Abstract L’istituto giuridico delineato dall’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario ha assunto, nel nostro Paese, un’indiscutibile valenza simbolica. Per tale ragione, il discorso pubblico che lo riguarda risente di inopportune semplificazioni, quando non di vere e proprie distorsioni, generate da un approccio troppo spesso unidirezionale e che appare significativamente condizionato dalla sua genesi storica. Il 41-bis, infatti, rimanda, nella nostra coscienza collettiva, a una stagione sanguinosa di attacco alle istituzioni dello Stato; sicché ogni critica dell’esistente viene a volte interpretata, non sempre in buona fede, come un inaccettabile cedimento alle forme più pericolose di criminalità, sino ad essere addirittura bollata come una sorta di tradimento di chi ha sacrificato la propria vita per lo Stato. In molte analisi, poi, si avverte il riflesso di giudizi preconcetti, a partire da posizioni opposte sulle questioni del carcere. Su un versante vi sono coloro che, partendo dalla esclusiva considerazione, certamente unilaterale, della persona detenuta e dei suoi diritti, qualificano il 41-bis come una sorta di tortura di Stato, una forma legalizzata di violazione dei diritti fondamentali, tale da incidere sulla dignità di chi vi è sottoposto. Sull’altro versante, si collocano quanti ritengono tali limitazioni del tutto giustificate, non già in ragione degli scopi attribuiti all’istituto, consistenti nell’impedire che i capi di pericolose aggregazioni criminali possano continuare a dirigerle dal carcere, ma unicamente per la gravità dei reati che costoro hanno commesso e per la pericolosità che essi, pur detenuti, ancora esprimono, ritenute tali da giustificare, con una evidente torsione dei principi generali dell’ordinamento, una maggiore durezza della pena loro inflitta.
Compito del ceto dei giuristi, studiosi e operatori pratici, è quello di compiere analisi razionali che diano conto dei problemi, che indubbiamente esistono, e che siano in grado di suggerire possibili soluzioni, con l’obiettivo - sempre affermato, ma spesso non realizzato - di trovare un equilibrio accettabile tra un istituto di cui non possiamo ancora fare a meno e i diritti fondamentali delle persone che vi sono sottoposti. Diritti che la matrice personalistica del nostro sistema costituzionale impone di riconoscere a qualunque cittadino, fosse anche l’autore del crimine più efferato. Quello qui proposto vuole essere un tentativo in tale direzione.
Sommario (prima parte): 1. All’origine dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario. 1.1. L’art. 90 Ord. pen. - 1.2. Il decreto legge 8 giugno 1992, n. 306. - 1.3. La prima fase di applicazione dell’art. 41-bis Ord. pen. - 1.4. Le sentenze della Corte costituzionale degli anni ’90. - 1.5. Le pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo tra gli anni ‘90 e i primi anni 2000. - 1.6. Le novità normative sul finire degli anni ‘90. - 2. Le modifiche dell’articolo 41-bis introdotte dalla legge n. 279 del 2002. - 3. Le modifiche del 2009 - 3.1. I destinatari del provvedimento. - 3.2. I contenuti del regime differenziato. - 4.1. Le circolari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. - 5. La disciplina delle proroghe del regime differenziato. - 6. La tutela giurisdizionale.
1. All’origine dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario.
1.1. L’art. 90 Ord. pen.
Con l’approvazione della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà (di seguito Ord. pen.), il nostro Paese salutò la conclusione del grande processo politico-culturale ispirato dal movimento per la riforma penitenziaria, che aveva finalmente messo al centro del sistema normativo la persona detenuta e i suoi bisogni, quali punti di partenza per una serie articolata di interventi istituzionali (il cd. welfare penale) volti a realizzare l’obiettivo costituzionale del reinserimento sociale degli autori di reati. Nondimeno, lo stesso legislatore della riforma, prendendo atto del clima estremamente difficile all’epoca esistente all’interno degli istituti penitenziari, aveva previsto, all’art. 90, che, in presenza di gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza all’interno delle strutture penitenziarie, le regole ordinarie del trattamento potessero essere temporaneamente sospese con provvedimento motivato del Ministro per la grazia e giustizia. Di tale facoltà fu ben presto fatta applicazione, motivata sia con il clima generale nelle carceri, contrassegnato da frequenti evasioni[1] e rivolte, tanto da spingere il Governo a valutare la mobilitazione dell’esercito con compiti di vigilanza esterna degli istituti, sia con il deciso palesarsi dell’emergenza terroristica, all’esterno e all’interno delle strutture penitenziarie. Dopo che, nel maggio 1977, il Governo aveva individuato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa quale «incaricato del coordinamento dei servizi di sicurezza esterna degli istituti penitenziari», con il decreto interministeriale del 21 luglio 1977 furono istituite, su proposta dello stesso Dalla Chiesa e proprio in applicazione dell’art. 90 Ord. pen., i primi cinque carceri di “massima sicurezza” (Favignana, Asinara, Cuneo, Fossombrone e Trani) nei quali si intendeva esercitare un più efficace controllo sulla popolazione detentiva al fine di contrastare il formarsi di alleanze tra le associazioni terroristiche e la criminalità comune e/o organizzata e di interrompere i flussi comunicativi tra l’interno e l’esterno del carcere. In queste strutture penitenziarie (alle quali, dal dicembre del 1977, si aggiunsero quelle di Novara, Termini Imerese, Nuoro e Pianosa), le assegnazioni venivano compiute, senza alcuna forma di controllo giurisdizionale, nei confronti dei soggetti che si erano resi responsabili di gravi condotte all’interno degli istituti o che, all’esterno di essi, avevano commesso reati violenti o terroristici; e il relativo regime penitenziario si caratterizzava per un particolare rigore, in quanto le persone che vi erano ristrette pativano limitazioni nella partecipazione alle attività comuni (quali lo svolgimento di attività lavorative diverse da quelle «domestiche», la frequentazione della scuola o di biblioteche, la partecipazione alle attività di culto ecc., con l’unica eccezione costituita dalle «ore di passeggio»), nonché nei colloqui con i familiari, che venivano svolti attraverso un pannello divisorio per impedire il contatto fisico, sotto la sorveglianza da parte del personale del Corpo degli Agenti di custodia, peraltro in genere estesa alle 24 ore.
