Sommario: 1. Il testo normativo – 2. La relazione illustrativa – 3. La portata della norma – 4. Il regime intertemporale - 5. Le limitazioni probatorie – 6. La distribuzione dell’onere probatorio – 7. La discrezionalità del legislatore – 8. Il principio di vicinanza della prova – 9. La giurisprudenza della Corte Costituzionale – 10. Conseguenze della limitazione dei mezzi di prova -10. Conseguenze della nuova distribuzione dell’onere probatorio.
1. Il testo normativo
L’art.1, comma 2, del d.l. 28.3.2025, n. 36 convertito, con modificazioni, in legge 23.5.2025, n. 74, recante «Disposizioni urgenti in materia di cittadinanza», ha apportato alcune modifiche all’articolo 19-bis del d.lgs. 1.9.2011, n. 150 (cosiddetto «decreto riti»).
La rubrica è stata aggiornata con l’estensione del riferimento anche alle controversie in tema di cittadinanza, sì da suonare «Controversie in materia di accertamento dello stato di apolidia e di cittadinanza italiana».
L’articolo, introdotto nel decreto riti con l’articolo 7, comma 1, lettera d), del d.l. 17.2.2017, n. 13[1], si riferiva originariamente solo alle controversie in materia di apolidia ed era stato esteso con la legge di conversione del 13.4.2017, n. 46, anche alle controversie in materia di cittadinanza, senza però che si provvedesse al debito aggiornamento della rubrica.
I primi due commi, rimasti immutati, regolano rispettivamente il rito e la competenza territoriale, laddove dispongono:
«1. Le controversie in materia di accertamento dello stato di apolidia e di cittadinanza italiana sono regolate dal rito semplificato di cognizione.
2. È competente il tribunale sede della sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea del luogo in cui il ricorrente ha la dimora.»
Il primo comma era stato modificato in sede di «Riforma Cartabia»[2].
Il secondo comma, relativo alla competenza territoriale, deve essere coordinato con il disposto dell’art.4, comma 5 del d.l. n. 13/2017 convertito con modificazioni dalla legge 46/2017, che ha assegnato la competenza per le controversie di accertamento dello stato di cittadinanza italiana sulla base del comune di nascita del padre, della madre o dell’avo cittadini italiani, in caso di residenza all’estero dell’attore.[3]
Con il d.l. 36 del 2025 sono stati aggiunti:
- il comma 2-bis che dispone «Salvi i casi espressamente previsti dalla legge, nelle controversie in materia di accertamento della cittadinanza italiana non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale»;
- il comma 2-ter che dispone «Nelle controversie in materia di accertamento della cittadinanza italiana chi chiede l’accertamento della cittadinanza è tenuto ad allegare e provare l’insussistenza delle cause di mancato acquisto o di perdita della cittadinanza previste dalla legge».
2. La relazione illustrativa
L’intervento normativo è stato così spiegato nella relazione illustrativa[4]:
«In virtù di quanto previsto dall’articolo 1, comma 2, l’onere di provare l’insussistenza della preclusione all’acquisto sancita dal nuovo articolo 3-bis della legge n. 91/1992 incombe sul richiedente il riconoscimento della cittadinanza e non sono ammessi come prova il giuramento e la prova testimoniale.
In particolare, il nuovo comma 2-ter dell’articolo 19-bis del decreto legislativo n. 150/2011 prevede una specifica disciplina dell’onere della prova nell’ambito delle controversie in materia di cittadinanza. In base alla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 25317/2022, chi reclama il possesso della cittadinanza iure sanguinis ha solo l’onere di provare il vincolo di discendenza, essendo assegnato allo Stato (rappresentato usualmente dall’Amministrazione dell’Interno) l’onere di provare la sussistenza di eventuali cause interruttive ostative all’acquisto o al mantenimento della cittadinanza. Tale distribuzione dell’onere della prova non è adeguata alla realtà concreta delle controversie in materia di cittadinanza, nella quale coloro che chiedono l’accertamento sono gli unici ad avere accesso ai fatti e ai documenti rilevanti. Invero, la legge ha previsto (almeno fino al 15 agosto 1992) significativi eventi interruttivi dell’acquisto o del mantenimento della cittadinanza, tutti riconducibili a situazioni venute in essere in ordinamenti stranieri (trasferimenti di residenza, acquisti volontario di cittadinanza straniera, esercizio volontario di diritti politici a seguito dell’acquisto non volontario di cittadinanza straniera). Non è in tale contesto ragionevole imporre allo Stato l’onere (anche finanziario) della ricerca in archivi stranieri di tali fatti e situazioni, peraltro assai risalenti nel tempo. In effetti, la distribuzione dell’onere della prova delineata dalla suddetta pronuncia stabilisce un indebito vantaggio nei confronti dei ricorrenti e un irragionevole onere finanziario a carico dello Stato italiano, premiando in maniera irragionevole situazioni di prolungata inerzia degli interessati.»
3. La portata della norma
Le nuove disposizioni si riferiscono a tutte le controversie in cui è richiesto l’accertamento dello stato di cittadinanza italiana e quindi a tutte le controversie attribuite alla giurisdizione ordinaria che riguardano, appunto, l’accertamento dello status e non comportano pronunce costitutive.
Le nuove norme, quindi, non si riferiscono ai giudizi in tema di cittadinanza devoluti al giudice amministrativo.
Il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in tema di acquisto della cittadinanza italiana si basa sulla natura della situazione giuridica soggettiva azionata, in difetto di attribuzioni di giurisdizione esclusiva, e quindi sulla distinzione tra le ipotesi in cui l’interessato è titolare di un diritto soggettivo all’acquisto della cittadinanza e quelle in cui vanta un interesse legittimo.
