora lo divenisse non vorrebbe dire solo per questo che ne sarebbe anche auspicabile la pratica). E, dunque, il solo esercizio diretto concepibile di funzioni politiche è stato il voto (progressivamente sempre più universale), con il quale si è dato ai singoli di concorrere all’indirizzo delle attività di governo. In esso si è vista dunque l’essenza delle forme moderne di “autogoverno”. Si sono configurate forme assembleari elettive (parlamenti), costituite con criteri di “rappresentanza” (estrazione territoriale e numero dei componenti rapportati alla densità dei distretti e agli indirizzi ideologico-politici in concorrenza), alle quali sono state delegate le funzioni di ordinare (con leggi) sia la disciplina dei fatti, sia quella delle altre funzioni di governo (amministrazione e giurisdizione). E si è immaginato di avere disegnato così un governo “democratico” delle nostre collettività.

    In questo modo di procedere si sono annidati due errori, che hanno finito con il minare alla lunga l’efficienza dei sistemi adottati.

    Il primo di essi è stato credere che quelle disegnate dalle moderne costituzioni fossero pratiche riproduttive delle antiche logiche di autogoverno. Il secondo (in qualche modo conseguenziale) è stato quello di non comprendere che il “potere” politico (sovrano) è concepibile solo come un “insieme” (del quale una entità soltanto – collettiva o individuale, che si voglia: civitas insomma o princeps – abbia la titolarità) e non come una “somma” di funzioni distinte. Una divisione dei “poteri” (che ne presupponga la possibilità di distinta legittimazione e distinte modalità di controllo del loro esercizio) non è concepibile.

    Dal primo punto di vista, credere che potessero funzionare come “rappresentativi” della volontà generale sistemi che fossero soltanto “disegnati” all’origine (e poi anche continuamente aggiornati) da rappresentanti di essa (parlamenti) è stata una illusione. I sistemi di regole non vivono solo di queste, ma anche della attuazione che di esse si fa. La quale ne ridisegna, nel concreto, la configurazione vivente, quella che incide visibilmente nella realtà fattuale.

    Dal secondo punto di vista, si è trascurato che nei sistemi antichi (quelli appunto nei quali l’autogoverno era stato concepito e praticato, se anche con declinazioni diverse: quella di Roma non era la medesima che ne aveva attuato Atene) era stata data evidenza al fatto che poteva bene (doveva anzi) esservi distribuzione delle funzioni tra soggetti (istituzionali) diversi, ma non poteva esservi tuttavia “indipendenza” (nell’esercizio) di alcuna di quelle funzioni. Ciascuna delle quali è strumentale all’esercizio del potere politico. Ne costituisce esplicazione. E non può perciò – ove delegata – non rispondere al titolare di questo. Costruire un enunciato (legiferare), interpretarlo e tradurlo in un criterio di decisione (un comportamento amministrativo opportuno, la soluzione di una controversia pubblica o privata) sono azioni distinte ma (la prima e ciascuna delle seconde) tra loro (insuperabilmente) complementari. Concorrono all’obbiettivo pratico perseguito. Hanno ciascuna (e tutte) un rilievo “politico” non minore di quello che ha il disegno che se ne è fatto. Adottare l’enunciato (la legge) non è “governare”. Governare è utilizzare la stessa per assumere la decisione (amministrativa/giudiziale) del caso.

    Ne viene con evidenza che, se le condizioni materiali (dimensioni sociali e territoriali della comunità) permettono solo pratiche “rappresentative” (e non dirette) di “autogoverno”, queste possono essere considerate espressione di quel principio solo se lo sono (come nei sistemi antichi) in ogni passaggio. Non può esservi “rappresentanza” (delega) nel disegno e non anche nell’attuazione di esso. Se insomma il “rappresentato” (collettività) ha un potere di controllo (in itinere e successivo) soltanto nell’esercizio di un segmento dell’azione di governo.

    • L'interpretazione del diritto e la soggettività dell'interprete. Perché è impossibile una certezza assoluta del diritto?

    Perché il “diritto” è ciò che l’interprete desume dalla regola. Ne è ciò che se ne estrae. Il frutto di un’operazione logico-ricognitiva insuperabilmente soggettiva. La quale può essere “contenuta”, non “eliminata”. La sola “oggettività” pensabile è perciò, in materia, “spersonalizzare” nel massimo l’operazione. Fare coincidere il risultato virtuoso con lo storico libero convergere del pensiero dei più (meglio, naturalmente, se di tutti) su uno dei risultati possibili. E mantenendo ferma la coscienza che anche tale risultato non si sottrae alla opportunità di una revisione, ove cambino le condizioni di contesto. La regola nasce in un tempo, ma vive in un tempo successivo. Nel quale possono essere intervenute modificazioni della realtà che ne postulano una “nuova” lettura. Né la legge, né il diritto possono essere sottratti alla storia. Sono entrambi “artifici” (opera umana), esposti l’una e l’altro ad un processo dialettico molto complesso, per il quale ogni scorciatoia dovrebbe essere preclusa.

    • Perché sono in calo l'autorevolezza della Dottrina e delle Facoltà di Giurisprudenza?

    A mio sommesso modo di vedere, a causa di un disegno costituzionale che (senza volerlo e confidando in un autocontrollo che, in parte, si è – fino ad alcuni decenni addietro – per altro, in buona misura, mantenuto) ha reso progressivamente nel tempo sempre più fattuale la coscienza della autoreferenzialità sostanziale dell’attività giurisdizionale e dunque della modesta incidenza di ogni possibilità esterna di condizionamento (anche autorevole). Il tutto condito da un “cedimento” delle università, che hanno abbandonato la funzione di educare alla “interpretazione” (dunque alla lettura critica delle regole) per privilegiare quella di addestrare alla conoscenza delle regole (dei dettati) e alla adesione alle interpretazioni di esse fattualmente correnti.


