GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte I(di Mario Serio, Giuseppe Giaimo, Rosario Petruso e Rosalba Potenzano)

    Il fine vita e il legislatore pensante

    2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte I
    di Giuseppe Giaimo, Rosario Petruso e Rosalba Potenzano
    Introduzione di Mario Serio

    [v. in precedenza Il fine vita e il legislatore pensante. Editoriale  - Il fine vita e il legislatore pensante. 1. Il punto di vista dei penalisti (di Vincenzo Militello, Beatrice Magro e Stefano Canestrari)]

    Introduzione

    Mario Serio, professore ordinario di Diritto privato comparato  presso il Dip. di giurisprudenza dell'Università di Palermo

    Ancora una volta Giustizia Insieme si rende lodevole interprete della sensibilità sociale sviluppatasi attorno a temi in cui le implicazioni giuridiche esigono un coordinamento chiaro e ragionato con altri forme di conoscenza e giudizio, anche eticamente qualificati. 

    L'occasione è oggi costituita dal significato da attribuire, sul terreno del diritto e delle soluzioni che esso appare in grado di prospettare, al concetto di vita in generale e, più in particolare, su quello di vita che valga la pena di essere continuata a condurre a cospetto di condizioni, situazioni, evenienze che dolorosamente mettano in dubbio, tanto dal punto di vista soggettivo, quanto da quello oggettivo, questa possibilità.

    Tema da sviluppare, oltre che con il ricorso al patrimonio delle competenze strettamente tecniche, tenendo conto della crudezza delle circostanze e della necessità di governarle assumendo come linea di indirizzo il superiore valore della dignità della persona umana in ogni momento della sua esistenza, fino a quello del suo epilogo.

    La molteplicità delle sollecitazioni culturali e, in declinazione aconfessionale e rigorosamente laica, in senso ampio spirituali che la ricerca proposta lascia affiorare serve certamente ad affinare la profondità delle riflessioni, caricandole del nobilitante onere di controllarne la doverosa compatibilità con la preservazione, sempre e comunque, del decoro della vicenda umana.

    La Scuola comparatistica palermitana, i cui esponenti addito orgogliosamente  quali Allievi, qui presente sia con affermati ed esperti studiosi sia con freschi contributi di giovani cultori, ha coltivato una ricca indagine sulle modulazioni dell'oggetto dello studio opportunamente suggerito dalla rivista, dirigendo la propria attenzione verso un duplice obiettivo: da un canto, sceverando la natura delle varie questioni in sé, nella loro essenza considerate; d'altro canto, convogliando verso la sponda dell'appropriato metodo comparatistico l'apparato concettuale appena fissato. E' così che il mutuo contratto con altre esperienze ordinamentali si risolve in, anche implicito, criterio di orientamento per scelte, indirizzi, proposte attuabili nel nostro ordinamento.

    Qui di seguito si offre una breve presentazione di ciascuno dei contributi ospitati, che verranno pubblicato in due parti.

    Nel contributo di Giuseppe Giaimo, recente autore di una fondamentale monografia sull'irriducibile dualismo tra volontà e corpo, si sottolinea la piena conciliabilità tra la scelta eutanasica guidata da fini egoistici con quella, orientata in senso altruistico, di acconsentire al prelievo dei propri organi per destinarli al trapianto a beneficio di persone affette da gravi malattie. Lo studio si snoda mediante il sicuro sguardo gettato su altre esperienze ordinamenti.

    Rosario Petruso si è occupato, con ricchezza di riferimenti ed appassionate e pertinenti considerazioni critiche, di descrivere l'itinerario della sedazione palliativa allo scopo di ridurre la possibilità che lo stato avanzato della patologia induca il paziente a chiedere di porre fine alla propria vita ormai costellata da insopportabili sofferenze. L'indagine si articola lungo la valorizzazione, ancora una volta incoraggiata dal saggiamente padroneggiato studio comparatistico, della libertà di autodeterminazione.

    Le laceranti domande poste dalla condizione di sofferenza del minore, resa più aspra dalla limitatezza dei suoi margini di scelta autonoma onde porvi argine, trovano adeguata replica negli orizzonti disegnati dall'accurata indagine di Rosalba Potenzano, proiettata nella dimensione giuridica europea, raffigurata quale polo di relazione epistemologica.  

    Altrettanto pregevole è l'analisi acuta ed informata che, nella parte II, Nicoletta Patti svolge relativamente alle conseguenze, agli insegnamenti ed alle svolte impresse dalle soluzioni giurisprudenziali multi-livello nei dolorosi casi Englaro e Cappato ,costituenti basi fondative di attesi interventi legislativi italiani che ben potrebbero trarre proficuo alimento dalla situazione registrata in altri Paesi. Nel medesimo, generale ordine argomentativo, allargato alla questione dell'efficacia da assegnare alla opzione volitiva del paziente rivolta a conseguire assistenza al proprio disegno di suicidio si pone l'ulteriore contributo della medesima Autrice che si indirizza alla ricerca di soluzioni al terribile problema, rinvenendone tracce in un certo numero di ordinamenti stranieri, europei e non.  

    Ed infine, con finezza di pensiero e dovizia informativa l'analisi di Giancarlo Geraci affonda nel tessuto del processo civile e degli strumenti cautelari che esso presta per quanto attiene alla possibilità di aiuto al proposito di porre termine alla propria esistenza di fronte alla carenza di fattivo sostegno da parte delle competenti autorità sanitarie: il pesante fardello gravante sulle spalle del Giudice, anche straniero, è conseguentemente esplorato. La ricerca di un ragionevole, dignitoso contemperamento tra i concorrenti beni-valori in competizione nella tragica cornice di una vita la cui prosecuzione contrasta ,sul piano della tollerabilità delle sofferenze che ne sgorgano, è adeguatamente perseguita dallo stesso giovane studioso  con l'ausilio del raffronto tra le caratteristiche conformanti sul punto il diritto italiano ed il common law inglese.

    Il quadro tratteggiato da questi generosi contributi ben si inscrive nell'ariosa visione che Giustizia Insieme ha voluto, nella scia di un dibattito radicato nella coscienza sociale, descrivere nel generale contesto della sublimazione dei precetti costituzionali atti riscattare la dignità umana dal giogo del dolore umiliante ed opprimente.

    Questo lavoro collegiale, ed i singoli contributi, non avrebbe visto la luce senza la costante opera di guida e suggerimento posta in essere con la consueta maestria dalle Professoresse Marina Timoteo e Rossella Cerchia, rispettivamente ordinarie di Diritto privato comparato nelle Università di Bologna e di Milano Statale.    

                                                                                                                                                                       

    Giuseppe Giaimo, professore ordinario di Diritto privato comparato  presso il Dip.di giurisprudenza dell'Università di Palermo

    Si può parlare di eutanasia e di donazione degli organi come di argomenti tra loro collegati?  

    La risposta necessita di tre considerazioni di natura preliminare, apparentemente sganciate tra loro ma, in realtà, interconnesse.

    La prima (che ha quasi il sapore dell’ovvio) riguarda il fatto per cui uno dei meriti che è possibile ascrivere alla comparazione giuridica è, senz’altro, quello di favorire interessanti spunti di riflessione su argomenti che, presenti nel dibattito culturale e giuridico di sistemi diversi, risultano negletti all’interno del contesto nostrano.

    La seconda consiste nell’osservare come nel complesso tema della morte cercata da un soggetto la cui vita è divenuta insopportabile per le sofferenze dovute a uno stato patologico, lo studio e l’approfondimento delle soluzioni adottate in quegli ordinamenti ove è presente una regolamentazione della fattispecie risulta, addirittura, indispensabile al fine di provare a predisporre – all’interno del complesso normativo italiano – regole già testate altrove, in modo da avere una visione nitida del possibile impatto della disciplina in fieri.

    La terza considerazione, infine, è che tra le questioni di maggior portata che ineriscono all’eutanasia (quali, ad esempio, i suoi stessi presupposti di applicabilità, i requisiti e la forma della richiesta, i doveri e i diritti del personale sanitario coinvolto) è possibile scorgerne altre di apparente minore importanza, ma che – in vista di una legge a regolamento della materia – è bene non trascurare, soprattutto in virtù della loro possibile rilevanza sociale.

    La traduzione in concreto di quanto adesso esposto in termini astratti consiste nel richiamare l’esperienza belga e olandese in materia di eutanasia, posto che in essi è ormai rodata la possibilità di porre termine – su loro richiesta – alla vita di quegli individui che non intendano più sottostare alle sofferenze irreversibili arrecategli da una malattia. In quei contesti (a proposito di quegli argomenti in apparenza minori ma che, invece, sono dotati di un notevole impatto sociale), nel corso del tempo, si è rilevato un fenomeno sul quale è bene svolgere qualche riflessione. Il riferimento è a quei soggetti che hanno chiesto di porre termine alla propria esistenza e, ricorrendo i presupposti di ammissibilità del procedimento eutanasico, hanno altresì dichiarato di voler donare i propri organi, una volta sopraggiunta la morte[1]. In questo modo, quindi, l’elemento unificatore costituito dalla volontà del paziente consente di combinare due temi – l’eutanasia e la donazione di organi – tradizionalmente considerati quali argomenti tra loro lontani e, al contempo, ben distinti perché di difficile correlazione a livello teorico. Nel comune sentire, infatti, le motivazioni che conducono alle due diverse determinazioni dell’ammalato sono avvertite come se esse fossero fondate su presupposti non soltanto tra loro differenti, ma addirittura antitetici. Se, quindi, la scelta di procurarsi la morte per scansare il protrarsi di sofferenze sembra essere guidata da fini egoistici (secondo quella così detta «morale comune» che, sino ad oggi, pare ostacolare l’emanazione di una legge che autorizzi l’eutanasia), la decisione di donare i propri organi per destinarli al trapianto su altri infermi è espressione socialmente riconosciuta di un incontrovertibile animo altruista. Da ciò, dunque, la difficoltà di conciliare i due temi e riportarli a unità all’interno di un medesimo provvedimento legislativo.

    Il tema, per quanto possa apparire ruvido, non è di quelli che si possano accantonare con facilità, soprattutto considerando l’inveterata scarsità di organi disponibili per i trapianti, a fronte dei numeri di una richiesta che sopravanza di gran lunga l’offerta. Per comprendere la portata del fenomeno, allora, è senz’altro utile un richiamo a quegli ordinamenti al cui interno la questione è stata affrontata, dato che in essi è già consentita l’eutanasia. In Olanda, dunque, è stato stimato che “il bacino di potenziali donatori potrebbe incrementarsi passando da 200 a 400 all’anno”[2], mentre in Svizzera “se il 50% di coloro che si sottopongono a suicidio assistito fossero messi nelle condizioni di donare i propri organi si potrebbe arrivare, addirittura, a un surplus di disponibilità”[3].

    Una volta posta la questione, è bene definirne i contorni al fine di poter valutare se una eventuale normativa a regolamento del suicidio assistito (o, in generale, dell’eutanasia) possa prevedere anche la facoltà del paziente di destinare i propri organi al trapianto. In questo senso, allora, si procederà per argomenti distinti, in modo da cercare di ottenere un quadro schematico e di semplice lettura.

    Il primo degli argomenti da prendere in considerazione è, senza alcun dubbio, quello relativo al consenso del paziente, distinguendo in base all’obiettivo perseguito. Le maggiori cautele dirette ad accertare la genuinità e, soprattutto, la consapevolezza dell’ammalato non possono che riguardare – com’è ovvio – la scelta di procedere alla morte volontaria attraverso l’assistenza sanitaria. La volontà di porre termine alla propria esistenza, dunque, deve essere verificata, insieme ai presupposti oggettivi che stanno sullo sfondo (ad esempio, l’esistenza di una patologia irreversibile e dalla prognosi infausta, fonte di sofferenze fisiche o psichiche intollerabili), tenendo ben presente le motivazioni dell’ammalato le quali, naturalmente, non possono consistere soltanto nel desiderio di arrecare beneficio ad altri, anticipando la propria morte. Soltanto una volta che sia stato accertato un volere coerente con le finalità proprie dell’eutanasia, allora, sarà possibile procedere a indagare se il paziente stesso voglia destinare i propri organi al trapianto su altri individui, eventualmente – in caso di risposta affermativa – raccogliendone il consenso che rimane distinto e differente rispetto a quello volto a ottenere un aiuto a morire. La completa autonomia tra i due diversi atti volitivi implica, come logico corollario, che la possibile revoca di una di tali scelte non abbia effetto sull’altra che, dunque, rimane inalterata sino a che essa non sia a sua volta superata da una successiva volontà di segno contrario.

    Una questione di ordine pratico affatto secondaria – e di cospicua rilevanza per il malato, anche tenuto conto dell’aspetto psicologico dell’intera vicenda – è quella relativa ai luoghi ove praticare la morte volontaria medicalmente assistita, se a questa dovesse conseguire l’espianto degli organi dal defunto per destinarli al trapianto. Sul punto, infatti, potrebbero trovarsi a confliggere, da un lato, il desiderio del paziente di porre termine alla propria esistenza in un luogo a lui caro e confortevole e, d’altro lato, la necessità di trovarsi in una struttura sanitaria attrezzata al prelievo degli organi stessi nei tempi – inevitabilmente molto stretti – compatibili con il buon esito dell’operazione. Le due esigenze, apparentemente in antitesi tra loro, potrebbero essere conciliate sottolineando un punto di convergenza tra la normativa che in Italia disciplina l’asportazione di organi e tessuti[4] e quanto stabilito in proposito dal progetto di legge n° 1875[5] attualmente in discussione alla Camera. Ferma rimanendo, infatti, la necessità di operare il prelievo da cadavere all’interno di una struttura sanitaria accreditata, si potrebbero attrezzare dei locali al suo interno per renderli idonei ad assicurare un ambiente accogliente, atto a ospitare il paziente e coloro che quest’ultimo desideri avere vicini al momento del trapasso. In questo modo, quindi, si potrebbe superare la possibile (e giustificata) ritrosia del malato ad acconsentire all’espianto dei propri organi, ove quest’ultimo rendesse necessario porre termine ai propri giorni in un contesto evidentemente medicalizzato quale potrebbe essere, ad esempio, un’unità di terapia intensiva.

