Questo contributo costituisce il terzo di una serie di approfondimenti sul "d.d.l. Nordio" di questa Rivista. Si veda D.d.l. Nordio in materia di intercettazioni: l'ennesima ombra gettata sull'operato del pubblico ministero (e l'ennesimo passo verso la separazione delle carriere) di Andrea Apollonio, D.d.l. Nordio: l’interrogatorio prima della misura cautelare e l’elefante nella stanza di Costantino De Robbio.
Sommario: 1. Le novità in materia di impugnazione - 2. La brevissima vita dell’obbligo di depositare, insieme con l’atto di impugnazione, la dichiarazione o elezione di domicilio: l’approccio sistematico, questo sconosciuto - 3. Le curiose ricorrenza e sorte dello specifico mandato ad impugnare - 4. Addio all’appello del pubblico ministero (e la parte civile?) avverso i proscioglimenti per i reati a citazione diretta.
1. Le novità in materia di impugnazione.
Tre sono le novità in materia di impugnazione introdotte dal disegno di legge C.1718 (era il S.808), approvato in via definitiva dalla Camera dei deputati lo scorso 10 luglio, contenute rispettivamente nelle lettere o) e p) dell’art. 2.
Le prime due sono eccentriche al testo e al disegno di legge originario. Accolgono in concreto sollecitazioni asistematiche dell’Avvocatura penale, sono state introdotte dalla Commissione giustizia del Senato [[1]] e, in concreto, confermano che il legislatore se e quando vuole intervenire tempestivamente trova la strada opportuna [[2]].
La prima (lettera ‘o’ prima parte) riguarda la pronta abrogazione del comma 1-ter dell’art. 581 cod.proc.pen. che dispone(va) a pena di inammissibilità il deposito, insieme con l’atto di impugnazione delle parti private e dei difensori, della dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizi.
La seconda (lettera ‘o’ seconda parte) riguarda l’altrettanto pronta abrogazione di parte del comma 1-quater del medesimo art. 581, limitatamente all’obbligo, quando si è proceduto in assenza e il difensore ha nomina fiduciaria, di depositare con l’atto di impugnazione del difensore anche uno specifico mandato ad impugnare rilasciato al medesimo dopo la pronuncia della sentenza. L’obbligo pertanto permane solo nel caso di difesa d’ufficio.
Queste due norme sono state introdotte dall’art. 33 del d.lgs. n. 150/2022 e sono (erano) in vigore dal 30 dicembre 2022 per le sole impugnazioni proposte a decorrere da tale data. Le censure di incostituzionalità loro rivolte sono state ritenute manifestamente infondate dalla giurisprudenza di legittimità (per tutte Sez.4, sent. 44630/2023).
La terza (lettera ‘p’) elimina l’appello del pubblico ministero (e notiamo subito apparentemente non anche della parte civile) avverso le sentenze di proscioglimento per i reati per i quali si procede con la citazione diretta a giudizio (550, commi 1 e 2).
2. La brevissima vita dell’obbligo di depositare, insieme con l’atto di impugnazione, la dichiarazione o elezione di domicilio: l’approccio sistematico, questo sconosciuto.
2.1. La previsione dell’obbligo di deposito della dichiarazione o elezione di domicilio insieme con il deposito dell’atto di impugnazione va vista nel contesto sistematico del nuovo giudizio di impugnazione introdotto dalla cd Riforma Cartabia pertinente il settore penale e processuale penale (legge 134/2021 e d.lgs. 150/2022), e finalmente operativo per le impugnazioni proposte dal 01/07/2024 (dopo diciotto mesi di incomprensibile rinvio) [[3]].
Essa è invero strettamente pertinente sia all’introduzione di termini stringenti per la trattazione dei giudizi di impugnazione, in particolare all’istituto (morituro ma tuttora vigente) della improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione disciplinato dall’art. 344-bis, che alla connessa rivisitazione dei tempi per l’avviso della fissazione del giudizio di appello.
Infatti a regime (per le impugnazioni proposte dopo il 31/12/2024) i termini di durata massima al cui superamento consegue la improcedibilità dell’azione penale in corso sono (di regola) di due anni per il giudizio di appello e di un anno per il giudizio di cassazione. Entrambi decorrono trascorsi novanta giorni dalla scadenza per il deposito della (motivazione della) sentenza, che il giudice ha determinato nel dispositivo [[4]].
Contestualmente, i termini per l’avviso della data fissata per il giudizio di appello si raddoppiano da venti a quaranta (601, comma 5), con un rilevante aumento che è connesso alla rivisitazione del sistema dei termini per: le richieste di giudizio in presenza (598-bis, comma 2), la proposizione del concordato anche con rinuncia ai motivi di appello (599-bis), la presentazione delle conclusioni e delle repliche per il giudizio in camera di consiglio senza la partecipazione delle parti (598-bis, comma 1, seconda parte).
Con riferimento a tali termini risulta evidente che i due anni utili a disposizione del giudice di appello assorbono gli eventuali ritardi: nel deposito della sentenza oltre il termine assegnato, senza che si sia ricorsi alla proroga ex 154 disp. att. cod. proc. pen. (ovvero comunque con superamento dei novanta giorni consentiti per questa); nella trasmissione del fascicolo da parte della cancelleria del giudice che ha deliberato la sentenza; nella registrazione del fascicolo da parte della cancelleria del giudice dell’impugnazione; comunque dai quaranta giorni (anziché 20) per l’avviso della fissazione [[5]]. Tutti questi fatti procedimentali erodono pertanto (sul piano organizzativo quanto meno) il tempo utile a disposizione del giudice di appello. Che tale erosione possa avvenire anche da disfunzioni dell’Amministrazione (il raddoppio venti/quaranta è consapevole scelta sistematica del legislatore; ma i ritardi attengono a condotte) e, quindi, sia dato astrattamente non rilevante sul piano della disciplina dei principi sarebbe affermazione condivisibile se chi ha l’obbligo costituzionale di fornire le risorse per rispettare il senso e la finalità delle norme legislative non fosse lo stesso soggetto che formula le norme e non ti fornisce le risorse. In proposito, se è vero che l’art. 110 Cost. assegna al Ministro della giustizia la competenza per l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, è pur vero da un lato che lo stesso agisce innanzitutto con i mezzi finanziari, e le norme, che il Parlamento gli mette a disposizione, dall’altro che le esperienze degli ultimi anni (e di più legislature e governi di diversa composizione) hanno sempre più assottigliato l’autonomia dei due momenti (e poteri) della legislazione e dell’esecuzione.
