Lo stato di diritto e l’incostituzionalità di una interpretazione retroattiva delle modifiche peggiorative in tema di concedibilità delle misure alternative. Una prima lettura della sentenza Cost. Cost. 32/2020 sulla “spazzacorrotti”.
di Fabio Gianfilippi
Sono state depositate, mercoledì scorso, le motivazioni della sentenza con la quale la Corte Costituzionale, censurando l’interpretazione contraria data sul punto dal diritto vivente, in assenza di una disposizione transitoria, considera non applicabili le modifiche normative peggiorative derivanti dall’inserimento di un reato nel copioso catalogo di quelli già presenti nell’art. 4-bis ord. penit., ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge, con riferimento però alla sola concedibilità delle misure alternative alla detenzione.
La pronuncia interviene in particolare relativamente all’art. 1, co. 6, lett. b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3, nota con l’icastica definizione di “legge spazzacorrotti”. Un epiteto, per quanto almeno concerne l’esecuzione penale, evocativo di per sé di scenari assai distanti dal precetto costituzionale, per il quale le pene sono rivolte alla risocializzazione di chi ha violato la legge penale, facendo del pur grave reato commesso una ragione di stigma che aderisce sempiternamente alla persona, considerata ormai uno scarto irrecuperabile, con espressione mutuabile dal pensiero di Bauman.
La predetta nuova disposizione normativa prevede che la gran parte dei reati contro la pubblica amministrazione siano annoverati nell’elenco contenuto nell’art. 4-bis co. 1 ord. penit. con una serie di conseguenze assai gravose: l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione non possono essere concesse, a meno che non sia intervenuta collaborazione con la giustizia ai sensi degli art. 58-ter ord. penit. o 323-bis co. 2 cod. pen. oppure non intervenga il meccanismo surrogatorio previsto nel co. 1-bis del medesimo art. 4-bis. Preclusa diviene, in forza del richiamo contenuto nell’art. 2 d.l. 13.05.1991 n. 152, alle stesse condizioni, la liberazione condizionale. Non concedibili la detenzione domiciliare in ragione della condizione di ultrasettantenne, né quella c.d. generica per le pene inferiori ad anni 2 di reclusione, né l’affidamento in prova di tipo terapeutico per pene superiori ai 4 anni, e più lunga la quota di pena espianda per ottenere la semilibertà, o accedere a permessi premio e lavoro all’esterno. Correlativamente, per il richiamo contenuto in tal senso nell’art. 656 co. 9 cod. proc. pen., non risulta sospendibile l’ordine di esecuzione anche per le pene non superiori a quattro anni, con il conseguente ingresso obbligatorio in carcere in attesa delle eventuali decisioni del Tribunale di sorveglianza sulle misure alternative. Molteplici, infine, le conseguenze in termini di trattamento penitenziario: dal numero di colloqui visivi e telefonici sensibilmente ridotto, alla possibilità di vedersi applicato il regime differenziato in peius di cui all’art. 41-bis ord. penit.
Gli effetti prodotti dalla storica pronuncia della Corte Costituzionale, tuttavia, non possono intendersi confinati alla legge “spazzacorrotti”, dovendo ormai rileggersi la disposizione normativa alla ricerca delle precedenti aggiunte in cui, analogamente assente una regola intertemporale, l’applicazione delle modifiche peggiorative è stata sino ad oggi ritenuta applicabile retroattivamente sulla base della interpretazione offerta da una granitica giurisprudenza di legittimità (vd. per tutte la sentenza sez. un. cass. 18.09.2006 n. 30792 in tema di limitazioni per i condannati recidivi), assurta a diritto vivente.
