La struttura argomentativa dei provvedimenti, l’organizzazione del lavoro e la gestione dei carichi*
Intervento di Luigi Salvato
1. Il luogo nel quale ci troviamo ed il tema oggetto dell’incontro odierno evocano una prima suggestione derivante dalla ‘sententia’ (in realtà, un aforisma) di Publilio Siro, scolpita nella cornice di questa aula Magna, della quale dà conto il Primo Presidente, Pietro Curzio, nell’interessante libro “Il Palazzo della Cassazione”, che ripercorre i tratti salienti della storia dell’edificio in cui è ubicata la Corte di Cassazione. Volgendo lo sguardo verso l’alto possiamo leggerla e constatare che recita: “Nimiun altercando veritas amittitur” (“Il troppo discutere nasconde la verità”); quindi, è pertinente ed illuminante con riguardo alle questioni di cui discutiamo oggi.
La seconda considerazione, pure suggerita dall’aula nella quale ci troviamo, deriva dalla circostanza che proprio qui le Sezioni Unite civili, nel 1947, con la sentenza n. 1093, resa sull’impugnazione di una pronuncia dell’Alta Corte, quale giudice speciale istituito con la competenza di pronunciare, con sentenza in unica istanza, la decadenza e le sanzioni accessorie a carico dei senatori di nomina regia che coi loro voti e la loro azione politica avevano favorito o sostenuto l’avvento ed il consolidarsi della dittatura e l’entrata in guerra dell’Italia, scrissero parole di esemplare efficacia in ordine alla finalità ed ai requisiti della motivazione.
Le Sezioni Unite affermarono: l’obbligo per il giudice «di specificare le ragioni del suo convincimento […] è un elemento essenziale di ogni decisione di carattere giurisdizionale»; «se la maggioranza delle costituzioni moderne non precisa quest’obbligo, è perché si è oramai affermato in tutti gli ordinamenti giuridici dei paesi civili il principio di carattere generale, e cioè è inconcepibile una decisione di carattere giurisdizionale senza motivazione».
La sentenza delineò con rara efficacia le ragioni dell’obbligo e della finalità della motivazione, sottolineando che: è coessenziale al principio di divisione dei poteri e tecnica di garanzia dello stesso; è portato ineludibile di una magistratura professionale, elemento di legittimazione della stessa e garanzia del principio di legalità e della soggezione del giudice alla legge; è strumentale al diritto di difesa, specie con riguardo ai rimedi impugnatori.
Forse, non doveva essere aggiunto molto. I Costituenti trassero infatti ispirazione da questa sentenza per inserire l’obbligo della motivazione nella Carta fondamentale. La circostanza che si trattava di un principio “acquisito” spiega che l’unico contrasto fu tra la formulazione dell’art. 7 del progetto Calamandrei («Le sentenze e gli altri provvedimenti dei giudici devono essere motivati») e quella poi accolta («Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati»), dovuta all’on. Leone, preferita sul rilievo che «La dottrina e la legislazione sono d’accordo nel richiedere la motivazione soltanto per i provvedimenti che abbiano carattere essenzialmente giurisdizionale, cioè per quei provvedimenti che risolvono un conflitto fra due parti». Il risultato è stato una formula generica, evidentemente imposta dalla natura della norma, ma anche dal fatto che si trattava di un principio oramai coessenziale al grado di civiltà giuridica raggiunto, già puntualmente declinato dai codici di rito e dalla giurisprudenza quanto al suo contenuto.
Eppure, cosa occorre perché l’obbligo possa ritenersi correttamente adempiuto resta questione sostanzialmente irrisolta. Lo attestano le intere biblioteche alla stessa dedicate ed il fatto che già 70 anni fa, nel lontano 1952, Piero Calamandrei titolava una delle sei conferenze tenute in Messico “La crisi della motivazione”. La difficoltà, a ben vedere, è quella consustanziale alla funzione giudiziaria: applicare regole generali ed astratte a fattispecie che, per le particolarità che le caratterizzano, finiscono esse stesse con il definirle, influendo sull’identificazione (e sull’esigenza di esplicitazione) delle stesse.
