Appunti sparsi per una rivoluzione terra terra del giudiziario
di Pasquale Profiti
“In nome del popolo italiano”: i battiti salivano veloci, impetuosi, fuori controllo. Avevo la sensazione che se mi fossi tolto la toga si sarebbe vista la camicia muoversi al ritmo del cuore. Dovevo appoggiare qualsiasi cosa avessi in mano, per occultare il palese tremore delle mani. Ero all’inizio della mia attività di Pubblico Ministero e questo era l’effetto che subivo ogni qualvolta sentivo suonare il fatidico campanello ed il giudice usciva dalla camera di consiglio per leggere il dispositivo della sentenza. Ne parlai con il mio medico, un amico di famiglia, un po' preoccupato per lo stress che subiva il cuore. “Pressione labile”, diagnosticò: somatizzi le emozioni, ma non ti preoccupare, un cuore sano e forte sopporta uno stress del genere e passerà con il tempo, quando ascoltare quella frase diverrà routine.
La diagnosi era giusta, la prognosi si è rivelata errata. I verbi che ho utilizzato all’imperfetto, posso riprenderli al presente, perché il tumulto del cuore in pochi secondi, il tremolio delle mani, il sudore che corre lungo la schiena sono rimasti dopo 28 anni. Ogni volta penso che sarà l’ultima.
Ho parlato recentemente di queste sensazioni in un incontro organizzato per gli studenti delle classi quinte delle scuole superiori della provincia di Trento; i ragazzi hanno incontrato una decina di persone, lavoratori dei più diversi settori del vivere collettivo: medicina, economia, educazione, sociale, religioso, istituzionale, tra cui un magistrato. Ho parlato in termini entusiastici, non solo del mio mestiere, ma anche della soddisfazione per quelle sensazioni “giovanili” che non si erano placate, non erano diventate routine. Sono rimasto tale e quale; giovane, ho aggiunto con un sorriso. È un bagno di umiltà; ogni volta il processo mette a prova la tua professionalità, che è di più, molto di più che capacità tecnica. Nelle decisioni che si assumono come magistrato metti in gioco ben oltre che la tua competenza tecnica, ma la professionalità, che include la consapevolezza che ogni volta che risuona quella frase le vite delle persone sono cambiate, per sempre. Non solo. È anche un bagno di umiltà perché 28 anni di magistratura, fors’anche con la stima dei colleghi, non ti assicurano che le tue richieste saranno accolte. Un giudice appena in funzione ti dovrà dar torto se penserà che le tue valutazioni della prova o la tua interpretazione della legge non sono corrette. È quello che mi è accaduto ieri e potrà accadermi anche domani. Ma questo è il fascino del mio mestiere; quando lo inizi hai una libertà che nessun altro lavoro ti assicura al momento della tua prima assunzione: dal primo giorno di funzioni nessuno ti potrà condizionare su come decidere il tuo primo processo, che sia il Procuratore Generale o il Presidente della Corte di appello o della Cassazione. Libertà che si accoppia con la responsabilità, morale prima ancora che giuridica, della tua decisione: ecco il perché dell’emozione sempre viva ed intensa.
Lo sguardo dei ragazzi, quegli occhi spalancati che rispecchiavano il lavorio emozionale della loro mente nell’immedesimarsi nello spaccato del mio vivere lavorativo, mi hanno indotto a fermarmi qui. Era giusto non bloccare i loro sogni e la loro utopia, perché i ragazzi se ne devono nutrire.
Ho detto cose vere, ma non tutta la verità.
Non ho rivelato che sono tanti i colleghi che fuggono da quel “in nome del popolo italiano”. Che si è consolidata l’idea che far carriera è allontanarsi dalle aule di giustizia, “dedicarsi alla dirigenza” e rifiutare quel bagno di umiltà perché disonorevole per loro e per la loro autostima.
