Linguaggio e lessico nella giurisdizione: le ragioni di un rinnovamento culturale.
Intervento alla tavola rotonda del convegno di Area dell’8 giugno 2022
di Maria Acierno
È opportuno prendere l’avvio per qualsiasi riflessione sul tema oggetto della tavola rotonda, considerando l’obbligo costituzionale di motivazione previsto per tutti i provvedimenti giurisdizionali (art. 111, c.6 Cost.).
Quale è il contenuto dell’obbligo e come è stato interpretato nel tempo?
Il contenuto si deve leggere alla luce della legittimazione e giustificazione costituzionale dell’indipendenza della magistratura italiana: le decisioni devono essere sottoposte al controllo ed alla verifica democratica di chi ne legittima la forza e efficacia cogente (il popolo italiano in nome del quale sono emanate ancorché non solo ad esso dirette).
In primo luogo, le motivazioni devono essere effettive, non formali, od apparenti, non devono limitarsi a formule di stile ma esplicitare le ragioni della decisione in relazione al caso concreto e solo quelle. “Solo quelle” sta ad indicare la necessità di una stretta consequenzialità senza interferenze con principi o regole non finalizzate alla decisione (i cd. obiter dicta) o contenenti digressioni che invece di inquadrare il focus e le alternative della decisione, costituiscono mero sfoggio di conoscenza giuridica e non rispecchiano fedelmente, nelle decisioni a carattere collegiale, il processo decisionale.
Le motivazioni devono essere chiare perché possano essere sottoposte al controllo ed alla verifica di chi legittima la forza cogente delle decisioni.
Questo è l’attributo di più complesso inveramento. Le ragioni problematiche sono molteplici.
Da un lato, la maggiore facilità di formulazione di un linguaggio burocratico, che semplifica l’esposizione attraverso formule di sintesi convenzionalmente decifrabili soltanto dal contesto di riferimento e produce separatezza e diffidenza generali per la oggettiva difficoltà di comprensione generale; dall’altro, il crescente e inarrestabile, oltre che fortemente antiilluminista, tecnicismo del lessico legislativo, sempre più settoriale e casistico e sempre meno “riformista” o quanto meno “ordinante” e dipanato per principi.
Inoltre, una parte rilevante dei provvedimenti giudiziari, specie civili – ma, per l’incidenza crescente delle leggi penali speciali, il discorso vale anche per quelli penali - è impegnata a definire il quadro normativo applicabile, data la frequenza delle modifiche legislative in molti settori, sia in relazione all’ambito contenutistico che al segmento temporale di vigenza dell’una o l’altra norma.
Infine, ma questa è la parte più “nobile”, che impone una sfida ed un impegno collettivo, l’attributo della chiarezza trova ostacolo nella complessità extragiuridica di molti dei temi affrontati dalla giurisdizione, molto frequentemente caratterizzati dalla necessità di definizioni e giudizi di carattere scientifico. A scopo meramente esemplificativo si pensi al quadro innovativo determinato dalle biotecnologie. Che cosa è la p.m.a., vale a dire la “procreazione medicalmente assistita”; quali sono le forme di p.m.a; quali quelle che non contrastano con i nostri principi di ordine pubblico e/o con quelli di diritto positivo; come si realizza il processo generativo; quali indicazioni predittive può fornire in più rispetto a quello biologico cd. naturale; quali indicazioni possono essere tratte da tracce di materiale genetico. Senza queste nozioni non può essere affrontato il complesso paradigma normativo che regola l’accesso alla procreazione assistita, fissa l’assunzione irrevocabile della responsabilità procreativa e genitoriale, definisce gli status filiali.
Tali ostacoli alla chiarezza, solo sommariamente indicati, devono essere superati.
In questo consiste l’assunzione di responsabilità professionale e deontologica che ci viene dalla nostra fortunata collocazione costituzionale.
Funzionali alla chiarezza sono senz’altro la concisione e la capacità di sintesi. Questa condivisibile affermazione tuttavia necessita di qualche precisazione.
L’attenzione e la conseguente comprensione di un’argomentazione sono favorite dalla sua esposizione sintetica. Ciò richiede uno sforzo ulteriore: dipanare tutti i passaggi logici che conducono ad una decisione fa parte integrante del processo decisionale; aiuta la trasparenza della decisione (specie se collegiale) anche in chiave dialettica ma la giustificazione delle ragioni delle decisioni richiede una consequenzialità sintetica, limitata ai passaggi essenziali che è molto difficile, in mancanza di una formazione adeguata da realizzare nel percorso universitario e durante il percorso professionale post concorso.
Nello stesso tempo, la motivazione deve restituire esclusivamente le ragioni della decisione così come logicamente espresse nella camera di consiglio.