In questo contesto sistematico si inserisce (inseriva) la previsione ex art, 581, comma 1-ter, per la quale il deposito dell’atto di impugnazione deve (doveva essere) accompagnata dal deposito di una dichiarazione o elezione di domicilio specificamente servente il successivo avviso della data di fissazione del giudizio di appello: secondo questa previsione normativa, il giudizio di impugnazione si celebra dando avviso della trattazione all’imputato nel luogo o alla persona che egli ha specificamente indicato per quella trattazione di un nuovo e autonomo grado di giudizio che si svolge su sua richiesta. Tale accorgimento è l’unico che consente di avere tempi per l’avviso coerenti e congrui al complessivo sistema di termini che caratterizzano il nuovo giudizio di appello (in particolare a fronte di esperienze quotidiane di plurime modifiche delle dichiarazioni o delle elezioni di domicilio spesso pure presentate in contesti diversi dove agiscono soggetti differenti: polizia giudiziaria, pubblico ministero, giudice per le indagini preliminari, giudice del dibattimento e giudice dell’impugnazione). Non è pertanto palesemente illogica, gratuitamente asistematica o costituzionalmente problematica la previsione che l’inizio di un nuovo grado di giudizio sia caratterizzato dall’azzeramento delle a volte oggettivamente complesse vicende afferenti la regolarità delle notifiche nel grado precedente. Chi consapevolmente chiede procedersi a nuovo grado di giudizio è nelle condizioni di fornire un’indicazione da quel momento certa e unica per la notificazione dell’avviso della data di fissazione del processo che ha chiesto (anche eventualmente indicando consapevolmente il difensore nominatogli d’ufficio o scelto fiduciariamente, difensore con il quale ha onere di mantenere i rapporti. qualora la sua situazione di vita renda problematica l’indicazione specifica).
2.2 Questo richiamo sistematico al legame strettissimo tra nuova disciplina del giudizio di appello e onere di depositare insieme dichiarazione o elezione di domicilio “ai fini (spiega espressamente il comma 1-ter) della notificazione del decreto di citazione a giudizio” mantiene piena efficacia, è opportuno chiarirlo subito, anche nel caso in cui venisse completato l’iter normativo che intende abrogare l’istituto disciplinato dall’art. 344-bis per ripristinare l’applicazione dell’istituto della prescrizione nei giudizi di impugnazione (le proposte di legge unificate 893-745.1036.1380-A sono state già approvate dalla Camera dei deputati e sono ora all’esame del Senato).
La pregnanza dei tempi utili per la trattazione rimarrebbe infatti problematica di permanente piena rilevanza, anche con la “nuova” prescrizione.
Infatti, l’introducendo nuovo art. 159-bis cod. pen. prevede sì una sospensione biennale del corso della prescrizione dopo le sentenze di condanna (due anni per il giudizio di appello, un anno per il giudizio in Cassazione) ma dispone che la stessa ‘salti’ se il giudice dell’impugnazione non deposita la sentenza entro quegli stessi termini (due anni, appello, un anno, legittimità). Gli stessi, oltretutto, decorrerebbero già dalla scadenza del termine che il giudice dell’impugnazione ha indicato nel dispositivo per il deposito della sentenza. Il che significa, in concreto e per esempio, che comunque i mesi utili non sono per l’appello ventiquattro ma quantomeno ventidue e quindici giorni e per la Cassazione non dodici ma otto e quindici giorni. Entrambi i tempi infatti sono al lordo del tempo – normalmente quarantacinque giorni – che l’imputato condannato ha per impugnare) [[6]].
Ecco pertanto che l’intervento della legge in via di pubblicazione (che muove dal cd. d.d.l. Nordio) con l’abrogazione del comma 1-ter dell’art. 581 entra nel nuovo sistema dei giudizi di impugnazione con un approccio palesemente e oggettivamente atomistico.
Per quanto detto, infatti, rispetto al nuovo sistema che ha (aveva) un suo delicato equilibrio di termini e tempi, funzionale e attento ai diversi, e a volte confliggenti, aspetti rilevanti nella sempre complessa relazione tra diritto di difesa ed efficienza del sistema, interviene esclusivamente sul meccanismo dell’avviso di fissazione, astraendolo dalla logica del sistema e creando così le premesse per un’ulteriore erosione del tempo utile per la trattazione. Tale intervento pertanto, consapevolmente o meno, di fatto riduce la possibilità concreta di rispettare i termini di durata massima del giudizio di impugnazione evitando l’improcedibilità o mantenendo efficacia alla nuova sospensione della prescrizione (secondo la legge del giorno).
Opportuno richiamare le prevalenti ragioni di contestazione della norma del comma 1-ter, di spessore prevalentemente pratico.
Si è detto che: in realtà se si era andati a sentenza, in realtà si sapeva già dove trovare l’imputato; sarebbe difficile recuperare il provvisoriamente condannato per fargli fare la necessaria dichiarazione o elezione; il diritto di difesa dell’imputato non potrebbe mai soccombere alle esigenze organizzative/funzionali dell’Amministrazione.
Sono ragioni che paiono francamente deboli.
L’imputato condannato nel grado precedente è oggi un imputato necessariamente consapevole della pendenza di quel giudizio. Le censure e critiche sul tema significativamente non si sono mai confrontate con le conseguenze della nuova assai più rigida disciplina della citazione al giudizio di primo grado, orientata sulla conoscenza effettiva della pendenza e della trattazione della fase processuale. Basta richiamare: la nuova disciplina dell’assenza, con innanzitutto l’attuale contenuto dei primi tre commi dell’art. 420-bis, del comma 5 e del comma 7 (e 604, commi 5-ter e 5-quater per l’appello); la precedente e coerente sentenza 23948/2020 delle Sezioni Unite in materia di elezione di domicilio presso il difensore di ufficio, anche in relazione all’art. 162, comma 4-bis; gli avvisi che vanno dati alla persona sottoposta alle indagini sugli oneri che gli competono nel rapporto con il difensore (157, comma 8-ter; 161, comma 1, seconda parte). In definitiva, il primo giudizio non può essere celebrato con un imputato che sia incolpevolmente inconsapevole e incolpevolmente ignori chi sia il suo difensore.