Non ho raccontato che anche tra noi si è insediato nel linguaggio il seme della gerarchia. Parliamo di capi degli uffici perché un testo legislativo lo ha disgraziatamente introdotto. Rigettiamolo questo linguaggio, per favore. Parliamo invece, vi prego, di responsabili, nel senso inglese di accountable, di dover dar conto e assumersi le conseguenze del loro organizzare, del loro non organizzare o del loro disorganizzare.
Non mi andava proprio di raccontare a quei ragazzi che nella mia vita lavorativa ho imparato ed imparo quotidianamente molto di più da giovanissime colleghe che portano avanti processi complicati, fissando udienze di sabato e che con tatto segnalano un’ultima Cassazione che ti era sfuggita o una recentissima modifica legislativa che avevi letto troppo distrattamente, rispetto ai tanti c.d. capi che non sbagliano mai solo perché non gli si rende conto del loro non fare i processi e perché il rinnovo quadriennale dipende dal non aver fatto disastri, più che dall’aver fatto bene.
Torniamo a concepire il nostro lavoro per quello che è. Il cuore è il processo, inteso come tutti quei procedimenti che danno una soluzione, definitiva o meno, ad una controversia; chi si occupa di quel processo è colui che fa battere quel cuore, che tiene in vita l’organismo. Dovrebbe essere principalmente il cuore a dirci se è stato messo in grado di ben funzionare e non viceversa. Dovrebbe quindi essere chi fa i processi e non viceversa a giudicare i responsabili dell’organizzazione, i c.d. capi degli uffici, dando il loro contributo alla valutazione sul rinnovo. Sono chi fa i processi le vere eccellenze della giurisdizione, anche se continuiamo a chiamare Eccellenza, con la E maiuscola, anche chi le aule di giustizia le frequenta solo per le cerimonie.
Le valutazioni di professionalità dei magistrati da noi sono concepite come valutazione del singolo. In alcuni paesi del nord Europa e sempre più in alcuni profili di disciplina di altri paesi, sono invece intesi come strumento di valutazione sistemica dell’efficienza del giudiziario. La valutazione del lavoro del singolo deve essere fatta evidenziando il contesto organizzativo che gli si è messo a disposizione e se i programmi del responsabile dell’organizzazione, il c.d. capo, abbiano davvero consentito un lavoro efficiente e di qualità. In altri termini se qualcosa nel lavoro del singolo non ha raggiunto i risultati auspicabili, il primo a dover dare risposte è il c.d. capo dell’organizzazione, per verificare se ha messo a disposizione gli strumenti, ove disponibili, per poter ovviare alle problematiche riscontrate; solo dopo aver escluso problematiche organizzative e le responsabilità del dirigente, ci si concentra su eventuali inefficienze del singolo. Non sarebbe difficile elaborare indici di valutazione della professionalità dei magistrati e dei dirigenti che tengano conto primariamente dell’efficienza e della qualità del sistema, prima ancora che della carriera del magistrato. Noi siamo invece ancorati, affezionati, alla costruzione della nostra carriera, che ha successo se si conclude con la nomina a capo, ancor di più se da quel capo si passa all’Eccellenza, lì dove in nome del popolo italiano diventa un ricordo lontano e la giovanile emozione del battito del cuore si inaridisce per sempre, per assumere la comoda posizione del controllore di chi fatica o del dispensatore di ordini. So bene che per tutti non è così, che ci sono e ci sono stati dirigenti e colleghi ministeriali che hanno inteso il loro ruolo come servizio a beneficio di chi i processi li tiene. Ma la cultura del bagno di umiltà, dell’accountability, dell’essere servente di chi fa i processi si allontana progressivamente sempre di più. Solo noi possiamo invertire la rotta. Ma è inutile nasconderlo, dobbiamo prima domandarci se siamo pronti e disposti ad una rivoluzione copernicana che cominci dal guardarci allo specchio e descrivere con onestà che cosa siamo diventati. Perché mi piacerebbe tanto che quel racconto del lavoro del magistrato italiano ai ragazzi che stanno per scegliere il loro futuro, non sia più solo una mezza verità.