2. In questa sessione l’attenzione deve vertere esclusivamente sul filo rosso che avvince la struttura argomentativa dei provvedimenti (quindi, la motivazione) e l’organizzazione del lavoro della Corte, peraltro diffusamente (e con sapienza) scandagliato dal programma di gestione dello scorso anno, proprio con riguardo alla motivazione (in particolare, nel paragrafo 11), oggetto delle esaustive riflessioni contenute negli interventi pubblicati in giustiziainsieme.
Per questa ragione e per il tempo a disposizione devo limitarmi a qualche sintetica considerazione, concernente il giudizio civile. In particolare, accenno soltanto ad un’idea sulla quale potrebbe essere opportuno riflettere, che non posso neanche approfondire e che propongo quale tema di possibile discussione. L’idea è che la ‘questione motivazione’ va risolta essenzialmente ‘a monte’, non ‘a valle’, cioè in occasione ed attraverso la scelta del rito.
L’attenzione in questa sede esclusivamente ai provvedimenti della Corte fa venire in rilievo la sola funzione extraprocessuale della motivazione: permettere il controllo della pubblica opinione sull’esercizio della giurisdizione; alimentare il dialogo con le comunità epistemiche; garantire che i principi di diritto siano connotati della persuasività necessaria per assicurare la nomofilachia in un sistema che non conosce il vincolo del precedente.
Tale finalità, nel tempo, ha assunto una differente conformazione in correlazione allo ius constitutionis ed allo ius litigatoris.
A Costituzione invariata, in presenza di una norma quale l’art. 111, 7 comma, che stabilisce il diritto al processo di cassazione, l’impossibilità di negare, con legge ordinaria, l’accesso al giudizio di legittimità, ma anche la necessità di assicurare al meglio ed appieno la finalità nomofilattica, in quanto essenziale strumento di garanzia del principio di eguaglianza, ha indotto il legislatore ad agire sulle modalità di intervento della Corte:
- in primo luogo, prevendo un filtro costituito dalla delibazione in camera di consiglio da parte della VI sezione, preordinato a verificare le condizioni del diritto ad una decisione “di merito”;
- in secondo luogo, graduando i modi di intervento della Corte, diversificando i riti con riguardo alle questioni poste dal ricorso.
3. Ai diversi riti corrisponde una profonda differenza di struttura e contenuto della motivazione del provvedimento che conclude il giudizio. E’ per questo che il cuore della questione sta forse proprio nella scelta, a monte, del rito e ciò richiede di ricordare che:
- la decisione della VI sezione realizza, sostanzialmente, una preclusione del diritto al processo di cassazione e, appunto per questo, deve essere fondata su una giurisprudenza che necessariamente deve preesistere alla decisione;
- la decisione con il rito camerale è ammessa se e quando non involge lo ius constitutionis e la funzione nomofilattica.
Entrambi gli obiettivi, per la tenuta costituzionale dell’assetto così definito, impongono di realizzare la transizione, auspicata da uno studioso statunitense, Lee Lovinger, acutamente approfondita in uno studio di Ferruccio Auletta, dalla giurisprudenza alla giurimetria, intesa quest’ultima come la disciplina che consente l’applicazione di parametri precisi di misurazione ai fini del giudizio di prevedibilità e (può aggiungersi) delle condizioni che legittimano i differenti riti.
Con riguardo alla c.d. decisione filtro, il documento programmatico della VI sezione civile esplicita che questa non dovrebbe concorrere a formare la giurisprudenza. Non poche sono le questioni sollevate da alcune delle direttive contenute in detto documento e sulle quali pure sarebbe opportuno riflettere (tra l’altro, in punto di sufficienza dell’esistenza di una sola sentenza a far ritenere esistente una giurisprudenza che ne giustifica l’intervento; in ordine alla stessa possibilità di rimessione della questione dalla VI alle Sezioni unite, senza transitare per la sezione ‘ordinaria’), ma su di esse non occorre oggi attardarsi, poiché il ‘rito della VI’ a breve rappresenterà il passato; quindi, conviene volgere lo sguardo all’immediato futuro.