Le controversie relative alla cittadinanza, relative a uno status della persona, sono attribuite al giudice ordinario nei casi in cui lo status civitatis è attribuito o perduto ex lege. Sono invece di competenza del giudice amministrativo le controversie in materia di acquisto della cittadinanza per concessione, perché in tal caso viene in rilievo l’esercizio di un potere discrezionale da parte dell’amministrazione, di fronte al quale l’interessato è titolare di un mero interesse legittimo.
Su questa base, la giurisprudenza ha riconosciuto la giurisdizione del giudice ordinario per l’acquisto della cittadinanza italiana nei casi previsti dagli artt. da 1 a 5 della legge n. 91 del 5.2.1992, che concernono appunto ipotesi in cui occorre procedere all’accertamento dei requisiti di un diritto soggettivo.
Competono quindi alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria le controversie aventi ad oggetto le fattispecie di acquisto automatico o volontario, fatta eccezione per quelle, riguardanti l’acquisto da parte del coniuge straniero o apolide di un cittadino italiano, nelle quali si controverta della sussistenza delle esigenze di sicurezza pubblica ostative al riconoscimento, che restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, così come quelle riguardanti le ipotesi di acquisto per concessione, fra cui anche quella di cui all’art. 9, comma 1, lett. f).
Infatti il Giudice del riparto ha affermato che, in tema di acquisto della cittadinanza italiana per iuris communicatio, il diritto soggettivo del coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano affievolisce ad interesse legittimo solo in presenza dell’esercizio, da parte della pubblica amministrazione, del potere discrezionale di valutare l’esistenza di motivi ostativi inerenti alla sicurezza della Repubblica. Di conseguenza, una volta precluso l’esercizio di tale potere, in caso di mancata emissione del decreto di acquisto della cittadinanza, così come di rigetto della relativa istanza, ove si contesti solamente la ricorrenza degli altri presupposti tassativamente indicati dalla legge, sussiste il diritto soggettivo del richiedente che può adire il giudice ordinario per far accertare la propria cittadinanza italiana.[5]
D’altro canto, la giurisdizione del giudice amministrativo viene riconosciuta con riferimento alle controversie concernenti l’acquisto della cittadinanza per concessione, ai sensi del predetto art. 9, in quanto, oltre alla valutazione inerente ai requisiti necessari e alle cause ostative, permane in capo all’amministrazione il potere di esercitare valutazioni e scelte ampiamente discrezionali, capaci di attrarre le relative controversie alla giurisdizione generale di legittimità. Tali valutazioni e scelte, infatti, si traducono in un apprezzamento di opportunità circa lo stabile inserimento dello straniero nella comunità nazionale, sulla base di un complesso di circostanze idonee a dimostrare la sua integrazione sociale, sotto il profilo delle condizioni lavorative, economiche, familiari e della condotta di vita.
4. Il regime intertemporale
Un’attenta riflessione deve essere dedicata al regime intertemporale della nuova disciplina di cui commi 2-bis e 2-ter novellati dell’art.19-bis del decreto 150 del 2011.
In particolare, si discute se essa – in assenza di una norma transitoria - possa essere applicata ai giudizi in corso, anche se la sua entrata in vigore è avvenuta il giorno successivo alla pubblicazione del decreto legge sulla Gazzetta Ufficiale del 28.3.2025, e quindi il 29.3.2025.
Da un lato, si potrebbe sostenere che le norme siano «meramente processuali», pertanto soggette al principio tempus regit actum e quindi applicabili ai giudizi in corso. Secondo l’opposto orientamento, la normativa avrebbe natura sostanziale e pertanto non troverebbe applicazione che ai giudizi iniziati dal 29.3.2025.
Questo secondo orientamento si fa di gran lunga preferire[6] per una pluralità di convergenti considerazioni.
In primo luogo, secondo autorevole dottrina processual-civilistica, le norme sulla prova possiedono natura sostanziale quando orientano i comportamenti dei consociati e incidono sul contenuto della decisione.
Interessanti al proposito appaiono le osservazioni proposte dall’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione[7] al momento della entrata in vigore del primo decreto «Paesi sicuri», che possono offrire un utile paradigma di riferimento: «Chi si è occupato in modo specifico del problema con riferimento al decreto sui Paesi sicuri ha tuttavia osservato, sulla scorta degli approdi di autorevole dottrina processualcivilistica, che le norme sulla prova non si applicano retroattivamente quando non si limitino a modificare semplicemente gli strumenti processuali utilizzabili dal giudice, ma orientino i comportamenti dei consociati e incidano sul contenuto della decisione finale[8].Si tratterebbe in questo caso di norme primarie e materiali, come tali irretroattive. In effetti, anche la giurisprudenza di legittimità è orientata a ritenere che le presunzioni abbiano natura sostanziale e non processuale, con conseguente irretroattività delle norme che le introducano nel corso del giudizio.[9]Alla luce di tale orientamento, sembrerebbe potersi affermare che anche il decreto di designazione dei Paesi sicuri e le norme la cui efficacia era subordinata alla sua emanazione non possano trovare applicazione alle domande amministrative e giudiziali presentate prima dell’entrata in vigore del d. intermin., ossia prima del 22 ottobre 2019. Ne dovrebbe scaturire, rispetto a tali domande, oltre all’inoperatività della presunzione relativa…».
In secondo luogo, allo stesso approdo sospinge la doverosa considerazione dei principi del giusto processo e dell’affidamento incolpevole che impongono di non modificare in corso di causa i criteri di valutazione delle prove e di non penalizzare conseguentemente le impostazioni e le strategie processuali formulate dalle parti nel vigore di una precedente normativa e gli affidamenti che ne derivano circa l’esito della lite.