Benché l’istituzione dei primi istituti di massima sicurezza fosse stata giustificata, sul piano formale, attraverso il riferimento all’art. 90 Ord. pen. e, dunque, a una norma primaria, il concreto atteggiarsi del regime penitenziario attuato all’interno di tali strutture veniva definito dai singoli regolamenti di istituto, sia pure con modalità rese tendenzialmente uniformi da indicazioni offerte a livello centrale; con il risultato, quindi, che la disciplina dettata dalla legge penitenziaria veniva di fatto derogata con provvedimenti amministrativi assunti dal Responsabile del coordinamento dei servizi di sicurezza, sostanzialmente senza alcuna forma di controllo. Per tale ragione, dopo che, con la strage di via Fani, il fenomeno terroristico aveva fatto registrare il momento più drammatico dell’attacco al cuore dello Stato, con due decreti ministeriali del 22 dicembre 1982 l’art. 90 Ord. pen. divenne il perno su cui costruire, con una precisa indicazione della loro durata temporale, le limitazioni da applicare, negli istituti specificamente individuati, al regime detentivo dei soggetti che vi venivano assegnati; limitazioni che riguardavano la costante applicazione del visto di censura della corrispondenza, la sospensione delle comunicazioni telefoniche con i familiari e i terzi soggetti e della possibilità di ricevere pacchi dall’esterno del carcere, il divieto di partecipare all’organizzazione di attività culturali, ricreative e sportive, le particolari modalità di fruizione dell’aria aperta, non più consentita in gruppo, il divieto per il detenuto di acquistare genere alimentari a proprie spese. Pur avendo avuto, dunque, l’applicazione dell’art. 90 Ord. pen. il pregio di stabilire limiti e durata delle restrizioni, essa aveva finito per stabilizzare, anche per effetto di una serie di proroghe e dell’estensione dello statuto di specialità ad altri istituti (quali Torino, Ariano Irpino, Foggia, Voghera), una modalità non ordinaria di organizzazione degli istituti, in maniera non coerente con il carattere eccezionale che, in origine, ne connotava la ratio[2]. Inoltre, da più parti era stato rilevato il possibile contrasto con i principi costituzionali di alcune sue misure, in specie per quanto riguarda la disciplina della censura della corrispondenza (sottratta all’autorità giudiziaria) e la vera e propria sostituzione con disposizioni amministrative di alcune norme previste dalla legge penitenziaria, come quelle relative alla disciplina della fruizione dell’aria aperta[3].
Anche per tale ragione, dopo che, nel corso del 1984, alcuni decreti avevano ridotto il numero dei carceri speciali a soli 3 istituti (Spoleto, Foggia e Carinola) e avevano eliminato alcune restrizioni (in relazione alle attività scolastiche, culturali e ricreative, alle modalità dei colloqui con i familiari, ora consentiti senza i pannelli divisori e alla censura della corrispondenza epistolare, finalmente rimessa alla competenza dell’autorità giudiziaria), con l’art. 10 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (cd. legge Gozzini), l’art. 90 Ord. pen. fu abrogato; e al suo posto fu introdotto l’art. 41-bis Ord. pen., rubricato «situazioni di emergenza». Con tale nuova disposizione si stabiliva, al comma 1, che «in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza» il Ministro di grazia e giustizia potesse disporre, nell’intero istituto penitenziario o in una parte di esso, la sospensione delle regole di trattamento dei detenuti e degli internati.
Contemporaneamente, al fine di rafforzare gli strumenti di gestione della cd. pericolosità penitenziaria, riconducibile a gravi forme di aggressione del personale o di altri detenuti, il legislatore introdusse l’art. 14-bis Ord. pen., che consegnava all’Amministrazione penitenziaria, con la possibilità un controllo giurisdizionale successivo, il potere di sottoporre a una modalità individualizzata di trattamento, per un periodo non superiore a sei mesi (ma prorogabile, anche più volte, per non più di tre mesi), i condannati, gli internati e gli imputati che, con le loro condotte, compromettessero la sicurezza o turbassero l’ordine negli istituti; che con la violenza o minaccia impedissero le attività degli altri detenuti o internati; che nella vita penitenziaria si avvalessero dello stato di soggezione degli altri detenuti nei loro confronti; o che avessero tenuto comportamenti particolari in occasione di precedenti carcerazioni o anche in libertà, indipendentemente dall’imputazione. In questo modo, la legge Gozzini differenziò la questione della gestione di fenomeni collettivi di turbamento dell’ordine e della sicurezza, da quella della pericolosità penitenziaria del singolo detenuto, correlata a una situazione di rischio per l’ordine e la sicurezza interne all’istituto e non rispetto alla situazione esterna ad esso.
1.2. Il decreto legge 8 giugno 1992, n. 306.
In questo scenario irruppe la drammatica stagione delle stragi di mafia, che diede origine al decreto legge 8 giugno 1992, n. 306 (convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356). Accanto alla ulteriore stretta rispetto all’accesso ai benefici penitenziari per gli autori di reati di criminalità organizzata, in specie mafiosa, già avviata dal decreto legge 13 maggio 1991, n. 152 (convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203), fu prevista, con l’introduzione del comma 2 dell’41-bis Ord. pen., la facoltà per il Ministro di grazia e giustizia, anche a richiesta del Ministro dell’interno, di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge penitenziaria che potessero porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti previsti dal comma 1 dell’art. 4-bis Ord. pen, sempre che ricorressero gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica.
Tale modifica segnò una indiscutibile evoluzione delle misure limitative delle regole ordinarie del trattamento, da una dimensione strettamente penitenziaria, propria dell’art. 14-bis e del comma 1 dell’art. 41-bis Ord. pen, a quella extramuraria[4]. Infatti, il riferimento, contenuto nel comma 2 dell’art. 41-bis Ord. pen., ai «gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica» certificava come la ratio dell’istituto andasse ora rinvenuta nella necessità di garantire la tutela della collettività esterna, quale tassello di una più ampia strategia di contrasto della criminalità organizzata, sganciando le limitazioni al trattamento penitenziario da una dimensione attinente alla sola sicurezza interna al carcere[5]. In altri termini, con l’introduzione del comma 2, la ratio della sospensione delle ordinarie regole del trattamento penitenziario era diventata quella di impedire ai soggetti che vi venivano sottoposti di mantenere un legame e, soprattutto, un canale comunicativo con i gruppi criminali sul territorio. Ciò sul presupposto, confermato dalla prassi giudiziaria, per cui la detenzione ordinaria non si era dimostrata in grado di rompere il vincolo associativo, né di impedire che i vertici delle organizzazioni mafiose continuassero a esercitare, durante la carcerazione, un’attività di direzione del sodalizio di appartenenza[6].
1.3. La prima fase di applicazione dell’art. 41-bis Ord. pen.
In questa prima fase, l’art. 41-bis Ord. pen. non definiva in alcun modo i contenuti del provvedimento ministeriale, lasciato sostanzialmente alle scarne indicazioni che l’Amministrazione penitenziaria forniva con le sue circolari, a partire da quella n. 3359/5809 del 21 aprile 1993. Essa, nel disciplinare l’organizzazione dei diversi circuiti penitenziari, stabiliva, con riferimento ai detenuti sottoposti al regime dell’art. 41-bis Ord. pen, che le restrizioni già previste per il circuito della cd. «alta sicurezza» dovessero essere ad essi applicate «con maggiore rigore» e che, nei loro confronti, dovesse essere espresso un giudizio negativo per quanto riguarda la liberazione anticipata, i colloqui e le telefonate premiali, e non potessero ammettersi i colloqui con assistenti sociali, educatori e psicologi, né, tantomeno, con volontari o altri attori della società esterna. Inoltre, tali soggetti dovevano essere obbligatoriamente assegnati «alle apposite sezioni degli istituti di Asinara, Pianosa, Cuneo, Ascoli Piceno e Spoleto», non potendo essere ristretti insieme agli altri detenuti.