È, infatti, imminente (almeno, dovrebbe esserlo con i decreti attuativi dell’art. 1, comma 9, della legge 26 novembre 2021, n. 206), l’introduzione del nuovo rito monocratico (dovrebbe essere tale, poiché il comma 9, lettera e, n. 1, fa riferimento al «giudice della Corte», evidentemente il singolo consigliere) e accelerato, incentrato sulla «proposta di definizione del ricorso, con la sintetica indicazione delle ragioni dell'inammissibilità, dell'improcedibilità o della manifesta infondatezza ravvisata» che, in buona sostanza, configura una vera e propria decisione, benché, per così dire, attenuata dalla previsione della facoltà delle parti di chiedere la fissazione della camera di consiglio nel termine di venti giorni, il cui mancato esercizio comporta che il ricorso dovrà intendersi rinunciato (con le conseguenze previste dalla legge-delega).
Sembra davvero palese il carattere di vero e proprio filtro di una siffatta proposta, che tuttavia occorre sia rispettoso del diritto al processo di cassazione. Affinché ciò sia, forse, è necessario che siffatte “proposte”, ancora più delle decisioni della VI sezione, in nessun modo e punto potranno (e dovranno) risolvere questioni. In buona sostanza, dovrebbero consistere ed esaurirsi in una sorta di mera certificazione delle ragioni ‘di rigetto’, ammissibile se e quando dette ragioni sono pianamente desumibili dalla giurisprudenza della Corte che in nessun modo concorrono a formare. La ‘certificazione’, perché sia davvero tale, dovrebbe dunque esaurirsi nel mero richiamo dei pertinenti precedenti e nella ‘attestazione’ dell’applicabilità degli stessi al ricorso, senza null’altro aggiungere. La motivazione in tal modo consiste e si esaurisce in una sorta di mera certificazione.
Si tratta di un compito assai importante, in cui i consiglieri assurgono a certificatori e custodi della giurisprudenza della Corte. In relazione a questa funzione potrebbe assumere rilievo il nuovo ufficio per il processo. Nell’impossibilità di richiamare figure quali quelle degli assistenti della Corte costituzionale (tra l’altro, manca un rapporto fiduciario e diverse sono le professionalità), ma anche quelle dello judicial clerk o del legal clerk dell’esperienza nordamericana, quest’ufficio potrebbe avere (anche, ed ovviamente non solo) una funzione essenziale nella fase di spoglio, operando uno screening con riguardo alla giurisprudenza richiamata dal ricorrente in relazione a quella pertinente, redigendo apposite, specifiche, schede proprio al fine di verificare se esista (indicandola) una giurisprudenza pertinentemente applicabile al ricorso che consente la formulazione della ‘proposta’ e la certificazione nella quale deve consistere.
Peraltro, affinché il processo telematico non si esaurisca nella mera sostituzione di un supporto cartaceo con un supporto digitale (obiettivo importante, ma che anch’esso già guarda solo al passato), occorre operare per adeguatamente conformare la digitalizzazione, tenendo conto della possibilità di programmi in grado di controllare, in automatico, la vigenza della normativa nazionale e sovranazionale citata dal ricorrente, la giurisprudenza richiamata negli atti e quella pertinente, occorrendo approfondire se sia possibile (e come) gravare le parti di un dato modo di richiamare i precedenti. Si tratterebbe di modalità senz’altro pregnante per la transizione verso la giurimetria, ferma l’esigenza di riflessione sulle considerazioni svolte nello studio che ho richiamato (al quale rinvio) e sui metodi e sui modi della misurazione da parte dell’Ufficio del Massimario.