Quanto al tempo disponibile per procurarsi la dichiarazione o elezione di domicilio, in realtà la parte, conoscendo da subito il dispositivo, ha, cumulativamente, il tempo che il giudice ha indicato per il deposito della sentenza, il termine ordinario per impugnare (normalmente ormai attestantesi su quello massimo di quarantacinque giorni), gli ulteriori quindici giorni assegnati all’imputato rimasto assente (585, comma 1-bis; sul delicato ma interessante e attualissimo tema dell’effettiva instaurazione di un rapporto professionale imputato/difensore sia consentito un ulteriore rinvio) [[7]].
È stato anche affermato che il fatto che sia l’imputato a chiedere il giudizio di impugnazione non potrebbe comportare alcun suo onere aggiuntivo rispetto alla mera richiesta, rimanendo pur sempre lo Stato a procedere contro di lui e quindi a doverselo cercare e pertanto apparendo la pretesa dell’indicazione di domicilio effettivamente utile alla trattazione del giudizio di impugnazione sarebbe in qualche modo pretesa di una ‘collaborazione’ che non compete all’imputato.
In realtà, con riferimento ai principi costituzionali (che danno rilievo anche alla ragionevole durata, all’efficienza ed all’efficacia del giudizio) ed alla nozione di diritto di difesa nell’insegnamento della Corte costituzionale e nella giurisprudenza delle Corti europee, la ‘pretesa’ statale che chi chiede un ulteriore grado di giudizio indichi dove vuole essere avvisato francamente non appare tale da essere sussunta in uno stravolgimento inaccettabile del diritto di difesa. Anche perché altrimenti occorrerebbe una seria riflessione sulla permanenza di una disciplina processuale che consenta alla persona citata a giudizio di non presentarsi davanti al giudice, piuttosto che obbligarne la presenza in prima udienza per aver certezza della consapevole contezza dell’accusa ed anche per tutte le informazioni necessarie, come le discipline processuali di diversi Stati europei prevedono.
Un cenno incidentale finale pare doveroso. Sarebbe utile approfondire le ragioni per le quali anche con una norma dal testo preciso e chiaro come l’art. 581 comma 1-ter (“con l’atto di impugnazione delle parti private e dei difensori è depositata, a pena di inammissibilità, la dichiarazione o elezione di domicilio, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio”: deposito l’atto di impugnazione e “con” quello anche la dichiarazione o elezione di domicilio), la contestualità dei due depositi (eventualmente con unico atto per l’appello) sia stata messa in discussione con alternative oltretutto numerose e tali da rendere necessario il rinvio del tema alle Sezioni unite (Quinta sezione penale, ord. 19/06/2024). Probabilmente sono maturi i tempi per una riflessione serena sul ruolo attuale della Corte di cassazione, sul metodo con cui perviene alla nomofilachia che le compete, sullo stesso metodo di lavoro delle diverse Sezioni, perché il contesto appare forse ancora in cerca di un nuovo efficace equilibrio dopo la ‘decapitazione’ collettiva indotta nella giurisdizione di legittimità dalla perversa sinergia tra la riduzione dell’età di servizio a 70 anni e la necessità dei quattro anni per la legittimazione all’incarico semidirettivo di presidente di sezione.
Sul punto, vedremo ad esempio se e come l’applicazione del principio del tempus regit actum avrà efficacia operativa non contrastata nel rispondere al quesito sugli effetti dell’abrogazione del comma 1-ter in relazione agli appelli in cui l’atto è stato depositato nella vigenza della norma.
3. Le curiose ricorrenza e sorte dello specifico mandato ad impugnare.
L’intervento sul comma 1-quater dell’art. 581 ha scelto la soluzione intermedia di un’abrogazione parziale [[8]].
3.1. Nei processi in cui l’imputato è stato processato in assenza, solo per il difensore di fiducia (tale al momento del deposito dell’atto di impugnazione) non è più necessario lo specifico mandato ad impugnare.
Tale obbligo permane nel caso di difensore di ufficio. Quindi il difensore di ufficio dell’assente non può proporre impugnazione senza uno specifico mandato ad impugnare dell’assistito, mandato che deve essere rilasciato dopo la pronuncia della sentenza (da intendersi, quando la motivazione non sia contestuale, come pubblicazione del dispositivo, posto che è quello l’atto che determina e circoscrive la ‘pronuncia’/deliberazione che la successiva motivazione può solo spiegare ma non modificare).
Ciò vale anche per il giudizio di legittimità (per tutte Sez.6 sent. 2323/2024).
Sul tema peculiare dell’esigenza del mandato speciale anche per il difensore nominato sostituto del titolare della difesa ex art. 97, comma 4, e da alcuna giurisprudenza considerato legittimato all’autonoma proposizione dell’impugnazione, sia consentito un rinvio [[9]].
Pure in questo caso l’intervento è stato atomistico e asistematico.
Il nostro codice di rito consentiva e consente già al difensore di munirsi di una procura speciale ad impugnare, che può essere rilasciato dall’imputato anche prima della deliberazione della sentenza che chiude il grado: lo prevede l’art. 571, comma 1. Tale procura speciale, però, trasferisce il diritto all’impugnazione che, per il solo giudizio di appello, l’imputato può esercitare personalmente, con la relativa legittimazione. Ciò comporta che il difensore che depositi l’atto di impugnazione in ragione di una procura speciale rilasciata ai sensi dell’art. 571 ‘consuma’ il diritto e la legittimazione personali dell’imputato, con la conseguenza che quell’imputato non potrà più proporre autonomamente impugnazione anche quando in ipotesi in concreto non a conoscenza della trattazione del giudizio di appello (in tal caso accedendo direttamente ai rimedi propri della fase esecutiva)
Con il mandato specifico ad impugnare, ex art. 581, comma 1-quater, il difensore acquisisce invece una propria legittimazione, autonoma e distinta da quella personale dell’imputato.