1.4. Le sentenze della Corte costituzionale degli anni ‘90[7].
Dunque, in origine nemmeno le circolari dell’Amministrazione penitenziaria contenevano una disciplina di dettaglio dei contenuti del provvedimento ministeriale, che pertanto poteva disporre qualunque restrizione che potesse ritenersi motivata dalle esigenze di ordine e di sicurezza pubblica.
Anche per questa ragione la Corte costituzionale, in questi anni ripetutamente sollecitata, intervenne per definire le coordinate fondamentali dell’istituto, al fine di ricondurlo in un alveo di compatibilità costituzionale rispetto alle previsioni che, in maniera più accentuata, si ponevano in tensione con i principi generali dell’ordinamento.
In particolare, con la sentenza n. 349 del 1993, la Consulta affermò che l’adozione di eventuali provvedimenti che introducessero ulteriori restrizioni rispetto a quelle ordinarie o che, comunque, modificassero il grado di privazione alla libertà personale, dovesse rispettare le garanzie della riserva di legge e di giurisdizione espresse dall’art. 13 Cost., non potesse consistere in misure contrarie al senso di umanità e al diritto di difesa e dovesse uniformarsi ai principi di proporzionalità e individualizzazione della pena sanciti dall’art. 27, primo e terzo comma e dall’art. 3 Cost. Pertanto, il provvedimento ministeriale di sospensione doveva riguardare solo gli istituti dell’ordinamento penitenziario di competenza dell’Amministrazione penitenziaria e relativi al regime di detenzione in senso stretto. Inoltre, il regime differenziato doveva giustificarsi sia per le necessità di rieducazione del detenuto, sia per quelle di tutela della sicurezza e dell’ordine, dovendo essere motivato per ciascuno dei detenuti cui era rivolto, in modo da consentire all’interessato un’effettiva tutela giurisdizionale attraverso il reclamo al giudice ordinario[8] sotto il profilo della proporzionalità delle misure adottate e del rispetto di situazioni soggettive non comprimibili[9].
A quest’ultimo proposito, con la sentenza n. 410 del 1993, la Corte costituzionale individuò nella procedura di reclamo prevista dall’art. 14-ter Ord. pen. quella applicabile anche ai provvedimenti che disponevano il regime dell’art. 41-bis.
Successivamente, con la sentenza 18 ottobre 1996, n. 351 la Consulta, andando di diverso avviso rispetto all’interpretazione accolta dalla Corte di cassazione (secondo cui i provvedimenti di applicazione del regime differenziato erano reclamabili davanti al tribunale di sorveglianza soltanto per valutare l’esistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 41-bis Ord. pen.), affermò che il tribunale doveva ritenersi investito anche del controllo sul contenuto del provvedimento di sospensione, onde verificare la congruità delle misure adottate rispetto all’esigenza di tutelare l’ordine e la sicurezza, dovendo riconoscersi, in caso di riscontro negativo, che la deroga all’ordinario regime carcerario era ingiustificata e che, pertanto, essa assumeva una portata puramente afflittiva. Pertanto, lo stesso tribunale poteva disapplicare, in tutto o in parte, il provvedimento ministeriale, in quanto investito di una giurisdizione di natura non impugnatoria, avente ad oggetto i diritti e il trattamento del detenuto. Con la stessa sentenza, inoltre, la Consulta affermò un principio fondamentale di questa materia, sempre ribadito nei successivi pronunciamenti, ovvero che con il regime differenziato «non possono disporsi misure che per il loro contenuto non siano riconducibili alla concreta esigenza di tutelare l’ordine e la sicurezza, o siano palesemente inidonee o incongrue rispetto alle esigenze di ordine e di sicurezza che motivano il provvedimento». Tali misure infatti «non risponderebbero più al fine per il quale la legge consente che esse siano adottate, ma acquisterebbero un significato diverso, divenendo ingiustificate deroghe all’ordinario regime carcerario, con una portata puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale».
Infine, con la sentenza n. 376 del 1997, la Corte costituzionale evidenziò che l’applicazione del regime differenziato non poteva comportare la sospensione delle attività di osservazione e trattamento previste dall’art. 13 Ord. pen., né la preclusione alle altre attività volte alla rieducazione del detenuto, che avrebbero dovuto essere comunque organizzate con modalità idonee a impedire contatti con altri detenuti e da non favorire i collegamenti con l’organizzazione criminale[10]. Nel frangente, la Consulta, oltre a ribadire che i decreti applicativi del regime differenziato dovevano essere «concretamente giustificati in relazione alle predette esigenze di ordine e sicurezza», affermò che «da un lato, il regime differenziato si fonda non già astrattamente sul titolo di reato oggetto della condanna o dell’imputazione, ma sull’effettivo pericolo della permanenza di collegamenti, di cui i fatti di reato concretamente contestati costituiscono solo una logica premessa»; e che «dall’altro lato, le restrizioni apportate rispetto all’ordinario regime carcerario non possono essere liberamente determinate, ma possono essere – sempre nel limite del divieto di incidenza sulla qualità e quantità della pena e di trattamenti contrari al senso di umanità – solo quelle congrue rispetto alle predette specifiche finalità di ordine e di sicurezza»[11].
1.5. Le pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo tra gli anni ‘90[12] e i primi anni 2000.
Nei primi anni di vigenza dell’art. 41-bis, comma 2, Ord. pen., la Corte europea dei diritti dell’uomo fu investita, ripetutamente, della questione della compatibilità dell’istituto o di sue singole disposizioni con la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali.
In tale periodo, la Corte di Strasburgo, pur individuando talune linee di faglia nella disciplina dell’art. 41-bis, si assestò sulla posizione secondo cui il regime differenziato non era contrario, in linea di principio, alle statuizioni della Convenzione e in particolare all’art. 3 C.E.D.U., pur richiamando sempre, sin dai suoi primi pronunciamenti, la necessità di verificare, in concreto e caso per caso, se le varie statuizioni avessero una base legale[13], nonché se esse fossero congrue con la finalità dell’istituto di recidere i legami con la criminalità organizzata e proporzionate alla gravità del reato commesso dal soggetto sottoposto a tale regime[14].
Inoltre, in particolare con la sentenza Labita, la Corte EDU pose in luce, con affermazione di principio sempre ribadita nei successivi pronunciamenti, che il regime differenziato poteva concretizzarsi in trattamenti «inumani» e «degradanti» quando le limitazioni applicate raggiungessero una soglia consistente di gravità, che andasse al di là dell’afflizione derivante dalla semplice detenzione in carcere, dovendo all’uopo valutarsi «la durata del trattamento e dei suoi effetti fisici o psicologici nonché, talvolta, il sesso, l’età e lo stato di salute della vittima»[15].