Anche questo rilevante aspetto del self restraint costituisce parte integrante dell’assunzione di responsabilità costituzionale che il ruolo impone.
Soprattutto l’organo della nomofilachia deve sottrarsi alla tentazione di affermare principi estranei alle rationes decidendi quand’anche riferibili all’area giuridica di riferimento.
Pur se sostenuti da una finalità di maggiore chiarificazione dei principi che regolano un settore anche in funzione di sostegno di future decisioni, tali interventi costituiscono una grave patologia non solo della motivazione ma anche della decisione dal momento che introducono nel sistema del precedente principi che creano disordine, disorientamento; forzature interpretative che allontanano dall’esercizio della funzione nomofilattica la quale deve rimanere strettamente consequenziale all’affermazione dei principi costituenti il fondamento della decisione.
Ma se si parla di sintesi si deve evitare un fraintendimento: la chiarezza, la concisione e la sintesi, qualità complesse che si acquistano con la pratica, l’esperienza, la formazione (quella post concorso è molto ampia, articolata ed efficace) vengono qui poste in luce in funzione dell’obbligo costituzionale di motivazione (ed anche in funzione di una corretta comunicazione e diffusione della decisione) e non come strumenti volti esclusivamente ad un incremento dell’efficienza del prodotto finale (provvedimento) e, dunque, in esclusiva chiave d’incremento della produttività.
Il legislatore processuale, costantemente impegnato in riforme a costo zero, è sembrato rincorrere, attraverso i richiami alla concisione ed alla “succinta” esposizione (così adoperando un lessico arcaico per richiedere un adeguamento della motivazione all’attualità) l’obiettivo di scrivere meno per produrre di più.
Questa finalità è fuori dalla funzione costituzionale della motivazione e dalle esigenze di chiarezza e sintesi che impone. Anzi, si può verosimilmente ritenere che l’esigenza di una sempre maggiore produttività scoraggi la chiarezza e appiattisca il linguaggio verso quelle formule convenzionali linguistiche che producono semplificazioni soltanto nel contesto di riferimento e non inducono ad un miglioramento ed adeguamento effettivo del linguaggio giudiziario, ma piuttosto spingono verso una sorta di pigra coazione a ripetere arcaismi e formule poco comprensibili.
Formule ripetitive che si collocano, cioè, fuori dal rinnovamento culturale del linguaggio, che costituisce, come sollecita proprio questa tavola rotonda, un’urgenza per la giurisdizione.
Il richiamo legislativo svolge, tuttavia, una funzione virtuosa, nel limitato senso di imporre il criterio dell’adeguatezza e della stretta continenza della motivazione alla natura e complessità della decisione.
Il fenomeno del narcisismo espositivo è in calo ma ancora non può dirsi superato interamente. Il rigoroso assolvimento dell’obbligo costituzionale della motivazione non significa impegno uguale per qualsiasi tipologia di decisione.
Ove la decisione s’inserisca in un contenzioso seriale è sufficiente il richiamo per relationem a principi consolidati. Si tratta di un obbligo che cresce in relazione alla natura della decisione, sia con riferimento alla capacità proiettiva della decisione stessa che con riferimento ai rilievi dei diritti delle parti.
Fuori dell’intentio legislativa derivante dalle norme processuali che si sono avvicendate anche in modo caotico nell’ultimo decennio deve tuttavia rilevarsi un progressivo impegno virtuoso della formazione della Scuola della Magistratura e delle fonti provenienti dai testi normativi autoorganizzativi degli uffici ed anche dal Codice etico dell’Associazione Nazionale Magistrati.
Il richiamo più rilevante è quello contenuto nel Documento di Organizzazione di cui si è dotata la Corte di Cassazione.
Il Primo Presidente ha sottolineato espressamente la necessità e l’obbligo di essere chiari e sintetici e, tema che verrà affrontato nella seconda parte di questo breve discorso, di abbandonare valutazioni “pregiudiziali” che provengano da modelli culturali e valoriali soggettivamente introiettati ma non corrispondenti a quelli che si rispecchiano nel quadro multilivello costituzionale.
I problemi maggiori di separatezza delle ragioni della decisione rispetto al personale corredo etico-valoriale ed ideologico riguardano i cd. temi sensibili (giudizi su inizio e fine vita; scelte personali e relazionali non corrispondenti al paradigma eterosessuale etc.) per i giudizi civili e i procedimenti che riguardano il diritto di soggiorno dei cittadini stranieri e per i giudizi penali i reati che colpiscono in via generale un genere od un gruppo.