    Un ultimo potenziale ostacolo che potrebbe frapporsi all’armonizzazione tra la disciplina dell’eutanasia e quella del prelievo di organi e tessuti risiede nell’eventuale inidoneità degli organi stessi a essere destinati al trapianto. Lo stato di malattia che ha condotto il paziente a decidere di morire potrebbe essere incompatibile, infatti, con la necessità di ottenere, attraverso l’espianto, del materiale organico in condizioni tali da consentirne un proficuo innesto in soggetti a loro volta affetti da gravi patologie. L’obiezione, tuttavia, non è così significativa se soltanto ci si sofferma su una duplice considerazione. In primo luogo, una cospicua serie di organi e tessuti da adibire ad impianto non risente della condizione di malattia che, a causa delle sofferenze da questa provate, potrebbe condurre alla scelta eutanasica (si pensi, ad esempio, alle cornee, alla cute e a tutte quelle parti del corpo non intaccate dalla malattia medesima). In secondo luogo, la decisione di un soggetto di donare parte di sé dopo aver posto termine alla propria vita con l’ausilio medico rende possibile programmare accuratamente l’espianto, anche attraverso una maggiore e più approfondita conoscenza diagnostica degli organi da prelevare, rispetto all’ipotesi in cui la morte sia dovuta a un evento traumatico improvviso e imprevedibile.

    In conclusione, allora, la possibile coesistenza tra la scelta eutanasica e quella di acconsentire al prelievo dei propri organi per destinarli al trapianto su altri individui affetti da gravi patologie risulta essere un modo attraverso il quale ottenere una effettiva valorizzazione dell’autonomia volitiva dell’ammalato. Circostanza, questa, resa eticamente ancor più apprezzabile dalla consapevolezza raggiunta da chi è ormai al termine della propria esistenza di consentire – successivamente al proprio sacrificio, dovuto al voler porre termine alle sofferenze patite – a che altri soggetti possano ottenere quel riscatto dalla malattia che darebbe senso e dignità ulteriore, attraverso la nobiltà del dono di sé, alla volontà di morte del donante stesso.                                                                                                             

    Rosario Petruso, ricercatore in  Diritto privato comparato  presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Palermo  

    La relazione fra cure palliative e aiuto al suicidio. Cosa è già disciplinato e cosa dovrebbe esserlo?  

    La relazione fra cure palliative e aiuto al suicidio potrebbe essere costruita alternativamente nei seguenti termini:  

    1) una relazione di propedeuticità, nel senso che la effettiva somministrazione delle prime rappresenterebbe una fase necessaria della procedura volta ad ottenere l’aiuto al suicidio;

    2) una relazione incentrata sul consenso libero ed informato prestato dal paziente al quale le cure palliative devono essere preliminarmente prospettate come effettiva alternativa al suicidio assistito;

    3) nessuna relazione, nel senso che si tratterebbe di due procedure autonome e non comunicanti.  

    Nelle osservazioni a seguire, per le ragioni che si vedranno, si suggerisce l’adozione della seconda opzione.  

    Da indagini statistiche relative alla sedazione palliativa e all’aiuto al suicidio (e, più in generale, all’eutanasia) effettuate nei Paesi Bassi[6] - il primo Paese a legalizzare sia l’eutanasia sia il suicidio assistito - emerge che il ricorso a procedure volte a porre fine alla vita è sensibilmente diminuita ed è correlativamente aumentata la richiesta di sedazione palliativa. Questi risultati sono solitamente interpretati come prova del fatto che la sedazione palliativa possa essere, in certi casi, una valida alternativa al suicidio assistito (ed all’eutanasia), in quanto utile a lenire quelle sofferenze che rendono insopportabile la permanenza in vita.

    Quanto appena detto esclude la praticabilità della opzione sub 3).

    Se l’effettiva accessibilità ad un percorso di sedazione palliativa (più volte valorizzata dalla Corte Costituzionale[7]) ha il potenziale di ridurre in maniera non indifferente la richiesta del malato di morire, occorre allora che il legislatore si interroghi e prenda espressamente posizione[8] circa la precisa relazione che l’ordinamento è chiamato ad instaurare tra cure palliative e suicidio assistito (opzione sub 1) o sub 2)).  

    La possibilità effettiva di accedere a cure palliative mentre si sta morendo può alleviare il dolore, le paure e le ansie del paziente e, in tal modo, può avere l’effetto di ridurre la richiesta di pratiche dirette a porre fine alla vita. Tuttavia, la disponibilità di tali cure non si candida ad eliminare totalmente la domanda di suicidio assistito.

    Ciò basterebbe a sconsigliare l’adozione della opzione sub 1), in quanto tale strada non sarebbe praticabile in ogni situazione e richiederebbe, pena il rischio di violare il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., l’individuazione di ragionevoli giustificazioni a supporto di trattamenti differenziati in un terreno già di per sé molto scivoloso, anche a causa di conflitti culturali e valoriali di non poco momento[9].

    La sedazione palliativa profonda continua - uno degli aspetti delle terapie palliative presi in esame dal legislatore nella legge 219 del 2017 - può essere applicata, infatti, ai pazienti che hanno un’aspettativa di vita ormai ridottissima (“prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte”), mentre l’aiuto al suicidio può essere richiesto - almeno stando alle condizioni delineate dalla Corte Costituzionale[10] - anche in presenza di un’aspettativa di vita più lunga[11]. Ad esempio, un paziente che soffre di una patologia irreversibile ed a prognosi infausta (ferme le altre condizioni previste dalla Corte Costituzionale) con un’aspettativa di vita di diversi mesi può richiedere l’aiuto al suicidio, ma non può accedere alla sedazione palliativa profonda continua[12].

    La diversa copertura temporale delle due situazioni impedisce, dunque, che le due procedure medicalizzate di cui alla nostra domanda possano essere intese sempre e comunque l’una come alternativa dell’altra e da inserirsi in un rapporto di sequenzialità.

    Anche in quei casi in cui il paziente possa accedere ad entrambe le opzioni (nel caso, ad esempio, di richiesta di aiuto al suicidio posta nell’imminenza della morte), la relazione fra cure palliative e aiuto al suicidio non andrebbe interpretata in termini di propedeuticità, né logica, né temporale: la scelta da parte del paziente del suicidio assistito non dovrebbe essere necessariamente preceduta da una terapia del dolore intesa come un percorso di transizione effettivamente intrapreso e documentabile.

    A differenza di altri processi medicalizzati che prevedono una scansione temporale tra più fasi (si pensi, ad esempio, al percorso di transizione per il cambio sesso che prevede una procedimentalizzazione articolata in tre passaggi necessari ed in un quarto solo eventuale, avvinti – tutti – da una finalità comune[13]), infatti, lo scopo sottostante alle due terapie è profondamente diverso: le terapie palliative mirano ad una cura del dolore[14]; l’aiuto al suicidio a porre fine ad una vita piena di sofferenze fisiche o psicologiche, che il malato trova assolutamente intollerabili.

    La somministrazione di cure palliative, dunque, dovrebbe essere considerata come un passaggio non obbligatorio, ma solo eventuale[15].

    Per fugare eventuali dubbi sulla legittimità costituzionale di questa interpretazione, si noti che la non riconducibilità dei due trattamenti terapeutici ad una progressione sequenziale non è contraddetta dall’invito della Corte Costituzionale ad inserire la disciplina stessa dell’aiuto al suicidio nel contesto della legge n. 219 del 2017 «e del suo spirito»: tale indicazione, infatti, è diretta ad inscrivere anche quest’ultimo percorso terapeutico nel quadro della «relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico». La conclusione prima prospettata non è contraddetta nemmeno dall’affermazione contenuta nell’ordinanza del 2018[16] e nella sentenza del 2019[17] della Corte Costituzionale secondo cui «il coinvolgimento in un percorso di cure palliative dovrebbe costituire […] un pre-requisito della scelta […] di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente».

    Il “coinvolgimento” di cui parla la Corte Costituzionale andrebbe, infatti, inteso come la mera prospettazione al paziente della possibilità di accedere ad un percorso effettivo di terapia del dolore.

    Un raffronto comparatistico con un progetto di legge spagnolo (progetto di legge del 31 gennaio 2020 n.46-1 conferma la bontà di questa soluzione. Il comma 1 lett. b) dell’art. 5 prevede, infatti, che ricevuta la richiesta di assistenza alla morte debbano essere prospettate al paziente le diverse alternative e le diverse possibilità di azione, «compresa quella di accedere alle cure palliative» e che il medico curante debba assicurarsi che il paziente abbia compreso le informazioni fornite anche relativamente alle «eventuali cure palliative». Nello stesso senso militano due proposte di legge inglesi (Assisted Dying Act, HL Bill 25, 2015 e Assisted Dying Act, HL Bill 42, 2016) in materia di aiuto a morire. In entrambe, la sezione 3(4) prevede, negli stessi termini, che il medico al quale sia stata richiesta l’assistenza al suicidio ed un medico indipendente[18] devono accertarsi che la persona che abbia effettuato la richiesta sia stata pienamente informata relativamente alle cure palliative ed alle cure che possono essere praticate in centri specializzati nella terapia del dolore dei pazienti in fase terminale (hospice)[19]. Che la volontà di porre termine alla propria vita debba essere chiara, informata ed espressa in modo inequivocabile risulta poi sia dalle Schedules allegate alle due proposte di legge che prevedono le modalità (sotto la rubrica “form of declaration”) attraverso cui il paziente è tenuto a confermare l’effettiva somministrazione di queste delicate informazioni sia dalla attribuzione del compito di accertare la genuinità del volere del richiedente ad un giudice (la Family Division della High Court).

    Un’ultima proposta di legge italiana, la N. 1875 del 30 maggio 2019 della Camera dei deputati, si inserisce esattamente in questo filone diretto ad intendere la rappresentazione al paziente delle cure palliative come una precauzione che deve assistere la formazione e la manifestazione della volontà del sofferente che intenda avvalersi dell’assistenza al suicidio. Nell’ambito della “procedura” per far ricorso alla “morte volontaria medicalmente assistita”, l’art. 5 prevede che il medico (che abbia ricevuto tale richiesta) debba redigere un rapporto da cui si evinca se «la persona è stata adeguatamente informata della propria condizione clinica e della prognosi, se è stata adeguatamente informata dei trattamenti sanitari ancora attuabili e di tutte le possibili alternative terapeutiche […] se […] è a conoscenza del diritto di accedere alle cure palliative e specificare se è già in carico a tale rete di assistenza[20]».  

    Ulteriori vantaggi nell’accedere all’opzione 2)  

    La prospettazione, nell’ambito della disciplina del consenso informato, della possibilità di sottoporsi ad un percorso di cure palliative presenta il duplice vantaggio sia di evitare il rischio di eventuali ed irreparabili premature rinuncie da parte del paziente a terapie alternative sia di valorizzare l’autodeterminazione dello stesso nelle scelte di fine vita.

    Accedendo a questa maniera di intendere il rapporto tra le due terapie si protegge tanto il paziente più vulnerabile, smarrito ed indifeso (da decisioni affrettate o poco ponderate o da possibili abusi da parte di terzi) quanto il paziente che abbia già chiaro il proprio convincimento circa la modalità fonte di minori sofferenze per sé e per i propri cari e maggiormente dignitosa di porre fine alla propria esistenza (e che, dunque, abbia una volontà ferma di porre termine alla propria vita).

    Ipotizzare, al contrario, una relazione di propedeuticità (tale per cui il malato non potrebbe rifiutare le cure palliative senza per ciò stesso perdere anche il diritto al suicidio assistito) al fine di garantire una sorta di “proporzionalità” della terapia praticata, come a voler sottolineare che la scelta del suicidio assistito manifesti, dal punto di vista dell’ordinamento giuridico («data la valenza tipicamente meta-individuale dei valori coinvolti»[21]), un carattere “estremo”, non terrebbe nel debito conto le libere scelte individuali del paziente dirette alla soddisfazione dei propri bisogni privatissimi e più intimi[22].

    Spetta, infatti, al malato valutare la modalità soggettivamente più dignitose per congedarsi dalla vita, come aspetto del più ampio principio costituzionale della libertà di autodeterminazione nella scelta delle terapie a cui sottoporsi. Per il paziente, invero, non è detto che la scelta più “estrema” sia necessariamente quella della morte: dal punto di vista dei propri convincimenti valoriali, etici o religiosi scegliere di essere sottoposto a sedazione profonda continua (e, dunque, a cure palliative) potrebbe essere una scelta non meno difficile. Si pensi, ad esempio, al credente di fede islamica che, sottoponendosi alla sedazione profonda continua, sceglie di procedere all’abbassamento progressivo (fino alla completa soppressione) della propria coscienza e, dunque, di accedere ad una terapia non consentita dalla religione di appartenenza[23].

    Conclusivamente, si può affermare, dunque, che va lasciata alla scelta del paziente la possibilità di accedere a due terapie che potrebbero apparire al paziente entrambe “estreme” e “tragiche”.  

    Ulteriori profili da prendere in considerazione  

    Vi è un ultimo aspetto che non deve passare inosservato nella costruenda relazione tra cure palliative e suicidio assistito: il necessario coinvolgimento familiare in un percorso di sostegno psicoterapeutico. Ai sensi dell’art. 2 comma 1 lett. a) della legge n. 38 del 2010, infatti, le “cure palliative” sono costituite dall’insieme «degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare». Tali terapie sono dunque, come precisato ulteriormente alla successiva lett. e), destinate «al supporto dei malati e dei loro familiari».

    Si tratta di un punto fondamentale (che nelle proposte di legge italiane non è stato ad oggi esplicitamente affrontato) da valorizzare anche nella disciplina legislativa dell’aiuto al suicidio.

    Sia che si costruisca la relazione intercorrente tra cure palliative e aiuto al suicidio nei termini di un passaggio preparatorio o preliminare delle prime nei confronti del secondo (ipotesi qui non condivisa per le ragioni già individuate), sia che tale relazione sia costruita quale mera prospettazione al paziente di un percorso alternativo ai fini dell’ottenimento di un consenso realmente libero ed informato all’aiuto al suicidio, le cure palliative - adesso intese come supporto anche psicologico ai familiari per alleviarne paure ed ansie - vanno imperativamente assicurate, nell’ambito della cornice legislativa esistente (legge n. 38 del 2010 e legge 219 del 2019), quale che sia la scelta del paziente nel congedarsi dalla vita.  