Infine, con la sentenza Messina/Italia[16], la Corte di Strasburgo evidenziò i punti di frizione tra il regime delle tutele giudiziali previsto dal nostro ordinamento e le garanzie contemplate dall’art. 13 della Convenzione E.D.U. in punto di effettività della tutela, atteso che i ritardi nelle decisioni sui reclami erano tali da privare di efficacia lo strumento del reclamo, avendo la giurisprudenza interna qualificato come non perentorio il termine di 10 giorni entro cui esse dovevano essere assunte e intervenendo, in genere, le decisioni della Corte di cassazione dopo che l’originario provvedimento ministeriale aveva perso la sua efficacia. Tanto più che il Ministro di grazia e giustizia non era vincolato dalla decisione con cui il tribunale di sorveglianza aveva revocato le disposizioni del provvedimento, potendo ripristinare, alla scadenza di esso, le precedenti limitazioni con un nuovo provvedimento di sospensione.
1.6. Le novità normative sul finire degli anni ‘90.
Facendosi carico dei rilievi espressi dalla giurisprudenza costituzionale, l’art. 4 della legge 7 gennaio 1998, n. 11 introdusse, all’art. 41-bis Ord. pen., un comma 2-bis con il quale si prevedeva espressamente che avverso i provvedimenti del Ministro di grazia e giustizia emessi a norma del comma 2 potesse essere proposto reclamo al tribunale di sorveglianza avente giurisdizione sull’istituto al quale il condannato, l’internato o l’imputato era stato assegnato.
Nella stessa prospettiva, con decreto in data 4 febbraio 1997 del Ministro di grazia e giustizia e con le circolari n. 5931938 del 7 febbraio 1997 e n. 538429-1-1 del 30 aprile 1997 venne compiuta una riorganizzazione delle Sezioni relative al regime differenziato proprio alla luce delle sentenze della Corte costituzionale, statuendosi: la possibilità che i detenuti sottoposti al regime differenziato effettuassero una conversazione telefonica mensile, sottoposta a registrazione, con i familiari e i conviventi, presenti nel luogo designato dall’Amministrazione, sempre che nel mese non avessero svolto i colloqui visivi, considerati alternativi al colloquio telefonico; la facoltà di ricevere un ulteriore pacco mensile e due pacchi annuali straordinari; la possibilità di utilizzare fornelli personali per la preparazione di bevande e per riscaldare cibi già cotti, somministrati dall’Amministrazione penitenziaria. Inoltre, la stessa Amministrazione riconobbe il potere dei tribunale di sorveglianza di sindacare le singole disposizioni dal provvedimento amministrativo e di modificarle quando queste ledessero i diritti dei detenuti.
Con la successiva circolare D.A.P. n. 543884/1/1 del 6 febbraio 1998, furono disciplinati alcuni aspetti specifici relativi al trattamento differenziato, venendo, in particolare, prevista la possibilità per i detenuti di permanere fuori dalla cella, in piccoli gruppi, per quattro ore giornaliere, di cui due da trascorrere negli spazi adibiti alla socialità, rinviando ad appositi ordini di servizio la definizione delle modalità del movimento all’interno degli istituti, onde evitare contatti con i detenuti comuni. Inoltre, la circolare ribadì la necessità di limitare i colloqui visivi, che dovevano essere effettuati in apposite sale munite di vetro divisorio, in modo da non consentire il passaggio di oggetti. Per le stesse ragioni, fu vietato ai detenuti sottoposti a tale regime di acquistare generi alimentari al sopravvitto e di ricevere generi alimentari dall’esterno, nonché il possesso e l’uso di apparecchi radio, potenzialmente utilizzabili per comunicare con l’esterno. Con questo intervento, l’Amministrazione realizzò, per la prima volta in maniera organica, una disciplina dei contenuti del regime differenziato, inaugurando una modalità operativa sempre seguita anche negli anni successivi, la quale ha suscitato critiche per il ricorso, in una materia che riguarda diritti fondamentali della persona detenuta, a uno strumento di auto-organizzazione come quello della circolare.
2. Le modifiche dell’articolo 41-bis introdotte dalla legge n. 279 del 2002.
Anche le nuove disposizioni posero in luce forti criticità, connesse, da un lato, alla eccessiva genericità sia dei presupposti di applicazione del regime differenziato, sia delle regole di trattamento suscettibili di sospensione, sostanzialmente rimesse alle determinazioni dell’Amministrazione; e, dall’altro lato, alla necessità di una disciplina più puntuale delle proroghe di un regime che, originariamente “pensato” come temporaneo, si avviava a diventare, per molti, definitivo.
Con la legge 23 dicembre 2002, n. 279, vennero, quindi, sostituiti i commi 2 e 2-bis con gli attuali commi da 2 a 2-sexies. In questo modo venne stabilito: quanto alla platea dei soggetti sottoponibili al regime differenziato, che essi andassero identificati non più nei soli imputati o condannati per il delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso, ma negli imputati, condannati o internati per i delitti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, Ord. pen. e sempre che ricorressero «elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva»; l’obbligo di motivazione della decisione da parte del Ministro della giustizia, in modo da consentire di verificare la rispondenza delle limitazioni alle finalità dell’istituto; la necessità di una complessa attività istruttoria, consistente nell’acquisizione di un parere, non vincolante, da parte dell’ufficio del pubblico ministero procedente o di quello presso il giudice procedente, nonché l’acquisizione di ogni altra necessaria informazione presso la Direzione nazionale antimafia e presso gli organi di polizia centrali e specializzati nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata, terroristica o eversiva; la durata minima e massima del provvedimento ministeriale, non inferiore a un anno e non superiore a due anni, salva la possibilità di proroga per periodi non superiori a un anno; la possibilità di una revoca, sempre con decreto motivato e anche di ufficio, quando venissero meno le condizioni di adozione del provvedimento. Inoltre, con l’abrogazione, ad opera dell’art. 3, dell’art. 29 del decreto legge 8 giugno 1992 n. 306, l’istituto, la cui originaria vigenza, limitata a tre anni da quel decreto, era stata nel frattempo ripetutamente prorogata[17], fu stabilizzato, cessando di essere una misura temporanea.
Ma soprattutto, l’intervento normativo del 2002 codificò, al comma 2-quater dell’art. 41-bis, i contenuti del regime differenziato, definiti quantomeno nelle coordinate essenziali, poi specificate dalle previsioni minute contenute nelle circolari del Dipartimento.
Nel dettaglio, con la lett. a) del comma 2-quater si stabilì che nei confronti dei detenuti sottoposti al regime differenziato venissero adottate misure di elevata sicurezza interna ed esterna, allo scopo, «principalmente», di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di riferimento, i contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, l’interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione criminale ovvero ad altre ad essa alleate. In particolare, l’uso dell’avverbio «principalmente» suscitò non poche perplessità, atteso che, sul piano testuale, avrebbe potuto autorizzare l’adozione di misure restrittive non soltanto allo scopo di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza ma anche per altre ragioni, in chiaro contrasto con le indicazioni della Corte costituzionale, secondo cui la finalità dell’istituto consiste nel recidere i legami del detenuto con la criminalità organizzata. Tuttavia, come si vedrà, tale avverbio ha resistito anche ai successivi interventi di modifica che hanno interessato l’art. 41-bis Ord. pen.; ed è su tale tema, mai risolto, che si appuntano molti dei rilievi da parte dei critici dell’attuale assetto normativo.