Lo scopo del mandato speciale è infatti quello di assicurare “che il giudizio di impugnazione (appello o legittimità) si svolga nei confronti di un ‘assente consapevole’, così da limitare lo spazio di applicazione della rescissione del giudicato e dei rimedi restitutori (per tutte, Sez.6, 2323/2924 cit.)” ovvero di perseguire il “legittimo scopo di far sì che le impugnazioni vengano celebrate solo quando si abbia effettiva contezza della conoscenza della sentenza emessa da parte dell'imputato, per evitare la pendenza di regiudicande nei confronti di imputati non consapevoli del processo, oltre che far sì che l'impugnazione sia espressione del personale interesse dell'imputato medesimo e non si traduca invece in una sorta di automatismo difensivo (Sent. 44630/2023 cit.)”.
La differenza tra diritti/poteri e legittimazioni ex artt. 571 e 581-quater evidenzia l’autonomia del tema della consapevolezza e della conoscenza del giudizio da parte dell’imputato rispetto al tema del diritto/potere di impugnare. Ed è proprio questa netta distinzione, che viene in considerazione anche per il tema della cd consumazione del potere di impugnazione (tema che ha presentato un peculiare ‘scontro’ tra Sezioni unite della Corte di cassazione e Corte costituzionale) [[10]].
Anche per quanto attiene al mandato specifico per impugnare paiono quindi essere prevalse generiche ragioni di fattibilità, se non comodità, tralasciando le originarie esigenze sistematiche che avevano determinato l’introduzione della norma. In tal modo si è però, quanto ai difensori di fiducia, riaperta la possibilità di giudizi di impugnazione che si celebrino in contesti di obiettiva inconsapevolezza della fissazione del giudizio da parte dell’assistito, con le conseguenti necessità di rinnovazione dei processi dei gradi di impugnazione a quel punto inutilmente trattati con dispersione delle già non adeguate risorse di uomini e mezzi messe a disposizione della Giustizia. L’esperienza quotidiana di udienza presenta invero più volte il caso del difensore formalmente di fiducia ma che ha interrotto i rapporti con l’assistito e, per ragioni deontologiche per esempio, non intende ‘abbandonarlo’ contando su un successivo contatto, ovvero che ritiene di interpretare le intenzioni dell’assistito momentaneamente non reperibile.
In proposito si è già accennato alla necessità, alla luce della nuova più stringente disciplina dell’assenza, di approfondire due temi in genere non adeguatamente trattati: quello della relazione ruolo processuale/ruolo professionale/deontologia sul punto specifico del rapporto giudice/difensore/nuovi presupposti dell’assenza/imputato e quello degli eventuali limiti della tutela (anche ‘europea’) dell’imputato consapevole ma non diligente per scelta o oggettivo disinteresse [[11]].
3.2. L’intervento parzialmente abrogativo determina una situazione che curiosamente ricorda in buona parte quanto già vissuto dalla nostra legislazione processuale penale, a proposito del rapporto “diritto di difesa e giudizio contumaciale”.
Come in altra sede ricordato, nel testo originario il codice Vassalli prevedeva già, e, per entrambe le tipologie di difesa (fiduciaria e d’ufficio), proprio lo specifico mandato per l’impugnazione della sentenza contumaciale [così recitava l’art. 571, comma 3, seconda parte: “Tuttavia, contro una sentenza contumaciale, il difensore può proporre impugnazione solo se munito di specifico mandato, rilasciato con la nomina o anche successivamente nelle forme per questa previste].
E’ significativo che, quindi, la necessità del mandato specifico per l’impugnazione del contumace (l’odierno assente, questi assai più garantito) è stata esigenza già sentita e condivisa fin dall’impostazione di quello che avrebbe dovuto essere il nuovo avanzato processo di parti, il genuino processo accusatorio: proprio anche nell’originaria impostazione teorico-sistematica si era pertanto considerato pienamente coerente ai principi del processo accusatorio l’onere, per l’imputato rimasto contumace per sua scelta, di dover conferire il mandato speciale per l’impugnazione che apriva un nuovo grado del giudizio su sua richiesta.
Altrettanto significativo è che nella relazione accompagnatoria la ragione dell’introduzione del mandato speciale ad impugnare, per l’impugnazione proposta in favore dell’imputato contumace, era stata indicata nell’intento di evitare effetti preclusivi in danno dell’imputato per la sua volontà di impugnare autonomamente la sentenza (Commento al nuovo codice di procedura penale, Utet, 1991, sub 571, p.46).
Orbene, la necessità del mandato speciale venne esclusa dopo dieci anni, dall’art. 49 della legge 479/1999. È interessante rilevare che la ragione addotta nei lavori parlamentari dalla Relazione non fu un ripensamento della correttezza sistematica dell’istituto ma, solo, di voler consentire la possibilità dell’impugnazione della sentenza contumaciale anche al difensore d’ufficio, oltre che al difensore di fiducia, operando la soppressione dell’ultima parte del comma 3 dell’articolo 571 del codice di procedura penale, in base alla quale il difensore può proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale solo se munito di apposito mandato.
Quindi, da un lato non venne affatto messa in discussione la coerenza sistematica del principio originario che il difensore di fiducia per impugnare le sentenze contumaciali dovesse munirsi di un mandato speciale ma, si deve evincere, si ritenne che ciò finisse per discriminare potenzialmente i difensori di ufficio, per i quali l’acquisizione di un mandato speciale, sia pure limitato alla legittimazione ad uno specifico atto di impugnazione altrimenti inibito (mandato che, pertanto, per sé non modificava la natura ufficiosa dell’assistenza legale limitandosi a legittimare il difensore al singolo atto procedimentale), appariva almeno potenzialmente difficoltosa.
Da qui però l’eliminazione dell’esigenza del mandato per tutti i difensori, anche nominati di fiducia, per i quali invece pur non si ritenevano sussistere particolari problemi e difficoltà.