La Corte di Cassazione[10]ha ragionato sostanzialmente in questa direzione allorché ha affermato che « In tema di protezione internazionale, l’inserimento del paese di origine del richiedente nell’elenco dei "paesi sicuri" produce l’effetto di far gravare sul ricorrente l’onere di allegazione rinforzata in ordine alle ragioni soggettive o oggettive per le quali invece il paese non può considerarsi sicuro, soltanto per i ricorsi giurisdizionali presentati dopo l’entrata in vigore del d.m. 4 ottobre 2019, poiché i principi del giusto processo ostano al mutamento in corso di causa delle regole cui sono informati i detti oneri di allegazione, restando comunque intatto per il giudice, a fronte del corretto adempimento di siffatti oneri, il potere-dovere di acquisire con ogni mezzo tutti gli elementi utili ad indagare sulla sussistenza dei presupposti della protezione internazionale.».
Per queste stesse ragioni non sembra sostenibile l’applicazione a processo in corso di una diversa distribuzione dell’onere probatorio, dopo che le parti hanno proposto le loro allegazioni, difese e istanze istruttorie, o addirittura dopo che la causa è già stata istruita.
In terzo luogo, la tesi dell’applicabilità ai giudizi in corso imporrebbe ai giudici di assicurare il rispetto dei diritti alla difesa in giudizio e al giusto processo con un provvedimento di rimessione in termini per la formulazione di allegazioni e istanze di prova, precedentemente non formulate e solo ora divenute necessarie. Il silenzio al riguardo del legislatore appare perciò significativo: il principio di economia di Guglielmo di Occam secondo cui «entia non sunt multiplicanda sine necessitate» suffraga ulteriormente l’assunto della non immediata applicabilità delle nuove disposizioni ai giudizi in corso.
Infine la lettera b) del novellato art.3-bis della legge 91 del 1992[11] espressamente dispone che lo stato di cittadino dell’interessato è accertato giudizialmente, nel rispetto della normativa applicabile al 27.3.2025, a seguito di domanda giudiziale presentata non oltre le 23:59, ora di Roma, della medesima data.
5. Le limitazioni probatorie
Come si è detto, il comma 2-bis incide sulla tipologia di mezzi di prova ammissibili nelle controversie in tema di accertamento della cittadinanza[12] escludendo espressamente il giuramento e la prova testimoniale.
La pur amplissima ed erudita relazione illustrativa, che si sofferma solo sulla disposizione in tema di distribuzione dell’onere probatorio, è silente al proposito.
La spiegazione che è stata offerta da taluni nel senso della natura normalmente documentale di questa tipologia di controversie, in cui assume rilievo centrale la prova del rapporto di filiazione attraverso la produzione dell’atto di nascita, lascia insoddisfatti se si considera che in questa prospettiva la novità normativa non si baserebbe su alcuna reale esigenza di adeguamento. Non si può che restar perplessi se un intervento, per giunta attuato con decreto legge per straordinarie ragioni di necessità ed urgenza, viene giustificato con la spiegazione che esso non modificherebbe alcunché.
Per altro verso, la Novella non è affatto indolore: non tanto per l’esclusione del giuramento, indubbiamente del tutto infrequente, quanto della prova testimoniale in casi particolari. Soprattutto - e qui sorge il dubbio che il legislatore implicitamente plus dixit quam voluit - l’esclusione della prova testimoniale porta con sé, per effetto dell’art.2729, comma 2, c.c. l’esclusione del ricorso alle presunzioni semplici ossia della prova presuntiva rimessa alla prudenza del giudice, allorché le conseguenze tratte da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato (art.2727 c.c.) siano gravi, precise e concordanti.
È doveroso, tuttavia, rammentare che la norma con l’inciso iniziale introduce una clausola di salvaguardia che fa salvi i casi espressamente previsti dalla legge.
L’art.2724 c.c., che per vero trova il suo terreno di elezione in materia contrattuale, ammette in ogni caso la prova per testimoni:
1) quando vi è un principio di prova per iscritto (costituito da qualsiasi scritto, proveniente dalla persona contro la quale è diretta la domanda o dal suo rappresentante, che faccia apparire verosimile il fatto allegato);
2) quando il contraente è stato nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta;
3) quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova.
Ancor più pertinente ai fini della clausola di salvaguardia appare l’art.241 c.c. che prevede che quando mancano l’atto di nascita e il possesso di stato, la prova della filiazione possa essere data in giudizio con ogni mezzo.
6. La distribuzione dell’onere probatorio
Il nuovo comma 2-ter dell’art.19-bis d.lgs.150/2011 incide sia sull’onere di allegazione sia sull’onere della prova e attribuisce entrambi a colui che agisce per l’accertamento della cittadinanza italiana, laddove dispone che chiede l’accertamento della cittadinanza è tenuto ad allegare e provare l’insussistenza delle cause di mancato acquisto o di perdita della cittadinanza previste dalla legge.
In tal modo il legislatore sembra aver inteso derogare alla regola generale contenuta nell’art.2697 c.c. e alla sua applicazione in materia di controversie sulla cittadinanza, così come recepita dal diritto vivente.
Le sentenze n. 25317 e 25318 del 24.8.2022 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affrontato infatti anche il tema dell’onere della prova nei giudizi di riconoscimento della cittadinanza e hanno affermato che colui che richiede il riconoscimento deve provare solo il fatto acquisitivo e la linea di trasmissione e che incombe sull’amministrazione eccipiente la prova dell’eventuale fattispecie impeditiva/estintiva. Tale ripartizione probatoria predicata dal diritto vivente era conforme alla struttura della fattispecie e al riparto disegnato dall’art.2697 c.c.: l’acquisto della cittadinanza operava come fatto costitutivo, il cui onere incombeva sul richiedente il riconoscimento dello status e la perdita della cittadinanza agiva quale fatto estintivo, il cui onere gravava su chi si opponeva al suo riconoscimento[13].
