La struttura argomentativa dei provvedimenti, l’organizzazione del lavoro e la gestione dei carichi*
Intervento di Giorgio Fidelbo
1. Da sempre in Corte di cassazione si discute sulla motivazione dei provvedimenti.
Nel maggio del 1989 - non era ancora in vigore il nuovo processo penale - il Primo Presidente Brancaccio sollecitò una discussione tra i consiglieri diffondendo un “Appunto sulla motivazione in Cassazione”, in cui si indicavano alcuni criteri orientativi per la redazione delle sentenze, diretti a realizzare quella concisione cui allora si riferiva l'art. 132 cod. proc. civ. e a cui si sarebbe riferito l’art. 546, lett. e) del nuovo codice di procedura penale.
Può dirsi che ogni Primo Presidente della Corte di cassazione si è posto il problema della concisione e della chiarezza delle motivazioni, redigendo circolari o predisponendo protocolli su come dovesse essere strutturata la motivazione, sia dal punto vista formale, che da quello logico (ricordo i lavori dei presidenti Lupo, Santacroce, Canzio, Mammone).
Questo interesse, costante, per la redazione delle sentenze deriva dall’esigenza di ridurre l’eccesso di motivazione che, da sempre, caratterizza le argomentazioni delle nostre decisioni, tanto che la loro “sovrabbondanza” argomentativa ha suscitato l’interesse di un comparatista nord americano, Jhon Merrymann, che, alla fine degli anni settanta, in un lavoro intitolato “The Italian Style”, presentato da Stefano Rodotà nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università La Sapienza di Roma, nel valorizzare già allora il diritto giurisprudenziale, non mancava però di evidenziare nelle sentenze italiane l’autoreferenzialità e, appunto, l’eccesso di motivazione.
2. Si possono individuare almeno tre esigenze alla base dell’interesse per una motivazione “proporzionata”: a) migliorare l’organizzazione del lavoro del magistrato; b) aumentare la produttività (nel senso che motivazioni più stringate servono a definire un numero più alto di procedimenti); c) ridurre i tempi del processo.
Ebbene, se queste possono essere le ragioni per cui è necessario “lavorare” sulla motivazione va sottolineato – lo ha già detto il Primo Presidente nel suo intervento di apertura – che oggi il tema non può essere messo in relazione né con l’obiettivo di incrementare la produttività del consigliere di cassazione né con la finalità di ridurre i tempi del processo di legittimità, almeno per quanto concerne il settore penale della nostra Corte. Si tratta di due obiettivi che non appaiono giustificati neppure in relazione alle previsioni collegate al PNRR e al recupero di efficienza che si vuole realizzare nell’ambito del settore giustizia, perché occorre riconoscere che la Corte di cassazione penale è, oggi, il giudice forse più efficiente nel nostro sistema: dai dati statistici pubblicati nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2021 risulta che la durata media dei procedimenti non supera i sette mesi, che la Corte di cassazione penale ha definito un numero di procedimenti (47.040) maggiore di quelli pervenuti (46.298), con un indice di ricambio del 101,6% e che vi è stata una consistente diminuzione delle pendenze, tanto che il Primo Presidente nella Relazione citata ha parlato di risultati “molto soddisfacenti che indicano la stabile costante affidabilità del sistema penale di legittimità, nonostante la grave crisi epidemiologica che ha colpito il Paese”.
In presenza di questi dati, uniti alla considerazione che ogni consigliere redige in media oltre 350 sentenze all’anno, alla Cassazione penale non può richiedersi un ulteriore aumento del carico di lavoro in termini di efficienza e nemmeno in funzione di realizzare una contrazione dei tempi di definizione dei procedimenti, anche nella prospettiva del nuovo istituto dell’improcedibilità.
Piuttosto il discorso sulla motivazione va visto in funzione del miglioramento delle condizioni di lavoro del consigliere, un miglioramento che punti ad innalzare la qualità delle sentenze, che devono essere espressione di un giudice che vuole essere “corte suprema”, non solo giudice di “terza istanza”.