4. L’esigenza di misurabilità potrebbe risultare attenuata per le decisioni rese con l’ordinario rito camerale, anche perché la decisione, siccome ‘di merito’, non incide sul diritto al processo di cassazione. Nondimeno, la sinteticità del provvedimento decisorio (ulteriormente enfatizzata dalla previsione dell’art. 1, comma 9, lettera d, della legge-delega, il quale dispone che «l'ordinanza, succintamente motivata, possa essere immediatamente depositata in cancelleria»), per l’attenuato dialogo insito nel rito e per la tenuta costituzionale del nuovo assetto, richiede attenzione alla scelta del rito, all’esigenza di misurazione della giurisprudenza ed alla rilevanza nomofilattica della decisione.
Delle molte questioni che emergono, mi limito ad accennare a due sole.
La prima è che la scelta del rito è condizionata alla rilevanza della questione, peraltro pregnante anche per stabilire se vada riservata alle Sezioni unite (in disparte, diciamo così, i casi di competenza funzionale). Non mi attardo sui sottili distinguo semantici delle formulazioni degli artt. 363, 374 e 375 c.p.c. Senza il timore di eccessive semplificazioni, riterrei che il legislatore, con chiara e condivisibile scelta (oggi e nell’immediato futuro) ha mantenuto ferma l'udienza pubblica quale "luogo opportuno" della decisione nomofilattica rilevante (tale dovrebbe ritenersi, secondo la definizione dell’art. 1, comma 9, lettera f, della legge-delega, «la questione di diritto […] di particolare rilevanza»), allorché si spiega nella sua tensione massima lo ius constitutionis.
La decisione, se caratterizzata dall’inclinazione a dare vita al precedente pro-futuro, trascende l’esigenza della parte, postula una sede processuale ed una veste formale della decisione coerenti con tali finalità. Ed esige altresì l’indefettibile partecipazione del P.M. poiché “della Corte”, complessivamente intesa, fa parte l’organo requirente: basta ricordare (come acutamente sottolineato nel richiamato studio di Ferruccio Auletta) che l’art. 104 Cost, dice “membri di diritto il primo presidente ed il procuratore generale della Corte di cassazione”, con allineamento di entrambi gli organi prima del complemento specificativo riferito ad entrambi, a riprova che il P.G. è, per singolare statuto, pienamente inerente alla Corte di cui è parte e non mero agente “presso” quest’ultima, diversamente da quanto previsto dalle norme di ordinamento per il P.M. presso gli uffici di merito. Tale intervento costituisce una delle modalità con cui l’ordinamento soddisfa l’immanente necessità di attribuire ad una parte pubblica il compito di fornire, al di là degli interessi dei litiganti, ogni elemento utile per la corretta applicazione della legge, garantendo una formazione dialettica del giudizio che, in considerazione della funzione della Corte di cassazione, deve prescindere dagli interessi specifici di questi ultimi nella risoluzione delle questioni decise con valenza nomofilattica. E’ questo il senso della nomofilachia. Ciò richiede una maturazione culturale anche nel dialogo interno alla Corte ed un chiarimento che, non implausibilmente, dovrebbe passare anche attraverso una diversa modalità di concludere: sulla questione non sul ricorso, in considerazione della finalità dell’intervento e per ulteriormente segnare il distacco del P.M. dalla posizione di parte, invero già indiscutibile a normazione vigente.
La seconda questione è che, se nella misurazione (e graduazione) della giurisprudenza ha influenza il rito, e se ‘al vertice’ della rilevanza vi è quella formata all’esito dell’udienza pubblica, l’effettivo nodo della questione resta ‘a monte’. Ed è, in particolare, quello implicato dalla necessità di una scrupolosa attenzione alla corretta scelta del rito. L’affermazione che la scelta «rimane ampiamente discrezionale e rimessa al Collegio giudicante» (S.U. n. 14437 del 2018) non esclude che debba essere esercitata nell’osservanza di precisi parametri, il cui contenuto va identificato avendo riguardo alla finalità ed alle ragioni della previsione del nuovo rito camerale di legittimità ed al mantenimento del procedimento in pubblica udienza, ciò che richiede altresì precisa attenzione all’eventuale sollecitazione del P.M. al mutamento del rito (beninteso, quando adeguatamente esplicitata). Per altro verso, occorre anche precisa attenzione all’intervento delle Sezioni Unite. Intendo riferirmi alla discrezionalità che ex art. 142 disp att. c.p.c. spetta alle stesse in ordine all’eventualità di decidere l’intero ricorso. La pregnante efficacia assunta dalle pronunce delle Sezioni Unite, a seguito della novellazione del 2006, dovrebbe suggerire di evitare decisioni su questioni che non involgono contrasti, non appaiono di ‘massima importanza’ (come tali appunto ad esse rimesse), né riguardano il tema della giurisdizione. Il principio costituzionale della ragionevole durata del giudizio non può essere enfatizzato a scapito di un’alterazione delle competenze interne della Corte che finiscono per pregiudicare la stessa misurabilità della giurisprudenza.