    - Come vede la formazione odierna dei magistrati?

    Fermo il contesto costituzionale vigente (che andrebbe tuttavia profondamente modificato), mi piacerebbe almeno che essa fosse quella di cultori di una scienza del “possibile” (di pratica del dubbio metodico a monte di ogni, pur necessaria, “decisione”) e non di una del “dovere essere”.


    - Nel suo libro tratta della indivisibilità del Potere politico, che riflessi ha questa concezione sul sistema delle spinte e bilanciamenti fra Poteri ? E come si colloca la magistratura italiana nell'attuale assetto della divisione dei Poteri ?

    La mancata coscienza della “indivisibilità” del potere politico, ha provocato, nel nostro ordinamento, una materiale articolazione della “divisione dei poteri”, che ha avuto (ed ha) le ricadute di debolezza fattuale sotto gli occhi di tutti. Nello schema adottato, i vari “poteri” sono stati (nell’ambito di un sistema ispirato al principio di autogoverno) immaginati tutti come da esercitare in forma “delegata”. Benché non in quella (dichiarata) della “rappresentanza”, ma in quella (più prossima) della “procura”. È il delegato che “decide”. Non su mandato (come si sottolinea, per altro, con riferimento al legislatore: art. 67), ma sulla base di una “preposizione” (investitura, variamente configurata) accompagnata da “istruzioni” generali (le regole costituzionali della funzione). Ora però, mentre per l’azione legislativa sono stati previsti meccanismi di controllo che rispettano (in qualche modo) lo schema adottato (periodicità dell’investitura e rinnovazione libera dei delegati), per quella amministrativa e, in particolare, giurisdizionale, non si è previsto (o, almeno, si sono lasciate scivolare le cose in tale direzione) alcunché di corrispondente. E si è così attribuito alla magistratura un grado di indipendenza, incompatibile con la natura delegata della funzione. Sia chiaro: non ne sto invocando modalità elettive. Sto solo sottolineando l’incoerenza del sistema corrente. Incoerenza che ha reso alla lunga inappropriato anche il sistema di “bilanciamenti” adottato. Questi si configurano infatti come interventi “correttivi” del constatato eccesso (commissivo/omissivo) di esercizio. Se la magistratura, nell’applicare la legge, la interpreta in una direzione ritenuta “eccessiva”, il legislatore cambia la legge. Se il legislatore si rivela inavveduto/eccedente, la magistratura interviene (direttamente o con il soccorso della Corte costituzionale) con un’azione correttiva, integrativa, supplente. Il che non è efficace e genera tensioni. Da un lato, non si elimina l’accaduto. Dall’altro, si possono solo comunque contrastare gli eccessi clamorosi. Non anche quelli striscianti (ben più frequenti ed incidenti). Sarebbe stato sicuramente più utile alla concordia civium (presupposto di ogni convivenza pacifica) “prevenire” l’eccesso (puntando sul coordinamento di esercizio). Non è facile suggerirne i modi. Possono richiedere un complesso gioco di mediazioni (che spetta alla scienza politica disegnare, in una forma appropriata ai contesti storici). Come avevano ben compreso i Romani e meno i Greci; e come, nella modernità, hanno ben compreso gli inglesi e meno gli americani. Anche qui: non sto invocando modelli (oltretutto intrasponibili), né sto esprimendo preferenze. Sto solo facendo constatazioni. La concordia non si ottiene adottando uno statuto politico che viva di competizione/prevalenza, nell’ambito di un quadro bloccato di regole (ve ne possono essere, ma solo se così poche e generali, da potere ricevere, e a lungo, estesa condivisione sociale). Si ottiene in una pratica di continue mediazioni. Nella quale convivano concertato coordinamento delle funzioni di governo (di tutte le funzioni di governo), collegialità della loro gestione e responsabilità “politica” del loro esercizio.

    Ciao Andrea

    Di Bruno GIORDANO e Salvatore SCUTO

     

    Conosco Andrea quale tirocinante della scuola di specializzazione all'ufficio Gip di Milano. Bravissimo in procedura penale, frequenta la cattedra del prof. Oreste Dominioni, vuole capire, studiare e scrivere, scopre che le indagini e il processo non sono proprio come sui manuali. Una mattina davanti alla macchinetta del caffè, al settimo piano del palazzo di giustizia di Milano, Andrea d'un tratto mi dice: "il processo vive e si vive; ora sto capendo cose che sui libri non ci sono".
    In tante discussioni riconosco in lui una nota tenacia, la riflessione mista alla precisione, una certa intransigenza (il DNA non mente, penso). A un certo punto dopo aver letto un atto di polizia mi chiede perché la pg usa sempre il passato e in sentenza io scrivo al presente storico. Rispondo e gli chiedo se vuole "veramente" preparare il concorso per magistrato. Lo trovo combattuto tra magistratura e avvocatura che sceglie con il coraggio e la forza di chi vuole farcela, bene e da solo.
    Un giorno dopo il pensionamento del prof. Dominioni lo sento deluso, non vuole perdere l'incipiente carriera accademica ma mi sembra che Andrea si senta finalmente libero di scegliere una sua strada. Gli propongo di iniziare un dottorato di ricerca. Ci pensa due giorni chiedendomi di non parlarne con il padre. E infatti non l'ho mai fatto. Poi Andrea mi raggiunge in ufficio, con garbo e eleganza ma con commozione mi dice che vuole fare l'avvocato, andare in udienza, lottare, lottare e lottare per affermare un diritto.
    Io mi arresi, Andrea ha lottato fino all'ultimo.