    Rosalba Potenzano, dottoranda in diritto privato comparato presso il Dip. di giurisprudenza dell'Università di Palermo  

    I minori e la volontà di farla finita. Come potrebbe intervenire il legislatore?  

    La riflessione giuridica su un tema di indagine assai delicato, qual è quello che concerne l’ampliamento dell’autonomia individuale nella gestione della fase finale della vita umana, assume dei contorni ancora più instabili se riferita alla persona minore di età. La condizione giuridica dell’individuo infra-diciottenne nell’ordinamento italiano, infatti, si compone di un quadro normativo parecchio complesso ed eterogeneo, il quale mostra la difficoltà di tracciare una soddisfacente regolazione dei plurimi interessi riferibili a un soggetto legalmente incapace, ma -  da un punto di vista assai più aderente al dato reale - dotato di effettive capacità di discernimento, variabili in relazione tanto alla sua età anagrafica, quanto al grado di maturazione personale; entrambi fattori non sempre legati tra loro da una lineare progressione.

    La distinzione tra un momento «statico» di generale e indistinta attribuzione dei diritti a ciascun individuo e uno «dinamico» - che riservi l’esercizio in concreto delle facoltà riconosciute a tutti i membri di una stessa collettività soltanto a coloro i quali abbiano un’età ritenuta per legge consona per la gestione autonoma della propria sfera giuridica - suscita non poche perplessità; e ciò, non solo, in seno all’ambito patrimoniale in cui una simile distinzione è sorta[24], ma altresì se traslata nella sfera esistenziale dell’individuo, con l’effetto di privare quest’ultimo della libertà astrattamente riconosciutagli per favorire lo sviluppo della sua stessa personalità[25]. Una simile consapevolezza ha indotto il legislatore a un progressivo ripensamento della predetta impostazione, nel tentativo di allineare lo status del minore al modello suggerito dalle numerose Carte internazionali che - configurate su un archetipo generale e astratto di essere umano dotato di sufficiente maturità e consapevolezza - riconoscono ai soggetti minorenni il godimento di pari diritti e libertà, senza che eventuali differenze di età possano limitarne ampiezza e contenuto[26]. L’essere un soggetto ancora in piena formazione evidenzia, così, soltanto un potenziale fattore di fragilità per l’individuo minorenne e funge, al contempo, da stimolo per l’introduzione di ulteriori garanzie da parte dello Stato – quali l’obbligo di informazione e di ascolto della volontà espressa dall’infra-diciottenne, qualunque sia la sua età anagrafica - necessarie per assicurare un pari livello di effettività ai diritti a esso riconosciuti[27].

    Da questo nuovo angolo visuale, la persona non ancora adulta è portatrice di esigenze e aspirazioni proprie, nonché titolare di diritti e garanzie autonome, utili ad assecondare il suo sviluppo e la sua formazione senza esporla al pericolo di indebite intrusioni da parte di quanti – soggetti privati o autorità pubbliche – operano scelte in grado di incidere sulla sua crescita[28]. Tale mutamento di prospettiva interessa senza dubbio anche il contesto terapeutico, obbligando chiunque sia chiamato a operare delle scelte che incidono sull’altrui stato di salute a informare compiutamente il paziente legalmente incapace in ordine alla sua condizione e a prestare ascolto alla sua volontà; presupposto metodologico, quest’ultimo, indispensabile per far sì che la decisione assunta dal titolare della funzione di cura non abbia caratteri indebitamente sostitutivi e consenta di individuare la soluzione più rispondente al benessere dell’interessato, riflettendo le sue preferenze[29]. La capacità di discernimento del minore, infatti, ha ottenuto una certa valorizzazione anche nell’ambito sanitario, posto che il suo volere è preso in considerazione come un fattore sempre più determinante[30], contribuendo a comporre - nei limiti del possibile, in funzione cioè dell’età, del grado di maturità e della capacità cognitiva che residua in virtù dello stato patologico in cui versa il paziente - il contenuto dell'atto finale che acconsente, rifiuta o revoca (se già somministrati) determinati trattamenti[31].

    In particolare, la recente legislazione in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento riconosce al minore “il diritto alla valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e di decisione”, garantisce allo stesso “le informazioni sulle scelte relative alla propria salute in modo consono alle sue capacità per essere messa nelle condizioni di esprimere la sua volontà”[32] e, infine, impone ai suoi rappresentanti legali di decidere “tenendo conto della sua volontà” e “avendo come scopo la tutela della saluta psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità”[33]. La disciplina legislativa in esame, tuttavia, ha escluso la possibilità di attribuire piena vincolatività alla preferenza del minore in ordine alle scelte terapeutiche che interessano il suo corpo, ove queste non siano supportate, congiuntamente, anche dai suoi rappresentanti e dai sanitari che lo hanno in cura. L’eventualità che lo stesso paziente minorenne palesi - previo accertamento delle sue capacità di comprensione, nonché dell’autenticità e consapevolezza sottese alle sue manifestazioni di volontà, magari attraverso l’ausilio di personale competente esterno alla struttura sanitaria ove lo stesso è in cura - una chiara e meditata predilezione, ad esempio, per la somministrazione di alcuni trattamenti tra quelli suggeriti dai sanitari ovvero rifiuti in toto ogni tipo di intervento non assume ex se cogenza giuridica[34]. La rilevanza della capacità di intendere e di volere del minore, pertanto – contrariamente alla sensibilità mostrata dalla giurisprudenza minorile con riferimento anche a pazienti ancora abbastanza piccoli, ma sufficientemente maturi[35] – subisce di fatto un certo svigorimento, ulteriormente confermato nell’ipotesi in cui questi versi in una condizione di patologia destinata a progredire e a privarlo della possibilità di esprimersi o, addirittura, di comprendere e determinarsi di conseguenza. Alla persona minore d’età, infatti, è impedito non solo di elaborare delle disposizioni anticipate di trattamento (D.a.t.) in previsione di uno stato di malattia soltanto ipotetico e inattuale[36]; ma, altresì, di pianificare insieme al medico e con l’assistenza dei suoi rappresentanti legali le cure cui intende sottoporsi, ove affetto da una precisa e grave patologia in atto[37].

    L’insieme delle previsioni richiamate in tema di salute e autodeterminazione terapeutica suggerisce l’adesione del legislatore italiano a una declinazione dei diritti in esame parzialmente diversa a seconda che essi riguardino l’adulto o il minore di età. In quest’ultima ipotesi, infatti, la piena realizzazione di uno stato di benessere psicofisico conforme alla scala di valori propri del soggetto interessato che si risolva nel rifiuto dei trattamenti con esiti eventualmente esiziali è subordinata non alla verifica di un consenso libero e informato di quest’ultimo, ma al volere – adesivo e congiunto - dei rappresentanti legali e dei sanitari che hanno in cura il paziente minorenne o, in caso di contrasto, al provvedimento dell’autorità giurisdizionale[38]. In quest’ottica, la tutela della dignità richiamata dallo stesso testo di legge[39] quale bussola in grado di orientare tutti i soggetti che prendono parte alla relazione di cura che riguarda il minore rischia di oscillare tra due poli opposti, operando as an empowerment, nel caso in cui i primi decidano spontaneamente di allinearsi alle scelte del paziente minorenne dotato di sufficiente maturità ovvero as a costraint, nell’ipotesi in cui gli stessi contravvengano alle sue volontà, imponendo un trattamento indesiderato che cagioni sofferenze, fisiche o psichiche, per lo stesso intollerabili o rifiutando delle cure dolorose e con basse probabilità curative fortemente desiderate dal paziente medesimo[40]. Una simile impostazione si inserisce, dunque, in seno al novero di incoerenze normative che connotano la complessa disciplina minorile, dimostrando l’esistenza di profonde resistenze politiche a un completo abbandono della distinzione tra capacità giuridica e capacità d’agire nell’ambito delle decisioni che ineriscono la sfera personalissima dell’individuo maturo e capace di discernimento, di età inferiore (anche di pochi mesi) agli anni diciotto.

    Le considerazioni appena svolte ricevono nuova conferma anche se riferite al diritto dell’infermo di ricevere l’assistenza altrui per porre fine in modo autonomo alla propria vita, laddove quest’ultima proceda biologicamente solo grazie alla somministrazione di trattamenti di sostegno vitale, non curativi rispetto alla condizione patologica - irreversibile e foriera di sofferenze intollerabili - in cui versa l’individuo che ne è affetto. Un esame congiunto della giurisprudenza costituzionale[41] e dei disegni di legge che affrontano la materia[42] mostra, infatti, di non prendere in considerazione il desiderio suicida del malato minorenne che voglia congedarsi dalla vita secondo un percorso sanitario diverso da quello che prevede la somministrazione della terapia del dolore e la sedazione palliativa profonda sino al lento sopravvenire della morte naturale. Il paziente legalmente incapace ma pienamente in grado di comprendere la propria condizione e l’imminenza della sua morte – pur titolare del diritto di palesare il proprio rifiuto ai trattamenti, ricevendo ascolto da parte dei rappresentanti legali, dei medici o del giudice – non può in alcun modo indicare, quale soluzione che rispetti al meglio la propria idea di dignità e di benessere, l’auto-somministrazione di un farmaco letale che ponga fine alla sua situazione ormai irreversibile. L’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale ritenuti non più utili né necessari dai rappresentanti e dai medici stessi (ovvero autorizzata da un provvedimento del giudice) ai sensi dell’art. 3 della L. 219/2017 espone, dunque, la persona infra-diciottenne capace di prendere decisioni libere e consapevoli ad accettare delle sofferenze fisiche e/o psicologiche per lei intollerabili. In tale circostanza il rispetto della dignità della persona minore di età può operare soltanto come limite opposto al volere del suo stesso titolare, in adesione a un concetto di ordine pubblico in grado di contenere valori meta-individuali, riferibili all’intera collettività e non derogabili neppure mediante il consenso espresso da coloro che – rappresentanti, sanitarie e giudici – sono di norma autorizzati, dal legislatore medesimo, a prendere decisioni in materia di scelte sanitarie sui minori.

    Una simile limitazione domestica all’autodeterminazione terapeutica dei pazienti minorenni che vogliano interrompere ogni tipo di cura e chiedere l’assistenza dei medici al solo fine di procurarsi una morte che sia per loro più dignitosa non è affatto isolata all’interno del panorama europeo. La medesima soluzione, infatti, si riscontra anche in altri ordinamenti di civil law come la Spagna, ove la posizione di apertura assunta nel tempo dalla giurisprudenza nazionale - incline a riconoscere al minorenne maturo e capace di discernimento una piena capacità di rifiutare i trattamenti, anche ove ciò ne comporti la morte[43] – non sembra essere stata seguita dal legislatore nel recente progetto di legge in materia de regulación de la eutanasia. Il paziente non maggiorenne, infatti, è espressamente privato del diritto di chiedere una prestación de ayuda para morir, sia essa fornita attraverso una condotta attiva del personale sanitario che somministri un farmaco letale al paziente, sia essa realizzata mediante altre forme di assistenza che consentano a quest’ultimo un’auto-somministrazione[44]. Tali restrizioni legislative verso le scelte terapeutiche del minore – le quali sono in grado di incidere non sull’esito mortale ormai prossimo, ma solo sulle modalità attraverso cui pervenirvi - si registrano, inoltre, anche in seno a quegli ordinamenti in cui è netta la preferenza per il concetto di «compentece» piuttosto che di capacità legale, quale nozione più vicina a quella di capacità di fatto o capacità naturale di intendere e di volere, che potrebbe sussistere nel paziente legalmente incapace o, viceversa, essere assente in quello capace[45]. L’accesso al suicidio medicalmente assistito, infatti – la cui introduzione è al momento presa in considerazione dalla House of Lords - è precluso ai minori di età che versino in condizioni di grave e irreversibile malattia giunta ormai allo stadio terminale dall’Assisted Dying Bill, il quale non attribuisce pari valore alle manifestazioni di volontà dei pazienti infra-diciottenni che, pienamente capaci di autodeterminarsi e acconsentire da soli a ogni tipo di cura, desiderano congedarsi dalla vita senza subire un processo più lento e più carico di sofferenze per loro e per le persone care[46]

           

    [1] Cfr. A.K.S. van Wijngaarden, D.J. van Westerloo, J. Ringers, Organ Donation After Euthanasia in the Netherlands: A Case Report, in Transplantation Proceedings, 2016, p. 3061.

    [2] A.K.S. van Wijngaarden, D.J. van Westerloo, J. Ringers, op. cit., p. 3062 e W.F. Abdo, Berichten over orgaandonatie na euthanasie. Zorgvuldigheid geboden, in Ned Tijdschr Geneeskd, 2014, 158: A8617.

    [3] D. M. Shaw, Organ Donation After Assisted Suicide: A Potential Solution to the Organ Scarcity Problem, in Transplantation, 2014, p. 247.

    [4] L. n° 91/1999.

    [5] Al quale sono abbinati gli ulteriori ddl n° 2, 1418, 1586, 1655 e 1888.

    [6] AA. VV. Two Decades of Research on Euthanasia from the Netherlands. What Have We Learnt and What Questions Remain?, J Bioeth Inq. 2009, 271-283.

    [7] Da ultimo, cfr. Corte Cost. n. 242 del 25 settembre 2019. Sul punto si veda inoltre il parere del 18 luglio 2019 il parere del Comitato nazionale per la bioetica dal titolo «Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito».

