[in copertina Giulia Iofrida,
Distanziamento sociale,
25 aprile 2020]
Vulnerabilità, cultura giuridica, Covid-19
di Baldassare Pastore
Sommario: 1. Le molte facce della vulnerabilità – 2. Le sfide dell’emergenza – 3. Una (possibile) tendenza inquietante.
1. Le molte facce della vulnerabilità
Siamo tutti vulnerabili. La pandemia scatenata dal Covid-19 – esempio tragicamente paradigmatico di come l’interdipendenza globale trasformi eventi catastrofici locali in fenomeni planetari – mostra in maniera evidente questa condizione che accomuna gli esseri umani.
Vulnerabilità è parola che indica la suscettibilità di subire ferite (vulnera), di subire danni causati da fenomeni naturali o da attività umane, connessa ad una serie di situazioni, da cui dipende il verificarsi di determinate stati di cose, e che si manifesta in svariate circostanze.
La vulnerabilità è, in primo luogo, legata alla nostra corporeità. Il corpo umano ci espone alla malattia, alla sofferenza, alla morte. Esso porta con sé la possibilità, sempre presente, di essere colpiti e/o di andare incontro ad avversità, che sfuggono al controllo individuale o collettivo. In questo senso, si pone come caratteristica universale, costante, dell’esistenza umana. Essa, però, può essere vissuta da ciascuno diversamente, variando la grandezza e la potenzialità della sua incidenza in rapporto alle reti di relazioni in cui si è coinvolti e alla quantità e qualità di risorse, opportunità, beni posseduti o di cui si può disporre. In proposito, non può non essere sottolineato che vi sono situazioni di disagio sociale e/o personale in cui il grado di vulnerabilità degli individui può aumentare.
Nella nozione di vulnerabilità, quindi, risultano compresenti una dimensione ontologica, esistenziale, e una dimensione situazionale, contestuale, accidentale e variabile. Emerge il volto della fragilità e della finitezza, ma anche della dipendenza. E viene in rilievo, nel contempo, il compito delle istituzioni nel sostenere policies in grado di ridurne l’esposizione, aumentando il grado generale di resilienza, che ha a che fare con le strategie solidali attraverso le quali si può mitigare, compensare, rimediare a, tale vulnerabilità (sui significati e gli usi di tale nozione si rinvia ai contributi pubblicati nel volume Vulnerabilità. Analisi multidisciplinare di un concetto, a cura di O. Giolo e B. Pastore, Carocci, Roma, 2018).
Il diritto incontra la vulnerabilità umana in vari modi. In primo luogo, perché, tra le funzioni essenziali di qualsiasi ordinamento giuridico, vi è quella di proteggere gli individui da aggressioni, violenze e offese che colpiscono la vita degli individui. Inoltre, perché, avendo il compito di risolvere i problemi di coordinazione delle azioni, il diritto serve a garantire la sicurezza e la simmetria nei rapporti tra individui, sottraendo le vicende umane all’arbitro.
Se, nello spazio delle relazioni intersoggettive, la vulnerabilità designa la condizione di chi è esposto al rischio di un danno causato dall’essere alla mercé di altri, tale concetto può essere utilizzato come “strumento euristico”, “indicatore qualitativo e quantitativo” di situazioni nelle quali rilevano la sofferenza socialmente prodotta, l’esposizione all’offesa e al danno. Siamo di fronte a quella vulnerabilità patogena, che include i casi derivanti da pregiudizi o abusi nei rapporti interpersonali, da ingiustizie, discriminazioni, oppressioni, forme di sfruttamento, marginalizzazioni, diseguaglianze, costruite attraverso dinamiche di potere differenziate e differenzianti. Si tratta di vulnerazioni che ledono la dignità delle persone, colpite in ciò che è loro dovuto: l’eguale considerazione e rispetto. Proprio qui i diritti umani trovano la loro ragione giustificativa. Essi, infatti, costituiscono una risposta (in termini di rifiuto) alle minacce alla dignità, trovando collocazione entro una struttura normativa che richiede impegni e responsabilità sociali, nonché obblighi istituzionali.