L’intervento così attuato stimola alcuni interrogativi.
a) Il legislatore può derogare con riferimento a un singolo istituto o gruppo di controversie, alle regole fissate dall’art.2697 c.c., secondo il quale «Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda»?
b) Nel caso in questione il legislatore lo ha fatto?
c) La discrezionalità legislativa al proposito è assoluta o incontra dei limiti nella Costituzione o nel diritto dell’Unione Europea?
La risposta ai primi due interrogativi sembra positiva.
Quanto al quesito sub a) l’art.2697 c.c. è norma di legge ordinaria e quindi può essere oggetto di deroga ad opera di atto avente forza di legge.
Non si potrebbe neppure escludere che la discrezionalità del legislatore si possa spingere sino ad accollare a una parte l’onere della prova di fatti negativi.
Il principio espresso dal brocardo «negativa non sunt probanda», secondo la giurisprudenza di legittimità, non ha fondamento normativo. La Cassazione è ferma nell’affermare che l’onere probatorio gravante su chi intende far valere in giudizio un diritto, ovvero su chi eccepisce la modifica o l’estinzione del diritto da altri vantato, non subisce deroga neanche quando abbia ad oggetto “fatti negativi”, in quanto la negatività dei fatti oggetto della prova non esclude né inverte il relativo onere, che grava pur sempre sulla parte che fa valere il diritto di cui il fatto, pur se negativo, ha carattere costitutivo; tuttavia, poiché non è possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova può esser data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, o anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo.[14]
Anche la risposta al quesito sub b) appare positiva: sembra innegabile che l’onere sia stato esteso dal legislatore del 2025, in deroga all’art.2697 c.c., anche oltre i fatti costitutivi, sino a ricomprendere anche i fatti estintivi o impeditivi, visto che esso include l’insussistenza delle cause di mancato acquisto o di perdita della cittadinanza previste dalla legge. Ovvero, ma la sostanza non cambia, potrebbe sostenersi che i fatti impeditivi sono stati trasformati ex lege in fatti costitutivi negativi il cui onere (sia assertivo, sia probatorio) incombe sulla parte attrice che chiede l’accertamento della cittadinanza italiana.
Le conseguenze della modifica normativa, accennate nella relazione ministeriale, sovvertono quindi la regola di riparto enunciata dalle Sezioni Unite nelle sentenze n.25317 e 25318 del 2022, ove era stato affermato «Ne segue che, ove la cittadinanza sia rivendicata da un discendente, null’altro – a legislazione invariata - spetta a lui di dimostrare salvo che questo: di essere appunto discendente di un cittadino italiano; mentre incombe alla controparte, che ne abbia fatto eccezione, la prova dell’evento interruttivo della linea di trasmissione.»
Nelle controversie in tema di cittadinanza, oltre alla prova della discendenza per filiazione da un antenato cittadino italiano, occorre infatti sovente verificare se vi sia stata perdita della cittadinanza in capo agli antenati cittadini italiani la cui linea di discendenza per filiazione viene invocata in giudizio e a tal fine è necessario riferirsi alle norme di legge applicabili ratione temporis.
Il Codice civile del Regno d’Italia del 1865, all’art. 11, disciplinava la fattispecie estintiva nel seguente modo: “La cittadinanza si perde: 1. Da colui che vi rinunzia con dichiarazione davanti l’uffiziale dello stato civile del proprio domicilio, e trasferisce in paese estero la sua residenza; - 2. Da colui che abbia ottenuto la cittadinanza in paese estero; 3. Da colui che, senza permissione del governo, abbia accettato impiego da un governo estero, o sia entrato al servizio militare di potenza estera”.
L’art.8 della legge speciale sulla cittadinanza n. 555 del 1912 aveva invece disposto: «Perde la cittadinanza: 1° chi spontaneamente acquista una cittadinanza straniera e stabilisce o ha stabilito all’estero la propria residenza; 2° chi, avendo acquistata senza concorso di volontà propria una cittadinanza straniera, dichiari di rinunziare alla cittadinanza italiana, e stabilisca o abbia stabilito all’estero la propria residenza. Può il Governo nei casi indicati ai nn. 1 e 2 dispensare dalla condizione del trasferimento della residenza all’estero. 3° chi, avendo accettato impiego da un Governo estero od essendo entrato al servizio militare di potenza estera, vi persista nonostante l’intimazione del Governo italiano di abbandonare entro un termine fissato l’impiego o il servizio.”
Pertanto il richiedente che invoca la cittadinanza per discendenza da un antenato italiano trasferitosi all’estero dovrà allegare e dimostrare che l’antenato in questione non ha «ottenuto » (periodo 1865-1912) o «spontaneamente acquistato» (1912- 1992) la cittadinanza straniera[15], o non ha rinunciato alla cittadinanza italiana, o ancora non ha accettato un impiego da un governo estero o ha prestato servizio militare per una potenza straniera nonostante l’intimazione del Governo italiano di desistervi.
La relazione illustrativa sopra citata si riferisce, senza maggiori precisazioni, anche all’ «esercizio volontario di diritti politici a seguito dell’acquisto non volontario di cittadinanza straniera». Questo riferimento non è del tutto comprensibile e probabilmente si riferisce a tesi difensive prospettate dall’Amministrazione, che tuttavia non trovano riscontro nel diritto vivente, perché la giurisprudenza di legittimità non attribuisce alcun rilievo in termini di perdita della cittadinanza italiana all’iscrizione dell’antenato italiano nelle liste elettorali e all’esercizio del diritto di voto dopo l’acquisto non volontario della cittadinanza dello Stato straniero di emigrazione.