    Bruno Giordano
     

    Davanti a me, in una sala riunioni dalla boiserie molto vissuta, c'è un ragazzone che mi stringe la mano con un modo distaccato. Non ha l'aspetto del giovane avvocato che si presenta ad un colloquio di lavoro. Anzi. Potrebbe essere un creativo o un giovane dottorando in sociologia. Capelli dall'indole anarchica, strano piercing all'orecchio, occhiali dalla montatura bicolore in cui spicca un giallo da catarifrangente. È' serio tanto da sembrare lontano, come se tutto ciò che sta accadendo potrebbe non riguardarlo. Ad un certo punto nel corso di quel breve incontro, ad una mia battuta, vedo sciogliersi quell'area distaccata in un sorriso che si apre verso il mondo, capace di accoglierlo.
    Così ho conosciuto Andrea, sei anni fa.
    Era un avvocato giovanissimo ma  già con delle solide basi.
    Basi che si erano già formate grazie ad alcune sue qualità: la sua preparazione giuridica, il suo meticoloso scrupolo di approfondimento, il suo rigore nello scrivere (quante volte, sollecitato da me per la consegna della bozza di un atto - il più delle volte destinata a diventare integralmente l'atto definitivo - mi sentivo dire: " è' già pronta, devo rileggerla ancora una volta'...).
    Così iniziò quel percorso che lo avrebbe portato in breve tempo ad assumere direttamente la responsabilità di un processo, a gestire in prima persona  il sempre delicato rapporto con il cliente, a diventare per me e per lo studio un punto di riferimento.
    Aveva un animo sensibile che nascondeva dietro la sua grande discrezione e riservatezza.
    Ogni tanto facevano capolino nella quotidianità del lavoro anche le sue passioni, la Juve, la musica ed i suoi amatissimi Cavalieri dello Zodiaco.
    Lo ricordo alla scrivania studiare un processo in cuffia con una musica per me incomprensibile (capii cosa ascoltava andando con lui in macchina in udienza fuori Milano...), o quando, nelle pause di udienza a Pavia lo vedevo allontanarsi in fretta per acquistare uno dei suoi Cavalieri.
    Così come ricordo gli scambi di sms durante e dopo le partite della Juve: lo punzecchiavo da milanista ma si dimostrava comprensivo per il fatto che non ero interista.
    I colleghi più giovani, ancora praticanti, hanno avuto in lui una guida sicura ed accogliente.
    In questi anni è cresciuto professionalmente gestendo, come dicevo, anche processi delicati da me completamente delegati a lui, spesso conseguendo successi non facili.
    Aveva sviluppato una bella idea della funzione difensiva, moderna, senza retorica ma ferma nella convinzione dell'imprescindibile suo ruolo nella dinamica processuale.
    A volte rientrava da un'udienza o da un colloquio con un pubblico ministero infastidito se non arrabbiato, (in questo, e per fortuna, non era ancora un 'disilluso' ed io credo che non lo sarebbe diventato mai), per aver visto svolgere il ruolo della controparte in un modo non coerente con la sua idea del processo e della tutela dei diritti.
    In alcuni momenti, credo, che per Andrea non sia stato facile svolgere la funzione di avvocato penalista nel foro milanese portando 'quel' cognome.
    È stata una sfida che però ha superato e vinto con la forza delle sue idee e delle sue convinzioni, orgoglioso come era di essere avvocato.
    Quella forza e quella dignità lo hanno sostenuto sino alla fine facendo a gara con una riservatezza così ferrea da lasciare oggi in chi gli ha vissuto accanto nella vita lavorativa ammirazione accompagnata però da una punta di smarrimento.
    I tanti suoi amici del tifo juventino hanno trovato le parole giuste per salutarlo nello stadio della sua Juventus quando hanno scritto che 'nessuno muore nel cuore di chi resta'.
    È' proprio così Andrea.

     Salvatore Scuto

    Il mio grazie agli avvocati....

    Carissimi Avvocati,

    è trascorso un mese dall’ultima volta in cui ho visto mio figlio Andrea, giovane avvocato penalista di 36 anni.
    Ho già ringraziato molti di voi per la vicinanza manifestata in questi momenti di immaginabile dolore, ma spero ora di non apparire inopportuno nel tentativo di “far parlare Andrea”: sono tanti i genitori che soffrono per simili tragedie e non tutti hanno questa possibilità… e forse lo stesso mio figlio, dotato di una grande sobrietà, potrebbe non essere d’accordo..
    Vi chiedo scusa, allora, se mi lascio guidare dal cuore: ho deciso di scrivervi egualmente perché voglio affidarvi non solo il ricordo di un figlio, ma quello di un figlio-avvocato. E ve lo trasmetto attraverso parole di un avvocato e di un giudice.

    L’avv. Salvatore Scuto del foro di Milano, presso il cui studio mio figlio lavorava, ha di lui scritto: “Andrea aveva sviluppato una bella idea della funzione difensiva, moderna, senza retorica ma ferma nella convinzione dell'imprescindibile suo ruolo nella dinamica processuale. A volte rientrava da un'udienza o da un colloquio con un pubblico ministero infastidito, se non arrabbiato (in questo, e per fortuna, non era ancora un 'disilluso' ed io credo che non lo sarebbe diventato mai), per aver visto svolgere il ruolo della controparte in un modo non coerente con la sua idea del processo e della tutela dei diritti. Andrea è andato avanti ed ha superato e vinto la sua sfida con la forza delle sue idee e delle sue convinzioni, orgoglioso come era di essere avvocato. Quella forza e quella dignità lo hanno sostenuto sino alla fine facendo a gara con una riservatezza così ferrea da lasciare oggi, in chi gli ha vissuto accanto nella vita lavorativa, ammirazione accompagnata però da una punta di smarrimento.  I tanti suoi amici del tifo juventino hanno trovato le parole giuste per salutarlo nello stadio della sua Juventus quando gli hanno dedicato un striscione esposto nell’ultimo derby torinese con la scritta <>. È' proprio così Andrea”.