Il diritto, così, è chiamato a svolgere un ruolo centrale nel contrastare la vulnerabilità. Ma può operare esso stesso come fattore di vulnerazione, qualora – venendo meno alla sua essenziale ragion d’essere – consenta o faciliti comportamenti che producono negazioni del riconoscimento, connesse all’umiliazione, alla mancanza di rispetto, all’esclusione sociale, alle ingiustificate disparità di trattamento, alla degradazione del valore della persona. Da questo punto di vista, la nozione di vulnerabilità si pone come “campanello d’allarme”, principio critico, elemento dinamico che chiede agli ordinamenti di rilegittimarsi continuamente, interrogandosi sui propri fondamenti ed esiti normativi.
D’altra parte, lo stesso diritto dovrebbe essere inteso, di per sé, come una entità vulnerabile. Le istituzioni, infatti, sono potenzialmente instabili e soggette a sfide e trasformazioni interne ed esterne. Riconoscere tale vulnerabilità implica che si accetti la necessità di un monitoraggio e di una valutazione connessi ad un’auto-comprensione della cultura giuridica, vigile e attenta ai mutamenti in corso. Il diritto può essere considerato una pratica sociale che implica la partecipazione ad un’impresa comune. L’identità di tale pratica è custodita da organi istituzionalizzati (legislazione, giurisdizione, amministrazione), che producono decisioni; dalla dottrina, con le sue concettualizzazioni e opinioni; ma anche da tutti in cittadini, che concorrono, variamente, alla configurazione e realizzazione di tale pratica. La cultura giuridica è frutto di un’opera collettiva, nella quale confluiscono orientamenti normativi, interpretazioni di testi, argomentazioni, costruzioni concettuali, princìpi, e contribuisce a formare il diritto.
2. Le sfide dell’emergenza
Il Covid-19 costituisce una sfida epocale produttiva di effetti sulla vita delle persone, della società, delle istituzioni. Con il suo incidere nell’ambito giuridico sollecita a riflettere sulle conseguenze di uno stato di emergenza che può condurre a notevoli mutamenti e che, se non governato alla luce dei princìpi fondamentali che caratterizzano i nostri ordinamenti, può comportare profonde alterazioni (si veda l’intervista di Franco De Stefano a Corrado Caruso, Giorgio Lattanzi, Gabriella Luccioli e Massimo Luciani: https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/961-la-pandemia-aggredisce-anche-il-diritto - 2 aprile 2020). Il rischio, infatti, è che si consolidino tendenze volte a trasformare meccanismi pensati e costruiti per far fronte a situazioni contingenti in strumenti ordinari di funzionamento del sistema.
L’emergenza – come è stato sottolineato da più parti – non ha nulla a che vedere con l’eccezione. Lo stato di eccezione, nella teorizzazione schmittiana, rappresenta una rottura dell’ordinamento che è in netta contraddizione con il principio di legalità. Lo Stato di diritto, però, non ammette deroghe e ogni sua rottura equivale alla sua negazione. Lo stato di eccezione è quello che travolge (e stravolge) l’assetto costituzionale incidendo radicalmente sui diritti fondamentali, sull’articolazione dei poteri, sull’assetto delle fonti, esautorando gli organi dalle loro competenze normativamente stabilite e trasferendole ad autorità d’eccezione. L’emergenza, invece, riguarda momenti temporanei e particolari di necessità che vengono meno con la scomparsa delle circostanze fattuali che li giustificano.