D’altra parte molte volte si è fatto ricorso a questo meccanismo di ampliamento dell’estensione dell’art. 4-bis e, come ricordato recentemente dalla stessa Corte Costituzionale, sembra essersene persa l’originaria ratio di contrasto al fenomeno della criminalità organizzata, poichè “le numerose modifiche intervenute negli anni, rispetto al nucleo della disciplina originaria, hanno variamente ampliato il catalogo dei reati ricompresi nella disposizione, in virtù di scelte di politica criminale tra loro disomogenee, accomunate da finalità di prevenzione generale e da una volontà di inasprimento del trattamento penitenziario, in risposta ai diversi fenomeni criminali di volta in volta emergenti. L’art. 4-bis ordin. penit. si è, così, trasformato in «un complesso, eterogeneo e stratificato elenco di reati» (sentenze n. 32 del 2016 e n. 239 del 2014), nel quale, accanto ai reati di criminalità organizzata, compaiono ora, tra gli altri, quelli di violenza sessuale (…), di scambio elettorale politico-mafioso (…), di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (…) e, da ultimo, anche quasi tutti i reati contro la pubblica amministrazione (…).” (sent. Corte Cost. 188/2019). Una presa d’atto, forse non obbligata, che richiede paletti significativi che, comunque, la Consulta sta ponendo a più livelli con martellante efficacia.
Il problema oggi affrontato, e risolto attraverso una sentenza interpretativa di accoglimento tanto radicata nei principi essenziali dello stato di diritto da poter trarre argomenti persino da una epocale sentenza del 1798 della Corte Suprema degli Stati Uniti (cfr. pr. 4.3.1 del considerato in diritto), si era dunque già varie volte posto, perché il legislatore aveva mancato di introdurre disposizioni transitorie idonee ad evitare una applicazione retroattiva delle modifiche peggiorative contenute nell’art. 4-bis già in occasione di precedenti ampliamenti del catalogo, ma anche ad esempio quando fu stabilita una stretta in materia di trattamento rieducativo per i condannati recidivi reiterati (cfr. L. 251/2005). La natura non sostanziale delle norme di ordinamento penitenziario era stata ogni volta ribadita, in sede di merito e poi di legittimità. La stessa Corte Costituzionale a questo proposito era stata già chiamata ad esprimersi e con l’odierna pronuncia ha in tal senso rivendicato espressamente, pur poi ricordando la complessa strada interpretativa sin qui seguita e non abbandonata, la facoltà di rimeditare i propri stessi orientamenti interpretativi nel tempo (cfr. par. 3.6 del considerato in diritto).
Mai però, come in questo caso, erano state così ampie e diffuse le perplessità sull’applicazione del principio del tempus regit actum alle modificazioni peggiorative intervenute in materia di concedibilità delle misure alternative, come a tutte le norme di ordinamento penitenziario, in correlazione con la loro sempre ritenuta natura non sostanziale.
Alcune pronunce di merito, in realtà, si erano spinte verso il superamento di questa impostazione, soprattutto alla luce dell’insegnamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo maturato in relazione alla garanzia, in termini di effettiva prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie, di cui all’art. 7 CEDU (vd. in particolare la sent. Grande Chambre 21.10.2013, Del Rio Prada c. Spagna, che ritiene soggette al divieto di applicazione retroattiva le norme in materia di esecuzione penale che determinino una “ridefinizione o modificazione della portata applicativa della pena”).
Allo stesso modo le undici ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale, che hanno dato origine alla sentenza in commento, sollevano la quaestio anche in relazione all’art. 7 CEDU e all’art. 117 Cost.
Provengono da Tribunali di sorveglianza chiamati a vagliare istanze di misure alternative e di permessi premio, oppure muovono da giudici dell’esecuzione in relazione ad incidenti relativi ad ordini di esecuzione che avevano determinato la carcerazione per condannati per reati contro la pubblica amministrazione commessi in data precedente all’entrata in vigore della legge e che avevano visto peggiorare ex abrupto le proprie prospettive di esecuzione penale.
I parametri costituzionali invocati sono molteplici, ma è risultato assorbente il riferimento al contrasto con la garanzia dell’irretroattività di cui all’art. 25 co. 2 Cost. Come anticipato la Corte utilizza lo strumento della sentenza interpretativa di accoglimento, con intervento additivo che, in forza dello stesso tenore letterale della norma costituzionale evocata, appare obbligato e comporta la non applicabilità delle modifiche peggiorative (o meglio di alcune di esse, per come vedremo) ai condannati per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge che le ha introdotte.
Come noto, in forza dell’art. 25 co. 2 Cost. è vietata l’applicazione retroattiva di una norma incriminatrice, sia laddove la condotta fosse in precedenza penalmente irrilevante, sia dove fosse, al momento del fatto, già prevista come reato ma con pena meno severa di quella poi introdotta nell’ordinamento.