    Ed il giudice Bruno Giordano, che lo ha seguito anche in una significativa esperienza accademica, così lo ha ricordato, descrivendo la sua incertezza nelle decisioni da prendere per il futuro: “..gli chiedo se vuole "veramente" preparare il concorso per magistrato. Lo trovo combattuto tra magistratura e avvocatura, che sceglie con il coraggio e la forza di chi vuole farcela, bene e da solo. Un giorno dopo il pensionamento del prof. Dominioni (con cui aveva collaborato) lo sento deluso, non vuole perdere l'incipiente carriera accademica, ma mi sembra che Andrea si senta finalmente libero di scegliere una sua strada. Gli propongo di iniziare un dottorato di ricerca. Ci pensa due giorni chiedendomi di non parlarne con il padre. E infatti non l'ho mai fatto. Poi Andrea mi raggiunge in ufficio, dove con garbo e eleganza, ma con commozione, mi dice che vuole fare l'avvocato, andare in udienza, lottare, lottare e lottare per affermare un diritto. Io mi arresi, Andrea ha lottato fino all'ultimo.
    Il 5 luglio 2014 avevo spedito ad Andrea una mail per raccontargli della bellissima cerimonia cui avevo assistito nell’Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Torino, intitolata a Fulvio Croce, quella annualmente organizzata dal locale Consiglio dell’Ordine in onore degli Avvocati che hanno esercitato per 60 o 50 anni la professione forense. Avevo parlato ad Andrea di una cerimonia “solenne ed informale insieme, carica di giustificato orgoglio dei protagonisti”. Gli avevo poi ricordato le coinvolgenti parole del Presidente avv. Mario Napoli e dell’avv. Ottolenghi (“un passato anche da partigiano ed un presente pure da scrittore”), citandogli infine quelle di  Giampaolo Zancan: “In cinquant’anni ho difeso tutti, ma non ho preso ordini da alcuno”, una frase che a mio figlio era piaciuta molto, che  esalta la libertà di pensiero e la coerenza che sono le doti morali più importanti per chiunque operi nel campo della giustizia.
    Così chiudevo quella mail ad Andrea: “Zancan è giustamente orgoglioso della sua carriera, come io lo sono del fatto che tu sia un giovane avvocato!”

    Andrea amava lottare, appunto, con libertà di pensiero, dignità e coerenza: non a caso gli piaceva molto la bronzea statua equestre di Ferdinando di Savoia – Duca di Genova, che domina il centro della Piazza Solferino di Torino: il cavallo ferito nella battaglia di Novara del marzo 1849, combattuta contro gli invasori durante la prima guerra di indipendenza, sta cadendo e morendo, ma chi lo cavalca continua a combattere con la spada in pugno. La lapide sotto la statua così descrive quella scena e ricorda Ferdinando “Ferito a morte il cavallo nella battaglia di Novara, seppe vendicare col valore l’ingiuria della fortuna”. Già, l’ “ingiuria della fortuna”.
    Andrea era anche un accanito e conosciuto collezionista di statuette varie, soprattutto – ma non solo – dei Cavalieri dello Zodiaco, combattenti per il bene del cosmo e per la pace sulla Terra.
    La lotta...la lotta dunque come regola di vita, non in senso retorico, ma quella quotidiana e silente per i principi in cui si crede, per il bene, per la solidarietà, per la vita…Ed eroe non è sempre e solo chi per tutto questo combatte e vince, ma anche chi combatte e perde.
    L’11 settembre, cioè il giorno della S. Messa per Andrea, i suoi più cari amici gli hanno dedicato due pagine di amore che uno di loro ha letto in un’affollata Basilica milanese. Tra le altre, hanno ricordato queste sue belle parole da giovane avvocato che si guarda intorno e vuole capire e conoscere, parole che ripeteva ai suoi amici e colleghi: “il Tribunale va vissuto…e la giustizia non è l’avventura di un giorno !”
    Erano questa sua visione della giustizia e la dignità con cui viveva la sua professione che mi rendevano e mi rendono orgoglioso di avere avuto un “figlio-avvocato”.
    Sono queste sue parole che mi consentono di avere sempre mio figlio accanto.
    Voglio ringraziarvi ancora, con tutto il cuore ed insieme a mia moglie, per l’affetto che ci avete manifestato in questi giorni di dolore, un affetto dedicato ad Andrea.

    Armando Spataro

    di Angela Arbore

    In questi giorni plumbei per l’intero assetto della nostra democrazia, riflettendo sui rapporti tra Poteri dello Stato ed in genere sul rapporto tra magistratura e società, mi è venuta in mente la lettera a Diogneto.

    Si tratta di un testo-opuscolo dei primi secoli del cristianesimo, rinvenuto nel 1436 da un umanista italiano, dove ad un tal Diogneto si spiegavano le ragioni e le finalità della neonata religione cristiana.

    Il principio più interessante che voglio richiamare ai nostri fini è l’affermazione che “i cristiani sono del mondo ma non nel mondo”.

    Pertanto, parafrasando ed adattandolo alla magistratura, potremmo dire la stessa cosa.

    Occorre cioè la consapevolezza che la magistratura è fatta da uomini e donne che vivono ed operano nel mondo, ma in qualche modo comunque non “sono del mondo”.

    Tale consapevolezza non può essere disgiunta da un’altra, ossia che la magistratura in questi ultimi decenni è profondamente cambiata, essendo appunto specchio ed espressione della società.

    Ebbene, se questa è la premessa, la vicenda della collega Apostolico deve esigere e richiedere una reazione netta, univoca e compatta, rispetto alla quale mi colpiscono ed interrogano profondamente tentennamenti ed esitazioni che invece abbiamo dovuto registrate in varie forme.

