Sommario: 1. Introduzione – 2. Il Protocollo Italia-Albania sullo sfondo della crisi del principio delle competenze di attribuzione - 3. La competenza esterna esclusiva implicita dell’Unione europea e l’effetto di preemption: il contributo della Corte di giustizia - 4. Quale esito? - 5. Conclusioni.
1. Introduzione
In data 5 novembre 2025, la Corte d’Appello di Roma, Sezione persona, famiglia, minorenni e protezione internazionale, ha formulato un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia allo scopo di chiarire alcuni dubbi interpretativi sorti nel contesto di un procedimento di convalida del trattenimento di un cittadino di paese terzo in attuazione del noto Protocollo Italia-Albania, presso il Centro di Permanenza e Rimpatrio di Gjader[1]. A questo rinvio hanno fatto seguito tre ulteriori ordinanze della medesima Corte e aventi analogo tenore[2].
In prima battuta, i giudici a quibus pongono in dubbio la competenza dell’Italia a stipulare tale trattato, in virtù degli artt. 3, paragrafo 2, e 216, paragrafo 1, TFUE, letti nella prospettiva del principio di leale cooperazione di cui all’articolo 4, paragrafo 3, TUE. In particolare, la Corte di giustizia viene interrogata riguardo al possibile radicamento in capo all’Unione, in forza di tali basi giuridiche, di una competenza esterna esclusiva implicita, derivante dal fatto che il regime giuridico ideato dal Protocollo “può incidere su norme comuni o modificarne la portata”[3].
In via subordinata, nell’eventualità di una risposta negativa al primo quesito, i Giudici rimettenti sollecitano la Corte del Lussemburgo a verificare se, in ogni caso, il diritto dell’Unione osti ad una disciplina pattizia come quella di specie, specialmente in materia di trattenimento del richiedente protezione internazionale e di diritto di difesa e diritto alla salute del medesimo.
Le ordinanze segnano una nuova tappa di un sin qui accidentato percorso giuridico e sollevano profili ermeneutici che, pur nella pressante attualità del quadro pattizio in cui sono maturati, promettono un’eco sulle future tappe evolutive del processo di integrazione in materia di immigrazione e asilo. In questa prospettiva, merita particolare attenzione il primo quesito pregiudiziale, che affronta un tema tanto cruciale per l’assetto dei rapporti tra ordinamenti nazionali e diritto dell’Unione quanto ad oggi sottostimato nelle analisi seguite alla stipulazione del Protocollo.
Proprio su questo profilo, pertanto, si focalizza il presente commento, che mira a fornire al lettore e alla lettrice alcune brevi riflessioni nell’immediatezza delle ordinanze di rinvio. In questo spirito, dunque, la trattazione affronta sinteticamente istituti che meriterebbero ben altra ampiezza di analisi e cura del dettaglio, nella consapevolezza che questa vicenda processuale fornirà in futuro, con ogni probabilità, nuove e molteplici occasioni di approfondimento e confronto. Inoltre, il commento non si sofferma sui delicati profili di possibile incompatibilità del Protocollo con il diritto UE. Al riguardo, la dottrina ha già avuto modo di porre in risalto circostanziate perplessità, tanto in relazione ai profili di diritto dell’Unione[4] quanto in rapporto al sistema della CEDU[5]. Sul punto si rimanda dunque a queste analisi, nonché alle ordinanze di rinvio stesse, che ad avviso di chi scrive offrono argomentazioni convincenti e ben articolate.
Ciò posto, l’analisi che segue inquadra anzitutto il contesto nel quale i rinvii si inscrivono. In particolare, nella sezione n. 2, vengono proposte alcune riflessioni sugli elementi di flessibilità che, oggi come in passato, contraddistinguono la messa in opera del principio delle competenze di attribuzione, a fronte di narrazioni politiche di ben altro tenore. Viene inoltre presentato il ‘caso’ della politica di immigrazione e di asilo quale laboratorio elettivo di esperienze sempre più variegate – per forma e sostanza – di proiezione esterna dell’azione dell’Unione e degli Stati membri. Un laboratorio del quale il Protocollo Italia-Albania costituisce un esito esemplare. La sezione n. 3 presenta un quadro della giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di parallelismo delle competenze interne ed esterne e, in special modo, di competenza esterna esclusiva implicita nelle ipotesi in cui gli obblighi internazionali contratti da uno Stato membro possano “incidere su norme comuni o modificarne la portata”. Prima di alcune riflessioni conclusive, la trattazione si sofferma su brevi notazioni in ordine al possibile esito dei rinvii pregiudiziali in commento, con il caveat dell’apertura poc’anzi segnalata ad ulteriori e più elaborate analisi venture.