Con riferimento alla pandemia da Covid-19 e alle misure prese per contenerla, limitazioni ai diritti e alle libertà in nome del diritto alla salute degli individui possono essere tollerate solo se viene rispettato il criterio della ragionevolezza, riguardante il corretto rapporto tra atti adottati e scopi perseguiti e la ricerca di soluzioni che comportino il minore stress possibile per la Costituzione (la sua minima, e solo temporanea, vulnerazione) e per tutti i beni e gli interessi che essa protegge (lo ha ben messo in luce Antonio Ruggeri nell’intervista di Roberto Giovanni Conti: https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/942-scelte-tragiche-e-covid-19 - 24 marzo 2020). Le limitazioni, inoltre, devono essere proporzionate, non arbitrarie, e configurate attraverso decisioni prese secondo modalità legalmente previste, dunque entro i vincoli formali e sostanziali posti nell’ordinamento. Ciò richiede valutazioni di adeguatezza, pertinenza, congruità. Rilevano, al riguardo, le tecniche del bilanciamento, che consentono di risolvere i conflitti tra diritti in relazione alle specifiche situazioni, mantenendo però sempre la priorità, propria dello Stato costituzionale di diritto, dell’opzione assiologica della dignità della persona. Rimane, comunque, sullo sfondo, ma pesa come un macigno, il ruolo della riserva assoluta di legge come modalità basilare di garanzia in relazione ai diritti fondamentali. Tali diritti, nella nostra democrazia costituzionale, possono essere limitati soltanto attraverso la legge del Parlamento, vincolata al rispetto dei motivi (espressamente indicati dal testo costituzionale) che legittimano l’apposizione del limite per ogni singolo diritto. Così, valgono come limiti la sanità e l’incolumità pubblica in relazione alla libertà di domicilio (art. 14 Cost.); la sanità e la sicurezza per la libertà di circolazione e soggiorno (art. 16 Cost.). Emerge, in proposito, l’esigenza di recuperare la correttezza procedurale della produzione normativa, definendo il più possibile, nel tempo e nei contenuti, le deroghe e le sospensioni (si veda G. Brunelli, Democrazia e tutela dei diritti fondamentali ai tempi del coronavirus: www.giuri.unife.it/it/coronavirus/diritto-virale - 7 aprile 2020).
Molte, invero, sono le criticità della normativa emergenziale. Su di essa, in questi mesi, sono stati prodotti contributi di grande interesse e utilità, a testimonianza dell’importanza della funzione sociale dei giuristi. E a conferma che la società, complessivamente considerata, non può fare a meno di una cultura giuridica cui pertiene un impegno di vigilanza critica.
Le riflessioni e le analisi si sono concentrate sui diversi aspetti connessi alle ricadute della pandemia da Covid-19 sui vari ambiti ordinamentali. Ci si è trovati, in primo luogo, di fronte ad una produzione giuridica che ha introdotto una massa di imposizioni comportamentali, finalizzati a prevenire il contagio, invero limitative dei diritti fondamentali. Si tratta di una produzione giuridica che incide sul tema (costitituzionalistico, ma anche teorico-generale) delle fonti del diritto e delle tecniche normative utilizzate. In gioco, però, vi sono tante altre questioni che toccano il diritto civile (si pensi agli inadempimenti contrattuali, alle rinegoziazioni dei contratti, alla responsabilità per eventi lesivi e/o letali negli ospedali), il diritto penale (in relazione, ad esempio, alla valutazione dei comportamenti commessi in stato di necessità e alle condotte del personale sanitario), il diritto dell’esecuzione penale (con riguardo alla condizione dei detenuti negli istituti penitenziari), il diritto processuale, il diritto del lavoro (in relazione alla sicurezza dei dipendenti, ai licenziamenti, alle retribuzioni), il diritto tributario, il diritto amministrativo. Per non parlare del tema della privacy, riguardante l’uso delle tecnologie informatiche per il tracciamento e la sorveglianza della popolazione infetta e per il trattamento dei dati sanitari ai fini del suo censimento.
A tutto ciò si legano notevoli difficoltà interpretative, riflesso di una stratificazione normativa alluvionale, che incide sulla condotta dei cittadini e sull’attività degli operatori giuridici.
Emerge, qui, un aspetto saliente della vita del diritto, che tocca il tema dell’interdipendenza strategica e normativa. I cittadini, infatti, accettano e usano le regole giuridiche, come standards comuni di azioni, all’interno di una rete di aspettative stabili che consenta di esercitare l’autonomia personale in una logica d’interazione. I cittadini sanno che l’esistenza delle disposizioni giuridiche dipende da come essi comprendono cosa viene richiesto da tali disposizioni. Ma ciò dipende, a sua volta, da come si aspettano che i funzionari interpretino le disposizioni. Questi ultimi, a loro volta, devono comprendere e interpretare le disposizioni secondo quello che i cittadini si aspettano che essi facciano. Siamo di fronte ad una dinamica interattiva in cui la comprensione di ogni interlocutore dipende dalle aspettative e dalla comprensione degli altri. Tali aspettative non riguardano solo ciò che gli altri di fatto faranno, ma muovono anche dalla convinzione che gli altri siano in qualche modo obbligati a comportarsi in un certo modo e ad avere un certo tipo di aspettative, sicché è possibile legittimamente pretendere che essi si adeguino. La reciprocità è data dalla condivisione del carattere normativo dei significati intersoggettivi, entro cui gli individui articolano le loro intenzioni, le loro credenze, e pongono in essere i loro comportamenti (B. Pastore – F. Viola – G. Zaccaria, Le ragioni del diritto, Il Mulino, Bologna, 2017, pp. 45, 48-50).