    Perché in gioco qui è la tutela, non corporativa, non declinata in arroccata protezione delle proprie prerogative, della caratteristica essenziale dello iuris dicere; quel che allarma poi è che si è colpita l’attività e la funzione di una giudice civile, addetta alla trattazione di una materia delicata e sensibile, di una giudice che per tipologia, struttura, organizzazione del lavoro ed altri fattori qui non rilevanti, potrebbe apparire più indifesa.

    La collega è stata attaccata, con le modalità inusitate che abbiamo visto, solo per aver reso un provvedimento, evidentemente non gradito, ritenendola "rea" di aver esercitato la sua funzione di motivare, che è l’essenza stessa della giurisdizione, ossia  motivare ed applicare le norme inserendole nei contesti nazionali e sovranazionali, che è l’essenza del nostro lavoro di ogni giorno.

    Possibile che non si colga il legame tra quanto è successo e il complessivo percorso riformatore in atto, che prevede tra l’altro la creazione di un “fascicolo del magistrato”, sia pur destinato ad altre finalità, ma pericoloso già nella sua evocazione?

    Abbiamo questo dovere di tutela.

    Dobbiamo sentirlo forte. 

    E lo dobbiamo esercitare soprattutto pensando ai colleghi più giovani, che altrimenti potrebbero sentirsi indifesi ed impauriti, timorosi  e spinti quindi a chiudersi rispetto alle necessarie e doverose interlocuzioni con il “mondo”.

    Questo vogliamo insegnare loro nei nostri percorsi formativi? 

    Ma allora dovremmo parlare di tanto altro, se dovessimo approfondire, ma non è il focus rilevante in questa sede, il tema dell’etica del magistrato.

    Più che mai allora dobbiamo oggi ricordare quanto ha detto V. Zagrebelsky, ossia che “c’è differenza tra un magistrato grigio ed opaco ed un magistrato neutrale e che i grigi, gli opachi, gli scialbi sono spesso i più proni” e che “Non è forse vero che il conformismo è spesso l’anticamera della corruttibilità?”.

    E la prospettiva quindi non vorremmo che fosse ancora più plumbea, perché un altro dei ricordi sollecitati alla mia memoria in questi giorni è quello di un meraviglioso film del 2006, Le vite degli altri, dove alla domanda del bambino al padre, funzionario della Stasi su “chi” fosse la Stasi, il padre risponde “ma lo sai chi è ?”

    “Sì, gente cattiva che mette le persone in prigione.”

    “Davvero? E come si chiama?” 

    “Come si chiama chi?”

    “La tua palla, il nome della tua palla...”

    “…ma la palla non ha un nome!”

    Ma la magistratura tutta invece non deve temere chi non ha un nome, non deve essere opaca, ma deve continuare a svolgere, con responsabilità e consapevolezza, il suo servizio di iuris dicere nella società e per la società.

    (Discorso tenuto in occasione dell'assemblea del Comitato Direttivo Centrale dell'ANM, Roma, 21 e 22 ottobre 2023)

    Pubblichiamo un contributo dagli Atti del Convegno La magistratura e l’indipendenza. Dedicato a Giacomo Matteotti promosso da Questa Rivista che si è tenuto a Roma il 12 aprile 2024. Il fascicolo è a cura di Sibilla Ottoni, Michela Petrini, Marco Dell'Utri e Angelo Costanzo e si può leggere e scaricare a questo link

    Indipendenza della magistratura e regressione democratica nel contesto europeo

    di Simone Pitto

    Sommario: 1. Il caso polacco – 2. La risposta delle istituzioni sovranazionali ed internazionali – 3. Problematiche irrisolte e prospettive future.

    1. Il caso polacco

    La riflessione[1] muove da una questione che mi sembra centrale in questa giornata di studi: come siamo arrivati, nel cuore dell'Europa, culla della democrazia, a una regressione democratica come quella riscontrata in Polonia e in Ungheria, con rapporti della Commissione di Venezia che testimoniano gravi mancanze nelle più basilari garanzie dello stato di diritto e in materia di indipendenza e autonomia della magistratura?

    L'esempio polacco ci offre alcune lezioni, anche nell'ottica dell'interpretazione dei segnali di un attacco alle garanzie dello stato di diritto, già evocati nei precedenti interventi. Caratteristica peculiare della regressione democratica attuata in Polonia, infatti, è quella di essere avvenuta a Costituzione invariata. Ciò è stato possibile grazie alla “cattura” – per usare un'espressione invalsa nella dottrina italiana – o “court-packing”, per usare invece l’espressione in uso nel diritto anglosassone, di organi di garanzia di rilievo per il sistema costituzionale, attraverso molteplici interventi successivi del legislatore ordinario.

    Anche per questa ragione, nel caso della Polonia è quanto mai opportuno, come accennato dal professor Benvenuti, adottare un approccio non formalista ma attento alle dinamiche della costituzione materiale e all'interazione tra poteri.

    Occorre però fare un passo indietro. Per capire come si è arrivati a questa situazione, è necessario tornare al 2015. Alle elezioni di quell’anno per il rinnovo del Parlamento bicamerale polacco, emerse un risultato egemonico in favore del partito ultraconservatore, nazionalista ed euroscettico Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość, PiS).

    Il PiS ha sin da subito avviato un percorso di riforma massiccio di tutto il sistema giudiziario. Il primo organo di garanzia ad essere insidiato è il Tribunale Costituzionale polacco che, già dalla fine del 2015, viene interessato da misure volte a paralizzare la sua funzione antimaggioritaria. È stata ad esempio modificata la disciplina delle maggioranze necessarie per le declaratorie di incostituzionalità innalzando il relativo quorum, con ciò limitando l’effettiva possibilità del Tribunale Costituzionale di esercitare il sindacato di costituzionalità. Questa tecnica ricorda quanto avvenuto in Israele, con il tentativo di limitare il controllo dei tribunali costituzionali sull'azione del legislatore, come esposto dal Prof. Pierdominici.