L’obiettivo è quello di valorizzare le sezioni semplici, che devono contribuire in misura maggiore a “fare nomofilachia”, assieme alle sezioni unite, nella prospettiva di dare certezza ai cittadini e di assicurare la prevedibilità dei comportamenti.
Attualmente, le sezioni semplici si occupano, prevalentemente, dello ius litigatoris e, con estrema fatica, a causa del carico di ricorsi, riescono, talvolta, a gestire anche lo ius constitutionis, a cui invece è dedicata l’attività delle sezioni unite. Questa doppia natura della Corte di cassazione, sintetizzata nella felice definizione di “vertice ambiguo”, è nel DNA di questo giudice, in quanto, da un lato, l’art. 65 del R.D. n. 12 del 1941 attribuisce alla Corte di cassazione la funzione di “assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge”, dall’altro, l’art. 111, settimo comma, Cost. prevede che contro tutte le sentenze è sempre ammesso il ricorso in cassazione per violazione di legge: la disposizione dell’ordinamento giudiziario disegna una Cassazione la cui unica attività sembrerebbe quella nomofilattica; la Costituzione, invece, la configura come giudice dei diritti, un giudice che deve garantire la piena attuazione della tutela dei diritti in ultima istanza. Funzione fondamentale quest’ultima per un giudice moderno, che dialoga continuamente con le Corti europee dei diritti, ma che non può esaurire le attribuzioni riconosciute alle sezioni semplici, alle quali deve essere assicurata anche la possibilità di contribuire all’uniforme interpretazione del diritto, in un rapporto collaborativo e dialettico con le sezioni unite, a cui resta affidato il compito principale di indicare le linee nomofilattiche, risolvendo i contrasti interpretativi tra sezioni semplici.
In assenza di una riforma che riguardi il procedimento in cassazione, in grado di realizzare una deflazione del carico ingestibile dei ricorsi, questi obiettivi possono essere raggiunti attraverso una diversa organizzazione del lavoro che punti ad un innalzamento della qualità della nostra giurisprudenza anche attraverso un miglioramento delle motivazioni delle sentenze.
3. Il gruppo di lavoro sulla motivazione, voluto fortemente dal Primo Presidente Pietro Curzio e dalla Presidente Aggiunta Margherita Cassano, si è occupato inizialmente della motivazione delle ordinanze di inammissibilità della settima sezione.
Come è noto, la settima sezione è una sezione strategica, in quanto, occupandosi di oltre il 40% dei circa 50.000 ricorsi che pervengono annualmente in Corte di cassazione e di cui rileva l’inammissibilità, consente alle sezioni semplici di potersi concentrare sui ricorsi e sui procedimenti più rilevanti, in questo modo assicurando una organizzazione virtuosa del lavoro dei giudici, sollevati dal controllo seriale delle inammissibilità. In altri termini, si realizza una ripartizione organizzativa di competenze, che ha prodotto efficienza al lavoro della Corte di cassazione.
Invero, questa sezione, istituita con la legge n. 128 del 2001, nasce con un obiettivo più ambizioso, che è quello di deflazionare il carico in entrata dei ricorsi. In mancanza di strumenti dedicati alla selezione in ingresso, come avviene in molte Corti Supreme europee, spetta alla settima sezione il ruolo di operare un controllo selettivo di ciò che può arrivare in decisione, controllo che avviene attraverso la verifica di ammissibilità dei ricorsi.
Nel gruppo di lavoro si è convenuto che la motivazione delle ordinanze di inammissibilità debba conformarsi a questa funzione della sezione, che non è quella di dare risposte alle questioni sollevate, ma di verificare la sola idoneità del ricorso a costituire il rapporto processuale e, quindi, ad introdurre al giudizio di cassazione. L’ordinanza della settima sezione deve adeguarsi a questa tipologia di controllo, distanziandosi dal concetto e dal contenuto della motivazione dei provvedimenti giudiziali così come generalmente intesa, per strutturarsi come una cesura selettiva che operi da sbarramento all’ingresso in Cassazione dei ricorsi inammissibili.