È evidente che il comma 2-ter accolla al richiedente un onere assertivo e soprattutto probatorio particolarmente gravoso, che rasenta in alcuni casi la probatio diabolica.
Quest’onere appare ulteriormente appesantito se si considera che, salve le eccezioni espressamente previste dalla legge, la prova può essere solamente documentale poiché il comma 2-bis del novellato art.19-bis del d.lgs.150/2022 preclude il ricorso al giuramento e soprattutto alla prova testimoniale; l’art.2729, 2° comma, c.c. esclude inoltre il ricorso alla prova presuntiva (tradizionalmente ammessa dalla giurisprudenza per soddisfare l’onere probatorio in tema di fatti negativi) quale conseguenza del divieto di prova testimoniale.
La norma poi si pone in controtendenza rispetto al codice del processo amministrativo (d.lgs. 2.7.2010 n.104) che si applica ai giudizi in tema di cittadinanza devoluti al giudice amministrativo e all’art.63 assicura l’ammissibilità di un ampio ventaglio di mezzi di prova. Questa discriminazione non appare agevolmente giustificabile e suona financo paradossale se si constata che le limitazioni dei mezzi di prova gravano maggiormente sul giudice del rapporto che sul giudice del provvedimento.
A questo punto occorre affrontare il quesito sub c) che attiene alla portata della discrezionalità riservata al legislatore nel derogare al principio generale di cui all’art. 2697 c.c.
7. La discrezionalità del legislatore
La risposta corretta è che la pur sussistente discrezionalità del legislatore ordinario non è assoluta e non può superare i limiti della ragionevolezza e della proporzionalità nella elaborazione delle regole di riparto, senza contraddire i principi fissati dagli artt.2, 3 e soprattutto 24 e 111 della Costituzione.
Non avrebbe senso infatti riconoscere un diritto e il conseguente diritto di agire in giudizio per il suo riconoscimento se la prova richiesta fosse così gravosa da risultare in concreto impossibile; né si potrebbe ritenere che un processo siffatto sia giusto, equo e imparziale e rispettoso delle condizioni di parità.
In varie occasioni la giurisprudenza della Cassazione e delle Sezioni Unite[16] ha ravvisato, dapprima implicitamente e poi esplicitamente, uno specifico collegamento («ancoraggio») fra l’art.24 della Costituzione e la regola dell’onere probatorio.
Da ultimo, nella sentenza delle Sezioni Unite n.11748 del 3.5.2019, la Cassazione, dopo aver ricordato che il principio di vicinanza della prova ha trovato la sua prima compiuta enunciazione nella fondamentale sentenza delle Sezioni Unite n. 13533 del 2001, declinato nel senso che l’onere della prova deve essere «ripartito tenuto conto, in concreto, della possibilità per l’uno o per l’altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione», ha affermato che l’ancoraggio di tale principio all’articolo 24 della Costituzione, già implicito nella pronuncia del 2001, è stato poi reso esplicito nelle pronunce successive. La sentenza n. 13533 del 2001 ritiene il principio della vicinanza della prova «coerente alla regola dettata dall’art. 2697 c.c., che distingue tra fatti costitutivi e fatti estintivi» e il criterio della vicinanza/distanza della prova viene in sostanza utilizzato per distinguere i fatti costitutivi della pretesa (identificati con quelli che sono nella disponibilità dell’attore, che il medesimo ha l’onere di provare) dai fatti estintivi o modificativi o impeditivi, identificati con quelli che l’attore non è in grado di provare e che, pertanto, devono essere provati dalla controparte. In pronunce successive, per contro, il criterio della vicinanza/distanza della prova non appare più collegato al disposto dell’articolo 2697 c.c. e viene utilizzato come un temperamento della partizione tra fatti costitutivi e fatti estintivi, modificativi od impeditivi del diritto, idoneo a spostare l’onere della prova su una parte diversa da quella che ne sarebbe gravata in base a questa ripartizione.
8. Il principio di vicinanza della prova
Si è sostenuto che con le disposizioni in esame e in particolare con il nuovo comma 2-ter, nel modificare la distribuzione dell’onere della prova, il legislatore abbia fatto applicazione del principio della vicinanza della prova, posto che gli eventi accaduti nello Stato straniero di emigrazione riguardanti l’antenato italiano emigrati sarebbero più prossimi (e quindi più agevoli da dimostrare) per il richiedente che per lo Stato italiano.
Secondo il c.d. principio di vicinanza (o prossimità) della prova l’onere della prova deve essere ripartito tenendo conto in concreto della possibilità per l’uno o per l’altro dei contendenti di provare circostanze che ricadono nelle rispettive sfere d’azione, per cui è ragionevole gravare dell’onere probatorio la parte a cui è più vicino il fatto da provare. Ciò significa che, al fine di provare un fatto, l’onere della prova potrà incombere sul soggetto che è più prossimo, vicino, alla fonte di prova.
Il rapporto tra l’articolo 2697 c.c. e il principio della vicinanza della prova è per vero assai controverso: per taluni il principio costituisce la ratio ispiratrice e fondante dell’art.2697 c.c.; secondo altri si tratterebbe di un criterio integrativo di cui avvalersi in sede interpretativa per risolvere i casi dubbi; per altri ancora si tratterebbe di una deroga temperatrice al canone espresso dall’articolo 2697 c.c.