2. Il Protocollo Italia-Albania sullo sfondo della crisi del principio delle competenze di attribuzione
Come noto, l’Unione si fonda sul principio delle competenze di attribuzione e, in un’ottica funzionalista, sulle progressive cessioni di sovranità accordate in suo favore dagli Stati membri, per il tramite del disposto dei Trattati istitutivi, così come evolutisi nel corso dei decenni. Ciò presuppone che i Trattati codifichino espressamente le politiche che ricadono nell’ambito di intervento dell’organizzazione, così come, di regola, i poteri dei quali quest’ultima è dotata allo scopo di condurre efficacemente le azioni necessarie al conseguimento degli obiettivi comuni. All’esito della riforma di Lisbona, i Trattati evidenziano in più punti la particolare premura dei loro redattori per la centralità del principio di attribuzione[6], quale baluardo posto a confine dell’operato dell’Unione e, di converso, garanzia per gli Stati rispetto a indebite incursioni sovranazionali nelle materie in cui hanno conservato in tutto o in parte la loro sovranità. In effetti, nelle prime reazioni all’entrata in vigore della riforma del 2009, la quantità di clausole in materia ha condotto alcuni commentatori a riscontrare una vera e propria ‘ossessione’[7], talora anche a discapito della linearità e coerenza delle disposizioni di rango primario.
Eppure, proprio il principio di attribuzione appare, a ben vedere, tra i meno ‘monolitici’ nella quotidianità delle politiche dell’Unione. A fronte di elementi di flessibilità viepiù intensi e multiformi, acutamente discussi in dottrina e non di rado alimentati e sostenuti dagli stessi governi nazionali perché necessari a fare fronte a importanti sfide comuni[8], l’esatto posizionamento dei cippi di confine tra il cd. treaty-making power dell’Unione e degli Stati costituisce da decenni un palcoscenico d’elezione per conflitti interpretativi e giurisdizionali.
Il settore della migrazione e dell’asilo costituisce un esempio paradigmatico di questa tendenza. Invero, in questa materia, il trattato di Lisbona ha riconosciuto all'Unione una sola base giuridica esplicita per la conclusione di trattati internazionali con paesi terzi, riguardante la competenza concorrente in materia di accordi di riammissione[9]. Una competenza che, peraltro, nella prassi si confronta con una singolare quanto complessa articolazione di fonti, che spaziano da accordi inter se a trattati bilaterali tra Stati membri e paesi terzi, fino a coinvolgere importanti profili dell’azione esterna dell’Unione[10].
Allo stesso tempo, è ormai consolidata – e ampiamente studiata – una tendenza strutturale verso una crescente proiezione esterna della politica di immigrazione e asilo. Generalmente inquadrati nel concetto di esternalizzazione, vari istituti giuridici e numerose iniziative politiche condotte in parallelo dall’Unione e dagli Stati esplorano modalità di prevenzione o gestione dei flussi migratori verso l’Europa[11]. Sebbene questa non sia la sede per approfondire la trattazione di un tema che richiederebbe ben maggiore sforzo ricostruttivo, è utile ricordare come proprio la stipulazione di accordi, non di rado improntati a spiccata informalità, sia una delle linee direttrici principali di questo fenomeno, in uno con la valorizzazione della frontiera esterna dell’Unione quale perno delle strategie manageriali e deflattive delle politiche migratorie e di asilo.
In questo scenario, ci si trova a fronteggiare due elementi ricorrenti e complementari. Da un lato, si assiste ad una crescente valorizzazione delle basi giuridiche di diritto primario a sostegno del dinamismo dell’azione esterna dell’Unione nella materia in esame. In linea con quanto spesso accaduto nell’evoluzione del processo di integrazione, azioni in materia di immigrazione e asilo permeano gli interstizi di ulteriori politiche, quali la cooperazione allo sviluppo, la politica di vicinato, la politica commerciale. Un crescente ricorso a strumenti di soft law contribuisce a sua volta alla limatura delle rigidità del principio di attribuzione[12]. Dall’altro lato, gli Stati membri sono inclini ad architettare ‘esperimenti giuridici’ che deliberatamente si avvalgono delle zone grigie poste all’ombra dei confini sfrangiati del riparto di competenze. Gli spazi di residuo intervento statale e le incertezze che accompagnano i margini esterni dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione divengono così occasioni propizie per complementare l’operato dell’Unione o condurre iniziative politiche unilaterali.
Ne consegue un panorama di particolare incertezza e complessità, che il rafforzamento della dimensione esterna delle politiche di immigrazione e asilo nel Nuovo Patto pare idoneo ad amplificare ulteriormente. Come i rinvii pregiudiziali che suscitano queste brevi riflessioni evidenziano, la conclusione del Protocollo Italia-Albania costituisce dunque solo l’ultima manifestazione di un problema (per quanto di nostro interesse, giuridico) connaturato al rapporto tra Unione e Stati membri nel quadro di un processo di integrazione in costante evoluzione. Una manifestazione che, al contempo, ben illustra le traiettorie problematiche brevemente accennate.