    Altri organi del sistema giudiziario polacco sono stati bersaglio dei tentativi del PiS di “riorganizzare” l'assetto della magistratura. La Corte Suprema è stata ad esempio interessata da un massiccio pensionamento anticipato, conducendo secondo alcune stime a una sostituzione nell’ordine del 40% dei giudici della Corte. Questo meccanismo consentiva una richiesta di proroga da parte dei giudici interessati a restare nelle funzioni. Tuttavia, tale richiesta era soggetta al vaglio del Presidente della Repubblica Andrzej Duda (appartenente al PiS), il quale poteva accoglierla o rigettarla con giudizio discrezionale e senza possibilità di appello, permettendo così una selezione dei giudici più o meno invisi.

    La magistratura dei gradi inferiori è stata parimenti interessata da pensionamenti anticipati, con un abbassamento ex lege dell'età di collocamento a riposo ed un meccanismo simile per la proroga nelle funzioni. Trattasi di interventi successivamente oggetto di censura da parte della Corte di giustizia dell’Unione europea, che ne ha sancito la contrarietà al diritto unionale.

    Anche il procedimento disciplinare è stato oggetto di significative modifiche. Presso la Corte suprema è stata introdotta una nuova Camera disciplinare (Izba Dyscyplinarna), nonché una Camera per il controllo straordinario e degli affari pubblici, entrambe oggetto di rilievi critici da parte delle corti europee per la radicale assenza di garanzie di indipendenza dall’esecutivo.

    Un altro episodio di cattura da menzionare riguarda l’organo di autogoverno, cioè il Consiglio Nazionale della Magistratura. I plurimi interventi di riforma della maggioranza guidata dal PiS hanno comportato la cessazione anticipata dei membri della precedente consiliatura ed una modifica alle modalità di elezione della componente togata, prima eletta da altri magistrati ed in seguito nominata dalla Sejm, la Camera bassa del Parlamento polacco. Ciò ha condotto a un sistema ove, tra nomine parlamentari e presidenziali, la maggioranza governativa espressione del PiS aveva di fatto la possibilità di incidere sulla nomina di circa l'80% dei componenti del Consiglio Nazionale della Magistratura, organismo con rilevanti competenze nel sistema giudiziario.

    Per concludere, questo processo di regressione nelle garanzie del giudiziario avvenuto in Polonia desta particolare attenzione proprio perché intervenuto a costituzione invariata, grazie a interventi che hanno semplicemente svuotato di significato garanzie come la separazione dei poteri, rimasta lettera morta nella Costituzione polacca. Come sottolineava il professor Benvenuti, è opportuno interrogarsi sugli elementi che hanno reso possibile questo svuotamento della Costituzione, che, nel caso polacco, sembrano complesse ma possono individuarsi, tra l’altro, in un processo di transizione democratica forse non del tutto completato, nella presenza di riserve di legge molto ampie in Costituzione e nella forzatura dello spirito delle norme costituzionali.

     

    2. La risposta delle istituzioni sovranazionali ed internazionali

    Quanto alla reazione delle istituzioni internazionali e sovranazionali rispetto a questo scenario, mi sembra si possa affermare che l’integrazione eurounitaria nel caso della Polonia ha rappresentato un’ulteriore garanzia rispetto alla tutela delle prerogative di indipendenza della magistratura. La risposta delle istituzioni dell’Unione europea è stata diversificata, con strumenti più tradizionali come la procedura di infrazione ma anche con altre modalità.

    Riguardo al primo aspetto, varie procedure di infrazione sono state aperte nei confronti di Polonia e Ungheria e sono sfociate in altrettante pronunce della Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Sulla base dell'articolo 19 del Trattato sull'Unione Europea e dell'articolo 47 della Carta di Nizza, la Corte di Lussemburgo ha giudicato controversie aventi ad oggetto alcune delle misure di cui abbiamo parlato, ad esempio in materia di pensionamento anticipato e limitazioni delle prerogative dei magistrati, ritenendole contrarie al diritto dell'Unione e, segnatamente, al diritto ad un giudice imparziale e ad una tutela giudiziaria effettiva. La dott.ssa Filippi ha ricordato in apertura come questi valori trovino fondamento nell'articolo 2 del Trattato sull'Unione Europea, il quale stabilisce che lo stato di diritto costituisce un valore fondante dell'Unione.

    La risposta giudiziaria e le pronunce della Corte di giustizia sono state, almeno nella prima fase, sostanzialmente ignorate dalle istituzioni polacche. Di contro, si sono registrati da parte della Polonia veri e propri “rigurgiti nazionalisti” da parte di organi giudiziari polacchi, fondati su una presunta identità costituzionale nazionale da proteggere. Il riferimento è, in particolare, alla decisione del Tribunale costituzionale polacco K-3/21, che ha sostanzialmente propugnato un’inversione del principio del primato del diritto dell'Unione Europea, affermando la prevalenza della Costituzione polacca sul diritto eurounitario.

    A fronte di queste resistenze e delle limitate misure che le autorità polacche hanno adottato in risposta alle pronunce della Corte di Lussemburgo, l'Unione Europea ha adottato ulteriori contromisure di carattere politico, alcune delle quali senza precedenti. È il caso, in particolare, dell'attivazione dell’articolo 7(1) TUE. Quest’ultimo consente, attraverso una deliberazione a maggioranza del Consiglio, di riscontrare un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori fondanti dell'Unione di cui all’art. 2 TUE, tra i quali rientra lo stato di diritto e, dunque, l'indipendenza della magistratura. Tale procedura può anche comportare l'adozione di raccomandazioni formali rivolte allo Stato membro affinché ponga rimedio ai suddetti rischi.