    [8] Ciò non è avvenuto nella proposta di legge n. 1655 del 7 marzo 2019, in cui non si fa espresso cenno alle informazioni relative alle cure palliative come precauzione che deve assistere la formazione e la manifestazione della volontà del sofferente che abbia in animo di richiedere l’assistenza al suicidio. L’art. 1, che prevede l’inserimento nell’ambito della legge 219 del 2017 di un comma 4 bis (Disposizioni in materia di eutanasia), dispone, infatti, alla lettera d) che «il paziente sia stato congruamente e adeguatamente informato delle sue condizioni, delle possibili alternative terapeutiche e dei prevedibili sviluppi clinici e [che] ne abbia discusso con il medico». Nessun tipo di relazione è previsto, per ovvie ragioni, nella proposta di legge n. 1888 del 5 giugno 2019: in tale proposta, infatti, la strada privilegiata sembrerebbe essere quella della razionalizzazione della disciplina dell’accesso alle cure palliative di cui alla legge n. 38 del 2010 con la legge n. 219 del 2017 al fine di escludere qualsiasi forma di trattamento eutanasico. Tale proposta sembra, per ciò solo, non attenersi alle indicazioni dalla Corte Costituzionale.

    [9] Pongono in evidenza tali conflitti tanto divisivi e densi di implicazioni etiche Bucalo M.E., Giaimo G., Le sollecitazioni delle Corti e linerzia del legislatore in tema di suicidio assistito. Un confronto tra Italia e Inghilterra, in BioLaw Journal -Rivista di BioDiritto, 2019, 2, p. 171 e 187.

    [10] Riferite alle ipotesi in cui il soggetto agevolato si identifichi cumulativamente in una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”».

    [11] Sul punto concernente l’ancoraggio del suicidio assistito ad una esatta prospettiva di vita sul piano temporale e sulle relative proposte di legge presentate in Italia e nel Regno Unito, si veda G. Giaimo, Considerazioni sparse, in chiave comparatistica, sulle proposte di legge in materia di eutanasia e di suicidio medicalmente assistito, in BioLaw – Rivista di BioDiritto, 3, 2019, 40. L’Autore nota come «subordinare una decisione così impegnativa ad una circostanza che dipende dall’opinione dei medici, senza alcuna certezza in ordine al suo verificarsi nei tempi previsti, limita eccessivamente la portata normativa, con il rischio evidente di trattare in modo differente coloro che – pur sopportando la medesima afflizione – hanno, nell’opinione dei professionisti sanitari, una differente prospettiva in merito a quanto la malattia gli lascia da vivere».

    [12] Presupposto dell’aiuto al suicidio dovrebbe, infatti, essere non la prossimità dell’evento fatale, ma le condizioni di «vita estremamente deteriorate in cui versa l’infermo e che giustificano un intervento diretto, in maniera compassionevole, ad abbreviarle». Sul punto, cfr. G. Giaimo, Considerazioni sparse, in chiave comparatistica, sulle proposte di legge in materia di eutanasia e di suicidio medicalmente assistito, in BioLaw – Rivista di BioDiritto, 3, 2019, 41.

    [13] Un percorso psicologico, una terapia ormonale, un iter processuale presso il Tribunale competente, un eventuale intervento chirurgico. Si vedano in particolare la sentenza della Corte Costituzionale n. 221/2015 e la sentenza della Corte di Cassazione n. 15138/2015.

    [14] Un aspetto centrale della definizione di cure palliative offerta dall’Organizzazione mondiale della sanità, inoltre, è che esse non accelerano né pospongono la morte: rispetto a questo evento, dunque, le cure palliative si pongono su un piano di neutralità. Ciò è vero anche per la sedazione palliativa profonda continua, la modalità più “estrema” delle cure palliative, praticabile – ai sensi della legge 219 del 2017 - allorché il paziente riscontri sofferenze intrattabili e intollerabili. Da questo punto di vista, infatti, i ricercatori hanno dimostrato come le preoccupazioni legate all’accorciamento della vita in relazione all’uso di tali terapie siano infondate e che esse possano avere l’effetto opposto di allungarla: Maltoni M, Pittureri C, Scarpi E, Piccinini L, Martini F, Turci P, et al. Palliative sedation therapy does not hasten death: Results from a prospective multicenter study, Ann Oncol. 2009, 1163 ss. Si noti che la questione della liceità dei trattamenti medici volti ad alleviare il dolore e le sofferenze allorché tali terapie abbiano, come conseguenza incidentale per quanto prevedibile, l’accorciamento della vita del paziente è stata più volte affrontata dalle Corti inglesi: cfr. Airedale NHS Trust v Bland [1993] AC 789, 867 (Lord Goff), 892 (Lord Mustill), R (Pretty) v Director of Public Prosecutions [2002] 1 AC 800, 831H-832A (Lord Steyn) e, da ultimo, in R. v Ministry of Justice, R. v The Director of Public Prosecutions,  R. v The Director of Public Prosecutions, [2014] UKSC 38. Anche la nostra Cassazione (cfr. C. Cass. – sez. I civ. 16/10/2007 n. 21748) non è rimasta insensibile al problema ed ha chiarito che «il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo decorso naturale».

    [15] L’ipotesi che la effettiva somministrazione di cure palliative possa essere inquadrata come un passaggio necessario per accedere al suicidio assistito non è affatto remota, poste le diverse sensibilità – al cospetto di un tema tanto divisivo -, presenti in Parlamento. Si pensi, ad esempio, alla già citata proposta di legge n. 1888 del 5 giugno 2019 che intende dare seguito alle indicazioni della Consulta, evitando, però, la loro trasposizione in norme eutanasiche. Nel corpo di questa proposta, infatti, sono introdotti ulteriori paletti restrittivi anche nell’ambito della somministrazione delle cure palliative al fine di evitare che queste possano surrettiziamente trasformarsi in trattamenti eutanasici. Tra i due aspetti delle terapie palliative (la terapia del dolore e la sedazione palliativa profonda continua) sono, infatti, introdotte puntuali previsioni volte a precisare ulteriormente la esatta cadenza logica e temporale tra i due trattamenti. Il comma 2 dell’art. 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 è, infatti, modificato nei termini che seguono: «In presenza di sintomi refrattari ai trattamenti sanitari, accertati e monitorati dagli esperti in cure palliative che hanno preso in carico il paziente, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente». Sulle criticità di questa proposta di legge, cfr. G. Giaimo, Considerazioni sparse, in chiave comparatistica, sulle proposte di legge in materia di eutanasia e di suicidio medicalmente assistito, in BioLaw – Rivista di BioDiritto, 3, 2019, 27 ss.

    [16] Ordinanza n. 207 del 24 ottobre 2018.

    [17] Sentenza n. 242 del 24 settembre 2019.

    [18] Sulla indipendenza del secondo professionista la proposta di legge inglese insiste molto. Quest’ultimo infatti, a norma della section 3(1)(b) Assisted Dying Bill 2016, non deve essere in alcun modo legato (nemmeno da vincoli di parentela) al primo.

    [19] La formulazione della norma risente, evidentemente, della circostanza che, per il progetto di legge inglese, il richiedente debba essere afflitto da una patologia irreversibile con una prospettiva di vita non superiore a sei mesi.

    [20] In questo senso, si veda anche la proposta di legge n. 1586 dell’11 febbraio 2019 volta a modificare la legge 2017, n. 219, che prevede l’inserimento di un comma 5 bis all’art. 1 della legge 2017, n. 219 sui trattamenti eutanasici. La lettera a) prevede espressamente che il personale medico e sanitario è tenuto a rispettare la volontà del paziente quando essa: «a) sia manifestata da un soggetto maggiorenne adeguatamente informato sulle sue prospettive di vita, nonché sulle possibilità terapeutiche ancora attuabili e sui trattamenti palliativi e sulle loro conseguenze». Analogamente, nella proposta di legge n. 1875 del 30 maggio 2019, l’art. 3 si preoccupa di assicurare al paziente la «conoscenza esaustiva delle proprie condizioni cliniche e delle possibilità terapeutiche, compreso il diritto di accedere a cure palliative» prima che si cristallizzi il proposito di accedere alle procedure sanitarie del suicidio medicalmente assistito e del trattamento eutanasico previste dal successivo art. 4.

    [21] G. RESTA , La dignità , in S. RODOTÀ , M. TALLACCHINI  (a cura di), Ambito e fonti del biodiritto, Milano, 2010, p. 268.

    [22] Il punto affrontato si inserisce ovviamente nell’ambito di un tema più ampio relativo al significato di dignità umana, concetto cui possono essere assegnati significati antitetici. Sul punto, cfr. G. Giaimo, la volontà e il corpo, Torino, 2019, 8 ss.

    [23] Come è noto, la religione musulmana pone al vertice dei valori non solo la sacralità della vita, ma anche la qualità della vita, sicché anche la riduzione della coscienza non è una procedura consentita. Sul punto, cfr. E. Avci, Does Palliative Sedation Produce an Ethical Resolution to Avoid the Demand for Euthanasia in a Muslim Country?, Indian J Palliat Care, 2018 537–544.

    [24] Si pensi, ad esempio, alla disciplina codicistica in tema di invalidità contrattuali, la quale prevede che il negozio concluso dall’incapace di agire per difetto di età produca immediatamente i suoi effetti, potendo essere annullato soltanto nell’interesse del minorenne (art. 1425 c.c.), salvo che quest’ultimo abbia dato ampissima prova della sua capacità di intendere e di volere, ponendo addirittura in essere dei raggiri finalizzati a occultare la sua età (art. 1426 c.c.).

    [25] Tale dicotomia, invero, avrebbe senso “nell'ambito dei rapporti patrimoniali, nei quali soltanto è lecito scompagnare il momento della mera titolarità – c.d. godimento – da quello dell'esercizio effettivo di un qualsivoglia diritto sullo stesso bene [...] se taluni diritti, più di altri, sono concepiti ai fini dello sviluppo della persona umana (artt. 2 e 3 Cost.), non ha alcun valore riconoscere astrattamente uno di essi senza concedere anche la possibilità di esercitarlo immediatamente. La conseguenza è che per tali situazioni non ha senso ricorrere alle figure della capacità giuridica e della capacità d'agire, sia pure affermandone la coincidenza sia pure – forse con maggiore fondatezza – sostenendone la perfetta irrilevanza” (P. Stanzione, Capacità e minore età nelle problematiche della persona umana, Napoli, 1975, p. 242 - 251).

    [26] Il riferimento è alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989 (CRC – New York), artt. 3 e 12; la Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei minori del 25 gennaio 1996 (Strasburgo), art. 3; la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000 (Nizza), art. 24; la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006 (New York), art. 7.

    [27] Il diritto di ascolto del minore capace di discernimento, infatti, si estende ben oltre la sede processuale (art. 336bis c.c.) e la relazione interna al nucleo familiare (315bisc, comma 3, c.c.), implicando invece che la sua opinione abbia un peso sempre più preponderante al fine di stabilire il contenuto di tutte le decisioni che lo riguardano (infra).

    [28] Cfr. L. Lenti, Note critiche in tema di interesse del minore, in Riv. Dir. Civ., 2016, 1, p. 86 ss; A. Pisu, Scelte terapeutiche e protezione degli interessi esistenziali del minore nella relazione di cura e nel fine vita, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 1-bis.

    [29] Cfr. Cass. Sez. III civ., sent. n. 21748/2007, par. 10.

    [30] La Convenzione per la protezione dei Diritti dell’Uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti dell’applicazioni della biologia e della medicina del 4 aprile 1997 (Oviedo) impone a ogni Stato firmatario – “quando, secondo la legge, un minore non ha la capacità di dare consenso a un intervento” – di impedire che l’intervento sia effettuato “senza l’autorizzazione del rappresentante, di un’autorità o di una persona o di un organo designato per legge” e di prendere “in considerazione come un fattore sempre più determinante, in funzione della sua età e del suo grado di maturità” il parere del minore (art. 6, comma 2).

    [31] Il diritto del minore di essere informato e di manifestare il proprio volere rispetto alle opzioni terapeutiche si rintraccia all’interno di numerose fonti legislative domestiche anteriori alla L. 219/2017 in materia di consenso informato (infra). Si pensi alla legge sulla sperimentazione clinica dei farmaci (art. 4, D.lgs n. 211/2003), sull'interruzione volontaria della gravidanza (art. 13, L. n. 194/1978) ovvero in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza (art. 120, comma 2, D.p.r. n.  309/1990). La facoltà del minore capace di discernimento di prestare il consenso ai trattamenti alla stregua di un soggetto maggiorenne, cioè anche senza l'intervento dei genitori, inoltre, è stata talvolta riconosciuta dal legislatore medesimo in riferimento alle richieste inerenti alla sua sfera sessuale (L. 194/1978 permette di richiedere la prescrizione di farmaci contraccettivi) e ai trattamenti a scopo diagnostico, i quali si limitano ad offrire al minore le conoscenze necessarie ai fini di intraprendere eventuali e future terapie (es. art 120 del d.p.r. 309/90 e art 5 l. 135/90, in riferimento allo stato di tossicodipendenza o infezione da virus HIV).

    [32] L. 219/2017, art. 3, comma 1.

    [33] L. 219/2017, art. 3, comma 2.

    [34] L’argomento è stato più diffusamente affrontato in altro contributo (R. Potenzano, Il consenso informato ai trattamenti sanitari sui minori e decisioni di fine vita. Riflessioni comparatistiche, in Diritto di Famiglia e delle Persone, XLVII, 2019, p. 1307-1371).

    [35] Ex multibus App. Min. Ancona, 26.3.1999 in Dir. fam. Pers., 1999, II, p. 659 ss¸ Trib. Min. Venezia 7.10.1998 in Dir. fam. Pers., 1999, II, p. 689 ss; Trib. Min. Brescia, 25.5.1999, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2000, I, p. 204; Trib. Min. Milano, 30.3.2010, proc. n. 579/2010.

    [36] L. 219/2017, art. 4.

    [37] L. 219/2017, art. 5.

    [38] L. 219/2017, art. 3, comma 5.

    [39] L. 219/2017, art. 1, comma 1 e art. 3, comma 2.

    [40] Sulla differenza tra dignity as an empowerment e dignity as a constraint v. D. Beyleveld e R. Brownsword, Human dignity in bioethics and biolaw, Oxford, 2001. Il tema è stato oggetto di approfondita riflessione anche da parte della dottrina italiana: G. Giaimo, La volontà e il corpo, Torino, 2019; G. Alpa, Dignità. Usi giurisprudenziali e confini concettuali, in Nuova Giur. Civ. Comm., 1997, II, p. 415; C. Casonato, Il fine-vita nel diritto comparato, fra imposizioni, libertà e fuzzy sets, in D’Aloia (a cura di), Il diritto al fine vita, Napoli, 2012, p. 523; R. Bin, La corte, i giudici e la dignità umana, in Biolaw Journal, 2019, 2.