È noto, infatti, che il sistema normativo inaugurato dal Protocollo costituisce sotto più profili un novum, proprio a cominciare dalla singolare configurazione del legame con il diritto dell’Unione europea. L’accordo, infatti, si avvale della stretta territorialità della disciplina dell’Unione in materia di asilo per (mirare a) sottrarsi dal campo di applicazione del diritto UE. Di converso, però, il Protocollo stesso richiama espressamente la normativa sul sistema europeo comune di asilo (SECA) ed estende unilateralmente ai centri realizzati in Albania l’operatività del diritto italiano di trasposizione. Inoltre, esso manifesta più punti di contatto con molteplici ambiti soggetti al diritto UE. Questa soluzione ibrida è il frutto di una fictio juris, ovverosia la qualificazione dei centri di Shenjin e Gjader quali aree di frontiera italiane, nelle quali, al di fuori del territorio dell’Unione e dunque del formale ambito operativo delle norme sul SECA, l’Italia sceglie di applicare (almeno in parte) queste ultime. Ne deriva una costruzione giuridica del tutto peculiare, che porta ad approdi sino a poco tempo fa inesplorati il grado di “legal creativity and imagination”[13] alla base degli istituti giuridici con cui commentatori ed operatori del diritto si confrontano nel definire i rapporti tra ordinamenti nel sistema europeo.
Inevitabilmente, dunque, come le ordinanze di rinvio pregiudiziale ben pongono in risalto, il Protocollo chiama in causa proprio la titolarità della competenza – dell’Unione o di uno Stato membro – a concludere con un paese terzo norme in materia di conduzione delle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. Appare dunque opportuno inquadrare sinteticamente i termini teorici della questione, allo scopo di definire il contesto concettuale dal quale muovono le ordinanze di rinvio e di evidenziarne i principali profili di interesse. La sezione che segue, pertanto, si sofferma sulle basi giuridiche che codificano nel diritto primario i casi di competenza esterna implicita dell’Unione e sulla giurisprudenza di Lussemburgo che, nei decenni, ha contribuito a chiarire la portata di questo particolare frammento del sistema delle competenze dell’Unione.
3. La competenza esterna esclusiva implicita dell’Unione europea e l’effetto di preemption: il contributo della Corte di giustizia
Nel 1971, in occasione della sentenza resa nel caso AETS[14], la Corte di giustizia ha inaugurato il principio del parallelismo delle competenze interne ed esterne. In forza di questo principio, essa ha individuato uno stretto legame tra l’adozione di norme comuni volte a regolare i rapporti giuridici all’interno dell’Unione, o a disciplinare la dimensione intra-europea di determinate politiche, e l’attribuzione all’organizzazione del potere di stipulare trattati internazionali nei medesimi ambiti.
In particolare, secondo la Corte, ogni volta che “(per la realizzazione di una politica comune prevista dal trattato) la Comunità ha adottato delle disposizioni contenenti, sotto qualsivoglia forma, norme comuni, gli Stati membri non hanno più il potere - né individualmente, né collettivamente - di contrarre con gli Stati terzi obbligazioni che incidano su dette norme”[15]. Infatti, la coerente e uniforme attuazione dei Trattati e del diritto UE non consente di “separare il regime dei provvedimenti interni alla Comunità da quello delle relazioni esterne”. In altre parole, l’esercizio della competenza interna genera un effetto di preemption che preclude agli Stati la stipulazione in via unilaterale di accordi con Stati terzi[16].
La cd. ‘dottrina’ o ‘regola AETS’ è oggi codificata nei Trattati. In particolare, per quanto qui di interesse, l’art. 3, paragrafo 2, TFUE stabilisce che l’Unione gode di “competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione […] può incidere su norme comuni o modificarne la portata.” Sebbene con alcune differenze testuali rilevate criticamente in dottrina[17], una disposizione di analogo tenore si rileva all’art. 216, paragrafo 1, TFUE, il quale inaugura il Titolo del Trattato dedicato alle procedure previste in via generale per la conclusione di accordi dell’Unione.
È bene precisare che la scelta di cristallizzare la ‘regola AETS’ nel diritto primario non ha generato modifiche tangibili al quadro teorico e giurisprudenziale di riferimento. In effetti, nonostante parte della dottrina valorizzasse alcuni tratti testuali distintivi degli artt. 3, paragrafo 2, e 216, paragrafo 1, TFUE per sostenere l’esigenza di una revisione dell’approccio ermeneutico al tema delle competenze esterne esclusive ‘implicite’[18], sin dalle prime pronunce seguite al Trattato di Lisbona la Corte ha mostrato chiaramente di voler agire in linea di piena continuità con il passato[19].