Inoltre, il comma 2-quater previde espressamente: la possibilità di effettuare colloqui, con i soli familiari e conviventi, in un numero non inferiore a uno e non superiore a due al mese, da svolgersi a intervalli determinati e in luoghi attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti (e, dunque, con la presenza del vetro divisorio), con la possibilità di incontrare terze persone soltanto in casi eccezionali determinati di volta in volta dal direttore dell’istituto (o dal giudice della cautela per gli imputati prima della sentenza di primo grado) e salva la possibilità di autorizzare, con provvedimento motivato del direttore o dall’autorità giudiziaria procedente, dopo i primi sei mesi di applicazione del regime differenziato, un colloquio telefonico mensile, sottoposto a registrazione, con i familiari e i conviventi della durata massima di dieci minuti (lett. b); la limitazione della disponibilità di beni, oggetti e somme di denaro ricevuti dall’esterno (lett. c); la esclusione dalla partecipazione alle rappresentanze dei detenuti e degli internati previste all’art. 9 Ord. pen. (lett. d); la possibilità di fruire di non più di 4 ore d’aria al giorno e in gruppi di persone non superiori a cinque (lett. f). La limitazione della corrispondenza, salvo quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia (lett. e), poteva, invece, essere disposta solo dall’autorità giudiziaria competente ai sensi dell’art. 18 Ord. pen., non potendo il Ministro disporre autonomamente, in tale materia, in forza della duplice riserva di legge e di giurisdizione posta dall’art. 15, secondo comma, Cost. Inoltre, riprendendo le indicazioni della Corte costituzionale, fu stabilito che l’applicazione del regime differenziato non potesse mai comportare la sospensione dell’attività di osservazione e trattamento individualizzato prevista dall’art. 13 Ord. pen., né precludere al detenuto la partecipazione ad attività rieducative culturali, ricreative, sportive e di altro genere, ferma la necessità di organizzare tali attività «con modalità idonee ad escludere o a ridurre al minimo i rischi dei contatti o dei collegamenti che il provvedimento ministeriale tende a prevenire. Tutto questo per valutare la partecipazione del detenuto all’opera di rieducazione ai fini della liberazione anticipata»[18].
La riforma del 2002, infine, disciplinò il regime d’impugnabilità del provvedimento ministeriale, conferendo la legittimazione attiva alla proposizione del reclamo, entro dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento, al detenuto o internato e al suo difensore; e individuando come tribunale di sorveglianza competente a decidere, nelle forme del procedimento di sorveglianza previste dagli artt. 666 e 678 cod. proc. pen., quello avente giurisdizione sull’istituto di pena in cui l’interessato risultava assegnato al momento del provvedimento. La decisione del tribunale, inoltre, risultava ricorribile per cassazione, fermo restando che il ricorso non sospendeva l’esecuzione del provvedimento impugnato. Rispetto a tale regime, peraltro, rimanevano intatte le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale sotto la vigenza della precedente disciplina, ovvero che il sindacato esercitato dal tribunale di sorveglianza aveva natura di legittimità e non di merito e doveva estendersi alla verifica sia della congruità tra il provvedimento nel suo complesso o in sue singole statuizioni e la finalità di salvaguardia delle esigenze di ordine e sicurezza, consistenti nell’impedire i collegamenti con l’associazione criminale, sia della compatibilità tra le limitazioni e i diritti fondamentali della persona; con la possibilità di una disapplicazione delle limitazioni che non presentassero tale carattere, pur senza poterne, tuttavia, modificare il contenuto[19].
3. Le modifiche del 2009[20].
Nel 2009, nel contesto una stagione di produzione normativa segnata dai cd. pacchetti sicurezza, fu approvata la legge n. 94 del 15 luglio 2009 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), con la quale il Parlamento, con il dichiarato intento di «ripristina[re] l’originario rigore del regime di detenzione» al fine di «rendere ancor più difficile ai detenuti – in particolare ai condannati per il reato di associazione mafiosa – la possibilità di mantenere collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza»[21], dispose l’ampliamento della platea dei destinatari, l’inasprimento dei contenuti del regime differenziato, una compressione dell’intervento giurisdizionale[22].
Quello del 2009 è stato l’ultimo “grande” intervento di riforma dell’art. 41-bis Ord. pen., che, nella sostanza, ne ha codificato struttura tuttora esistente, così come interpolata, ovviamente, dai ripetuti interventi della Corte costituzionale avvenuti tra il 2013 e il 2022, su cui ci si soffermerà più avanti, che hanno riconosciuto l’irragionevolezza di talune limitazioni prevista dalla legge in relazione, ancora una volta, agli scopi per cui l’istituto è stato previsto[23].
In particolare, il testo stabilisce che i detenuti sottoposti al regime differenziato siano ristretti all’interno di istituti ad essi esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, o comunque all’interno di sezioni speciali, logisticamente separate dal resto dell’istituto, e che essi siano custoditi da reparti specializzati della Polizia penitenziaria, ovvero dal Gruppo operativo mobile di tale corpo di polizia[24].
3.1. I destinatari del provvedimento.
Secondo l’attuale formulazione del comma 2 dell’art. 41-bis Ord. pen., il regime differenziato può essere disposto, con provvedimento del Ministro della giustizia, nei confronti di singoli detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’art. 4-bis ord. pen. o, comunque, «per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso», in relazione ai quali vi siano «elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva»[25]. Dopo la modifica del 2009, ponendo fine a una dibattuta questione giurisprudenziale[26], è stata affermata la regola secondo cui «[i]n caso di unificazione di pene concorrenti o di concorrenza di più titoli di custodia cautelare, il regime carcerario speciale può essere disposto anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati nel suddetto art. 4-bis».
3.2. I contenuti del regime differenziato.
Si è detto che con il provvedimento ministeriale che dispone l’applicazione del regime differenziato possono essere sospese, in tutto o in parte, le sole regole del trattamento e gli istituti previsti dalla legge penitenziaria che, in concreto, si pongano effettivamente in contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza, o, più correttamente, con la necessità di impedire i collegamenti con l’associazione criminale di riferimento. Ciò in quanto, secondo le già richiamate pronunce della Corte costituzionale, deve esservi un rapporto di perfetta congruità tra le limitazioni adottate e le necessità che conducono all’adozione del provvedimento, posto che, diversamente, esse assumerebbero un carattere meramente afflittivo e non sarebbero giustificate[27].
Quanto al concreto contenuto delle limitazioni e al fine di circoscrivere la discrezionalità amministrativa (e, prospetticamente, l’intervento giurisdizionale in sede di reclamo), l’art. 41-bis, comma 2-quater, Ord. pen., dopo la modifica del 2009, fa ricorso all’indicativo presente («prevede») in luogo della forma servile («può comportare») in precedenza prevista, definendo, dunque, il contenuto in termini obbligatori. Tuttavia, proprio perché il giudizio di congruità non riguarda la sola sottoposizione al regime differenziato, ma anche le varie limitazioni adottate, le quali devono essere calibrate sugli scopi della misura in rapporto alla specifica situazione del singolo soggetto, deve ritenersi che anche le varie prescrizioni possano essere formulate in maniera tale da corrispondere alle specifiche connotazione del singolo detenuto[28]. Nella pratica, nondimeno, questa articolazione individualizzata delle prescrizioni nel provvedimento applicativo non avviene, sostanzialmente, mai.