Tuttavia la riconduzione della nuova disposizione al principio di vicinanza della prova non può essere accettata in linea generale: non si vede infatti davvero come la rinuncia alla cittadinanza italiana formalizzata presso gli uffici consolari o l’intimazione da parte del Governo italiano a rinunciare all’impiego estero possano essere considerate più prossime e più agevoli per il discendente dell’interessato che per l’amministrazione convenuta.
9. La giurisprudenza della Corte Costituzionale
La giurisprudenza della Corte Costituzionale, sia pur non numerosa, conferma la tesi della necessaria ragionevolezza e proporzionalità della discrezionalità legislativa in tema di distribuzione degli oneri probatori.
Interessante, seppur resa in riferimento ad un ambito diverso, appare la pronuncia n.440 del 16.12.1993 che scrutina la ragionevolezza della scelta del legislatore nella distribuzione dell’onere probatorio in tema di prova della buona condotta addossato al privato.
La Corte Costituzionale ha al proposito ritenuto «intrinsecamente irragionevole» addebitare all’interessato un onere che talora neppure l’amministrazione sarebbe in grado di adempiere proprio per la varietà dei parametri di verifica dai quali può scaturire la preclusione alla realizzabilità di posizioni soggettive di cui il privato è titolare; ha poi ribadito che «quanto irragionevole ed arbitraria dovesse ritenersi, in via generale, l’esistenza di un simile onere probatorio, risulta essere stato avvertito dal legislatore allorché con l’art. 10 della legge 4 gennaio 1968, n. 15, contenente norme sulla documentazione amministrativa e sulla legalizzazione e autenticazione delle firme, ha statuito che la buona condotta (al pari dell’assenza di precedenti penali e di carichi pendenti) è accertata d’ufficio, presso gli uffici pubblici competenti dalla amministrazione che deve emettere il provvedimento.»
Secondo la Consulta si deve evitare l’imposizione all’interessato di una prova talora diabolica volta a contrastare la forza cogente dell’onere e scongiurare la persistenza di una situazione giuridica non in grado di potersi concretizzare o destinata ad essere posta nel nulla nonostante la presenza e la persistenza di posizioni astratte di legittimazione.
Altrettanto significative appaiono due decisioni della Consulta in tema di traslazione dell’onere economico di un tributo.
Con la sentenza del 21.4.2000 n.112 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 del d.l. 30.9.1982, n. 688 (Misure urgenti in materia di entrate fiscali), convertito con modificazioni nella legge 27.11.1982, n. 873, nella parte in cui poneva a carico del contribuente, che agisce per la ripetizione di imposte di consumo indebitamente corrisposte, l’onere di provare solo documentalmente che il peso economico dell’imposta non era stato in qualsiasi modo trasferito su altri soggetti. Secondo la Corte, pur se la mera inversione dell’onere della prova non è di per sé in contrasto con l’art. 24 Cost., trattandosi di materia indubbiamente rimessa alla discrezionalità del legislatore, la previsione che tale onere possa essere assolto solamente per mezzo della prova documentale - intesa in senso tecnico - comporta una sicura lesione del diritto di agire in giudizio del solvens. Siffatta previsione viene infatti a subordinare la tutela giurisdizionale a una prova impossibile secondo criteri di normalità, non potendo in via generale essere ipotizzata l’esistenza di un documento contenente la diretta rappresentazione del fatto negativo costituito dalla mancata traslazione del peso economico di un’imposta.
Successivamente la Consulta con la sentenza n.332 del 9.7.2002 si è occupata della stessa norma con riferimento alla distribuzione dell’onere probatorio e ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del predetto art.19 del d.l. 30.9.1982, n. 688, convertito, con modificazioni, in legge 27.11.1982, n. 873, anche nella parte in cui prevede che sia l’attore in ripetizione a dover provare che il peso economico dell’imposta non è stato in qualsiasi modo trasferito su altri soggetti.
La Corte Costituzionale al proposito ha osservato che la traslazione dell’imposta, in quanto fatto impeditivo del diritto alla ripetizione, dovrebbe essere opponibile solo in via di eccezione dall’accipiens (art. 2697 cod. civ.); invece, la norma impugnata, onerando il solvens della prova (negativa) della mancata traslazione dell’imposta, ha operato una inversione legale dell’onere della prova lesiva del generale canone di ragionevolezza garantito dall’art. 3 della Costituzione.
Tale inversione rinviene, infatti, la sua ragione nell’intento di attribuire all’amministrazione finanziaria convenuta con l’azione di ripetizione una posizione di particolare privilegio in sede probatoria, del tutto ingiustificato ove si consideri che l’amministrazione è l’accipiens di un pagamento non dovuto che in quanto tale dovrebbe essere, in base ai principi generali, restituito. D’altro canto, la pur contestata ricorrenza, nella normalità delle ipotesi, del fenomeno della traslazione non potrebbe certo giustificare la suddetta inversione, ma, semmai, valere come argomento di prova utilizzabile, in giudizio, dall’accipiens. Il vulnus al principio di ragionevolezza che si viene così a determinare comporta l’illegittimità costituzionale della norma impugnata, nella parte in cui pone a carico dell’attore in ripetizione l’onere di provare la mancata traslazione dell’imposta invece di prevedere che la domanda debba essere respinta qualora l’amministrazione convenuta provi che il peso economico dell’imposta è stato trasferito dal solvens su altri soggetti.
Vi è inoltre da chiedersi se l’imposizione di una prova diabolica rispetti l’art.47 della Carta dei diritti fondamentali UE quanto al diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale e l’art.6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
10. Conseguenze della limitazione dei mezzi di prova
La limitazione dei mezzi di prova produce gravi conseguenze in alcuni casi limite.
Il nuovo art.19-bis, comma 2-ter, impone al richiedente l’accertamento della cittadinanza di allegare e provare l’insussistenza delle cause di mancato acquisto o di perdita della cittadinanza previste dalla legge.