Pertanto, il percorso di progressivo affinamento delle statuizioni della Corte ha mantenuto inalterata la propria attualità. Una casistica particolarmente eterogenea ha invero consentito al giudice dell’Unione di testare a più riprese le proprie statuizioni. Al netto dell’inevitabile variabilità derivante dalle circostanze di specie, la giurisprudenza consolidatasi negli anni poggia su alcuni elementi ricorrenti, senz’altro utili per approcciarsi al Protocollo Italia-Albania nel prisma delle basi giuridiche primarie in esame.
Secondo il contributo ermeneutico della Corte di giustizia, l'effetto preclusivo derivante dall’incidenza su norme comuni o dalla modifica della loro portata presuppone due elementi valutativi principali. In primo luogo, la Corte usualmente esamina la misura in cui le norme ‘interne’ dell'UE disciplinano l'oggetto dell'accordo internazionale contestato. Al riguardo, non è sufficiente la sola presenza di norme del Trattato. È anzi richiesto che l'Unione abbia disciplinato “in larga misura” un determinato settore[20], ad esempio nell’ipotesi di una completa armonizzazione[21]. Al contempo, non è ritenuta sufficiente a giustificare il radicamento in capo all’Unione di una competenza esclusiva l’adozione di standard di base, laddove sia l’accordo internazionale che il diritto dell’Unione dispongano misure di armonizzazione minima[22].
In secondo luogo, la Corte esamina se la normativa UE pertinente sia in qualche modo influenzata dagli obblighi internazionali in questione. Questa seconda valutazione appare molto meno lineare e non sempre risponde a premesse argomentative replicabili[23]. Essa infatti poggia sull’oggetto, l’ambito operativo, lo scopo e la natura delle disposizioni pattizie interessate. Ciò implica che la Corte impernia la propria argomentazione su una (spesso molto dettagliata[24]) analisi delle circostanze di specie, con peculiare attenzione per le disposizioni sostanziali dell’accordo, così come per le procedure o i rimedi da questo eventualmente istituiti. Se le disposizioni contestate sono capaci, per il loro contenuto o i loro effetti, di compromettere “l’applicazione uniforme e coerente e il corretto funzionamento” di norme comuni[25], questo criterio di apprezzamento è senz’altro integrato. Allo stesso tempo, non è però necessario rilevare un’incompatibilità con il diritto UE rilevante. La Corte, infatti, considera più generalmente se “senza essere necessariamente in contraddizione con le norme comuni dell’Unione, gli impegni internazionali possono incidere sul significato, sulla portata e sull’efficacia di tali norme”[26]. È interessante rilevare come, in ottica estensiva, la Corte del Kirchberg abbia precisato che anche una semplice o potenziale sovrapposizione con le norme comuni dell'UE può in linea di principio integrare da sé la soglia richiesta dagli articoli 3, paragrafo 2, e 216, paragrafo 1, TFUE e attivare così l'effetto di preemption[27]. In questa prospettiva, il giudice dell’Unione ha ulteriormente rilevato come sia necessario tenere conto non solo dello stato attuale del diritto comunitario nel settore in questione, ma anche del suo sviluppo futuro, nella misura in cui esso sia prevedibile al momento dell'analisi[28].
4. Quale esito?
Benché anticipare l’esito di una futura pronuncia della Corte sia certamente aleatorio, chi scrive condivide il dubbio espresso dalla Corte d’Appello di Roma nelle ordinanze di rinvio pregiudiziale circa il possibile radicamento in capo all’Unione europea della competenza a concludere il Protocollo, almeno nella sua attuale forma. Le ordinanze, alle quali si rinvia sul punto, dettagliano con puntualità i numerosi elementi di collegamento tra l’accordo e la disciplina del SECA. In termini generali, nonostante il Protocollo tenti di tracciare un sistema parallelo al SECA stesso, la sua attuazione incide su un sostrato normativo oggetto di armonizzazione estesa e intensa, certamente idoneo ad integrare la soglia di capillarità ed esaustività richiesta dalla giurisprudenza. Né d’altra parte appare possibile per l’Italia dare applicazione selettiva agli standard europei, circostanza che peraltro materializzerebbe di per sé, con ogni probabilità, un’ipotesi di incidenza (negativa, in termini di coerenza ed uniformità) sulle norme comuni ai sensi del Trattato.