Per ovvie ragioni legate alla ratio dell’istituto, le specifiche limitazioni contemplate dal comma 2-quater concernono, in primo luogo, la disciplina dei colloqui, quanto ai destinatari, alla frequenza, alle modalità di esecuzione.
Il regime ordinario prevede che i detenuti/internati abbiano diritto a sei colloqui mensili con i familiari e conviventi (numero nel quale sono conteggiati anche quelli con terze persone eventualmente autorizzati dalla direzione o, se imputati, dall’autorità giudiziaria, quando ricorrano «ragionevoli motivi»: v. art. 37, comma 1, d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230). Un numero che scende a soli 4 colloqui mensili nel caso in cui il soggetto sia stato condannato o sia imputato per taluno dei delitti previsti dal primo comma dell’art. 4-bis Ord. pen. (v. art. 37, comma 8, d.P.R. n. 230 del 2000).
Per i soggetti sottoposti al regime differenziato, invece, il numero di colloqui si riduce drasticamente. Mentre la disciplina del 2002 prevedeva la possibilità di due colloqui mensili, dopo la riforma del 2009 il numero è stato ridotto a uno. Inoltre, la previsione, risalente al 2002, secondo cui i colloqui devono svolgersi a intervalli regolari, ha indotto l’Amministrazione penitenziaria a non autorizzare che gli stessi si svolgano, consecutivamente, alla fine del mese e all’inizio di quello successivo, secondo le richieste frequentemente avanzate dai detenuti al fine dichiarato di ridurre, per i familiari, l’incomodo di trasferte che possono essere, soprattutto in presenza di bambini e di anziani, tutt’altro che agevoli. E la giurisprudenza della Corte di cassazione ha ritenuto che la scelta dell’Amministrazione non fosse irragionevole, sul presupposto che l’accorpamento dei colloqui avrebbe reso, comunque, più facile realizzare forme di comunicazione non consentite tra il detenuto e il contesto criminale di provenienza, veicolabili proprio in occasione dei colloqui[29].
Ma, soprattutto, dopo la riforma del 2009 il colloquio deve essere sempre oggetto di videoregistrazione e di ascolto, anche in questo caso in deroga rispetto al regime ordinario, che vieta il controllo auditivo (mentre ammette la registrazione, senza ascolto, nei confronti dei detenuti o imputati per taluno dei delitti di cui all’art. 4-bis). L’ascolto, pur previsto obbligatoriamente dalla legge, deve essere comunque disposto dall’autorità giudiziaria, in virtù della doppia riserva, di legge e di giurisdizione, stabilita dall’art. 15, secondo comma, Cost.
Dopo i primi sei mesi di sottoposizione al regime differenziato, il colloquio visivo può essere da eventualmente sostituito da una telefonata della durata di soli dieci minuti.
Durante l’emergenza pandemica, la giurisprudenza di merito e di legittimità, andando di contrario avviso rispetto alle indicazioni dell’Amministrazione penitenziaria, ha consentito anche al detenuto in regime differenziato di effettuare colloqui visivi con i familiari mediante forme di comunicazione a distanza, ma soltanto in situazioni di impossibilità o, comunque, di gravissima difficoltà alla realizzazione dei colloqui in presenza (in argomento v. infra § 9.4).
In origine, il legislatore aveva, inoltre, previsto che con i difensori potesse effettuarsi, fino a un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i familiari. Una disciplina che, come si dirà (v. infra § 7.2), è stata successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima.
Altra limitazione importante su cui è intervenuta la legge n. 94 riguarda la permanenza all’aria aperta. Mentre la legge del 2002 aveva stabilito che essa non potesse durare per più di quattro ore al giorno, fermo restando il limite minimo di 2 ore giornaliere previsto dall’art. 10 Ord. pen. (e salva la possibilità di ridurre tale periodo a non meno di 1 ora «soltanto per ragioni eccezionali»), la modifica del 2009 ha statuito, alla lett. f) del comma 2-quater, che la permanenza all’aperto debba avere una durata non superiore a due ore al giorno, fermo restando il limite minimo di cui al primo comma del citato art. 10; e che essa dovesse svolgersi in gruppi non superiori a quattro persone (cinque nel 2002). Come si vedrà, su questa materia, assai delicata per le sue connessioni con il diritto alla salute, fisica e psichica, della persona detenuta, sono intervenute varie pronunce della Corte di cassazione, che hanno accolto una interpretazione più ambia della durata minima della permanenza all’aperto, sino a un massimo di due ore (contro l’unica ora che era stata stabilita dall’Amministrazione penitenziaria); e, tuttavia, la scelta, maturata nel tempo dall’Amministrazione, di garantire tale possibilità soltanto a coloro i quali avevano fruttuosamente esperito i relativi strumenti di tutela ha finito per determinare, accanto al mancato riconoscimento dei diritti individuali, una situazione di totale confusione sul piano organizzativo, cui pare necessario porre, senz’altro, rimedio (v. infra § 9.2).
Inoltre, il legislatore del 2009 ha previsto l’adozione, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, delle misure necessarie a garantire la assoluta impossibilità di comunicare e di scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, nonché di cuocere cibi. Una disposizione sulla quale, come si dirà, si sono, ancora una volta, appuntate le ripetute censure della giurisprudenza, ordinaria e costituzionale.
Le limitazioni cui si è ora fatto cenno non possono incidere, per espressa indicazione normativa, sugli istituti trattamentali, non potendo le attività di osservazione e di trattamento individualizzato contemplate dall’art. 13 Ord. pen. essere sospese o soppresse, così come le attività rieducative di natura culturale, ricreativa o sportiva. Tuttavia, e questo è un elemento estremamente critico nell’attuale situazione penitenziaria che concerne le sezioni adibite al regime differenziato, non è infrequente che le attività trattamentali, se si eccettua la fruizione della socialità, siano pressoché inesistenti, finendo per prevalere, nella quotidiana gestione dei reparti, le esigenze di controllo proprie dell’istituto.