5. È dunque il rito (e la scelta dello stesso) che orienta, giustifica e determina il contenuto della motivazione e l’organizzazione del lavoro con modalità che, se correttamente applicate, appaiono rispettose della Costituzione e delle norme sovranazionali.
Non è possibile approfondire la giurisprudenza costituzionale sul contenuto dell’obbligo di motivazione, ma è forse sufficiente ricordare che la Corte costituzionale talora si è limitata a ribadire l’obbligo della motivazione, senza identificarne il contenuto (sent. n. 77 del 2018), a volte specificandolo con la generica puntualizzazione che occorre sia “adeguata” (sent. n. 64 del 1970), chiarendo che non occorre dare rilievo e menzione ad eventuali opinioni dissenzienti (sent. n. 18 del 1989). Per quanto qui d’interesse, rileva l’affermazione che la motivazione va rapportata all’ampiezza della discrezionalità del giudice (sent. n. 70 del 1994), che evidentemente influisce sull’ammissibilità di una motivazione assai sintetica (oserei dire, lapidaria) soprattutto nel caso della ‘certificazione’ in cui dovrebbe consistere e risolversi la “proposta di decisione” resa con il rito monocratico accelerato.
Volgendo l’attenzione al diritto eurounitario, è sufficiente ricordare che il TFUE, all’art. 253, u.c., dispone, ma a «fini interni»: «La Corte di giustizia stabilisce il proprio regolamento di procedura». E’ l’art. 36 dello statuto della Corte di giustizia a stabilire che «Le sentenze sono motivate»; il regolamento di procedura dinanzi al tribunale, all’art. 116, prevede che la sentenza deve contenere: «… l) l’esposizione sommaria dei fatti; m) la motivazione». La Carta dei diritti fondamentali, all’art. 47 non lo prevede espressamente, ma detto obbligo è desumibile dalla previsione del «diritto a un ricorso effettivo» ed a che la causa «sia esaminata equamente, pubblicamente». Si tratta di disposizioni sostanzialmente omologhe al nostro parametro costituzionale, che nulla aggiungono ad esso
Delle non molte pronunce della Corte sul contenuto della motivazione rilevano quelle che ne hanno evidenziato la variabilità a seconda della natura della decisione giudiziaria (sentenza Trade Center del 2012), ritenendo ammissibile la motivazione ‘implicita’, escludendo la necessità di una spiegazione in relazione a tutti i ragionamenti delle parti (sentenza Nexans del 2014).
La Corte di Strasburgo, dal suo canto, non ha prefigurato un modello generale ed astratto di motivazione e, ha osservato Vladimiro Zagrebelsky, neppure è immaginabile che ciò avvenga (ciò che porterebbe, ad esempio, a ritenere illegittimo il sistema anglosassone della giuria). Tuttavia, rileva che la Corte di Strasburgo conosce un peculiare procedimento per la dichiarazione di ricevibilità o di irricevibilità (caratterizzato da cambianti nel periodo 2014-2017, anno in cui la Corte mutò la procedura ed il ricorrente, insieme alla decisione di irricevibilità, firmata dal giudice unico, avrebbe ricevuto una lettera nella quale trovare i riferimenti in base ai quali desumere i motivi dell’irricevibilità). Soprattutto, rileva che nella relazione del Presidente della Corte del 25/1/22 si dà conto che ben il 76% dei ricorsi è stato dichiarato inammissibile e solo il 9% è arrivato a sentenza.