Ciò vale ancor di più in vista dell'ormai imminente piena entrata in vigore degli atti che compongono il Nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo. La direttiva qualifiche e la direttiva procedure saranno infatti sostituite da regolamenti, la cui integrale obbligatorietà renderebbe una loro applicazione incompleta o parzialmente dissonante in nuce idonea a violare l’articolo 288 TFUE. Per la stessa ragione, laddove il Protocollo e la legge italiana di ratifica non fossero aggiornate al mutato contesto normativo, l’articolo 288, paragrafo 2, TFUE e la giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di divieto di dissimulazione dell’applicabilità diretta dei regolamenti mediante disciplina interna interposta potrebbero offrire ulteriori argomenti di sistema a supporto dell’idea che le norme pattizie in esame sono suscettibili di incidere sul diritto UE rilevante[29].
Inoltre, l'articolo 54, paragrafo 3, del nuovo regolamento procedure, oltre a circoscrivere maggiormente la discrezionalità delle autorità nazionali nella definizione delle aree di frontiera, obbligherà gli Stati membri a notificare alla Commissione i luoghi in cui saranno eseguite le procedure di frontiera. Ciò genera una situazione di ‘accerchiamento giuridico’ dalla quale l’Italia avrebbe difficoltà a svincolarsi, a meno di un rinnovato ricorso ad un certo grado di inventiva politica e giuridica. Da un lato, la notifica dei centri in territorio albanese confermerebbe che l’attuazione del Protocollo costituisce parte integrante del SECA ed ha implicazioni sulle norme derivate comuni in materia. Dall’altro lato, un’eventuale mancata notificazione sarebbe problematica sotto il profilo del principio di leale cooperazione e riporterebbe in auge il divieto di applicare selettivamente i regolamenti.
In ogni caso, nell’attuale come nel futuro quadro giuridico occorre considerare uno degli argomenti principali sinora addotti a sostegno della natura ‘parallela’ del Protocollo rispetto all’ambito operativo del SECA e della conseguente assenza di punti di contatto di rilievo tra i due regimi normativi: la rigida territorialità del diritto UE d’asilo. Come risaputo, nell’assenza di riferimenti territoriali espressi nel diritto primario – ed in particolare nell’art. 78 TFUE, base giuridica di riferimento – è il diritto derivato a codificare varie clausole che limitano entro i confini del territorio degli Stati membri l’ambito di applicazione dei pilastri del SECA. Nel caso del Protocollo, le principali attività connesse alla conduzione dei centri di Shenjin e Gjader sono soggette alla piena ed esclusiva giurisdizione dell’Italia, circostanza che, tuttavia, come confermato anche dalla Corte costituzionale albanese[30], non implica in alcun modo una cessione territoriale, nemmeno di carattere temporaneo, in favore dell’Italia. La fattispecie in esame, invero, risponde alla diffusa prassi del cd. territorial leasing, in base alla quale uno Stato, usualmente in forza di un accordo internazionale, può consentire a che sul proprio territorio una controparte eserciti attività – finanche di natura coercitiva – sotto la sua giurisdizione e responsabilità[31].
Benché l’obiezione della territorialità integri un dato di realtà che non può essere taciuto, è giocoforza sollevare due contro-argomentazioni. In primo luogo, come puntualmente analizzato nelle ordinanze di rinvio pregiudiziale, l’attuazione del Protocollo stesso presuppone situazioni in cui il fattore di collegamento ‘territorio’ viene in effetti integrato. Basti pensare al trasferimento in Italia di soggetti vulnerabili, di coloro il cui trattenimento non sia convalidato e dei richiedenti rispetto ai quali la procedura di frontiera non si completi entro il termine di 28 giorni. L’elemento della territorialità appare inoltre pienamente integrato nelle fattispecie oggetto dei rinvii pregiudiziali in esame, che promanano dal nuovo corso funzionale riservato al centro di Gjader, quale centro di Permanenza e Rimpatrio. Nei casi portati all’attenzione della Corte, infatti, la richiesta di protezione internazionale è stata formulata in Albania, ma a seguito di un trasferimento dall’Italia in forza di un provvedimento di rimpatrio. In altre parole, le intersezioni tra due sistemi normativi descritti come paralleli sono numerose e vedono proprio nella territorialità un aspetto cruciale. L’obiezione in esame assume così contorni formalistici, inidonei a resistere ad una valutazione degli aspetti sostanziali della messa in opera del Protocollo.
In secondo luogo, il Protocollo potrebbe costituire l’occasione per una ragionevole mitigazione della territorialità del SECA. Come confermato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia[32], questo limite all’applicazione del diritto UE d’asilo risponde all’esigenza strutturale di evitare che il sistema europeo debba affrontare volumi eccessivi di richieste di protezione, a discapito del suo efficace funzionamento. Nel contesto dell’accordo Italia-Albania, questa preoccupazione è in tutta evidenza superata, poiché l’unico modo per accedere ai centri di Shenjin e Gjader è un trasferimento forzoso ad opera delle autorità italiane. Verrebbe dunque meno la ratio stessa della territorialità, con l’ulteriore considerazione che il regime giuridico applicabile muove dalla scelta di qualificare i due centri come aree di frontiera italiane.