    [41] La Corte Costituzionale, con sentenza n. 242/2019, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi - con le modalità equivalenti a quelle previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 – “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.

    [42] Il riferimento è alla Proposta di legge C. 1875, “Disposizioni in materia di suicidio medicalmente assistito e di trattamento eutanasico”, presentata il 30 maggio 2019 e in corso di esame in Commissione, abbinata con C. 2, C. 1418, C. 1586, C. 1655, C. 1888.

    [43] Tribunale Costituzionale spagnolo, sentenza del 18 luglio 2002, n. 154, ove i giudici spagnoli (in occasione di un recurso de amparo riferito alla condanna per omicidio ricevuta da genitori di un tredicenne capace di discernimento che rifiutò la trasfusione di sangue poiché Testimone di Geova) sottolinearono la convinzione e la coscienza nella decisione adottata dal minore: “al di là delle ragioni religiose […] riveste particolare interesse il fatto che il minore, opponendosi ad un’ingerenza estranea sul proprio corpo, stava esercitando un diritto di autodeterminazione che ha per oggetto il proprio corpo”.

    [44] Proposición de Ley Orgánica de regulación de la eutanasia, Articulo 5(1): “Requisitos para recibir la prestación de ayuda para morir. 1. Para poder recibir la prestación de ayuda para morir será necesario que la persona cumpla todos los siguientes requisitos: a) Tener la nacionalidad española o residencia legal en España, mayoría de edad y ser capaz y consciente en el momento de la solicitud. b) Disponer por escrito de la información que exista sobre su proceso médico, las diferentes alternativas y posibilidades de actuación, incluida la de acceder a cuidados paliativos. c) Haber formulado dos solicitudes de manera voluntaria y por escrito, dejando una separación de al menos quince días naturales entre ambas. Si el médico o la médica responsable considera que la muerte de la persona solicitante o la pérdida de su capacidad para otorgar el consentimiento informado son inminentes, podrá aceptar cualquier periodo menor que considere apropiado en función de las circunstancias clínicas concurrentes, de las que deberá dejar constancia en la historia clínica del o la paciente. d) Sufrir una enfermedad grave e incurable o padecer una enfermedad grave, crónica e invalidante en los términos establecidos en esta ley, certificada por el médico o médica responsable. e) Prestar consentimiento informado previamente a recibir la prestación de ayuda para morir. Dicho consentimiento se incorporará a la historia clínica del o la paciente”.

    [45] In particolare, l’età anagrafica del paziente opera quale valore-soglia suscettibile di ulteriore verifica in ordine all’attuale capacità del paziente medesimo di assumere tutte le scelte che lo riguardano. Coloro che hanno raggiunto il sedicesimo anno di età o, in caso contrario, quanti possiedono “a sufficient understanding and intelligence to enable him or her to understand fully what is proposed” (Così Lord Scarman, nel noto caso Gillick v. West Norfolk and Wisbech Health Authority del 1986, ove la House of Lords ha riconosciuto per la prima volta al minorenne la cd. Gillick competence, cioè la capacità di manifestare, in via del tutto autonoma, il proprio consenso al trattamento) possono acconsentire o rifiutare le cure, salve eventuali limitazioni determinate dall'esigenza di tutelare l'interesse supremo del minore, così come avvenuto nell'ipotesi di rifiuto delle cure espresso da minori affetti da disturbi psichici o motivati soltanto da dogmi religiosi (es. Testimoni di Geova). Cfr. K. Standley, Family Law, Palgrave Macmillan, 2004, p. 219 e J. Fortin, Children's Rights and the developing law, Cambridge, 2009, p. 152.  

    [46]Assisted Dying Bill, section 1: “(1) Subject to the consent of the High Court (Family Division) pursuant to subsection (2), a person who is terminally ill may request and lawfully be provided with assistance to end his or her own life. (2) Subsection (1) applies only if the High Court (Family Division), by order, confirms that it is satisfied that the person— (a) has a voluntary, clear, settled and informed wish to end his or her own life; (b) has made a declaration to that effect in accordance with section 3; and (c) on the day the declaration is made— (i) is aged 18 or over; (ii) has capacity to make the decision to end his or her own life; and (iii) has been ordinarily resident in England and Wales for not less than one year”. La condizione di malattia terminale è precisata, inoltre, alla successiva section 2: “Terminal illness (1) For the purposes of this Act, a person is terminally ill if that person— (a) has been diagnosed by a registered medical practitioner as having an inevitably progressive condition which cannot be reversed by treatment (“a terminal illness”); and (b) as a consequence of that terminal illness, is reasonably expected to die within six months”.  

    L’emergenza sanitaria rimodula i tempi della Giustizia: i provvedimenti sul civile  (note a primissima lettura del d.l. n. 11 del 2020)

    L’emergenza sanitaria rimodula i tempi della Giustizia: i provvedimenti sul civile (note a primissima lettura del d.l. n. 11 del 2020) di Franco De Stefano

    sommario: 1. L’intervento normativo. - 2. Il rinvio generalizzato delle “udienze”.- 3. Le eccezioni. - 4. Cenno alle ricadute.

     1. L’intervento normativo.

    È stato pubblicato alle ore 20.30 circa di ieri 8 marzo sul sito www.gazzettaufficiale.it il decreto legge 8 marzo 2020, n. 11 (Misure straordinarie ed urgenti per contrastare l'emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell'attivita' giudiziaria), al dichiarato fine di contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 e contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria, ovvero sul sistema stesso della giustizia.

    Dopo il primo intervento di cui all’art. 10 del d.l. 2 marzo 2020, n. 9, limitato alle zone identificabili coi focolai dell’epidemia, il nuovo intervento interessa l’intero territorio nazionale ed è assai più radicale, dovendo fare fronte all’evolversi della situazione verso un’emergenza che è doveroso definire senza precedenti nella storia della Repubblica: senza allarmismi, né panico, ma con determinazione e risolutezza.

    Il decreto responsabilmente individua un duplice periodo, un primo per fare fronte alle esigenze di immediato contrasto o di pronto intervento, seguito da altro, che modulerà un vero e proprio regime emergenziale o derogatorio, in deroga a quello ordinario, ma tendenzialmente durevole o comunque da modellarsi in ragione delle esigenze via via individuate e, quindi, a seconda anche dello sviluppo, purtroppo allo stato ancora imprevedibile per le stesse cognizioni scientifiche al riguardo, dell’epidemia e delle sue ricadute cumulative sulla vita di tutti i giorni e sull’economia.

    Ora bisogna far fronte all’uragano, finché non cessa la sua fase più distruttiva, poi occorrerà attrezzarsi per la gestione delle sue immani conseguenze: si tratta ora di attestarsi su di una nuova linea del Piave e solo dopo si potrà pensare al contrattacco.

    Di seguito alcune brevi note a primissima lettura, relativamente all’impatto delle norme sul civile.

    2. Il rinvio generalizzato delle “udienze”.

    È istituito un primo periodo, cosiddetto cuscinetto o emergenziale acuto, di ripiegamento dopo lo sfondamento, in cui sono rinviate di ufficio a dopo il 22 marzo 2020 tutte le udienze dei procedimenti civili e penali pendenti dinanzi a tutti gli uffici giudiziari italiani, con le sole eccezioni espressamente indicate.

    Il periodo è dichiaratamente destinato anche all’organizzazione del periodo successivo, che può definirsi emergenziale a regime, ma è soprattutto funzionale al contenimento della diffusione, visto che la normale attività giudiziaria è sconvolta dall’improvvisa precarietà degli spostamenti e della stessa salute di tutti i potenziali interessati, a cominciare da quella dei lavoratori del settore.

    Con la sola eccezione di casi tassativi e relativi a diritti fondamentali ed insopprimibili, da difendere anche in tempo di epidemia ad ogni costo, deve ritenersi che l’intera attività giurisdizionale vada differita a dopo il 22 marzo, al di là della completezza o meno dell’espressione adoperata, che si limita a menzionare le udienze, quali “luogo di concentrazione di numerose persone”.

    L’attività giudiziaria civile e penale non si esaurisce però nelle udienze, ma coinvolge numerosi altri momenti in cui i contatti sociali o interpersonali sono molteplici e inevitabili, formalmente preparatori di quelli dell’udienza ma altrettanto funzionali ed indispensabili per l’ordinato svolgimento della stessa e per l’espletamento della funzione giurisdizionale nel suo complesso.

    La limitazione della normale libertà di movimento, alla base del concetto stesso di isolamento delle zone interessate e della generale necessità di evitare assembramenti o concentrazioni di persone pure nel senso di contatti interpersonali non indispensabili, induce a ritenere comprese nel divieto tutte le attività funzionali a quelle giurisdizionali che comportino queste ultime attraverso la riunione o il contatto ad hoc di più operatori della giustizia, siano essi lavoratori del settore o utenti a qualsiasi titolo, a prescindere dal loro espletamento o meno in una sequenza procedimentale definibile a stretto rigore come udienza.

    Si noti, a differenza di tutti gli altri settori, è espressamente previsto il differimento di un’attività che viene indicata come il fulcro o comunque il momento pregnante dell’attività gli effetti negativi dell’epidemia sulla quale si vogliono contenere: si tratta quindi non di fermare la giustizia.

    In sostanza, può sostenersi che non trova applicazione, nella specie, il brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, il quale potrebbe, a prima lettura, indurre a ritenere operante la sospensione secca e generalizzata per tutte le attività giurisdizionali che non si espletano in udienza, questa intesa nel classico senso di quella tenuta dal giudice in pubblico.

    Infatti, in senso contrario potrebbe già osservarsi che la stessa norma, prevedendo eccezioni ai rinvii, si riferisce ad ipotesi in cui sicuramente l’attività non si espleta in udienza, ma in un’adunanza, come nel caso dei subprocedimenti per la sospensione dell’efficacia esecutiva delle sentenze di appello, di cui all’art. 373 cod. proc. civ., il quale prevede un procedimento camerale: pertanto, poiché l’audizione dei difensori in un’adunanza camerale non dà luogo ad un’udienza, un simile riferimento evidenzia che il blocco riguarda tutta l’attività decisionale degli uffici salve le eccezioni espressamente indicate.

    La norma relativa alla giustizia civile, quindi, pur riferendosi alle udienze, non si limita ad esse.

    Si deve anzi ritenere che, come le udienze, siano rinviate a dopo il 22 marzo 2020 tutte le attività ad esse assimilabili e se del caso previste per la peculiarità del singolo rito: come, ad esempio, le adunanze in camera di consiglio.

    Di queste è evidente l’assimilabilità alle udienze classiche, quando siano, come di regola, aperte alla partecipazione delle parti.

    Ma ad eguale conclusione, sia pure all’esito di un’interpretazione teleologica della norma e che non si fermi al tenore testuale della medesima, può giungersi anche per il caso, tipico del giudizio di legittimità dopo la riforma del 2016, in cui esse siano precluse alle parti e sia impossibile una loro tenuta con modalità da remoto o telematiche, poiché comportano anch’esse la riunione, altrimenti non dovuta, di giudici – oltretutto, negli uffici a giurisdizione nazionale, anche provenienti da più zone d’Italia ed implicanti spostamenti pure di lungo raggio, rischiosi per la diffusione del contagio, a danno non solo dei diretti interessati, ma anche dell’indefinita indistinta massa di persone con cui sono costretti a mettersi in contatto negli spostamenti, oltretutto in presenza di ordinanze restrittive anche per l’ingresso nel Lazio – ed altri operatori della cancelleria, per la movimentazione e la disamina dei fascicoli.

    Anche le attività giurisdizionali in senso lato connesse alle udienze, quali le operazioni materiali delle custodie o delle curatele o delle vendite giudiziarie implicanti contatti con soggetti estranei al processo e non per fini o doveri istituzionali o a tutela di diritti fondamentali, che non sono espletate in udienze né formalmente, né sostanzialmente definibili tali: tutte quelle implicano una potenzialità di riunione, cioè di contatti tra più persone, non altrimenti dovuta e sono comunque riconducibili all’attività giurisdizionale e devono qualificarsi in blocco comprese nel rinvio, se non altro per venire incontro alle esigenze indotte dall’emergenza e dall’incertezza che ne deriva, come pure per far fronte ai disagi ed all’evidente perturbazione che si sta producendo sul mercato.

    Sono correlativamente sospesi tutti i termini processuali; e, ove il loro decorso abbia inizio durante il periodo di sospensione, l’inizio stesso deve considerarsi differito alla fine di detto periodo.

    Viene quindi inserita una disposizione di raccordo, con il richiamo – per tutti i processi e quindi anche quelli civili – all’articolo 2, comma 5, destinato ad operare nei procedimenti nei quali le udienze sono rinviate, quanto allo scomputo del periodo di rinvio ai fini del calcolo dei termini di ragionevole durata del processo ai sensi della c.d. legge Pinto.

     

    3. Le eccezioni.

    Minuziosa è la serie di eccezioni, che coinvolgono sostanzialmente quei procedimenti civili relativi a diritti fondamentali rispetto ai quali nemmeno l’epidemia dovrebbe poter prevalere a nessun costo; esse sono individuate mediante il richiamo operato dall’art. 1, co. 1, del decreto legge all’art. 2, co. 2, lett. g), n. 1; e si possono distinguere in eccezioni ope legis e ope iudicis.