In risposta alla velocità di propagazione del coronavirus, e con una progressione temporale fulminea, sono stati adottati decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, decreti-legge, ordinanze ministeriali e conseguenti circolari applicative, ordinanze del Capo del Dipartimento della protezione civile, ordinanze dei Presidenti delle Regioni e dei Sindaci, ordinanze prefettizie. Gli esiti di tale profluvio normativo mostrano il modo peculiare di funzionamento delle nostre istituzioni e la crisi che affligge il sistema delle fonti (ormai invero destrutturato) (in argomento mi limito a rinviare agli scritti di M. Luciani, Il sistema delle fonti del diritto alla prova dell’emergenza, in “Rivista AIC”, 2, 2020, p, 109 ss., e A. Ruggeri, Il coronavirus, la sofferta tenuta dell’assetto istituzionale e la crisi palese, ormai endemica, del sistema delle fonti, in “Consulta online”, 1, 2020, p. 210 ss.). Le conseguenze sono state la confusione nei rapporti tra Stato e autonomie territoriali, l’incertezza delle competenze, con conflitti e sovrapposizioni che hanno determinato, non poche volte, scarsa efficienza, ma anche un senso di smarrimento nell’opinione pubblica, frastornata dal caos comunicativo e dalla diffusione di una quantità di informazioni di diversa origine e dal fondamento spesso non verificabile, con il connesso ampliamento dell’area dell’incomprensione. Ne è risultato un quadro affastellato e confuso che rende estremamente difficoltoso, per i cittadini, individuare i comportamenti leciti, distinguendoli da quelli vietati. A ciò si unisce la genericità delle prescrizioni che ricade sulla loro applicazione, potenziando la discrezionalità degli organi chiamati a darne esecuzione. Non è difficile immaginare che uno degli effetti di una tale situazione, foriera di conflitti interpretativi, sarà l’aumento dei contenziosi.
3. Una (possibile) tendenza inquietante
L’emergenza da Covid-19, per molti versi, fa “saltare” alcune coordinate generali e alcune rilevanti categorie giuridiche e fa emergere alcune condizioni di vulnerabilità che toccano l’ordinamento. Un inquietante indizio in tal senso mi pare possa essere rintracciato nella previsione del processo “da remoto”, introdotta dall’art. 83 comma 12 bis della legge n. 27 del 24 aprile 2020 di conversione del decreto-legge n. 18 del 17 marzo 2020, con integrazioni e modifiche dettate dal decreto-legge n. 28 del 30 aprile 2020.
Il collegamento “da remoto”, attuato grazie al sistema informatico, ha lo scopo di contemperare l’esigenza di assicurare il distanziamento sociale (rectius: umano) e quella di garantire lo svolgimento delle attività giudiziarie. Peraltro, molte sono le prospettive riguardanti l’impiego delle tecnologie informatiche per la gestione delle attività processuali giustificate da ragioni di efficienza (tra questi sicuramente rientrano la digitalizzazione degli atti processuali e la creazione di un fascicolo telematico dove possano convergere tutti i dati del procedimento, man mano che si dipana), così come molti sono i problemi che si aprono, superata la fase acuta dell’epidemia, con l’utilizzo dei mezzi informatici e telematici come strumenti per disegnare un ordinario nuovo regime del processo civile e penale (rinvio, sul tema, alle interviste di Franco De Stefano a Filippo Donati e Giorgio Spangher: https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1051-la-giustizia-da-remoto-adelante-con-juicio-prima-parte - 1° maggio 2020, e a Giorgio Costantino e Massimo Orlando; https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1058-la-giustizia-da-remoto-adelante-con-juicio-seconda-parte - 2 maggio 2020).