Di interesse, è altresì che la sintesi è senz’altro ammessa quando occorre decidere se sussistono i presupposti per adire un giudice superiore (sentenze Salè del 2006; Gouru del 2009) ed è altresì ammessa la motivazione implicita (sentenza X v. Federal Republic of Germany del 1982).
6. La corretta identificazione del rito è dunque essenziale perché determina il tipo di motivazione, l’organizzazione della Corte e la sua stessa tenuta costituzionale. Tuttavia, non irrilevanti ostacoli alla sintesi possibile (estrema nel futuro rito monocratico accelerato) potrebbero derivare da un certo narcisismo - profilo acutamente approfondito da Renato Rordorf in un articolo edito in giustiziainsieme, nei due aspetti positivo e negativo -, anche perché, come ha scritto Guido Calabresi, «si può essere tentati di pensare che l’esperienza più gratificante per un giudice sia di scrivere la ‘grande’ sentenza».
La questione è che non si tratta soltanto di narcisismo. Nel sistema della valutazione della performance il giudice potrebbe trovarsi di fronte ad una sorta di novello comma 22: se scrive troppo non è efficiente; se scrive poco rischia di non dare adeguato (e dovuto) conto delle ragioni che comunque confortano una valutazione positiva, ad onta dell’esito del giudizio. Il paradosso riguarda, evidentemente in misura minore, anche i giudici della Corte. Se, ai fini delle valutazioni si enfatizzano il numero delle massime estratte dai provvedimenti redatti, la sentenza “dotta” che ripropone il vecchio stilema della ‘sentenza titolo’, forse non è extravagante interrogarsi sull’esigenza di ripensare la metodologia ed il contenuto delle valutazioni, tenendo adeguatamente conto della molteplicità (e pari dignità) dei differenti compiti svolti dai consiglieri.
7. La relazione tra struttura argomentativa dei provvedimenti, organizzazione e gestione del lavoro pone infine un’ultima questione alla quale posso soltanto accennare, molto genericamente, dovendomi avviare alla conclusione.
La questione è quella della modalità di redazione della motivazione mediante riproduzione degli scritti di parte.
Pacifico che, come affermato da S.U. n. 642 del 2015 il provvedimento giudiziario non è un’opera dell’ingegno, la questione della riproduzione degli atti di parte è ‘sensibile’ anche perché intercetta profili disciplinari ed è stata risolta con alcuni profili di differenza dalla sentenza che ho richiamato e da S.U. n. 10628 del 2014. Forse, sarà necessario riflettere sulla circostanza che, se la motivazione non è affare soltanto del giudice (soprattutto quella della Corte allorché enuncia principi di diritto); se la Corte, come icasticamente rimarcato dalle Sezioni Unite in una recente sentenza, “non è sola” nell’enunciare i principi nell’attuale fase di ‘diritto liquido’ ed è attenta al dialogo con le comunità epistemiche, potrebbe uscire esaltata la possibilità di richiamare gli atti, anche riportandoli. Ciò ancora più quando si tratta di enunciare principi di diritto: il giudice non è tenuto a utilizzare espressioni originali, diverse da quelle che hanno avuto la forza di convincerlo e che egli condivide. La motivazione non è ricerca della trattazione dotta ed originale, ma della soluzione convincente. Tanto ancora più con riguardo alle conclusioni del P.G., quale organo che non è parte e che concorre a formare la giurisprudenza della Corte. Ma questa è, un’altra storia alla quale, forse, non sarebbe inopportuno dedicare nel prossimo futuro qualche incontro.
Vi ringrazio dell’attenzione.
*Il testo riproduce l’intervento svolto al convegno “Giurisdizione e motivazione. Dialoghi a più voci tra linguaggio e organizzazione del lavoro”, tenutosi lo scorso 8 giugno 2022 a Roma, Corte Suprema di Cassazione, Aula Magna, organizzato da Areadg Cassazione.