Dal 1999 molto è in effetti cambiato in tema di difesa d’ufficio, in tema di assenza/contumacia e presupposti dell’applicazione dell’istituto, in tema di costruzione del rito di appello penale. Sicché anche le ragioni uniche indicate per l’abbandono del principio accusatorio originario della necessità del mandato speciale per chi era stato processato oggi avrebbero dovuto essere rivisitate e comunque corroborate da ben altri e certo meno generici argomenti a sostegno.
Ed invece il Legislatore elimina l’obbligo del mandato speciale per l’impugnazione dell’assente e lo fa solo per il difensore d’ufficio, con una scelta che ‘ribalta’ la lettura del 1999, è obiettivamente atomistica ignorando tutto il nuovo sistema che pur lui stesso ha costruito in tema di assenza e che, quanto specificamente al rito di appello ed ai suoi presupposti introduttivi, dal 01/07/2024 è finalmente il nuovo rito in vigore (per le impugnazioni proposte da tale data e con esaurimento di migliaia di procedimenti che gli inutili rinvii hanno consegnato al rito ‘emergenziale’: un’ ‘emergenza’ che durerà così, processualmente, dal novembre 2020 ad alcuni anni ancora).
Solo a un feroce nemico si potrebbe suggerire di scommettere contro un non remoto ulteriore intervento atomistico per riportare tutto a come era dopo la legge del 1999 (appunto però, in tutt’altro contesto normativo), ignorando le esigenze sistematiche che, esse solo in significativa sintonia con l’originario testo del codice Vassalli, hanno condotto all’introduzione del comma 1-quater nel testo ora modificato.
3.3. È opportuno evidenziare un ulteriore specifico punto problematico che la disattenzione del Legislatore atomistico avrebbe potuto agevolmente risolvere ed evitare.
Il comma 1-ter è stato abrogato.
Nel comma 1-quater l’unica modifica letterale introdotta è l’inserimento della locuzione “di ufficio” dopo la locuzione “del difensore”.
Peccato che in questo modo il testo del comma 1-quater reciti ora: “Nel caso di imputato nei cui confronti si è proceduto in assenza, con l’atto d’impugnazione del difensore di ufficio è depositato, a pena di inammissibilità, specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza e contenente la dichiarazione o l’elezione di domicilio dell’imputato, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio.”
Il riferimento alla dichiarazione o elezione di domicilio dell’imputato era nel testo originario del comma 1-quater. Quindi, per sé l’abrogazione secca del comma 1-ter non ha immediata conseguenza, perché il comma 1-ter si riferiva a tutti gli appelli, di imputati presenti e assenti e di difensori di fiducia o di ufficio.
Nel momento in cui il Legislatore ha ‘salvato’ il comma 1-quater in questo modo chirurgico, disciplinando la sorte dell’imputato assente assistito da difensore di ufficio in modo autonomo, ha legittimato anche l’interpretazione per cui l’obbligo per l’imputato assente e assistito dal difensore di ufficio di accompagnare il mandato specifico concorre con quello di depositare anche la dichiarazione o elezione di domicilio.
L’interpretazione alternativa dovrebbe valorizzare il termine “contenente” come solo descrittivo dell’esigenza di dettare modalità specifiche di adempimento dell’obbligo imposto dal comma 1-ter(l’unico atto contenente anche il conferimento del mandato specifico, quindi un mero richiamo applicativo) e non un’autonoma imposizione dell’onere di indicazione del domicilio per la notificazione del decreto di citazione a giudizio. Ma la lettera della norma, quando per sé suscettibile di lettura conservativa, si emancipa dalle idee confuse dell’autore (art. 12, primo comma, prima parte, ‘preleggi’).
4. Addio all’appello del pubblico ministero avverso i proscioglimenti per i reati a citazione diretta (p.s.: e la parte civile?).
4.1 Il pubblico ministero non può più appellare le sentenze di proscioglimento per i reati per i quali, ai sensi dei primi due commi dell’art. 550, si procede con citazione diretta a giudizio. Intuitivo l’apparente ragionamento che associa una minor rilevanza sociale del disvalore dei reati alla loro assegnazione della competenza al tribunale in composizione monocratica. Tale associazione, in astratto approccio sistematico sicuramente ineccepibile, è dopo la robusta integrazione di competenza determinata dall’art. 32, comma 1, lett. a), d. lgs. N. 150/2022 probabilmente più discutibile.
Si tratta pertanto di una ulteriore contrazione della possibilità di impugnare le sentenze di primo grado da parte del pubblico ministero, che allo stato lascia il potere di impugnazione per i reati diversi da quelli di cui all’art. 550, primi due commi. Una contrazione che qualitativamente diviene molto significativa, in particolare rispetto alle precedenti che hanno influito prevalentemente sulla contestabilità della qualificazione giuridica e del trattamento sanzionatorio e quindi su una sentenza di condanna e del proscioglimento limitatamente a due tipologia di reati contravvenzionali.
È noto l’indirizzo della Corte costituzionale sul tema delle impugnazioni del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento: sentenze n. 26 del 06/02/2007 e 85 del 04/04/2008 [[12]].
Il fatto che l’abolizione per il pubblico ministero del potere di impugnare le sentenze di proscioglimento non sia ‘tombale’, residuando per i reati ‘più gravi’, tali individuati in relazione al rito, probabilmente rende manifestamente infondata ogni questione di legittimità costituzionale, specialmente se si valorizza l’associazione art. 550=reati meno gravi. Certo sul piano sistematico l’equilibrio sarebbe stato ben più consistente se il Legislatore non avesse già cominciato a intaccare gli oneri imposti alle appellanti parti private dal d. lgs. 150/2022 (che pur ha anche ulteriormente diminuito i poteri della parte pubblica: si pensi alla nuova disciplina dell’appello incidentale).
4.2.1 Il tema dell’impugnazione da parte del pubblico ministero delle sentenze di proscioglimento dovrebbe meritare però un approccio più tecnico e meno ideologico o di strumentalizzazione politica (per tutelare questo o quell’imputato ‘eccellente’ per risolvere sue contingenze processuali). È stato tema spesso brandito con argomenti di pancia più suggestivi che convincenti da chi propugna l’esclusione totale del potere e da chi lo vorrebbe più ampio (anche tornando all’impugnabilità piena originaria, pure, ad esempio, dei vari punti della decisione afferenti il trattamento sanzionatorio).