Il punto riguarda, in questo ambito, il possibile utilizzo futuro del processo da remoto (a distanza) per la celebrazione delle udienze penali. Notevoli sono le perplessità che una simile prospettiva solleva (si vedano gli interventi di O. Mazza, Distopia del processo a distanza, in “Archivio penale”, 1, 2020, pp. 1-10, e di E. Bandiera, Il processo penale dallo ieros kuklov agli autómatoi: www.giuri.unife.it/it/coronavirus/diritto-virale - 29 aprile 2020). Il rischio – lo si ribadisce con riferimento alla giurisdizione penale – è che meccanismi pensati per far fronte ad una emergenza contingente possano diventare strumenti ordinari di svolgimento dell’attività giudiziaria, alterando la natura stessa del processo. Certamente la modifica dettata dall’art. 3 del decreto-legge n. 28 del 30 aprile 2020, e che prevede che le disposizioni dell’art. 83 comma 12 bis «non si applicano, salvo che le parti vi acconsentano, alle udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio e a quelle nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti» corregge, in parte, il tiro. È bene però che l’attenzione rimanga desta.
La smaterializzazione fisica dei luoghi connessa al processo a distanza produce una vulnerazione dei princìpi fondamentali riguardanti il diritto di difesa e il “giusto processo”, riconosciti nella Costituzione (art. 24 e art. 111), nonché nelle fonti internazionali e sovranazionali (si considerino gli artt. 10, 11 della Dichiarazione universale dei diritti umani, l’art. 6 CEDU, l’art 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici).
Nel processo penale sono in gioco diritti e garanzie (indisponibili) che devono avere una consistenza materiale assicurata da uno spazio scenico tangibile. Il “giusto processo” è caratterizzato dal contraddittorio tra le parti, le quali, in condizioni di parità davanti ad un giudice terzo e imparziale (ossia, sotto i suoi occhi, al suo cospetto), partecipano allo svolgimento dibattimentale (pubblico) nelle modalità di un’interazione dialettico-discorsiva. Il principio del contraddittorio caratterizza strutturalmente la fairness processuale. Un suo aspetto indefettibile è costituito dal diritto di difesa, posto che, ove mancasse la possibilità di difendersi, non vi sarebbe spazio per il confronto tra parti contrapposte, che “si fanno sentire” (e vedere) ”in presenza”, potendo esporre le ragioni proprie e controbattere quelle avversarie. Tale principio, però, assume una valenza che riguarda non solo la situazione dei portatori di interessi in conflitto, ma anche l’assetto della giurisdizione, collegandosi alla necessaria presenza dell’organo giudicante “terzo”, indipendente e imparziale, che decide dopo aver ascoltato e visto le parti su ogni questione di cui è investito. L’essenza del contraddittorio, infatti, sta proprio nel confronto di argomenti su ogni tema decisorio e nella pratica comunicativa espressa dalla regola audiatur et altera pars, avendo un essenziale valore epistemico in quanto metodo per la formazione della prova. Risulta pertanto difficile pensare ad una prova formata in un contesto di distanziamento, che esclude la partecipazione fisica all’udienza di tutti gli attori. Presenza fisica e presenza virtuale non sono fungibili. Non va dimenticato, inoltre, che il contraddittorio si pone come elemento indispensabile di controllo del procedimento che conduce alla decisione.
L’unità di luogo della celebrazione del processo rappresenta un tratto imprescindibile della giurisdizione. Soltanto nell’aula giudiziaria può realizzarsi l’interazione, ritualmente mediata e proceduralmente strutturata, tra soggetti, tutti contemporaneamente presenti. Qui trova consistenza il “giusto processo” come categoria ordinante di portata generale, clausola di giustizia procedurale, espressione della cultura della legalità nell’odierno Stato di diritto.
L’emergenza da Covid-19 non può – né deve – essere una scorciatoia per cambiamenti che possono incidere, talvolta considerevolmente, sul modo di essere e di funzionare dell’ordinamento. Il diritto può essere vulnerato. La cultura giuridica, fedele ai princìpi costituzionali che positivizzano i valori basilari della convivenza civile, è chiamata a curarne le ferite e a custodirne il senso.