4.1. Le circolari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria[30].
Si è detto che, nel tempo, il legislatore è intervenuto a indicare gli ambiti su cui, in rapporto agli scopi propri del regime differenziato, si avvertiva la necessità di stabilire delle limitazioni alle regole ordinarie del trattamento. Una scelta, questa, certamente doverosa, tenuto conto del fatto che talune di tali limitazioni afferiscono a diritti di rango costituzionale, sicché la decisione di non rimettere la relativa selezione all’Autorità amministrativa ha rappresentato una necessità assoluta, al fine di garantire, in termini generali, la compatibilità dell’istituto con i principi fondamentali dell’ordinamento. Tuttavia, al di là delle scelte specifiche del legislatore, alcune delle quali fin dall’origine fortemente discutibili e puntualmente censurate in sede di giudizio di legittimità costituzionale, un profilo problematico attiene, senza dubbio, alla forte incidenza che sui diritti delle persone sottoposte al regime differenziato producono le disposizioni di circolare attraverso cui l’Amministrazione penitenziaria ha definito le sue scelte organizzative. E’, questo, un aspetto caratteristico e forsanche inevitabile di ogni modello detentivo, atteso che le forme dell’organizzazione penitenziaria, necessariamente rimesse alla potestà dell’Amministrazione, hanno evidenti riflessi sulla dimensione individuale dei diritti delle persone detenute non agevolmente declinabili da una normazione legislativa generale e astratta. Ma questo dato non può che trovare un adeguato contrappeso nel controllo giurisdizionale, che, rifuggendo da una pretesa, che talvolta affiora in alcune decisioni, di sostituirsi alle legittime soluzioni attraverso cui l’Amministrazione esercita i suoi poteri di auto-organizzazione, possa verificare la ragionevolezza delle relative scelte (ovvero la congruità rispetto agli scopi dell’istituto). Un controllo che non può essere formale e che deve accompagnarsi a un atteggiamento collaborativo dell’Amministrazione, che deve conformarsi alle statuizioni giurisdizionali e non esercitarsi in comportamenti dilatori o, peggio, elusivi[31].
Venendo alle disposizioni con cui l’Amministrazione penitenziaria ha concretamente declinato le limitazioni stabilite, in via di principio, dalla norma primaria, giova soffermarsi sulla circolare n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017[32], che ha fissato la disciplina di dettaglio oggi ancora in vigore; e che insieme ai decreti ministeriali concernenti organizzazione e compiti del Gruppo operativo mobile della Polizia penitenziaria[33], ovvero del personale che in concreto si occupa, specificamente, della gestione delle «Sezioni 41-bis», rappresenta l’ossatura della attuale disciplina amministrativa nella materia in esame.
La circolare, con i suoi 37 articoli, disciplina, in sostanza, ogni aspetto di dettaglio nella concreta organizzazione della vita delle sezioni e definisce gli spazi effettivi di libertà residua che le persone sottoposte al regime differenziato possono esercitare. Essa nasce dalla ritenuta necessità di uniformare il più possibile detta regolamentazione mediante disposizioni di carattere generale riguardanti «le modalità di contatto dei detenuti e degli internati sottoposti al regime tra loro e con la comunità esterna, con particolare riferimento ai colloqui con i minori; al dovere in capo al direttore dell’istituto di rispondere entro termini ragionevoli alle istanze dei detenuti; alla limitazione delle forme invasive di controllo dei detenuti ai soli casi in cui ciò sia necessario ai fini della sicurezza; alla possibilità di tenere, all’interno della camera detentiva, libri e altri oggetti utili all’attività di studio e formazione; alla possibilità di custodire effetti personali di vario genere, anche allo scopo di favorire l’affettività dei detenuti e il loro contatto con i familiari[34]». E ciò sia per favorire l’attività istituzionale del personale di Polizia penitenziaria dedicato, che secondo la previsione del decreto del Ministro della giustizia del 30 luglio 2020, ruota con cadenza periodica (da cui la denominazione di Gruppo operativo mobile) e che, dunque, deve avere dei riferimenti operativi sufficientemente stabili; sia per evitare forme di disparità di trattamento che, oltre a essere vietate dall’ordinamento penitenziario, possono innescare dinamiche gravemente disfunzionali all’interno della struttura detentiva.
Tuttavia, come meglio si dirà (v. infra § 8.4), l’intervento della magistratura di sorveglianza e, in generale, l’amplissimo contenzioso che ha interessato numerose disposizioni delle circolari, spesso oggetto di differenti interpretazioni sul territorio nazionale, ha di fatto determinato una notevole frammentazione nell’assetto regolativo in essere nelle varie realtà penitenziarie, alimentando un contenzioso infinito sul piano giurisdizionale, cui ha corrisposto, da parte della Corte di cassazione, una sostanziale riscrittura della disciplina relativa ad alcuni istituti giuridici. E ciò ha in gran parte pregiudicato sia l’obiettivo di garantire l’uniformità di applicazione del trattamento differenziato presso le varie sezioni detentive, sia la sua stessa idoneità ad assicurare funzionalità al regime detentivo in questione.
5. La disciplina delle proroghe del regime differenziato.
La legge del 2002 prevedeva, al comma 2-bis, che il provvedimento applicativo avesse una durata non inferiore a un anno e non superiore a due e che esso potesse essere prorogato per periodi successivi, ciascuno pari a un anno, salvo che non risultasse che la capacità del detenuto o dell’internato di mantenere contatti con associazioni criminali, terroristiche o eversive fosse venuta meno.
La riforma del 2009 ha, invece, stabilito che la prima applicazione del decreto duri quattro anni, dopo i quali la sottoposizione al regime differenziato può essere seguita da successive proroghe, ciascuna delle quali avente la durata di due anni.
Il decreto ministeriale di proroga deve essere motivato sulla base dell’accertata capacità della persona detenuta di mantenere contatti con l’organizzazione di appartenenza, da valutare in base a una serie di indici normativamente prestabiliti, quali: il suo profilo criminale, la posizione rivestita in seno all’associazione, la eventuale sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, la perdurante operatività del sodalizio criminale, il tenore di vita dei familiari, da valutare anche in rapporto all’esistenza di fonti di reddito lecite; gli esiti del trattamento penitenziario. Il legislatore ha peraltro precisato che, in ogni caso, il mero decorso del tempo è elemento da considerarsi di per sé neutro rispetto alla capacità del detenuto di mantenere contatti con l’associazione di riferimento o per dimostrare che la stessa non è più operativa.
Quello delle proroghe rappresenta, come si dirà, uno dei profili più critici dell’attuale assetto, considerato il rischio che, dopo la prima applicazione, le proroghe successive avvengano in maniera pressoché automatica[35]. Benché, come detto, la norma primaria preveda formalmente dei meccanismi di tutela giurisdizionale, gli elevati standard probatori richiesti dalla giurisprudenza e la deducibilità, in sede di ricorso per cassazione, della sola violazione di legge, rischiano di far sì il soggetto che vi è sottoposto possa uscire dal regime differenziato con estrema difficoltà. Nell’attuale panorama applicativo, infatti, sono assai frequenti i casi di sottoposizione all’art. 41-bis Ord. pen. da oltre vent’anni; e questo dato, al di là delle singole vicende, non può non suscitare, nell’osservatore attento e non prevenuto, giustificati interrogativi sull’attuale sistema.