Come si è dianzi ricordato, l’art.11 del codice civile del 1865 disponeva che perdesse la cittadinanza italiana colui che senza permesso del Governo, avesse accettato un impiego da un governo estero o fosse entrato al servizio militare di potenza estera. Analogamente e ancor più chiaramente, l’art. 8 n.3 della legge n. 555 del 1912 disponeva che perde la cittadinanza italiana chi, avendo accettato impiego da un governo estero od essendo entrato al servizio militare di potenza estera, vi persista nonostante l’intimazione del Governo italiano di abbandonare entro un termine fissato l’impiego o il servizio.
Tanto il codice civile del 1865 quanto la legge n.555 del 1912 consideravano inoltre la rinuncia espressa quale causa di perdita della cittadinanza.
Il richiedente deve quindi, ad esempio, allegare e dimostrare che gli ascendenti cittadini italiani emigrati all’estero non hanno rinunciato alla cittadinanza italiana, ovvero che essi non hanno accettato un impiego (ad esempio di insegnamento in una scuola pubblica) dal Governo estero o se lo hanno fatto che lo Stato italiano non ha intimato loro di abbandonarlo.
Si tratta di una prova negativa di difficile adempimento.
È pur vero che l’attore potrebbe essere agevolato dall’onere di contestazione che l’art.115 c.p.c. pone in capo alla controparte, secondo cui il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita. Se il richiedente allega specificamente i fatti rilevanti (ad esempio, che l’avo ha accettato l’impiego e che il Governo italiano non gli ha intimato di abbandonarlo), la parte convenuta ha l’onere di contestarli specificamente per evitare che risultino non controversi e non bisognosi di prova.
E tuttavia questa regola di responsabilizzazione delle parti nella dialettica processuale non opera nei confronti della parte non costituita in giudizio: e molto sovente nelle controversie per l’accertamento della cittadinanza italiana l’amministrazione non si costituisce con la conseguente irrilevanza del suo silenzio ai fini probatori.
Certamente il ricorrente potrebbe chiedere preventivamente all’amministrazione italiana di certificare che l’intimazione non vi è stata, ma in caso di mancata ottemperanza il richiedente si troverebbe in grave difficoltà nell’assolvere all’onere probatorio del fatto negativo nel giudizio contumaciale, visto che non gli è consentito invocare il ragionamento presuntivo per inferire la prova dell’omessa intimazione dal silenzio della P.A. e dalla mancata certificazione pur richiesta.
Resterebbe lo spazio per un ordine di esibizione ex art.210 c.p.c. o per una richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione ex art.213 c.p.c., secondo la prospettazione fatta propria da Cass. civ. Sez. 5, 30.4.2019, n. 11432, e a sua volta ispirata dalla sentenza della Corte Costituzionale n.109 del 29.3.2007, secondo la quale la produzione di documenti, oltre che spontanea, può essere ordinata su istanza di parte a norma dell’art. 210 cod. proc. civ. (e, quindi, nei confronti dell’amministrazione parte in causa e anche nei confronti di terzi); mentre, ove necessario, il giudice ha il potere - nei confronti di pubbliche amministrazioni diverse da quella che è parte del giudizio davanti a lui pendente - di chiedere informazioni o documenti ai sensi dell’art. 213 cod. proc. civ., e cioè attivarsi in funzione di chiarificazione dei risultati probatori prodotti dai mezzi di prova dei quali si sono servite le parti.
11. Conseguenze della nuova distribuzione dell’onere probatorio
Un’interpretazione e un’applicazione estremamente rigorosa e letterale delle nuove disposizioni potrebbero condurre a ritenere che il richiedente debba allegare e provare che il proprio antenato emigrato non abbia acquisito volontariamente la cittadinanza di ogni altro Stato, anche diversa da quella del paese di emigrazione e di residenza. Si tratterebbe, pur sempre, di una fattispecie idonea a produrre la perdita della cittadinanza italiana di cui il richiedente sarebbe tenuto ad allegare e provare l’insussistenza.
Una siffatta interpretazione, presumibilmente contrastante con la stessa intentio legis, esporrebbe la norma alla collisione con il principio di eguaglianza, con il diritto di azione in giudizio e al giusto processo, gravando l’attore di un onere irragionevole e sproporzionato, risolventesi in una probatio diabolica.
La violazione degli artt.3, 24 e 111 Cost. che ne deriverebbe può tuttavia essere scongiurata con una interpretazione costituzionalmente orientata, nonché conforme al diritto dell’Unione Europea in punto effettività dei rimedi giurisdizionali, che appare del tutto ragionevole: occorre cioè perimetrare l’onere di allegazione e di prova in questione alla vicenda in fatto posta a base del ricorso, escludendo così che il richiedente abbia l’onere di provare l’insussistenza di cause di perdita della cittadinanza prive di alcun collegamento fattuale con la sua narrazione.
Questa, del resto, è la soluzione suffragata dalle raccomandazioni dell’ UNHCR nel Manuale per la protezione delle persone apolidi per l’interpretazione della Convenzione di New York del 1954, ratificata dall’Italia con legge 1.2.1962 n. 306. La definizione della persona apolide come colui «che nessuno Stato considera come suo cittadino per l’applicazione della sua legislazione» viene assoggettata a una lettura restrittiva circoscritta con riferimento ai soli Stati con i quali il richiedente ha legami rilevanti alla luce delle circostanze di fatto allegate alla domanda (ad es. nascita o residenza abituale sul territorio di uno Stato o discendenza da cittadini di quello Stato).