Ciò posto, il seguito dei rinvii pregiudiziali – o, per meglio dire, l’incidenza di una futura pronuncia della Corte di giustizia sulla materia in esame – è inevitabilmente esposto al mutevole contesto politico, operativo e normativo. Da una prima prospettiva, il baricentro del Protocollo è già stato oggetto di revisione: mentre le strutture di Shenjin giacciono sostanzialmente inutilizzate, quelle erette a Gjader sono state riconvertite in via elettiva a Centri di Permanenza e Rimpatrio. Peraltro, questa scelta non ha mutato la sostanza di un'iniziativa ad oggi ampiamente deludente, a cominciare dal netto disequilibrio fra costi e risultati. Eppure, data l’estrema volatilità delle scelte di politica migratoria – a fortiori in un periodo di intensi negoziati in sede europea verso la piena entrata in vigore del Nuovo Patto e l’approvazione di ulteriori misure ad esso collegate – è lecito guardare al futuro con prudenza, nella ragionevole attesa di ulteriori elementi di novità.
In questo senso, un secondo elemento di rilievo è l’avanzamento del confronto in seno a Parlamento europeo e Consiglio circa la proposta della Commissione per l’adozione di un nuovo regolamento istitutivo di un sistema comune per il rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno nell'Unione è irregolare, destinato ad abrogare e sostituire, tra l’altro, la vigente direttiva 2008/115[33]. Limitatamente a quanto qui di interesse, l’art. 17 della proposta della Commissione prevede la possibilità per gli Stati membri di concludere accordi o intese con paesi terzi, aventi ad oggetto l’istituzione di centri per il rimpatrio al di fuori dell’Unione, la definizione delle procedure applicabili all’iter di trasferimento e al possibile successivo rimpatrio e gli obblighi e le responsabilità del paese terzo coinvolto. Sebbene la proposta non riguardi in alcun modo lo svolgimento di procedure di asilo all’estero, il probabile successo del percorso negoziale è destinato ad aggiungere un nuovo tassello alla configurazione del treaty-making power tra UE e Stati membri[34].
In definitiva, da un lato, lo scenario in rapido cambiamento su più linee direttrici non è idoneo a destituire di fondamento la ricevibilità dei rinvii pregiudiziali, neutralizzando le premesse di rilevanza e necessità dei quesiti interpretativi sorti nel caso di specie. Dall’altro lato, è ragionevole attendersi che gli effetti della pronuncia si inseriscano fra ulteriori nuovi approdi della dinamica proiezione esterna della politica migratoria e di asilo dell’Unione.
5.Conclusioni
Il Protocollo Italia-Albania si contraddistingue per un evidente gioco di ombre, poiché sfrutta e amplifica le ambiguità del complesso sistema di riparto di competenze tra Unione e Stati membri in materia di immigrazione e asilo. Quale che sia il reale scopo di questa scelta di legal design, i margini di incertezza applicativa sono considerevoli e – va detto – inevitabili, anche in virtù della parallela evoluzione del diritto UE rilevante, grazie al pieno ingresso a regime del Nuovo Patto. In questo quadro, dunque, la sottoposizione di quesiti interpretativi alla Corte di giustizia appariva solo questione di tempo. Essa appare in sé una buona notizia e dovrebbe essere auspicio di ogni operatore del diritto che la futura risposta della Corte – di qualunque segno essa sia – venga colta nella sua essenza tecnica, al riparo da facili strumentalizzazioni che rischierebbero di destituirla di autorevolezza.
La conduzione all’estero di procedure di asilo è un tema di particolare delicatezza ed un eventuale riconoscimento della competenza esclusiva dell’Unione in materia porrebbe un freno alle istanze di replicazione del modello Italia-Albania avanzate da altri Stati membri, riconducendo la responsabilità di eventuali iniziative a scelte comuni. In questa ipotesi, d’altra parte, rimarrebbe comunque da verificare la reale fattibilità di esperienze di questo genere, che in ogni caso richiederebbero il dispiegamento di personale e risorse degli Stati membri e, con ogni probabilità, un rafforzamento dei poteri dell’Agenzia europea per l’asilo. Nel caso in cui la Corte riconoscesse che la materia rientra fra le attribuzioni residue degli Stati, tornerebbe in auge il problema del ruolo del diritto dell’Unione, che il modello Italia-Albania ed il funzionamento stesso del SECA chiamano in causa. Laddove la Corte intraprendesse questa strada, si troverebbe con ogni probabilità ad avvalorare il tradizionale assetto in forza del quale l’esercizio delle attribuzioni statali è comunque sottoposto al rispetto dei principi generali dell’ordinamento UE. La Corte sarebbe inoltre tenuta a preservare l’unità e la coerenza delle norme di diritto UE che il Protocollo stesso richiama, confermando la propria giurisdizione in sede interpretativa.