    Le prime, per le quali comunque potrebbe comunque occorrere un provvedimento ricognitivo o dichiarativo da parte del giudice, visto qualche margine di discrezionalità nella loro individuazione, sono:

    a) le cause di competenza del Tribunale per i minorenni relative alle dichiarazioni di adottabilità, ai minori stranieri non accompagnati, ai minori allontanati dalla famiglia ed alle situazioni di grave pregiudizio;

    b) le cause relative ad alimenti o ad obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità;

    c) i procedimenti cautelari aventi ad oggetto la tutela di diritti fondamentali della persona;

    d) i procedimenti per l’adozione di provvedimenti in materia di tutela, di amministrazione di sostegno, di interdizione, di inabilitazione nei soli casi in cui viene dedotta una motivata situazione di indifferibilità incompatibile anche con l’adozione di provvedimenti provvisori, e sempre che l’esame diretto della persona del beneficiario, dell’interdicendo e dell’inabilitando non risulti incompatibile con le sue condizioni di età e salute;

    e) i procedimenti relativi agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera per malattia mentale e tutela giurisdizionale ex art. 35 L. 23 dicembre 1978, n. 833;

    f) i procedimenti relativi all’interruzione di gravidanza ex art. 12 della legge 22 maggio 1978, n. 194;

    g) i procedimenti per l’adozione di ordini di protezione contro gli abusi familiari;

    h) i procedimenti di convalida dell’espulsione, allontanamento e trattenimento di cittadini di paesi terzi e dell’Unione europea.

    i) i procedimenti di cui agli artt. 283 (provvedimenti sull'esecuzione provvisoria in appello), 351 (provvedimenti sull’esecuzione provvisoria) e 373 (sospensione dell’esecuzione) cod. proc. civ.

    La seconda tipologia di eccezioni, necessariamente rimessa ad un provvedimento del giudice, riguarda invece tutti i procedimenti la cui ritardata trattazione può produrre grave pregiudizio alle parti: in tal caso, la dichiarazione di urgenza è fatta dal capo dell’ufficio giudiziario o dal suo delegato in calce alla citazione o al ricorso, con decreto non impugnabile e, per le cause già iniziate, con provvedimento del giudice istruttore o del presidente del collegio, egualmente non impugnabile.

    Anche in questa evenienza la finalità generalizzata di protezione sottesa al decreto legge dovrebbe indurre a ritenere ragionevole l’interpretazione più ampia possibile, al fine di non aggravare una situazione di incertezza ed agevolare, comunque, con una stasi la più generalizzata possibile, il contenimento dei disagi da impossibilità di ordinario funzionamento dei servizi essenziali e, spesso, perfino da difficoltà nella stessa organizzazione delle proprie ordinarie attività quotidiane da parte di un numero elevato di individui.

    Rimane impregiudicato, beninteso, il problema dell’interazione con la normativa eccezionale non solo della previgente già dettata dall’art. 10 del d.l. 2 marzo 2020, n. 9, limitata peraltro alle sole zone più colpite dall’epidemia, ma pure – se non soprattutto – con la disciplina generale in tema di rimessione in termini. Dovrebbe essere rientrata, invece, ogni ragione di contrasto fondata sulle deliberazioni di astensione dalle udienze di alcuni organismi sindacali forensi, vista la revoca deliberata dall’Organismo Congressuale Forense nella tarda serata di ieri.

    Solo una volta passato il periodo cuscinetto potrà adeguatamente valutarsi fino a che punto il clima di incertezza, del quale è ozioso adesso ricercare cause o proporre interpretazioni, sia stato di per sé, oltre che un danno all’ordinato espletamento della funzione giurisdizionale, anche un elemento di concreta perturbazione del diritto di difesa del singolo: per questo, però, bisognerà attendere che l’uragano passi.

     

    4. Cenno alle ricadute.

    Solo un cenno, per la complessità delle implicazioni, alle ricadute organizzative per il civile del decreto legge per il periodo successivo a quello acuto o di contenimento dello sfondamento.

    Il periodo cuscinetto è infatti espressamente inteso come finalizzato a progettare il regime post-emergenziale, ma adattandolo alle conseguenze di quello che minaccia di divenire un alterato stato di fatto cronico per un periodo che non si era forse mai sospettato potesse presentarsi dai termini imprevedibili.

    Insomma, cessato il periodo di sospensione generalizzata (ferme le eccezioni previste), viene consegnato ai dirigenti degli uffici giudiziari il compito e la responsabilità, previa interlocuzione con l’autorità sanitaria e l’avvocatura, di adottare misure organizzative, anche incidenti sulla trattazione dei procedimenti, caso per caso valutate necessarie sulla scorta delle emergenze epidemiologiche certificate nel territorio di riferimento.

    Non è questa la sede per riflettere sui rischi di una frammentazione così ampia degli interventi di vera e propria riprogettazione o ricostruzione post-emergenziale del sistema Giustizia: e certamente va respinta l’idea semplicistica che l’effetto parrebbe essere quella di affidare ad una pletora di ufficiali intermedi il compito di gestire alla bell’e meglio le ostilità, salvo il moderato coordinamento che l’intesa col presidente della corte d’appello potrebbe almeno tentare di instaurare.

    La necessaria diversificazione degli interventi ben potrebbe essere adottata appunto a livello almeno regionale per uniformità ed omogeneità coi centri decisionali in materia sanitaria, affidando un compito non solo di coordinamento, ma di diretta decisione dopo avere sentito i dirigenti dei singoli uffici, ai presidenti delle corti di appello (o i procuratori generali presso le medesime) aventi sede nel capoluogo di Regione (con la sola eccezione della Valle d’Aosta, dove l’interlocuzione dovrebbe aver luogo necessariamente col presidente del tribunale di quel capoluogo, di intesa col presidente della corte d’appello territorialmente competente ma avente sede, come è noto, in altra Regione e cioè a Torino; e fermo restando il carattere autocefalo della competenza di Corte suprema di Cassazione e Procura generale della Repubblica presso la stessa).

    Comunque, le misure affidate ai dirigenti degli uffici giudiziari, destinate ad operare in un periodo molto più ampio (e cioè, allo stato, fino al 31 maggio 2020), sono caratterizzate da una notevole elasticità, al fine di evitare, ove non indispensabile e non richiesto dalla condizione sanitaria contingente, l’interruzione dell’attività giudiziaria; e restano ferme quelle del già emanato decreto-legge n. 9 del 2020, con le quali la potestà fondata dal decreto legge in commento concorre.

    All’adozione delle misure dovrà farsi precedere la valutazione delle emergenze epidemiologiche da parte dell’autorità sanitaria regionale e nazionale, il cui previo parere è obbligatorio, insieme a quello . Per tale motivo viene previsto che quest’ultima autorità, a livello regionale, debba essere sentita unitamente alla rappresentanza dell’avvocatura.

    I capi degli uffici – o, auspicabilmente, almeno i Capi di corte – potranno, per il civile:

    a) limitare l'accesso del pubblico agli uffici giudiziari, garantendo comunque l'accesso alle persone che debbono svolgervi attività urgenti;

    b) limitare, sentito il dirigente amministrativo, l'orario di apertura al pubblico degli uffici anche in deroga a quanto disposto dalle disposizioni vigenti, ovvero, in via residuale e solo per gli uffici che non erogano servizi urgenti, la chiusura al pubblico;

    c) regolamentare l’accesso ai servizi, previa prenotazione, anche tramite mezzi di comunicazione telefonica o telematica, curando che la convocazione degli utenti sia scaglionata per orari fissi, nonché l'adozione di ogni misura ritenuta necessaria per evitare forme di assembramento;

    d) adottare linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze;

    e) disporre la celebrazione a porte chiuse, ai sensi dell'articolo 128 del codice di procedura civile, delle udienze civili pubbliche;

    f) prevedere lo svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori e dalle parti mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia; tuttavia, si prevede che lo svolgimento dell'udienza deve in ogni caso avvenire con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione delle parti

    g) prevedere il rinvio delle udienze a data successiva al 31 maggio 2020 nei procedimenti civili e penali, con le stesse eccezioni già esaminate per il rinvio generalizzato del periodo cuscinetto;

    h) disporre lo svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti mediante lo scambio e il deposito in telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni, e la successiva adozione fuori udienza del provvedimento del giudice.

    Proprio quest’ultimo spunto è foriero di grandi opportunità e, forse, potrà cogliersi un’occasione preziosa per l’implementazione decisiva del processo civile telematico negli uffici dove già opera o per la sua introduzione, finalmente, dove ancora non c’è (come ad esempio la Corte suprema di Cassazione …).

    Ma una più approfondita analisi di quanto reso possibile da questa legislazione chiaramente emergenziale va riservata ad un successivo momento, fin d’ora potendo auspicarsi soltanto che da una sciagura come questa epidemia senza precedenti possano non derivare esclusivamente conseguenze nefaste e che anzi possa essere lo spunto per uno sforzo congiunto senza precedenti, per risollevarsi, insieme, con il Paese e la sua Giustizia.

     

     

    Appunti a prima lettura sulla riforma del procedimento del giudizio di cassazione

    Il 19 ottobre il Senato ha approvato in via definitiva la legge di conversione con modificazioni del decreto-legge 31 agosto 2016, n. 168, che contiene novità di grande rilievo riguardanti il giudizio di cassazione.

    1. Le novità in breve.

    Utilizzando la sintesi della normativa tratta dal Dossier del Senato, le novità introdotte con riguardo al giudizio di Cassazione si possono riassumere così.

    Il nuovo articolo 1-bis, introdotto nel corso dell'esame presso la Camera, reca numerose modifiche al giudizio di Cassazione. Tali modifiche ricalcano sostanzialmente il contenuto dei principi di delega previsti dall'articolo 1, comma 2, lettera c) dell'AS 2284, (Delega per la riforma del processo civile), già approvato dalla Camera e attualmente all'esame della Commissione giustizia. In particolare, il comma 1 della disposizione:

    i) generalizza l'uso della trattazione in camera di consiglio nei procedimenti civili che si svolgono dinanzi alle sezioni semplici della Corte;

    ii) modifica la procedura del c.d. «filtro» in Cassazione.

    Analiticamente:

    ● la lettera a) dell’articolo 1-bis modifica l'art. 375 c.p.c. e prevede che la Corte, quando la controversia è assegnata a una sezione semplice, e non alle Sezioni Unite, pronuncia con ordinanza in camera di consiglio; si ricorre all'udienza pubblica solo se la sezione «filtro» non riesce a definire il giudizio in camera di consiglio o se la questione di diritto sulla quale la Corte si deve pronunciare riveste una particolare rilevanza.

    ● la lettera b) modifica l'art. 376 c.p.c. e precisa che, se il ricorso supera il filtro preliminare di inammissibilità/infondatezza, il presidente rimette gli atti alla sezione semplice, omettendo ogni formalità;

    ● la lattera c) modifica l'art. 377 c.p.c., che rimette ad un decreto del presidente (della Corte di cassazione, della sezione semplice o della sezione «filtro») l'ordine di integrazione del contraddittorio o di esecuzione della notificazione dell'impugnazione (attualmente la Corte provvede con ordinanza in camera di consiglio ex art. 375, n. 2);

    ● la lettera d) interviene sull'art. 379 c.p.c. invertendo l'ordine di intervento delle parti nella discussione: dopo l'intervento del relatore spetta infatti al PM esprimere, oralmente, le sue conclusioni motivate; solo successivamente saranno i difensori delle parti a svolgere le loro difese; non sono ammesse repliche ed è soppressa la disposizione che oggi consente alle parti di presentare in udienza brevi osservazioni scritte sulle conclusioni del PM;

    ● la lettera e) modifica l'art. 380-bis c.p.c. intervenendo sul procedimento filtro dinanzi alla apposita sezione civile della Corte, per eliminare la relazione del consigliere che, attualmente, contiene una concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la pronuncia di inammissibilità o di manifesta infondatezza del ricorso e che viene oggi depositata in cancelleria; la riforma accelera i tempi rimettendo allo stesso presidente, in sede di fissazione dell'adunanza, l'indicazione di eventuali ipotesi filtro; se la camera di consiglio della sezione filtro non ritiene che ricorrano le ipotesi di inammissibilità o manifesta infondatezza/fondatezza, rimette la causa alla pubblica udienza di una sezione semplice; la disposizione modifica altresì il procedimento per la decisione sulle istanze di regolamento di giurisdizione e di competenza, intervenendo sull'art. 380-ter c.p.c.

    ● la lettera f) introduce nel codice di rito il nuovo art. 380-bis.1 (attenzione: si tratta di un articolo distinto dall’art. 380-bis c.p.c., dedicato al c.d. «filtro»), volto a disciplinare il procedimento camerale dinanzi alle sezioni semplici; in base a tale disposizione il PM e le parti dovranno ricevere comunicazione della fissazione della camera di consiglio almeno 40 giorni prima; il PM potrà depositare le sue conclusioni scritte non oltre 20 giorni prima della camera di consiglio mentre le parti non oltre 10 giorni prima dell'adunanza; la corte giudicherà sulla base delle carte depositate, senza intervento di PM e parti.

    ● la lettera g) prevede che tanto il PM quanto le parti possano interagire con la Corte esclusivamente per iscritto, escludendo la possibilità di essere sentiti; la camera di consiglio decide inaudita altera parte.

    Con le modifiche agli articoli 390 e 391 (rispettivamente lettere h) e i) si ampliano i termini per rinunciare al ricorso (e si coordina il codice con la soppressione dall'art. 375, n. 3). Infine, la lettera l) interviene sull'art. 391-bis, distinguendo il procedimento di correzione degli errori materiali da quello di revocazione delle sentenze della Cassazione. Nel primo caso, infatti, si prevede che l'esigenza di una correzione possa essere rilevata d'ufficio dalla Corte o richiesta dalle parti senza limiti di tempo (oggi, deve essere richiesta entro 60 giorni dalla notificazione della sentenza o entro un anno dalla sua pubblicazione). Nel secondo caso, invece, la revocazione può essere chiesta entro 60 giorni dalla notificazione o 6 mesi dalla pubblicazione; se la Corte ritiene la richiesta inammissibile pronuncia in camera di consiglio, diversamente provvede in pubblica udienza.

    Il comma 2 dell'art. 1-bis, reca una disposizione transitoria prevedendo che la riforma del procedimento di cassazione si applica ai ricorsi depositati dopo l'entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge ed ai ricorsi per i quali non è stata ancora fissata l'udienza o l'adunanza in camera di consiglio.

    2. Brevi osservazioni organizzative.

    ● Pubblica udienza

    Il presidente, su presentazione del ricorso a cura del cancelliere, fissa l'udienza o l'adunanza della camera di consiglio e nomina il relatore.

    Dell'udienza (pubblica) è data comunicazione dal cancelliere agli avvocati delle parti almeno venti giorni prima.