In realtà si dovrebbe iniziare a ragionare consapevolmente sui limiti strettissimi che anche l’appello avverso le sentenze di proscioglimento oggi ammissibile trova in esito alla giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione sull’applicazione del parametro/criterio/norma dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio” alla fattispecie della prima condanna in appello.
In sintesi estrema, l’appello della parte pubblica non potrà mai essere accolto se l’esito argomentativo dell’impugnazione sia solo quello di una ricostruzione alternativa, pur logica e convincente, che tuttavia consenta ancora ad alcuno di seguire il ragionamento e l’apprezzamento di merito diversi del giudice di primo grado che ha assolto. La più grande differenza del passaggio assoluzione-condanna rispetto alla tipologia di “rafforzamento” della motivazione propria del passaggio condanna-assoluzione si manifesta nelle modalità dell’applicazione della regola dell’al di là di ogni ragionevole dubbio. Nel secondo caso il giudice d’appello può limitarsi a spiegare la ritenuta sussistenza di un tal dubbio. Nel primo caso deve spiegare perché, dopo la propria argomentazione, la lettura probatoria del primo giudice non è più ragionevolmente sostenibile: deve cioè spiegare perché il fatto che il primo giudice abbia assolto non è idoneo a mantenere nel processo un ragionevole dubbio ex art. 533, comma 1; ciò specialmente quando, ed è il caso certo più impegnativo e delicato, il materiale probatorio oggetto della valutazione rimane il medesimo.
Per questo (ed è aspetto autonomo rispetto al tema che stiamo trattando ma assai pertinente ed è opportuno richiamarlo) il mancato confronto dell’appello del pubblico ministero con quel criterio che il giudice di appello dovrà applicare (appunto, l’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”) in realtà dovrebbe determinare già l’inammissibilità per aspecificità dell’impugnazione della parte pubblica. Per l’appello che chiede la prima affermazione di responsabilità nel procedimento, deve infatti ritenersi sussistere un terzo tipo di genericità/aspecificità, che si affianca all’aspecificità intrinseca ed estrinseca, proprie di ogni atto di appello, ma è da loro del tutto diverso: è l’aspecificità che deriva dal non aver affrontato e spiegato anche il punto dell’applicazione della regola dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”: in particolare il non aver spiegato quali sono i vizi intrinseci, di logicità o violazione di legge o scostamento da materiale probatorio determinante che, una volta indicati dall’appellante e condivisi dal giudice, impediscono a chiunque di ripercorre il percorso argomentativo della decisione del precedente grado di giudizio.
In altri termini, l’impugnazione di appello del pubblico ministero avverso una sentenza di proscioglimento deve evidenziare dei vizi (logici, normativi, oggettivi) condivisi i quali nessuno può ripetere il ragionamento argomentativo logico/probatorio del primo giudice del merito. Perché, appunto, se lo può ripetere abbiamo due alternative e non quella unica, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, e la prima decisione, di proscioglimento, deve essere confermata anche se ‘meno convincente’. Quindi, non sussisterebbe spazio per una seconda pronuncia di merito di prima condanna, basata su una ricostruzione più convincente ma senza che la mancanza di vizi strutturali oggettivi impedisca di mantenere la possibilità della ricostruzione diversa del primo giudice.
4.2.2. Occorre quindi riflettere se, con l’attuale consolidata giurisprudenza di legittimità, vero e proprio ‘diritto vivente’, non sia effettivamente il ricorso per cassazione il più idoneo ed efficace mezzo di impugnazione di una decisione ‘viziata’ in modo tale da non poter essere ‘riproposta’ (conclusione che priverebbe di effettivo interesse il tema del se sia indispensabile o meno attribuire, o lasciare, al pubblico ministero l’appello quale mezzo di impugnazione di merito e legittimità).
L’indagine sul parametro che il giudice deve utilizzare per applicare correttamente al caso del passaggio assoluzione/condanna la regola di giudizio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio ex art. 533, comma 1, presenta qualche sorpresa.
La massimazione delle sentenze della Corte di cassazione, e alcune delle motivazioni di queste, fanno riferimento ai concetti di “maggiore persuasività”, “forza persuasiva superiore”.
Ma l’analisi delle massime e il confronto con la motivazione cui quelle massime si riferiscono può essere caso di scuola di una reiterazione della massimazione che, in qualche modo, vive di vita propria: ciò accade quando il testo della sentenza massimata manifesta spunti diversi e addirittura non sussumibili in quella ‘stanca’ massima che si rigenera [[13]]. E, del resto, se ci si astrae un momento da questa reiterazione del richiamo alla “persuasività”, basta pensare che un ricorso che deducesse di motivazione “non persuasiva” sarebbe destinato all’inammissibilità: perché la persuasività è concetto di merito, non riconducibile ad alcuno dei tre tassativi vizi della lettera E dell’art. 606 e tantomeno riconducibile a un vizio di violazione di legge, anche processuale.
Deve quindi chiedersi come si possa allora utilizzare il concetto di “persuasività” – che è merito – per salvare o no la prima condanna in appello. In realtà la lettura delle sentenze così massimate mostra per lo più una casistica procedimentale che consente di pervenire ad un diverso, più chiaro e adeguato criterio, che è stato individuato nelle prospettazioni: “se il medesimo materiale probatorio è valutato in modo diverso da due differenti Giudici del merito e la motivazione di uno dei due non è viziata da mancanza, manifesta illogicità o contraddittorietà su aspetti determinanti, non è possibile affermare la colpevolezza dell'imputato”; ovvero: “l'insostenibilità oggettiva della prima decisione, per vizi intrinseci della motivazione o per mutamento del quadro probatorio, dopo la motivazione d'appello” [[14]].