In questi ambiti, come è stato efficacemente sottolineato, l’empatia emotiva può sostituire quella cognitiva, che invece dovrebbe costituire l’humus che sorregge le decisioni, specie in quei settori ove la conoscenza delle radici geo e socio politiche delle domande di tutela (si pensi alla protezione internazionale) sono così rilevanti da essere legislativamente codificate o la conoscenza e la precisa definizione tecnico scientifica delle situazioni alle quali deve darsi una regolazione giuridica ed un regolamento d’interessi (per semplificare inizio e fine vita, p.m.a., status, etc) costituiscono il fondamento ineludibile dell’indagine da compiere ai fini della decisione.
La sottovalutazione dell’impatto dell’empatia emotiva sia sul percorso argomentativo, quanto, purtroppo, sulla decisione può determinare conseguenze lesive della dignità personale di individui e gruppi collegati, per esempio, per appartenenza ad un genere.
In relazione a quest’ultimo profilo deve segnalarsi, non senza rammarico, la necessità dell’intervento della Corte Europea dei diritti umani, sul linguaggio contenuto in una sentenza penale e rammentare che il codice etico dei magistrati modificato nel 2010, prevede all’'articolo 12, terzo comma: «Nelle motivazioni dei provvedimenti e nella conduzione dell'udienza [il giudice] esamina i fatti e gli argomenti prospettati dalle parti, evita di pronunciarsi su fatti o persone estranei all'oggetto della causa, di emettere giudizi o valutazioni sulla capacità professionale di altri magistrati o dei difensori, ovvero – quando non siano indispensabili ai fini della decisione – sui soggetti coinvolti nel processo.»
Afferma espressamente la Corte EDU, (caso J.L. c. Italia n. 5671/16), che gli obblighi positivi di proteggere le presunte vittime di violenza di genere impongono anche il dovere di proteggere l'immagine, la dignità e la vita privata di queste ultime, anche attraverso la non divulgazione di informazioni e dati personali senza alcun rapporto con i fatti.
Questo obbligo è, peraltro, inerente alla funzione giudiziaria e deriva dal diritto nazionale (paragrafi 57 e 62 supra) nonché da vari testi internazionali (paragrafi 65, 68 e 69 supra).
La Corte precisa in modo forte come non veda in che modo la condizione familiare della ricorrente, le sue relazioni sentimentali, i suoi orientamenti sessuali o ancora le sue scelte di abbigliamento nonché l'oggetto delle sue attività artistiche e culturali possano essere pertinenti per la valutazione della credibilità dell'interessata e della responsabilità penale degli imputati. Pertanto, non si può ritenere che le suddette violazioni della vita privata e dell'immagine della ricorrente fossero giustificate dalla necessità di garantire i diritti della difesa degli imputati.
Infine ritiene che il linguaggio e gli argomenti utilizzati veicolino i pregiudizi sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che possono ostacolare una protezione effettiva dei diritti delle vittime di violenza di genere nonostante un quadro legislativo soddisfacente.
Un esempio, citato dalla stessa Corte EDU, di condizionamento del giudice da parte del proprio bagaglio culturale o sub culturale è l’aver rafforzato il giudizio negativo di credibilità della parte offesa per l'atteggiamento ambivalente della ricorrente nei confronti del sesso.
La crescente incisività dell’intervento giurisdizionale in situazioni drammatiche, conflittuali o, come nell’esempio CEDU, di primaria rilevanza penale che coinvolgono individui, relazioni, e la loro autodeterminazione, fanno comprendere quanto sia necessaria una costante vigilanza sul linguaggio giudiziario e sulla consapevolezza del limite da non oltrepassare costituito dal giudizio soggettivo pregiuridico su alcune scelte od azioni della vita che tuttavia interferiscono con i diritti fondamentali della persona e con la sua dignità.
Proprio in questi ambiti, più vicini alla vita quotidiana di tutti e, in quanto tali, più esposti allo scivolamento “conformistico” dell’approccio emotivo, si può tendere ad adottare un linguaggio meno tecnico e sorvegliato, per una malintesa preconoscenza ed empatia.
Il sistema giudiziario, ha, tuttavia, notevoli anticorpi, costituiti non solo dal meccanismo impugnatorio ancorché non diretto a censurare specificamente la motivazione ma la decisione, ma anche dalla formazione costante che accompagna l’intero percorso della magistratura ordinaria. Inoltre per le decisioni collegiali, un forte contributo può provenire dalla rigorosa ed attenta lettura del testo da parte del presidente, accompagnato, ove necessario, dal riesame collegiale del testo. Infine, ove i confini del rispetto della dignità personale possano essere realmente travalicati, non può escludersi il controllo e l’intervento disciplinare nella consapevolezza, tuttavia, che il percorso da compiere è tracciato dalla crescita professionale, deontologica e culturale.