In entrambe le circostanze, la Corte potrebbe comunque cogliere l’occasione per statuire sui profili di possibile incompatibilità materiale tra la disciplina del Protocollo e gli standard fissati dal diritto UE in materia di protezione internazionale. Questa è infatti una criticità connaturata all’essenza stessa del meccanismo realizzato con questo accordo, poiché eventuali discrasie derivano dal mero dato geografico, che è causa inevitabile di sfide operative non superabili. I tempi dei trasferimenti, la difficile valutazione sulla vulnerabilità dei migranti in un contesto di scarsità di personale specializzato, la garanzia di adeguati standard di tutela della salute, la piena esplicazione del diritto alla difesa sono solo alcune delle questioni che l’attuazione del Protocollo pone in via obbligatoria, per il semplice fatto della collocazione all’estero del centro di Gjader. In ultima analisi, pertanto, l’eventuale posizionamento della Corte su questi aspetti equivarrebbe, a seconda dei casi, ad un avallo condizionato a regimi paralleli al SECA o ad una definitiva presa di coscienza della loro materiale impraticabilità, alla luce degli odierni standard che il diritto UE (unitamente, verrebbe da dire, alle garanzie costituzionali) pone.
[1] Causa C-706/25 PPU, Comeri.
[2] Ordinanza del 5 novembre 2025, causa C-707/25 PPU, Sidilli; ordinanza del 17 novembre 2025, causa C-736/25, Peordi; ordinanza del 17 novembre 2025, causa C-737/25, Peordi II.
[3] Cfr. artt. 3, paragrafo 2, e 216, paragrafo 1, TFUE.
[4] Cfr. ad esempio A De Leo e Celoria, The Italy–Albania Protocol: A new model of border-shifting within the EU and its compatibility with Union law, in Maastricht Journal of European and Comparative Law, 2024, p, 595. Sia anche permesso rinviare a S Montaldo, Not in my backyard! Outsourcing EU asylum procedures to third countries: A challenge for the Common European Asylum System, in Common Market Law Review, 2025, p. 327.
[5] Inter alia, A Saccucci, Il Protocollo Italia-Albania sui migranti, in Rivista di Diritto Internazionale, 2024, p. 661; A del Guercio, Lasciate ogni speranza, o voi che… sperate di entrare. Osservazioni a margine dell’intesa Italia-Albania, in Diritti Umani e Diritto Internazionale, 2024, p. 548.
[6] Si pensi, a titolo esemplificativo, ad alcune formule inserite negli artt. 2, 7, 13 e 14 TFUE, negli artt. 4 e 5 TUE e nell’art. 51 della Carta.
[7] LS Rossi, Does the Lisbon Treaty Provide a Clearer Separation of Competences between EU and Member States?, in A Biondi, P Eeckhout, S. Ripley (a cura di), EU Law after Lisbon, Oxford, Oxford University Press, 2012, p. 85.
[8] M Dougan, EU Competences In An Age Of Complexity And Crisis: Challenges And Tensions In The System Of Attributed Powers, in Common Market Law Review, 2023, p. 93.
[9] V. l’art. 79, comma 3, TFUE.
[10] Sul punto v., ad esempio, E Frasca e E Roman, The informalisation of EU readmission policy: Eclipsing human rights protection under the shadow of informality and unconditionality, in European Papers, 2023, p. 931.
[11] V. la proposta di classificazione delle misure di esternalizzazione proposta da E Xanthopoulou, Mapping externalisation devices through a critical eye, in European Journal of Migration and Law, p. 108.
[12] V. le riflessioni di M. Dawson, Integration through soft law: no competence needed? Juridical and bio-power in the realm of soft law, in S Garben e I Govaere (a cura di), The division of competences between the EU and the member States, Londra, 2017, p. 249
[13] Queste, non a caso, le parole usate dall’allora Presidente della Commissione europea Barroso nel periodo immediatamente precedente alla Brexit, quale possibile via di uscita dal recesso del Regno Unito. Parole poi riprese dalla Premier britannica Theresa May per descrivere l’approccio negoziale all’accordo di recesso: v. https://www.euronews.com/2019/02/19/eu-can-still-compromise-over-brexit-ex-commission-president-says.
[14] Sentenza della Corte del 31 marzo 1971, causa 22/70, Commissione delle Comunità europee contro Consiglio delle Comunità europee (Accordo europeo trasporti su strada).
[15] Ibid., punti 16/19.
[16] A Arena, Il principio della preemption in diritto dell’Unione europea. Esercizio delle competenze e ricognizione delle antinomie tra diritto derivato e diritto nazionale, Napoli, 2013, spec. pp. 103 ss.