Per questo tipo di verifica è sufficiente un provvedimento che dia atto del controllo effettuato, con una motivazione assai contratta, che giustifichi il perché il ricorso non appare idoneo a stabilire un valido rapporto processuale. Su queste basi il gruppo di lavoro ha proposto un tipo di motivazione a “frase unica”, ma pur sempre individualizzata rispetto ai motivi dedotti nel ricorso.
Una motivazione così strutturata non appare in contrasto con la giurisprudenza della Corte EDU, che ha stigmatizzato alcune decisioni della Cassazione, ma con riferimento a tutt'altro aspetto, e cioè riguardo al tema dell'autosufficienza del ricorso, che ha già evocato il Primo Presidente.
Va detto che il ricorso ad una motivazione siffatta per le ordinanze di inammissibilità non è certo sufficiente ad implementare la capacità deflattiva, capacità che la “settima” in realtà non ha mai avuto dal momento che dalla sua istituzione si è registrato un tendenziale e progressivo aumento dei ricorsi, con l’unica flessione nel 2020, a causa del rallentamento del lavoro giudiziario per la crisi pandemica: occorrono altri sforzi organizzativi volti a rendere capace la settima sezione di dare risposte di inammissibilità veloci, tempestive, perché solo la tempestività nella dichiarazione di inammissibilità potrà sortire l’effetto di deflazionare il numero complessivo di ricorsi, evitando che vengano presentati solo - o anche - per allontanare il momento di irrevocabilità della decisione.
È noto che negli anni passati i tempi di definizione in settima sezione siano stati più lunghi rispetto ai tempi osservati dalle sezioni semplici ed è questa situazione patologica che ha impedito che il controllo sulla ammissibilità avesse una capacità deflattiva. Va detto che i tempi ultimamente si sono ridotti e quindi è opportuno puntare sull’obiettivo di un loro forte contenimento proprio per realizzare finalmente una contrazione del numero dei ricorsi.
4. Ma il discorso sulla motivazione riguarda soprattutto le sentenze che vengono elaborate dalle sezioni semplici: e qui il tema è più interessante, anche se più complesso.
Fino ad ora le indicazioni fornite dai vari protocolli e circolari interni hanno puntato sulla c.d. motivazione semplificata: secondo una prassi abbastanza diffusa si distingue, già in fase di deliberazione del ricorso, tra sentenze a cui si riconosce una valenza nomofilattica e sentenze che tale vocazione non hanno, per cui è in base a tale differenziazione che il collegio decide il tipo di motivazione, tra cui quella c.d. semplificata. Va detto, però, che dalle statistiche risulta che questa tipologia di redazione delle sentenze viene poco utilizzata - soprattutto in quelle sezioni che riescono a selezionare una percentuale alta di ricorsi da assegnare alla settima sezione -, perché le decisioni che vengono prese nelle sezioni semplici hanno ormai quasi sempre un tasso di complessità che non giustifica una motivazione semplificata.
Occorre muoversi in altre direzioni e ricorrere – come in più occasioni è stato detto dalla Presidente Margherita Cassano – a veri e propri protocolli logici della motivazione, che vanno costruiti e condivisi, secondo un’idea espressa anni fa da Francesco Iacoviello.
Cosa sono questi protocolli?
Dovrebbero discendere dall'analisi delle norme, individuando una tecnica operativa che comporta l'uso logico delle categorie giuridiche della motivazione, seguendo passaggi argomentativi coerenti per una serie di settori ed istituti giuridici, sostanziali e processuali. Si tratta di protocolli funzionali ad accorciare i tempi della decisione e anche quelli della stesura della motivazione, assicurando infine decisioni uniformi e, in linea di massima, anche prevedibili.
I protocolli non devono essere considerati limitazioni al libero convincimento del giudice o alla libertà di motivazione, in quanto devono rappresentare un metodo condiviso, in grado di mettere ordine logico ad una certa anarchia motivazionale che molto spesso si riscontra nelle nostre sentenze.