    Nulla è cambiato per il procedimento in pubblica udienza (tranne l’ordine di discussione: viene meno la regola, da molti ritenuta anacronistica, per cui il Procuratore Generale parla per ultimo).

    ● Camera di consiglio

    La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia con ordinanza in camera di consiglio quando riconosce di dovere: 1) dichiarare l'inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto, anche per mancanza dei motivi previsti dall'articolo 360; 4) pronunciare sulle istanze di regolamento di competenza e di giurisdizione; 5) accogliere o rigettare il ricorso principale e l'eventuale ricorso incidentale per manifesta fondatezza o infondatezza (i nn. 2 e 3 dell’art. 375 c.p.c. sono stati eliminati).

    La Corte, a sezione semplice, pronuncia con ordinanza in camera di consiglio anche in ogni altro caso, salvo che la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale deve pronunciare, ovvero che il ricorso sia stato rimesso dall’apposita sezione di cui all’articolo 376 in esito alla camera di consiglio che non ha definito il giudizio.

    Quindi, il presidente, su presentazione del ricorso a cura del cancelliere, fissa – di regola - l'adunanza della camera di consiglio e nomina il relatore.

    Della fissazione del ricorso in camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice ai sensi dell’articolo 375, secondo comma, è data comunicazione agli avvocati delle parti e al pubblico ministero almeno quaranta giorni prima.

    Il pubblico ministero può depositare in cancelleria le sue conclusioni scritte non oltre venti giorni prima dell’adunanza in camera di consiglio.

    Le parti possono depositare le loro memorie non oltre dieci giorni prima dell’adunanza in camera di consiglio. In camera di consiglio la Corte giudica senza l’intervento del pubblico ministero e delle parti.

    ● La trattazione in pubblica udienza ha luogo:

    a) per la particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale deve pronunciare,

    b) se il ricorso è stato rimesso dall’apposita sezione di cui all’articolo 376 in esito alla camera di consiglio che non ha definito il giudizio.

    Altrimenti il presidente, su presentazione del ricorso a cura del cancelliere, fissa – di regola - l'adunanza della camera di consiglio e nomina il relatore.

    Quindi, la decisione di fissazione dell’udienza pubblica è rimessa al Presidente, ma non è esclusa, come avviene nel penale (e nella Sesta Sezione civile), una delega a un consigliere, che resta nominato relatore sia che suggerisca la camera di consiglio sia che suggerisca la pubblica udienza.

    Una alternativa organizzativa potrebbe essere nel senso che la decisione è rimessa al Presidente di sezione non titolare al quale sia delegata un’intera materia, coadiuvato da Assistenti di Studio o da Consiglieri esperti della materia, così da poter decidere l’accorpamento di ricorsi da trattare in via camerale e selezionare, invece, quelli meritevoli di trattazione in pubblica udienza, sempre che il ricorso evidenzi «una particolare rilevanza della questione di diritto».

    Del pari sembra auspicabile la collaborazione dei magistrati del Massimario o di consiglieri anziani per l’applicazione della nuova norma, per la quale: «Il primo presidente, il presidente della sezione semplice o il presidente della sezione di cui all’articolo 376, primo comma, quando occorre, ordina con decreto l’integrazione del contraddittorio o dispone che sia eseguita la notificazione dell’impugnazione a norma dell’articolo 332, ovvero che essa sia rinnovata».

    Quanto all’individuazione delle ipotesi di fissazione della pubblica udienza, se l’ipotesi innanzi prevista sub b) non pone questione alcuna, più problematica appare l’individuazione dell’ipotesi sub a).

    E’ certo che la particolare rilevanza non deve essere intesa come questione di massima di particolare importanza, tale da imporre prima facie la rimessione al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite. A ciò, semmai, provvederà il collegio all’esito della pubblica udienza ovvero anche dell’adunanza in camera di consiglio.

    Uno spunto può venire dalla norma di cui all’art. 360-bis, n. 1, c.p.c., letta a contrario, nel senso che il provvedimento impugnato abbia deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte ma l'esame dei motivi offre elementi per confermare o mutare l'orientamento della stessa.

    In ogni caso la mancanza di precedenti o l’esistenza di un orientamento giurisprudenziale risalente o oscillante o, comunque, non consolidato, possono suggerire la decisione in pubblica udienza

    3. L’ispirazione della novella

    Sembra che il Legislatore abbia fatto proprie (anche se solo in parte) alcune delle proposte di Giovanni Verde, Proposte per la Cassazione, (Testo dell’intervento all’incontro sulla funzione di nomofilachia svolto presso la Corte di cassazione il 1.3.2016): «Gli artt. 377 e 379 stabiliscono che la conclusione del processo in cassazione avvenga in udienza, salvo che ricorrano i casi in cui si può decidere in camera di consiglio. La formula andrebbe rovesciata, così come già avviene dinanzi ai giudici di merito, nel senso che la decisione avviene in camera di consiglio e che si fa luogo alla pubblica udienza soltanto a seguito di motivata (e accolta) richiesta delle parti. Eviteremmo ciò che oramai si è ridotto a un simulacro, dal momento che, essendosi istituzionalizzato il sistema della precamera di consiglio, i difensori ben sanno che la causa è stata già decisa prima dell'udienza (e basta frequentare le aule della Corte per constatare che oramai gli avvocati hanno perso, almeno nel processo civile, l'abitudine di discutere, avendone constatata l'inutilità). In questo modo sarebbe possibile semplificare una disciplina (quella fissata dagli artt. 375, 376, 377, 380 bis, 380 ter) complicata e farraginosa. L'art. 379, poi, prevede che il pubblico ministero concluda. E' un retaggio anacronistico, in contrasto, a me sembra, con il principio della paritaria difesa, in quanto le sue conclusioni non sono conosciute prima dalle parti così che possano adeguatamente replicare. E le parti, nell'attuale sistema, continuano – non dimentichiamolo – ad essere le protagoniste principali della vicenda processuale, perché il ricorso è azionato, ancora oggi, nel loro interesse, a loro rischio e pericolo, e non nell'interesse esclusivo della legge. Quanto meno dinanzi alle Sezioni semplici, si potrebbero sostituire le conclusioni del p.m. in udienza con conclusioni sinteticamente motivate che il p.m. potrebbe valutare se è il caso di depositare in maniera che le parti ne possano prendere visione; e ciò con un guadagno in termini di utilizzazione del personale e con un maggiore rispetto per le esigenze della difesa. Lascerei la pubblica udienza con la necessaria presenza del pubblico ministero soltanto dinanzi alle Sezioni Unite».

    4. Opinioni critiche della dottrina e repliche

    Altrettanta attenzione non sembra sia stata riservata dal Legislatore alle critiche (preventive) provenienti da fonte autorevolissima.

    Invero, il 3 ottobre 2016, il Presidente della Associazione Italiana tra gli Studiosi del Processo Civile, professore Federico Carpi, ha inviato al Ministro della Giustizia e ai Presidenti delle Commissioni Giustizia della Camera e del Senato il un documento contenente numerose critiche alle nuove norme introdotte in sede di conversione del decreto legge n. 168/2016.

    In particolare, nel documento si stigmatizza che: «L’ultimo periodo del nuovo art. 380 bis 1 c.p.c. e dell’art. 380 ter c.p.c. non solo esclude la trattazione in pubblica udienza, ma anche la possibilità, oggi prevista, che le parti siano sentite in camera di consiglio. Il che appare contrario alla Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo e alle indicazioni della Corte costituzionale, in riferimento al diritto all’udienza pubblica; la disposizione convenzionale, infatti, è interpretata nel senso che comunque deve essere garantito il diritto delle parti ad essere sentite».

    Sennonché, la Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza del 10 aprile 2012 - Caso Lorenzetti contro Italia) ha ricordato che una udienza pubblica può non essere necessaria date le circostanze eccezionali della causa, soprattutto quando quest'ultima non sollevi questioni di fatto o di diritto che non possano essere risolte in base al fascicolo e alle osservazioni presentate dalle parti, come nel caso in cui vengano trattate situazioni che hanno ad oggetto questioni altamente tecniche, purché la specificità della materia non esiga il controllo del pubblico.

    Non può essere trascurato, peraltro, che la disciplina introdotta in sede di conversione del decreto legge n. 168/2016 ricalca, per grandi linee, il procedimento camerale nel giudizio penale di legittimità, ai sensi dell’art. 611 c.p.p. Procedimento nel quale l’inammissibilità del ricorso è decisa senza partecipazione delle parti e con contraddittorio solo scritto anche per gravissimi reati, siano essi omicidi o stragi. Sì che appare incongruo pretendere la pubblicità dell’udienza per un inammissibile ricorso in materia civile anche quando riguardi l’inesatto adempimento dell’obbligo di consegnare una bicicletta.

    In relazione alla disciplina del processo penale di recente la Corte costituzionale, con la sentenza n. 80/2011 ha evidenziato il generale orientamento della Corte europea in tema di applicabilità del principio di pubblicità nei giudizi di impugnazione. Tale orientamento si esprime segnatamente nell’affermazione per cui, al fine della verifica del rispetto del principio di pubblicità, occorre guardare alla procedura giudiziaria nazionale nel suo complesso: sicché, a condizione che una pubblica udienza sia stata tenuta in prima istanza, l’assenza di analoga udienza in secondo o in terzo grado può bene trovare giustificazione nelle particolari caratteristiche del giudizio di cui si tratta.

    In specie, i giudizi di impugnazione dedicati esclusivamente alla trattazione di questioni di diritto possono soddisfare i requisiti di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, nonostante la mancata previsione di una pubblica udienza davanti alle corti di appello o alla corte di cassazione ( ex plurimis, sentenza 21 luglio 2009, Seliwiak contro Polonia; Grande Camera, sentenza 18 ottobre 2006, Hermi contro Italia; sentenza 8 febbraio 2005, Miller contro Svezia; sentenza 25 luglio 2000, Tierce e altri contro San Marino; sentenza 27 marzo 1998, K.D.B. contro Paesi Bassi; sentenza 29 ottobre 1991, Helmers contro Svezia; sentenza 26 maggio 1988, Ekbatani contro Svezia).

    D’altronde, sfuggono all’esame del giudice di legittimità gli aspetti in rapporto ai quali l’esigenza di pubblicità delle udienze è più avvertita, quali l’assunzione delle prove, l’esame dei fatti e l’apprezzamento della proporzionalità tra fatto e sanzione (al riguardo, sentenza 10 febbraio 1983, Albert e Le Compte contro Belgio; sentenza 23 giugno 1981, Le Compte, Van Leuven e De Meyere contro Belgio; nonché, più di recente, Grande Camera, sentenza 11 luglio 2002, Göç contro Turchia).

    Le altre critiche rivolte alla riforma da parte dei processualcivilisti, poi, riguardano l’evanescenza e contraddittorietà dei criteri in base ai quali la scelta del rito, camerale o in pubblica udienza, deve essere compiuta.

    Secondo quel documento «il novellato secondo comma dell’art. 375 c.p.c. non indica chi abbia il potere di valutare l’opportunità della trattazione del ricorso alla udienza pubblica: se questa scelta implichi una decisione della Corte, nella sua composizione collegiale, ovvero del relatore, ovvero del presidente del collegio, o del presidente della sezione. In base alla prima soluzione, è evidente che la riforma appesantisce il compito della corte, perché il collegio dovrebbe preventivamente valutare se il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio o se debba essere trattato all’udienza e, poi, decidere su di esso. Sarebbe imposta una doppia valutazione».

    Sennonché, si è già spiegato, innanzi, che la scelta del rito ad opera del collegio può intervenire solo all’esito dell’adunanza camerale dell’«apposita sezione», ossia la Sesta civile, qualora il collegio non condivida la sommaria valutazione fatta dal Presidente, su proposta del relatore, così come accade oggi.

    La differenza con la disciplina vigente è tutta nel modo di investire il collegio di sesta: non più con la relazione redatta ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., bensì con il rilievo nel corpo del provvedimento di fissazione della ragione di inammissibilità (o delle altre ragioni che giustificano il procedimento camerale in sesta: manifesta fondatezza o infondatezza o altro) alla stregua di quanto avveniva con la «Struttura unificata», creata in sede organizzativa sulla falsariga del procedimento camerale penale.

    Il procedimento, poi, si ripete nella sezione ordinaria: nel provvedimento di fissazione, però, occorre la specificazione dell’esistenza di «una particolare rilevanza della questione di diritto» soltanto ai fini della celebrazione della pubblica udienza. Negli altri casi, infatti, la regola è quella dell’adunanza camerale non partecipata e, nella selezione dei ricorsi, sebbene il decreto di fissazione sia atto del Presidente, non è esclusa la delega ai consiglieri, come già oggi accade presso la sesta civile e la settima penale.

    Se si guardasse al funzionamento della Settima sezione penale e alla disciplina dettata dall’art. 611 c.p.p., molti dubbi del lettore verrebbero immediatamente dissipati.

    TESTO PREVIGENTE E NUOVO TESTO A FRONTE

       

    Testo vigente

    Nuovo testo

    Art. 375

    Pronuncia in camera di consiglio

     

    I. La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia con ordinanza in camera di consiglio quando riconosce di dovere:

    1) dichiarare l'inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto, anche per mancanza dei motivi previsti dall'articolo 360;(1)

    2)ordinare l'integrazione del contraddittorio o disporre che sia eseguita la notificazione dell'impugnazione a norma dell'articolo 332 ovvero che sia rinnovata;

    3) provvedere in ordine all'estinzione del processo in ogni caso diverso dalla rinuncia;

    4) pronunciare sulle istanze di regolamento di competenza e di giurisdizione;

    5) accogliere o rigettare il ricorso principale e l'eventuale ricorso incidentale per manifesta fondatezza o infondatezza. (2)

    Art. 375

    Pronuncia in camera di consiglio

    I. La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia con ordinanza in camera di consiglio quando riconosce di dovere:

    1) dichiarare l'inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto, anche per mancanza dei motivi previsti dall'articolo 360

    2) abrogato

    3) abrogato

    4) pronunciare sulle istanze di regolamento di competenza e di giurisdizione;

    5) accogliere o rigettare il ricorso principale e l'eventuale ricorso incidentale per manifesta fondatezza o infondatezza. (2)

    La Corte, a sezione semplice, pronuncia con ordinanza in camera di consiglio in ogni altro caso, salvo che la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale deve pronunciare, ovvero che il ricorso sia stato rimesso dall’apposita sezione di cui all’articolo 376 in esito alla camera di consiglio che non ha definito il giudizio"

    Art. 376

    Assegnazione dei ricorsi alle sezioni

     

    I. Il primo presidente, tranne quando ricorrono le condizioni previste dall'articolo 374, assegna i ricorsi ad apposita sezione, che verifica se sussistono i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio ai sensi dell'articolo 375, primo comma, numeri 1) e 5). Se la sezione non definisce il giudizio, gli atti sono rimessi al primo presidente, che procede all'assegnazione alle sezioni semplici. (1)

    II. La parte, che ritiene di competenza delle sezioni unite un ricorso assegnato a una sezione semplice, può proporre al primo presidente istanza di rimessione alle sezioni unite, fino a dieci giorni prima dell'udienza di discussione del ricorso.