    Non è stata invece esperita l’ulteriore opzione dell'attivazione del meccanismo previsto dai successivi commi dell'articolo 7 TUE, il quale consente di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro dall’applicazione dei trattati ma richiede l'unanimità del Consiglio europeo. Rispetto a tale possibilità, infatti, si è registrato un asse di veti reciproci tra la Polonia e l'Ungheria di Orban che ne ha di fatto reso impraticabile l’utilizzo. Siamo rimasti, quindi, nell’ambito della procedura prevista dall'articolo 7 comma 1, la quale, tuttavia, non era mai stata attivata in passato.  

    Oltre alla risposta attuata sulla base dei trattati, un altro importante strumento da menzionare è il regolamento 2020/2092 del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2020 sulla condizionalità al bilancio europeo, ricordato in apertura dalla dott.ssa Filippi. Il regolamento condiziona l'erogazione di fondi europei al rispetto dei valori fondanti dell’Unione, tra i quali lo Stato di diritto e, quindi, l'indipendenza della magistratura. Di fronte a riconosciute violazioni della rule of law, la Commissione ha di fatto congelato ingenti fondi del Next Generation EU e del fondo di coesione destinati alla Polonia.

    Un'altra risposta di rilievo in ambito eurounitario è stata data dall'ENCJ, la Rete europea che riunisce i Consigli di giustizia degli Stati membri dell'Unione. Tale organo ha tempestivamente escluso il Consiglio Nazionale della Magistratura polacco dalla rete dei Consigli europei, ritenendolo non indipendente dal potere esecutivo a seguito delle riforme portate avanti dal governo guidato dal PiS. Si è quindi potuto assistere ad una ferma reazione in sede sovranazionale anche da parte degli organi di rappresentanza e autogoverno della magistratura europea.

    Vale la pena ricordare anche la risposta di altri organi internazionali. La Commissione di Venezia ha espresso rilievi critici in molteplici pareri sulle modifiche legislative polacche, esprimendo preoccupazioni e raccomandazioni specifiche rivolte alla Polonia. Interessante da questo punto di vista, come ricordava la dott.ssa Filippi, è anche la checklist elaborata dalla Commissione di Venezia per riscontrare fattispecie sintomatiche della violazione dello stato di diritto. Si tratta di un ausilio interpretativo molto importante, specie nell’ottica di individuare tempestivamente i segnali propedeutici ad una regressione democratica.

    Il GRECO (Gruppo di Stati contro la corruzione), un altro primario organismo del Consiglio d'Europa che si occupa di anticorruzione, ha espresso ulteriori rilievi critici con riguardo alle riforme polacche.

    Restando sul piano internazionale, va richiamata inoltre l’ampia giurisprudenza sul punto sviluppata dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. La Corte di Strasburgo ha avuto modo di giudicare alcune controversie aventi ad oggetto fattispecie di lesione dell’indipendenza della magistratura in Polonia, specialmente con riguardo all’articolo 6, comma 1, della CEDU, relativo al diritto a un tribunale indipendente e imparziale (ma non solo).

    È interessante notare l’ideale dialogo instaurato sul punto con la Corte di Giustizia dell'Unione Europea. In una importante decisione del novembre 2023 nel caso Walesa cPolonia (ricorso n. 50849/21), la Corte di Strasburgo ha richiamato integralmente le conclusioni della giurisprudenza della Corte di giustizia sull’assenza delle più basilari garanzie di indipendenza della Camera per il controllo straordinario e gli affari pubblici, ricordando altresì che l'indipendenza della magistratura è un prerequisito e una garanzia fondamentale dello Stato di diritto.

     

    3. Problematiche irrisolte e prospettive future

    Mi avvio alla conclusione con un paio di notazioni finali collegate a quest’ultimo tema e ad altri evocati durante il dibattito di questo panel.

    In primo luogo, può valere la pena interrogarsi anche sulle ragioni di questi attacchi ripetuti e sempre più frequenti alla magistratura. In Polonia e Ungheria questi fanno apparentemente parte di una sorta di strategia politica per perpetrare un disegno di mutamento dell'ordinamento in senso illiberale. Spesso si tratta di un disegno palesato espressamente come nel caso del primo ministro ungherese Victor Orban il quale, in un discorso del 2014, affermava direttamente di voler costruire uno stato democratico non liberale.

    La magistratura rappresenta un bersaglio naturale per i regimi illiberali, specie a fronte del crescente ruolo odierno svolto dal giudice. Un ruolo che emerge specialmente con riguardo alla tutela dei c.d. “nuovi diritti” e alle tematiche di frontiera del diritto che, peraltro, si è ulteriormente accentuato grazie all'integrazione sovranazionale e alla possibilità di disapplicare il diritto nazionale contrario al diritto dell'Unione.

    Vediamo che, se in passato le associazioni per la promozione dei diritti collocavano le proprie manifestazioni sotto i palazzi delle assemblee legislative, sempre più spesso oggi le stesse manifestazioni avvengono di fronte ai palazzi ove hanno sede i tribunali costituzionali e le alte corti. La magistratura ha inoltre un fondamentale ruolo di garanzia dei diritti delle minoranze e delle istanze contro-maggioritarie e ciò contribuisce a renderla invisa al disegno di regressione democratica di un regime illiberale.

    Non si tratta peraltro di una tendenza nuova: basti pensare al celebre passo in cui, già nell’Enrico VI, parte II di Shakespeare, il villain Dick il Macellaio afferma “The first thing we do, let's kill all the lawyers”, con ciò alludendo – più che ai soli avvocati – ai giuristi in generale come denota il significato letterale di lawyers e, quindi, anche ai giudici. Come riconosciuto dal giudice Stevens della Corte Suprema americana negli anni Ottanta, con tale passaggio, Shakespeare ha perspicacemente chiarito che attaccare i giuristi costituisce la strada maestra verso il totalitarismo (Cfr. Walters v. Nat'l Ass'n of Radiation Survivors, 473 U.S. 305, 371 n. 24 (1985), Stevens, J., opinione dissenziente).