La Corte ricorda che ciò consente che le persone possano ragionevolmente prevedere le conseguenze penali delle proprie scelte e, anche nel corso di un procedimento penale eventualmente instauratosi, governino adeguatamente le opzioni difensive che sono loro garantite. Consente, soprattutto, e perciò si evoca a ragione il “cuore stesso del concetto di stato di diritto”, di erigere un bastione nei confronti degli eventuali abusi di un potere politico che volesse cedere alla tentazione, storicamente non infrequente, di utilizzare gli strumenti della legge penale per vendicarsi del proprio avversario e “stabilire o aggravare ex post pene per fatti già compiuti”.
Nel caso che ci occupa viene quindi dichiarata l’incompatibilità costituzionale del diritto vivente a mente del quale tutte le norme che disciplinano l’esecuzione penale sono sottratte al divieto di applicazione retroattiva in forza della loro natura non sostanziale, e se ne estrapolano quelle che comportano “una trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale”, per le quali l’applicazione retroattiva è preclusa proprio dal principio di cui all’art. 25 co. 2 Cost. In particolare, sono considerate rientranti in questo sottoinsieme, tutte quelle che comportavano, prima dell’introduzione della “legge spazzacorrotti”, la prevedibilità di una esecuzione penale al di fuori delle mura del carcere, mediante misure alternative in cui è marcato il profilo rieducativo e ridotta la pur sussistente limitazione della libertà personale. Si tratta di misure che incidono sulla qualità e quantità della pena “di natura sostanziale” (cfr. già sent. Corte Cost. 349/1993) e ciò deve dirsi anche della sospensione dell’ordine di esecuzione che, al di là della collocazione nel codice di procedura, spiega l’effetto sostanziale, decisivo, di consentire al condannato di attendere in libertà la pronuncia del Tribunale di sorveglianza sulla eventuale concessione di misure alternative alla detenzione, in presenza delle altre condizioni previste dall’art. 656 cod. proc. pen., invece che di subire intanto, e per tempi non prevedibili, la carcerazione.
Quanto alle altre modificazioni peggiorative derivanti dall’inserimento nell’elenco di cui all’art. 4- bis co. 1 ord. penit., la Corte Costituzionale ritiene che per le stesse sia invece compatibile una applicazione a tutte le pene al momento della loro esecuzione, a prescindere dall’eventuale commissione del reato della cui esecuzione si parla in epoca precedente alla loro introduzione. Gli argomenti sembrano essere soprattutto che in tal modo si garantisce omogeneità al trattamento penitenziario, che altrimenti soffrirebbe la coesistenza di “una pluralità di regimi esecutivi paralleli, ciascuno legato alla data del commesso reato”, incompatibile con una oculata gestione del complesso mondo penitenziario, e si consente inoltre all’ordinamento di reagire con appropriatezza alle esigenze di sicurezza che sopravvengano nel tempo, come pure di non compromettere eventuali modificazioni che, al di là di una semplicistica riconduzione al novero delle novità favorevoli o sfavorevoli al condannato, ne mutino la vita penitenziaria.
Tra queste modifiche per le quali non è preclusa la retroattività, non figurano però soltanto, secondo la Consulta, le disposizioni relative ad esempio ai colloqui visivi e alle telefonate o alla possibilità di vedersi inseriti in un circuito Alta Sicurezza o applicato il regime differenziato di cui all’art. 41-bis ord. penit., ma anche quelle che riguardano i benefici penitenziari come il permesso premio e l’autorizzazione a svolgere il lavoro all’esterno ex art. 21 ord. penit.
Nel distinguere le strade che può prendere l’esecuzione penale “dentro e fuori” dal carcere, questi ultimi strumenti vengono considerati parte del percorso intramurario e dunque legittimamente limitabili al sopravvenire di un mutamento normativo in tal senso. Eppure la Corte Costituzionale, ancora con la sent. 253/2019, aveva ribadito la “funzione pedagogico-propulsiva” del permesso premio quale momento di prodromica sperimentazione verso la concessione delle misure alternative. Eppure il lavoro all’esterno ex art. 21, pur dogmaticamente ben distinto dalla semilibertà, gli è equiparabile dal punto di vista dei concreti spazi liberi lasciati al condannato (al punto che negli istituti penitenziari i detenuti che possono accedere all’uno o all’altro di questi benefici convivono nelle stesse sezioni, diverse da quelle che ospitano i ristretti che non ne sono destinatari).