[17] V ad es C Kaddous, The EU Competence to Conclude New Generation Free Trade Agreements: Opinion 2/15 (EU-Singapore FTA), in G Butler e R Wessels (a cura di), EU External Relations Law: The Cases in Context, Oxford, 2022, p. 902.
[18] Nelle prime cause post-Lisbona, anche gli Stati membri hanno – infruttuosamente - tentato di argomentare a favore di una lettura più restrittiva delle condizioni per il riconoscimento della competenza esterna esclusiva in capo all’Unione: v ad es. i punti 72 e 73 della sentenza della Corte del 4 settembre 2014, causa C-114/12, Commissione c. Consiglio (convenzione del Consiglio d’Europa relativa ai diritti connessi degli organismi di radiodiffusione).
[19] Sentenza della Corte del 4 settembre 2014, causa C.114/12, Commissione c. Consiglio (convenzione del Consiglio d’Europa relativa ai diritti connessi degli organismi di radiodiffusione); parere 1/13, del 14 ottobre 2014, sulla Convenzione sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori; sentenza della Corte del 26 novembre 2014, causa C-6/13, Green Network SpA. In dottrina, v. M Chamon, Implied exclusive powers in the ECJ’s post-Lisbon jurisprudence: the continued development of the ETA doctrine, in Common Market Law Review, 2018, p. 1101.
[20] Parere 2/15, del 16 maggio 2017, Accordo di libero scambio tra l’Unione europea e la Repubblica di Singapore, punti 197 e 206.
[21] Parere 3/15, del 14 febbraio 2017, Conclusione del Trattato di Marrakech, volto a facilitare l’accesso alle opere pubblicate per le persone non vedenti, con disabilità visive o con altre difficoltà nella lettura di testi a stampa, punto 118.
[22] Parere 2/00, del 6 dicembre 2001, Conclusione del Protocollo di Cartagena, punto 46.
[23] Schutze descrive l’approccio della Corte come un “informed chaos in which the Court selects its precedents in a relatively arbitrary way”. Cfr. R Schütze, European Union Law, Oxford, 2021, p. 283.
[24] In dottrina, al riguardo, si è parlato di “painstaking analysis of details”: J Wouters, F Hoffmeister, G De Baere e T Ramopoulos, The Law of EU External Relations, Oxford, 2021, p. 11.
[25] Parere 1/03, del 7 febbraio 2006, Competenza della Comunità a stipulare la nuova Convenzione di Lugano, punto 133.
[26] Sentenza della Corte del 20 novembre 2018, cause riunite C-626/15 e C-659/15, Commissione c Consiglio, punto 114.
[27] Parere 2/15, cit., punti 201 e 229.
[28] Parere 1/91, del 14 dicembre 1991, Progetto di accordo tra la Comunità ed i paesi dell'Associazione europea di libero scambio relativo alla creazione dello Spazio economico europeo, punto 25.
[29] V. ad esempio la sentenza della Corte, del 10 ottobre 1973, causa 34/73, Fratelli Variola Spa v Amministrazione italiana delle finanze.
[30] Corte costituzionale dell’Albania, sentenza V2-24 del 29 gennaio 2024, a comento della quale v ad esempio D Veshi, E Koka e K Haxhia, Comments on the Albanian Constitutional Court V2-24: Is the Italy-Albanian Protocol Regarding Illegal Migration Constitutional?, in Ordine internazionale e diritti umani, 2024, p. 305.
[31] MJ Strauss, Territorial Leasing in Diplomacy and International Law, Leiden, 2015, pp. 70–96.
[32] Sentenza della Corte del 7 marzo 2017, causa C-638/16 PPU, X e X c Belgio, punti 48 e 49. Va inoltre ricordato come questa pronuncia – generalmente portata ad esempio della territorialità ‘stretta’ del diritto UE di asilo, abbia la propria radice fattuale in una richiesta di protezione formulata presso una rappresentanza diplomatica., fattispecie che la direttiva procedure stessa esclude dal proprio ambito di applicazione, senza aggiungere riferimenti ad ulteriori situazioni. In altre parole, la pronuncia in esame sembra in verità avere una portata molto più circoscritta di quella che le è stata spesso riconosciuta.
[33] Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce un sistema comune per il rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno nell'Unione è irregolare e che abroga la direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, la direttiva 2001/40/CE del Consiglio e la decisione 2004/191/CE del Consiglio, COM(2025)101 dell’11 marzo 2025
[34] È bene precisare che la proposta della Commissione puntualizza che la conclusione di questi accordi costituirà una ‘attuazione del diritto dell’Unione’ da parte degli Stati membri, ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali, così risolvendo ab origine ogni dubbio circa la piena applicabilità di questo strumento.