Invero, la nostra giurisprudenza ha conosciuto esempi di questi protocolli logici. Così, in tema di chiamata in correità, le Sezioni unite Marino hanno indicato un metodo, proponendo tipologie logiche della motivazione; lo stesso hanno fatto le Sezioni unite Franzese in materia di nesso di causalità o le Sezioni unite Fisia Italimpianti con riferimento alla confisca del profitto nei confronti dell’ente. Decisioni che, assieme a molte altre, hanno indicato dei percorsi logici di motivazione in settori particolari, percorsi che vengono oggi normalmente utilizzati, magari con scarsa consapevolezza.
Ricordava Margherita Cassano che il gruppo sulla motivazione si dovrà occupare delle sentenze in materia di cautela personale: anche in questo settore si dovrà cercare di individuare le “forme” logiche per la motivazioni, ad esempio, come sindacare il vizio di motivazione sui gravi indizi; quale sia il rapporto tra valutazione dei gravi indizi ed esigenze cautelari (se difettando le esigenze cautelari vada comunque affrontato preliminarmente l'esame dei gravi indizi, come avviene di solito oppure si possano trovare altre soluzioni).
Lo stesso tentativo di costruzione di protocolli logici potrà essere fatto per i provvedimenti di cautela reale, in cui non è deducibile il vizio di motivazione, oppure con riguardo alle misure di prevenzione, rispetto alle quali non vi sono elementi probatori da valutare, ma semplici elementi indiziari, il che rende molto diversa la stessa struttura della motivazione.
Ovviamente si tratta di protocolli sui quali occorre un confronto e che comunque sono destinati a indicare linee e percorsi motivazionali di tendenza, che - per quanto non vincolanti - possono tuttavia contribuire a rendere le decisioni e le connesse motivazioni più omogenee, arrivando a individuare lo “stile” delle sentenze della Corte di cassazione, uno stile non certo solo formale ma di contenuto.
5. Da ultimo, un cenno al tema dell'organizzazione del lavoro, cui pure la presente sessione di lavoro è dedicata.
Se l’obiettivo è quello di migliorare la nostra giurisprudenza puntando ad un maggiore impegno delle sezioni semplici nel ruolo nomofilattico, allora accanto ad una rinnovata attenzione sul fronte “motivazione” occorre prendere atto della necessità di mutare anche la logica e l’organizzazione del lavoro in Corte.
Il presupposto per operare un riassetto nell’organizzazione del lavoro in sezione è la piena condivisione della “cultura del precedente”, che non deve certo essere intesa come passiva omogeneizzazione rispetto alle decisioni delle sezioni unite, il cui effetto vincolante va inquadrato nell’ambito di un dialogo e confronto continui da parte delle sezioni semplici, che porti la giurisprudenza di legittimità ad essere coerente e nello stesso tempo capace di adeguarsi ai cambiamenti sociali ed economici in atto, superando, ove necessario, le stesse decisioni delle sezioni unite, secondo il procedimento previsto dall’art. 618, comma 1-bis cod. proc. pen.
Occorre, inoltre, ricercare una coerenza e una responsabilità soprattutto nell’interpretazione giudiziale, che porti, tra l’altro, al superamento dei contrasti giurisprudenziali interni alle sezioni, prima ancora di rimettere le questioni controverse alle sezioni unite.
Nella società complessa in cui viviamo, la mancanza di certezza nei rapporti giuridici, come pure la indefinibilità degli ambiti applicativi delle fattispecie penali produce formidabili conseguenze negative sui rapporti economici e sulle stesse condotte dei consociati. Non è più sopportabile che all’interno delle sezioni della Corte di cassazione permangano contrasti su materie anche di carattere sostanziale, cioè sull’applicazione di fattispecie penali, sui confini tra lecito e illecito penale. Il superamento dei contrasti non può avvenire solo rimettendo le relative questioni alla decisione delle sezioni unite, in quanto si rischierebbe di ingolfarle, rendendo meno efficace il ruolo nomofilattico che ad esse è attribuito.