Alla strada, pure percorribile, di separare gli strumenti del trattamento rieducativo (e dunque tutti i benefici penitenziari) da quelli della mera vita penitenziaria, la Corte Costituzionale ha preferito quella che distingue nettamente gli strumenti di accesso a misure di comunità fuori dal contesto penitenziario, e quelli che parlino ancora il linguaggio intramurario e che, appunto, non trasformino la natura della pena. E ciò anche se è lo stesso Giudice delle leggi a mostrare consapevolezza dell’importanza di una esecuzione in carcere illuminata dall’obbiettivo, in tempi anche medio-lunghi, di poter rientrare sul territorio seppur solo per quelli parentesi feconde di libertà che sono i permessi premio.
Per questi ultimi benefici la pronuncia considera incompatibile con i principi costituzionali soltanto che il detenuto, che abbia già concretamente raggiunto un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio, se lo veda oggi precludere dalla novità normativa, nel solco di un insegnamento costituzionale molto radicato circa la non regressione incolpevole nel trattamento.
All’esito della pronuncia della Corte Costituzionale, dunque, ai condannati per delitti commessi prima dell’entrata in vigore della “legge spazzacorrotti” tornano ad essere concedibili, previo prudente apprezzamento della magistratura di sorveglianza, le misure alternative alla detenzione e la liberazione condizionale, a prescindere dalla collaborazione con la giustizia, e debbono sospendersi gli ordini di esecuzione per le pene relative ai delitti contro la pubblica amministrazione, in presenza delle altre condizioni richieste dall’art. 656 cod. proc. pen. e senza applicazione del divieto di cui al co. 9 lett. a).
Allo stesso modo, deve ritenersi che non sia compatibile con l’art. 25 co. 2 Cost. l’applicazione retroattiva delle limitazioni in tale materia anche per tutti gli altri delitti compresi negli elenchi dell’art. 4-bis ord. penit., ove commessi prima dell’inserimento, e ciò potrà avere rilevanti conseguenze soprattutto per coloro che eseguano oggi pene a distanza di molti anni dal commesso reato (ad esempio frequenti sono i casi di condannati per fatti di violenza sessuale commessi in data anteriore al luglio 2009, quando gli stessi furono inseriti nell’elenco, o di immigrazione clandestina, in data anteriore al più prossimo febbraio 2015).
Deve dedursene inoltre che qualsiasi ulteriore modifica normativa che dovesse intervenire anche in futuro ad opera del legislatore, mediante l’introduzione di limitazioni alle possibilità di accesso alle misure alternative, in quanto determinante un mutamento delle modalità esecutive della pena che si traduce in una trasformazione della sua natura, deve ritenersi costituzionalmente compatibile soltanto se non retroattiva.
In ordine all’inserimento dei delitti contro la pubblica amministrazione nell’elenco di cui all’art. 4-bis, in particolare in rapporto agli art. 3 e 27 Cost, erano state infine proposte anche questioni di legittimità costituzionale non collegate al profilo intertemporale e miranti ad evidenziare l’estraneità di alcune di queste fattispecie alla ratio della norma, come nel caso del peculato (cfr. ord. cass. 18.06.2019 n. 31853; ord. Corte App. Caltanissetta 8.10.2019) e dell’induzione indebita a dare o promettere utilità (cfr. ord. Corte App. Palermo 29.05.2019). Al momento l’esame di tali profili appare rinviato, poiché la Corte Costituzionale, con decisione del 26.02.2020, ha restituito gli atti ai giudici rimettenti per le valutazioni in termini di rilevanza delle questioni, all’esito della sentenza n. 32/2020, poiché si trattava in tutti i casi di fatti commessi in data anteriore all’entrata in vigore della “legge spazzacorrotti”. Uno spazio di rilevanza che, almeno per ciò che concerne, ad esempio, le preclusioni all’accesso ai permessi premio ed al lavoro all’esterno, così come in materia di limitazioni al trattamento (e loro funzionalità agli obiettivi di sicurezza perseguiti dall’art. 4-bis ord. penit.) sembra di fatto esservi ancora.