Nel § 18 del Manuale predetto si legge infatti che «Nonostante il fatto che la definizione contenuta nell’articolo 1(1) sia formulata come negazione (“nessuno Stato considera come suo cittadino per applicazione della sua legislazione”), il campo d’indagine nell’analisi delle domande di riconoscimento dell’apolidia è limitato agli Stati con cui il richiedente ha dei legami pertinenti come, in particolare, la nascita sul territorio di uno Stato o l’avervi risieduto in maniera abituale, il matrimonio o la discendenza da cittadini dello Stato in questione. In alcuni casi, questo approccio può limitare il campo d’indagine ad un solo Stato (o ad una sola entità che non può essere considerata tale)».
Solo leggendo così la norma si può evitare di imporre ai richiedenti un onere iperdilatato a livello “mondiale” e ricondurre a ragione la sua portata applicativa.
[1] Il cosiddetto «decreto Minniti»
[2] Ad opera dell’articolo 15, comma 3, lettera l), del d.lgs. 10.10.2022, n. 149 , con effetto a decorrere dal 28.2.2023, come stabilito dall’articolo 35, comma 1, del d.lgs. 149/2022 medesimo, come modificato dall’articolo 1, comma 380, lettera a), della legge 29.12.2022, n. 197.
[3] Questa disposizione ha avuto l’effetto di spostare la competenza dal Tribunale di Roma, altrimenti competente sulla base del foro del convenuto, ai Tribunali del luogo di provenienza dell’emigrante. Si legga in proposito, anche in relazione all’effetto di ingente aumento del contenzioso in tema di cittadinanza presso il Tribunale di Venezia, S. LAGANÀ, Contributo in ordine alla conversione in legge del decreto-legge n. 36 del 2025, in sede di audizione alla Commissione Affari Costituzionali del Senato della Repubblica.
[4] Insolitamente ampia, argomentata e documentata.
[5] Cass., Sez. Un., 7.7.1993, n. 7441; Cass., Sez.Un., 27.1.1995, n. 1000.
[6] L’argomento è stato ampiamente discusso nel corso dell’incontro di studi P.25067 della Scuola Superiore della Magistratura tenutosi a Napoli dal 22 al 24.9.2025, intitolato «La cittadinanza e le cittadinanze. Spunti di riflessione de iure condito e de iure condendo».
In quella sede la tesi della non immediata applicabilità ai giudizi in corso è stata largamente condivisa da relatori e partecipanti.
Si possono consultare al proposito le relazioni di A.BARALDI, “La giurisprudenza di merito: gli orientamenti e i problemi organizzativi delle sezioni specializzate”, G. BONATO, “I dubbi sulla riforma del 2025”, intervento alla tavola rotonda; A. GIUSTI, “La giurisprudenza di legittimità (con osservazioni preliminari con riferimento al riparto di giurisdizione)”.
[7] Relazione n. 4 del 10.1.2020 «Art. 2 bis d. lgs. n. 25 del 2008 e connesso Decreto Interministeriale attuativo dell’elenco dei paesi di origine sicuri.».
[8] V. F. VENTURI, Il diritto di asilo: un diritto “sofferente”, cit., p. 187 ss., spec. p. 188, secondo cui una diversa soluzione determinerebbe “una grave lesione dei principi, costituzionalmente garantiti, di parità di trattamento e di tutela del legittimo affidamento di quei medesimi richiedenti protezione internazionale”. La dottrina processualcivilistica cui questo A. fa riferimento è G. VERDE, Prova, in Enciclopedia del diritto, XXXVII, Milano, 1988. Sull’affidamento come criterio-guida nella valutazione sulla legittimità di una legge retroattiva, v. M. LUCIANI, Il dissolvimento della retroattività, in Giur. it., 2007, I, c. 1833 ss. e A. PUGIOTTO, Il principio d’irretroattività preso sul serio, in C. PADULA (a cura di), Le leggi retroattive nei diversi rami dell’ordinamento, Napoli, 2018.
[9] Cass., Sez. 5, 19.12.2019, n. 33893; Sez. 2, 13.12.2019, n. 32992.
[10] Cass. Sez. 1, 11.11.2020, n. 25311.
[11] Al pari di quanto dispongono per le domande amministrative le precedenti lettere a) e a-bis).
[12] Radicate a partire dal 29.3.2025: vedi supra.
[13] Vedasi in proposito A. GIUSTI, relazione citata “La giurisprudenza di legittimità (con osservazioni preliminari con riferimento al riparto di giurisdizione)” nell’incontro di studi SSM P.2506.
[14] Cass. Sez. 1, n.2612 del 16.7.1969; Sez. 3, n. 2586 del 28.04.1981; Sez. 3, n. 1557 del 13.2.1998; Sez. L, n. 12521 del 12.12.1998; Sez. L, n. 11029 del 23.8.2000; Sez. 2, n. 5427 del 15.4.2002 ; Sez. L, n. 23229 del 13.12.2004; Sez. 3, n. 384 del 11.1.2007; Sez. 3, n. 14854 del 13.6.2013.
[15] I concetti sono tuttavia secondo la Corte di Cassazione sostanzialmente equivalenti.
[16] Cass. Sez. U., 30.10.2001, n. 13533; Cass. Sez. U., 10.01.2006, n. 141; Cass. Sez. 2, 9.8.2013, n. 19146; Cass. Sez. U., 3.5.2019, n. 11748.
Su questa rivista, si veda anche La Corte Costituzionale si pronuncia sulla cittadinanza. Osservazioni a prima lettura della Sentenza 142 del 2025 di Umberto Scotti, Cittadinanza iure sanguinis: brevi note dopo C. Cost. 31/7/25 n. 142 di Marco Gattuso,La cittadinanza nel diritto europeo di Bruno Nascimbene.