Concludendo, se in definitiva la condanna in appello è consentita solo quando la motivazione del giudice di primo grado presenta vizi che, evidenziati, attestano l’impossibilità di poter ripercorrerne il percorso argomentativo pervenendo quindi a due ricostruzioni alternative, davvero occorre prender atto che il ricorso per cassazione potrebbe essere mezzo di impugnazione idoneo ed efficace per la tutela dell’aspettativa, certo socialmente apprezzabile, che una sentenza realmente ‘errata’ possa essere rivisitata con un secondo giudizio di merito che muova dall’eliminazione di quei vizi (impregiudicato l’esito del rinnovato apprezzamento di merito). E ciò per ragioni tecniche, che nulla hanno a che fare con approcci ideologici o politici strumentali.
4.3. E la parte civile? Può, invece, appellare le sentenze di proscioglimento anche per reati a citazione diretta?
L’intervento normativo riguarda palesemente solo l’art. 593. La disciplina dell’impugnazione della parte civile è disciplinata dall’art. 576, immodificato: recita tuttora che la parte civile può proporre impugnazione, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio e, quando ha consentito al giudizio abbreviato, contro la sentenza deliberata ai sensi dell’art. 442.
L’inappellabilità oggettiva, che come tale riguarda tutte le parti, private e pubblica, è solo per i casi tassativamente indicati nell’art. 593, comma 3; per il resto, l’imputato impugna nei casi previsti dal 593, comma 1, il pubblico ministero nei casi previsti dal 593, comma 2 (quello solo modificato), la parte civile nei casi previsti dal 576. Il legislatore con l’articolo 6 della legge n. 46/2006 ha abrogato il principio che la parte civile possa impugnare “con il mezzo previsto per il pubblico ministero” (in allora contenuto nel primo comma dell’art. 576).
Appare assolutamente singolare, e purtroppo significativo, che reintervenendosi nella stessa direzione seguita dalla legge 46/2006, quanto ai limiti dell’appello del pubblico ministero, venga ripetuta la medesima confusione sulla posizione della parte civile che aveva imposto l’intervento chiarificatore delle Sezioni unite della Corte di cassazione (sent. 27214/2007, in particolare par. 5 del considerato in diritto). Ma lì si trattava di confermare la possibilità di appellare della dimenticata parte civile. Occorrerà verificare se quell’insegnamento possa essere utile per percorrere la via inversa: la ‘restrizione’ del potere di impugnazione della parte civile avverso le sentenze di proscioglimento per reati a citazione diretta. Altrimenti si aprirà un autonomo e diverso profilo di possibile incostituzionalità: non già, per quanto detto, la limitazione ulteriore del potere del pubblico ministero, ma la disparità di trattamento tra il pubblico ministero che non può impugnare il proscioglimento nei reati a citazione diretta e la parte civile che può farlo. Il che, in un processo penale, è “un po’ forte”. A proposito di asistematicità…
[1] Dai resoconti parlamentari, risulta che nella seduta del 09/10/24 la sen. Gelmini proposte l’emendamento 2.73contenente la sola integrale abrogazione del comma 1-quater; nella seduta 10/01/2024 il Governo propose la riformulazione nel testo attuale, condiviso anche dall’originaria proponente; nella seduta 11/01/2024 l’emendamento venne approvato nel testo rimodulato come proposto dal Governo.
[2] Entrambe non avrebbero potuto essere introdotte con il cd decreto legislativo delegato correttivo (n. 31/2024), perché incoerenti alle previsioni della parte di delega contenuta nella legge n. 134/2024.
[3] Chiarendo subito che in realtà per il giudizio di legittimità la problematica rileva solo per il ricorso del difensore iscritto all’albo ma nominato di ufficio (unico caso in cui va dato avviso della fissazione dell’udienza anche all’imputato nel cui interesse è proposto il ricorso: 613, comma 4, in relazione all’art. 613, comma 2; conforme da ultimo Sez.6 sent. 2323/2024); per questo sul tema i riferimenti nel testo saranno prevalentemente al giudizio di appello. Per quanto riguarda lo specifico mandato ad impugnare ex art. 581, comma 1-quater, invece le posizioni sono analoghe nei due gradi di giudizio (per tutte, da ultimo Sez.6 sent. 2323/2024 cit.).
[4] Per le sentenze di annullamento con rinvio della Corte di cassazione è aperta la problematica dell’applicazione dell’art. 617, comma 2 (il deposito deve avvenire entro trenta giorni) ovvero dell’art. 544.
[5] Significativamente le Sezioni unite hanno confermato che per gli appelli depositati prima del 01/07/2024 il termine a comparire è di venti giorni: il passaggio è tra due sistemi, non è possibile un inconsapevole (non voluto, senza ratio) sistema intermedio con norme sparse che vivono di vite autonome incoerenti tra loro: informazione provvisoria 09/2024 del 27/06/2024.
[6] Sul singolare intreccio operato dal Legislatore tra ‘sospensione Orlando’ (legge n. 103/2017), improcedibilità abrogata (344-bis), ripristino dell’applicazione dell’istituto della prescrizione (normativa già approvata alla Camera), sia permesso rinviare a https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-penale/3085-avanti-tutta-a-marcia-indietro-la-ragionevole-durata-del-giudizio-penale-di-appello-prescrizione-improcedibilita-notifiche .
In proposito appare utile richiamare la nota inviata da tutti i presidenti delle Corti di appello al Ministro della giustizia e ai Presidenti delle Commissioni giustizia della Camera e del Senato per rappresentare la necessità che ogni eventuale nuova disciplina venga accompagnata da una specifica disciplina transitoria:
[7] In questa Rivista https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-penale/2664-limputato-del-giusto-processo-ovvero-degli-articoli-581-commi-1-ter-e-1-quater-cod-proc-pen-di-carlo-citterio , in particolare i paragrafi 4 e 5.
https://www.sistemapenale.it/it/documenti/morte-prematura-dellimprocedibilita-e-ritorno-della-prescrizione-in-appello-le-preoccupazioni-dei-presidenti-delle-corti-dappello-in-una-lettera-al-ministro-della-giustizia-e-alle-commissioni-parlamentari
[8] Come sopra ricordato alla nota n.1 quanto al comma 1-quater l’iniziativa è del Governo.
[9] https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-penale/2603-gli-approfondimenti-sulla-riforma-cartabia-3-pensieri-sparsi-sul-nuovo-giudizio-penale-di-appello-ex-d-lgs-150-2022 paragrafo 3.1.2
[10] V. https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-penale/2664-limputato-del-giusto-processo-ovvero-degli-articoli-581-commi-1-ter-e-1-quater-cod-proc-pen-di-carlo-citterio par. 3.3.