Vanno invece valorizzate le riunioni sezionali e, soprattutto, modificato il modo di concepire il lavoro all’interno della sezione. È necessario imparare a lavorare assieme, a confrontarci in un continuo lavoro di gruppo, all’interno e all’esterno delle sezioni. Le tabelle organizzative attribuiscono ad ogni sezione la “competenza” su settori del diritto penale sostanziale e deve essere in primo luogo la sezione ad esprimere il diritto giurisprudenziale sulle sue materie, superando le interpretazioni contrapposte, spesso derivanti da impostazioni individualistiche. In altri termini, occorre avere la consapevolezza di far parte di una “istituzione” e sentire la responsabilità e il peso dell’interpretazione giurisprudenziale e dei suoi effetti.
Attraverso le riunioni di sezione è possibile stabilire un confronto funzionale ad evitare e a superare i contrasti, puntando ad una organizzazione virtuosa che riduca per lo meno il rischio di pronunce contraddittorie, nel tentativo di assicurare una giurisprudenza coerente e prevedibile. Si tratta di riunioni che vanno preparate e gestite ascoltando i diversi punti di vista, nel tentativo di individuare soluzioni condivise che poi trovino espressione nelle decisioni dei singoli collegi. Tutto ciò comporta un grosso impegno dei presidenti di sezione e di tutti i consiglieri, in una permanente dialettica che spesso si presenta difficoltosa, in quanto ci si misura con colleghi che hanno sensibilità e ideologie diverse dal punto di vista giuridico, talvolta concezioni lontane della stessa funzione del diritto penale.
Tuttavia, l’esigenza di puntare su una metodica di lavoro giudiziario diverso, in cui cioè lo scambio di idee e il confronto non avvengano solo al momento della decisione, ma vi sia una preparazione e uno studio preliminare attraverso riunioni periodiche di sezione che siano funzionali a trovare soluzioni condivise sulle scelte interpretative generali, trova conferma oggi nella stessa riorganizzazione giudiziaria, in cui si è introdotto l’ufficio del processo, in ausilio dell’attività del giudice, anche di quello di cassazione. E’ questa la dimostrazione che non è più concepibile un assetto organizzativo giudiziario solipsistico. Il modello organizzativo che deve assicurare coerenza al diritto giurisprudenziale della Corte di cassazione è costituito oggi dalla sezione, composta da magistrati, personale amministrativo e funzionari dell’ufficio del processo.
Se si condivide questo modello, il primo obiettivo da conseguire è, lo si ribadisce, quello di limitare i contrasti giurisprudenziali facendo ricorso, appunto, alle riunioni di sezione le cui conclusioni andranno rispettate, non perché siano vincolanti, ma in quanto si condivida il metodo.
Ciò significa che il collegio dovrà seguire l’orientamento emerso da tali riunioni, magari evidenziando in motivazione che si tratta di un orientamento da ritenere consolidato in sezione. Fermo restando che, nei casi difficili ovvero quando non si raggiunge una base allargata di condivisione, nulla impedisce il ricorso ragionevole alle sezioni unite.
6. Ci troviamo in una fase della nostra storia in cui la forte crisi di legittimazione e di autorevolezza della magistratura avviene in un momento in cui si è riconosciuto, finalmente, al diritto giurisprudenziale una natura “latamente creativa” – con tutti i limiti di una tale definizione –, un riconoscimento a cui avrebbe dovuto seguire un’assunzione ferma di responsabilità nella stessa attività interpretativa, assunzione che non sempre vi è stata. Per riconquistare credibilità nell’opinione pubblica e nei cittadini abbiamo il dovere di governare la nostra giurisprudenza: rendendola chiara nelle motivazioni, nutrendoci della cultura del precedente, sforzandoci di rendere le decisioni prevedibili e, da ultimo, iniziando a confrontarci seriamente sugli effetti del mutamento del diritto giurisprudenziale, soprattutto quando è in malam partem.
*Il testo riproduce l’intervento svolto alla prima sessione del convegno “Giurisdizione e motivazione. Dialogo a più voci tra linguaggio e organizzazione del lavoro”, tenutosi lo scorso 8 giugno 2022 a Roma, Corte Suprema di Cassazione, Aula Magna, organizzato da AreaDg Cassazione.