    Concludo però con una nota positiva rispetto all’azione degli anticorpi esterni e interni di cui abbiamo parlato. In Polonia questi anticorpi interni hanno operato in modo non trascurabile. C'è stata una opposizione parlamentare, seppur ridotta; ci sono state manifestazioni del giudiziario, come la marcia dei giudici di Varsavia nel 2020 e interventi di associazioni senza scopo di lucro. Dal punto di vista esterno, il congelamento dei fondi dell'Unione Europea ha comportato una forte pressione politica dell’opinione pubblica sul governo guidato dal PiS.

    Si tratta di fattori che, se non decisivi, hanno indubbiamente contributo anche all’esito delle ultime elezioni per il rinnovo del Parlamento polacco dell’autunno 2023. Tali consultazioni elettorali hanno infatti visto la prevalenza dell’opposizione pro-europeista guidata da Donald Tusk al quale, dopo alcune tensioni istituzionali, il Presidente Duda ha alla fine attribuito l’incarico di formare un nuovo governo, il quale sembra intenzionato a promuovere un ripristino delle garanzie dello stato di diritto nell’ordinamento polacco. La nuova compagine governativa ha così avviato un dialogo con le istituzioni dell'Unione Europea annunciando un piano di azione per il ripristino dello stato di diritto, anche sul fronte dell’indipendenza della magistratura. Tale apparente nuovo corso dell'agenda politica polacca in materia di giustizia è stato accolto con favore dalla Commissione europea, la quale si è recentemente impegnata a sbloccare i fondi destinati alla Polonia precedentemente trattenuti (complessivamente pari a circa 137 miliardi di euro). Nel maggio 2024, la stessa Commissione ha ulteriormente rivelato l'intenzione di chiudere la procedura dell'articolo 7(1) del TUE contro la Polonia. Si dovrà quindi attendere l’attuazione di queste riforme per valutare l’effettivo ripristino dello stato di diritto in un paese ove molte sono ancora le resistenze al nuovo corso europeista e nel quale restano i segni di anni di giustizia illiberale. Del resto, come insegna la lezione della storia di Giacomo Matteotti, lo stato di diritto – valore che abbiamo forse dato per scontato credendolo immune da involuzioni democratiche – non è una conquista di una notte ma piuttosto un impegno senza fine (M. Cartabia, The rule of law and the role of courts, in Italian Journal of Public Law, 1, 2018, 2).

    In conclusione, e raccogliendo gli spunti critici sollevati, parto dal tema dell’importanza dell’apparato sovranazionale rispetto alla risposta ai tentativi di regressione democratica e lo ricollego al tema trattato dal professor Benvenuti, cioè il ruolo della magistratura. Si tratta di un tema senza dubbio delicato. Tuttavia, nel caso polacco, va rilevato che, sin dalle prime fasi di questa regressione democratica, i magistrati polacchi hanno identificato nella Corte di Giustizia un interlocutore naturale per portare gli attacchi alla loro indipendenza su un piano più alto rispetto a quello nazionale. Questo ha innanzitutto consentito quella reazione attuata con gli strumenti più “tradizionali” della procedura di infrazione, contribuendo a sviluppare una giurisprudenza della Corte di Giustizia che ha chiarito la contrarietà al diritto unionale di molte delle misure introdotte dalla Polonia. Concordo sul fatto che questa risposta non si è rivelata del tutto efficace, almeno da sola, tanto che la stessa Unione Europea ha dovuto ricorrere ad altri mezzi. Tra questi assumono particolare rilievo la richiamata procedura di cui all’art. 7(1) TUE ed il regolamento sulla condizionalità europea, che si è in effetti rivelato piuttosto efficace. Lo si vede anche dai toni della campagna elettorale durante le elezioni dell’autunno 2023 in Polonia. Il dibattito, nonostante la propaganda governativa, si è ampiamente focalizzato sulla necessità di sbloccare questi fondi – oltre cento miliardi – che, rispetto al PIL polacco, rappresentano importi davvero rilevanti per l’economia del paese.

    In questa dialettica favorita dalle iniziative dei magistrati polacchi che si sono rivolti alla Corte di Giustizia (tanto che il governo guidato dal PiS ha anche cercato di limitare la possibilità del rinvio pregiudiziale) si vede l'importanza della rete di cooperazione giudiziaria europea rispetto ai tentativi di limitare l'indipendenza della magistratura. Questo aspetto emerge in particolar modo nella giurisprudenza della Corte di Giustizia sul mandato d'arresto europeo. Alcuni giudici di Stati membri europei si sono chiesti se potessero fidarsi delle autorità giudiziarie polacche, con le quali devono cooperare, in presenza di evidenze di una situazione di mancata indipendenza della magistratura nel paese. Questo dialogo ha avuto un ruolo non trascurabile ed ha altresì avuto il merito di portare la questione da un piano meramente politico ad uno giuridico. Mentre infatti la Corte costituzionale polacca catturata ha tentato di rivendicare una pretesa identità costituzionale nazionale da far prevalere sul diritto dell’Unione, la giurisprudenza della Corte di giustizia ha chiarito che, dal punto di vista giuridico, l’identità nazionale non può valere come clausola culturale di esonero rispetto al diritto dei trattati. Infatti, lo stato di diritto, oltre a costituire un valore fondante dell’Unione in base a quegli stessi trattati, è parte integrante della cultura giuridica europea e pertanto deve essere garantito senza eccezioni.

    [1] Per una compiuta disamina sul tema si rinvia a «Indipendenza della magistratura in Polonia. Lo “strappo nel cielo di carta” della rule of law e l’argomento identitario», in Giustizia Insieme, vol. 3 settembre-dicembre 2023, Dialoghi oltre i confini nazionali, p. 527.

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