    III. All'udienza della sezione semplice, la rimessione può essere disposta soltanto su richiesta del pubblico ministero o d'ufficio, con ordinanza inserita nel processo verbale.

    Art. 376

    Assegnazione dei ricorsi alle sezioni

     

    I. Il primo presidente, tranne quando ricorrono le condizioni previste dall'articolo 374, assegna i ricorsi ad apposita sezione, che verifica se sussistono i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio ai sensi dell'articolo 375, primo comma, numeri 1) e 5). " Se, a un sommario esame del ricorso, la suddetta sezione non ravvisa tali presupposti, il presidente, omessa ogni formalità, rimette gli atti alla sezione semplice";

    II. La parte, che ritiene di competenza delle sezioni unite un ricorso assegnato a una sezione semplice, può proporre al primo presidente istanza di rimessione alle sezioni unite, fino a dieci giorni prima dell'udienza di discussione del ricorso.

    III. All'udienza della sezione semplice, la rimessione può essere disposta soltanto su richiesta del pubblico ministero o d'ufficio, con ordinanza inserita nel processo verbale.

    Art. 377

    Fissazione dell'udienza o dell'adunanza in camera di consiglio

     

    I. Il primo presidente, su presentazione del ricorso a cura del cancelliere, fissa l'udienza o l'adunanza della camera di consiglio e nomina il relatore per i ricorsi assegnati alle sezioni unite. Per i ricorsi assegnati alle sezioni semplici provvede allo stesso modo il presidente della sezione.

    II. Dell'udienza è data comunicazione dal cancelliere agli avvocati delle parti almeno venti giorni prima.

    Art. 377

    "Fissazione dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio e decreto preliminare del presidente";

    I. Il primo presidente, su presentazione del ricorso a cura del cancelliere, fissa l'udienza o l'adunanza della camera di consiglio e nomina il relatore per i ricorsi assegnati alle sezioni unite. Per i ricorsi assegnati alle sezioni semplici provvede allo stesso modo il presidente della sezione.

    II. Dell'udienza è data comunicazione dal cancelliere agli avvocati delle parti almeno venti giorni prima.

    "Il primo presidente, il presidente della sezione semplice o il presidente della sezione di cui all’articolo 376, primo comma, quando occorre, ordina con decreto l’integrazione del contraddittorio o dispone che sia eseguita la notificazione dell’impugnazione a norma dell’articolo 332, ovvero che essa sia rinnovata";

    Art. 379

    Discussione

    I. All'udienza il relatore riferisce i fatti rilevanti per la decisione del ricorso, il contenuto del provvedimento impugnato e, in riassunto, se non vi è discussione delle parti, i motivi del ricorso e del controricorso.

    II. Dopo la relazione il presidente invita gli avvocati delle parti a svolgere le loro difese.

    III. Quindi il pubblico ministero espone oralmente le sue conclusioni motivate.

    IV. Non sono ammesse repliche, ma gli avvocati delle parti possono nella stessa udienza presentare alla Corte brevi osservazioni per iscritto sulle conclusioni del pubblico ministero.

    Art. 379

    Discussione

    I. All'udienza il relatore riferisce i fatti rilevanti per la decisione del ricorso, il contenuto del provvedimento impugnato e, in riassunto, se non vi è discussione delle parti, i motivi del ricorso e del controricorso.

    II. "Dopo la relazione il presidente invita il pubblico ministero a esporre oralmente le sue conclusioni motivate e, quindi, i difensori delle parti a svolgere le loro difese";

    IV. Non sono ammesse repliche.

    Art. 380-bis

    Procedimento per la decisione sull'inammissibilità del ricorso e per la decisione in camera di consiglio

    I. Il relatore della sezione di cui all'articolo 376, primo comma, primo periodo, se appare possibile definire il giudizio ai sensi dell'articolo 375, primo comma, numeri 1) e 5), deposita in cancelleria una relazione con la concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia.

    II. Il presidente fissa con decreto l'adunanza della Corte. Almeno venti giorni prima della data stabilita per l'adunanza il decreto e la relazione sono notificati agli avvocati delle parti i quali hanno facoltà di presentare memorie non oltre cinque giorni prima, e di chiedere di essere sentiti, se compaiono. (1)

    III. Se il ricorso è dichiarato ammissibile, il relatore nominato ai sensi dell'articolo 377, primo comma, ultimo periodo, quando appaiono ricorrere le ipotesi previste dall'articolo 375, primo comma, numeri 2) e 3), deposita in cancelleria una relazione con la concisa esposizione dei motivi in base ai quali ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio e si applica il secondo comma.

    IV. Se ritiene che non ricorrono le ipotesi previste dall'articolo 375, primo comma, numeri 2) e 3), la Corte rinvia la causa alla pubblica udienza.

    "Art. 380-bis. – (Procedimento per la decisione in camera di consiglio sull’inammissibilità o sulla manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso). – Nei casi previsti dall’articolo 375, primo comma, numeri 1) e 5), su proposta del relatore della sezione indicata nell’articolo 376, primo comma, il presidente fissa con decreto l’adunanza della Corte indicando se è stata ravvisata un’ipotesi di inammissibilità, di manifesta infondatezza o di manifesta fondatezza del ricorso.

    Almeno venti giorni prima della data stabilita per l’adunanza, il decreto è notificato agli avvocati delle parti, i quali hanno facoltà di presentare memorie non oltre cinque giorni prima.

    Se ritiene che non ricorrano le ipotesi previste dall’articolo 375, primo comma, numeri 1) e 5), la Corte in camera di consiglio rimette la causa alla pubblica udienza della sezione semplice ";

     

    "Art. 380-bis.1. – (Procedimento per la decisione in camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice). – Della fissazione del ricorso in camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice ai sensi dell’articolo 375, secondo comma, è data comunicazione agli avvocati delle parti e al pubblico ministero almeno quaranta giorni prima. Il pubblico ministero può depositare in cancelleria le sue conclusioni scritte non oltre venti giorni prima dell’adunanza in camera di consiglio. Le parti possono depositare le loro memorie non oltre dieci giorni prima dell’adunanza in camera di consiglio. In camera di consiglio la Corte giudica senza l’intervento del pubblico ministero e delle parti";

    Art. 380-ter

    Procedimento per la decisione sulle istanze di regolamento di giurisdizione e di competenza (1)

    I. Nei casi previsti dall'articolo 375, primo comma, numero 4), il presidente, se non provvede ai sensi dell'articolo 380-bis, primo comma, richiede al pubblico ministero le sue conclusioni scritte.

    II. Le conclusioni ed il decreto del presidente che fissa l'adunanza sono notificati, almeno venti giorni prima, agli avvocati delle parti, che hanno facoltà di presentare memorie non oltre cinque giorni prima e di chiedere di essere sentiti, se compaiono, limitatamente al regolamento di giurisdizione.

    III. Non si applica la disposizione del quinto comma dell'articolo 380-bis.

    "Art. 380-ter. – (Procedimento per la decisione sulle istanze di regolamento di giurisdizione e di competenza). –

    Nei casi previsti dall’articolo 375, primo comma, numero 4), il presidente richiede al pubblico ministero le sue conclusioni scritte.

    Le conclusioni e il decreto del presidente che fissa l’adunanza sono notificati, almeno venti giorni prima, agli avvocati delle parti, che hanno facoltà di presentare memorie non oltre cinque giorni prima della medesima adunanza.

    In camera di consiglio la Corte giudica senza l’intervento del pubblico ministero e delle parti";

    Art. 390

    Rinuncia

     

    I. La parte può rinunciare al ricorso principale o incidentale finché non sia cominciata la relazione all'udienza, o siano notificate le conclusioni scritte del pubblico ministero nei casi di cui all’articolo 380-ter. (1)

    II. La rinuncia deve farsi con atto sottoscritto dalla parte e dal suo avvocato o anche da questo solo se è munito di mandato speciale a tale effetto.

    III. L'atto di rinuncia è notificato alle parti costituite o comunicato agli avvocati delle stesse, che vi appongono il visto.

    Art. 390

    Rinuncia

     

    I. La parte può rinunciare al ricorso principale o incidentale finché non sia cominciata la relazione all'udienza, "o sino alla data dell’adunanza camerale, o finché non siano notificate le conclusioni scritte del pubblico ministero nei casi di cui all’articolo 380-ter

    II. La rinuncia deve farsi con atto sottoscritto dalla parte e dal suo avvocato o anche da questo solo se è munito di mandato speciale a tale effetto.

    III. L'atto di rinuncia è notificato alle parti costituite o comunicato agli avvocati delle stesse, che vi appongono il visto.

    Art. 391

    Pronuncia sulla rinuncia

     

    I. Sulla rinuncia e nei casi di estinzione del processo disposta per legge, la Corte provvede con sentenza quando deve decidere altri ricorsi contro lo stesso provvedimento, altrimenti provvede il presidente con decreto (1).

    II. Il decreto o la sentenza che dichiara l'estinzione può condannare la parte che vi ha dato causa alle spese (1).

    III. Il decreto ha efficacia di titolo esecutivo se nessuna delle parti chiede la fissazione dell'udienza nel termine di dieci giorni dalla comunicazione (1).

    IV. La condanna non è pronunciata, se alla rinuncia hanno aderito le altre parti personalmente o i loro avvocati autorizzati con mandato speciale.

    Art. 391

    Pronuncia sulla rinuncia

     

    I. "Sulla rinuncia e nei casi di estinzione del processo disposta per legge la Corte provvede con ordinanza in camera di consiglio, salvo che debba decidere altri ricorsi contro lo stesso provvedimento fissati per la pubblica udienza. Provvede il presidente, con decreto, se non è stata ancora fissata la data della decisione";

    II. Il decreto, l’ordinanza o la sentenza che dichiara l'estinzione può condannare la parte che vi ha dato causa alle spese (1).

    III. Il decreto ha efficacia di titolo esecutivo se nessuna delle parti chiede la fissazione dell'udienza nel termine di dieci giorni dalla comunicazione (1).

    IV. La condanna non è pronunciata, se alla rinuncia hanno aderito le altre parti personalmente o i loro avvocati autorizzati con mandato speciale.

    Art. 391-bis

    Correzione degli errori materiali e revocazione delle sentenze della Corte di cassazione

     

    I. Se la sentenza o l'ordinanza pronunciata ai sensi dell'articolo 375, primo comma, numeri 4) e 5) (1) pronunciata dalla Corte di cassazione è affetta da errore materiale o di calcolo ai sensi dell'articolo 287 ovvero da errore di fatto ai sensi dell'articolo 395, numero 4, la parte interessata può chiederne la correzione o la revocazione con ricorso ai sensi degli articoli 365 e seguenti da notificare entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla notificazione della sentenza, ovvero di un anno dalla pubblicazione della sentenza stessa. (2)

    II. La Corte decide sul ricorso in camera di consiglio nell'osservanza delle disposizioni di cui all'articolo 380-bis (3).

    III. Sul ricorso per correzione dell'errore materiale pronuncia con ordinanza (4).

    IV. Sul ricorso per revocazione pronuncia con ordinanza se lo dichiara inammissibile, altrimenti rinvia alla pubblica udienza (4).

    V. La pendenza del termine per la revocazione della sentenza della Corte di cassazione non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza impugnata con ricorso per cassazione respinto.

    VI. In caso di impugnazione per revocazione della sentenza della Corte di cassazione non è ammessa la sospensione dell'esecuzione della sentenza passata in giudicato, né è sospeso il giudizio di rinvio o il termine per riassumerlo.

    Art. 391-bis

    Correzione degli errori materiali e revocazione delle sentenze della Corte di cassazione

     

    I. " Se la sentenza o l’ordinanza pronunciata dalla Corte di cassazione è affetta da errore materiale o di calcolo ai sensi dell’articolo 287, ovvero da errore di fatto ai sensi dell’articolo 395, numero 4), la parte interessata può chiederne la correzione o la revocazione con ricorso ai sensi degli articoli 365 e seguenti. La correzione può essere chiesta, e può essere rilevata d’ufficio dalla Corte, in qualsiasi tempo. La revocazione può essere chiesta entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla notificazione ovvero di sei mesi dalla pubblicazione del provvedimento";

    II. "Sulla correzione la Corte pronuncia nell’osservanza delle disposizioni di cui all’articolo 380-bis, primo e secondo comma";

    III. Sul ricorso per correzione dell'errore materiale pronuncia con ordinanza (4).

    IV. "Sul ricorso per revocazione, anche per le ipotesi regolate dall’articolo 391-ter, la Corte pronuncia nell’osservanza delle disposizioni di cui all’articolo 380-bis, primo e secondo comma, se ritiene l’inammissibilità, altrimenti rinvia alla pubblica udienza della sezione semplice".

    V. La pendenza del termine per la revocazione della sentenza della Corte di cassazione non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza impugnata con ricorso per cassazione respinto.

    VI. In caso di impugnazione per revocazione della sentenza della Corte di cassazione non è ammessa la sospensione dell'esecuzione della sentenza passata in giudicato, né è sospeso il giudizio di rinvio o il termine per riassumerlo.

    2. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano ai ricorsi depositati successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, nonché a quelli già depositati alla medesima data per i quali non è stata fissata udienza o adunanza in camera di consiglio».

     

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