[11] https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-penale/2664-limputato-del-giusto-processo-ovvero-degli-articoli-581-commi-1-ter-e-1-quater-cod-proc-pen-di-carlo-citterio, in particolare il paragrafo 4.
[12] Sent. 26/2007: È costituzionalmente illegittimo l'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 cod. proc. pen., esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen., se la nuova prova è decisiva. Il principio di parità tra accusa e difesa ex art. 111, secondo comma, Cost., non comporta necessariamente l'identità dei poteri processuali del pubblico ministero e del difensore dell'imputato, stanti le differenze fisiologiche fra le due parti: tali dissimmetrie sono, così, ammissibili anche con riferimento alla disciplina delle impugnazioni, ma debbono trovare adeguata giustificazione ed essere contenute nei limiti della ragionevolezza. A tali requisiti non risponde la norma contestata, che introduce una dissimmetria radicale, privando in toto il pubblico ministero del potere di proporre doglianze di merito avverso la sentenza che lo veda soccombente, con la conseguenza che una sola delle parti, e non l'altra, è ammessa a chiedere la revisione nel merito della pronuncia a sé completamente sfavorevole. Tale sperequazione non è attenuata dal fatto che l'appello è ammesso nel caso di sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive, trattandosi di ipotesi assolutamente eccezionali, né dall'ampliamento dei motivi di ricorso in Cassazione, perché tale rimedio non attinge alla pienezza del riesame del merito. La rimozione del potere di appello del pubblico ministero - generalizzata, perché estesa indistintamente a tutti i processi, e unilaterale, ossia senza contropartita in particolari modalità di svolgimento del processo - non trova giustificazione neppure alla luce delle rationes che, secondo i lavori parlamentari, sono alla base della riforma, ed altera il rapporto paritario tra le parti con modalità tali da determinare anche un'intrinseca incoerenza del sistema, poiché il potere di appello viene sottratto al pubblico ministero totalmente soccombente in primo grado ma mantenuto nel caso di soccombenza solo parziale. Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura.
Sent. 85/2008: È costituzionalmente illegittimo l'art. 10, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui prevede che l'appello proposto dall'imputato, prima dell'entrata in vigore della legge, contro una sentenza di proscioglimento, relativa a reato diverso dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa sia dichiarato inammissibile. L'art. 1 della stessa legge, privando l'imputato del potere di appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen., se la nuova prova è decisiva, è lesivo del principio di parità delle parti, in quanto non sorretto da alcuna razionale giustificazione, correlata al ruolo istituzionale del pubblico ministero o ad esigenze di corretta amministrazione della giustizia, dei principi di eguaglianza e ragionevolezza, stante l'equiparazione fra sentenze di proscioglimento dagli esiti ampiamente diversificati, e del diritto di difesa, cui la facoltà di appello dell'imputato è collegata come strumento di esercizio. Sulla base di tali valutazioni, deve correlativamente considerarsi costituzionalmente illegittimo in parte qua anche l'art. 10, comma 2, della medesima legge.
[13] Come esempio di sentenze massimate secondo il concetto della plausibilità maggiore quando invece argomentano espressamente (e solo) in realtà di vizi della prima sentenza assolutoria, ribaltata <<la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza di condanna nell'ambito di processo celebrato con il rito abbreviato, nella quale il verdetto di colpevolezza era fondato su puntuali rilievi di contraddittorietà della motivazione assolutoria, ai quali la Corte di appello era pervenuta sulla base dello stesso materiale istruttorio acquisito in primo grado, ma ampliando la piattaforma valutativa presa in esame dal giudice di prima cura >> (sent. 12273/14); <<la Corte ha annullato la sentenza di condanna del giudice di appello che aveva riformato una sentenza di assoluzione in ordine al delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso limitandosi a valutare diversamente i medesimi dati probatori esaminati in prime cure>> (sent. 45203/13); <<la Corte ha confermato la sentenza di condanna del giudice di appello che, riformando una sentenza di assoluzione di primo grado per il delitto di truffa per l'incertezza sulla sussistenza del dolo, aveva valorizzato circostanze di fatto già esistenti, ma pretermesse dal primo giudice, idonee a dimostrare con certezza il carattere doloso della condotta>> (sent. 11883/13).
[14] Sia consentito il richiamo a Cass. Sez. 6, sentenze 44767/2015 e 8705/2013 per una più accurata esposizione; alla sentenza 8705/2013 ed al suo principio di diritto espressamente si richiama ad esempio Sez.5, sent. 54300/2017, che purtuttavia viene massimata sulla maggiore plausibilità: ma ciò consente, quantomeno, di affermare che il concetto di “maggiore plausibilità” o “forza persuasiva superiore” in realtà si risolve in una maggior doverosa rispondenza all’effettivo materiale probatorio ed alla logica del ragionamento, trascurati dal primo giudice, da parte del giudice di appello. Del resto, già S.U. sent. 33748/2005 avevano chiarito che “In tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato.” Nient’affatto “persuasività maggiore”, quindi, ma indicazioni puntuali di specifiche “incompletezze o incoerenze”.
Significativa e concordante anche, tra tutte, Sez.6 sent. 10130/2015, così massimata: “il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza e non può, invece, limitarsi ad imporre la propria valutazione del compendio probatorio perché preferibile a quella coltivata nel provvedimento impugnato. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza di condanna in appello, per il reato di omissione di atti d'ufficio, di un medico di turno nel servizio di guardia medica, in relazione al mancato espletamento di una visita domiciliare sollecitata telefonicamente, osservando che il giudice di secondo grado non solo non aveva indicato alcun elemento specifico pretermesso o non adeguatamente valutato in primo grado, ma neppure aveva disposto una perizia medico legale al fine di disporre elementi di valutazione aggiuntivi).
Foto: Underwood&Underwood, Traveling by the Underwood Travel System - Stereographs, Guide-Books Patent Map System, stereo foto albumina, New York, 1908, Chicago Art Institute, Gift of Harold Allen.