6. La tutela giurisdizionale.
Si è detto che con la novella del 2009 è stata espressamente prevista la possibilità di proporre reclamo avverso il provvedimento applicativo e gli eventuali provvedimenti successivi di proroga al Tribunale di sorveglianza di Roma, il cui sindacato, secondo la lettera della norma, non sembrerebbe estensibile al giudizio di congruità delle limitazioni delle regole ordinarie di trattamento rispetto alle finalità dell’istituto. Tale valutazione, come ricordato, è stata però ammessa dalla Corte costituzionale, la quale ha ritenuto che rientrasse nell’ambito dei principi generali in materia di tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti il controllo sulla legittimità delle singole limitazioni alle regole di trattamento, in particolare con riferimento alla loro congruità rispetto alle finalità perseguite dal regime differenziato, oggi definitivamente rimesso alla “giurisdizione diffusa” dei magistrati di sorveglianza del luogo di detenzione[36]. Scelta ineccepibile sul piano sistematico, anche se foriera, come detto, di notevoli disomogeneità interpretative, che allo stato costituiscono, come si vedrà, un problema di notevole complessità.
[1] Nel solo mese di gennaio 1977 si registrarono ben 15 evasioni.
[2] Per un giudizio problematico sul sistema delle carceri speciali, v. G. La Greca, Documenti per una riflessione sugli istituti di “massima sicurezza”, in Foro it., 1983, II, pag. 473; T. Padovani, Ordine pubblico e Ordine penitenziario: un’evasione dalla legalità, in Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, a cura di V. Grevi, Bologna, 1981, pag. 285; Genghini, Sicurezza negli istituti penitenziari. Diritti soggettivi ed interessi legittimi del detenuto e loro tutela, in Diritto penitenziario e misure alternative, supplemento n. 1 e 2 della rassegna il Consiglio superiore della Magistratura, Roma, 1979.
[3] In argomento v. A. Gerini, S. Merlo, Profili di costituzionalità dell’articolo 90, in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, 1985.
[4] Sulla compatibilità tra i due istituti, v. recentemente Sez. 1, n. 2555 del 27/09/2022, Attanasio, Rv. 283866 - 01.
[5] L. Cesaris, art. 41 bis o.p., in Ordinamento penitenziario, a cura di V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, Padova, 2019, pagg. 536 ss. In argomento v. anche S. F. Vitello, Brevi riflessioni sull’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario nel più vasto contesto del sistema penitenziario, in Cass. Pen., 1994, pag. 2861; A. Morosini, L’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario: genesi e sviluppo di un regime detentivo differenziato, in Esecuzione penale e ordinamento penitenziario, a cura di P. Balducci - A. Marcillò, Milano, 2020.
[6] Sull’istituto nel primo periodo della sua applicazione v. L. Comucci, Lo sviluppo delle politiche penitenziarie dall’ordinamento del 1975 ai provvedimenti per la lotta alla criminalità organizzata, in Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, a cura di A. Presutti, 1994; V. GREVI, Verso un regime penitenziario progressivamente differenziato: tra esigenze di difesa sociale e incentivi alla collaborazione con la giustizia, in AA.VV., L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, 1994, pag. 3.
[7] Per l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale sull’art. 41-bis, v. A. Della Bella, Il “carcere duro” tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali. Presente e futuro del regime detentivo speciale ex art. 41-bis o.p., Milano, 2016, pagg. 139-158; L. Pace, Libertà personale e pericolosità sociale: il regime degli articoli 4-bis e 41-bis dell’ordinamento penitenziario, in I diritti dei detenuti nel sistema costituzionale, a cura di M. Ruotolo e S. Talini, Napoli, 2017, pagg. 408 ss.
[8] Va evidenziato che con riferimento alla possibilità di una tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti di applicazione del regime differenziato, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, con nota n. 9725/477765 in data 1/03/1993, precisò che l’art. 41-bis, comma 2, Ord. pen. non prevedeva, per scelta del legislatore, la possibilità di esperire mezzi di impugnazione presso il magistrato o il tribunale di sorveglianza, ferma restando la facoltà del detenuto di adire il tribunale amministrativo regionale, secondo i principi generali della giustizia amministrativa.
[9] Sull’argomento, più di recente, V. Manca, Il principio di proporzionalità “cartina tornasole” per il regime del 41-bis O.P.: soluzioni operative e suggestioni de iure condendo, in Giurisprudenza penale (Rivista web), 2020.
[10] Su tale sentenza v. L. Cesaris, In margine alla sent. Corte cost. n. 367/1997 comma 2 ord. penit. Norma effettiva o norma virtuale?, in Cass. pen., 1998, pag. 3179.
[11] In argomento v. S. Ardita, Sub 41 bis, in L’esecuzione penale – Ordinamento penitenziario e leggi complementari, a cura di F. Fiorentin – F. Siracusano, Milano, 2019, pagg. 535-537.
[12] In argomento v. C. Minnella, La giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo sul regime carcerario ex art. 41 bis ord. penit. e la sua applicazione nell’ordinamento italiano, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 2004, n. 3, pagg. 197 ss.
[13] Con la sentenza 6 aprile 2000, Labita/Italia, la Corte europea sottolineò come il detenuto sottoposto al regime differenziato non potesse essere assoggettato al visto di controllo sulla corrispondenza, incidente su un diritto contemplato dall’art. 8 C.E.D.U. non avendo detta misura alcun fondamento legale nell’art. 41-bis Ord. pen.
[14] V. Corte europea dei diritti dell’Uomo, 18 maggio 1998, Natoli/Italia, in Foro it., IV, 1998, pag. 321, con nota di G. La Greca, Diritti dell’uomo e regime dell’art. 41 bis ord. penit.; Corte europea 6 aprile 2000, Labita/Italia; Corte europea, 28 settembre 2000, Messina/Italia. Analoga posizione verrà poi ribadita da Corte europea, 27 marzo 2008, Guidi/Italia, proc. n. 28320/02 e, ancor prima, da Corte EDU, 30 ottobre 2003, Ganci/Italia, proc. n. 41576/98.
[15] Corte EDU, Grande Camera, Labita/Italia, 6 aprile 2000, proc. n. 26772/95. Su tale pronuncia v. G. La Greca, La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sul caso Labita, in Rass. penit. crimin., 2000, I-III, pagg. 199 ss.
[16] Corte EDU, Sez. II, 28 settembre 2000, Messina/Italia, proc. n. 25498/94.
[17] L’art. 1, legge 16 febbraio 1995, n. 36, aveva prorogato il termine di applicazione dell’art. 41-bis Ord. pen. al 31 dicembre 1999. In seguito, la legge 26 novembre 1999, n. 446, aveva prorogato il termine al 31 dicembre 2000; e il decreto legge n. 341 del 2000, convertito nella legge 19 gennaio 2001, n. 4, aveva esteso la proroga al 31 dicembre 2002.
[18] Sulla disciplina dettata dalla legge del 2002, v. S. Ardita, Il nuovo regime dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, in Cass. pen., 2003, pagg. 4 e ss.; S. Ardita, La riforma dell’art. 41-bis o.p. alla prova dei fatti, in Cass. pen., 2004.
[19] Si vedano, su tali punti, le già citate sentenze della Corte costituzionale n. 351 del 1996, n. 376 del 1997.
[20] In argomento A. Della Bella, Il regime detentivo speciale del 41 bis: quale prevenzione speciale nei confronti della criminalità organizzata?, Milano, 2012; F. Corleone, A. Pugiotto, Volti e maschere della pena. Opg e carcere duro, muri della pena e giustizia riparativa, Roma, 2013, pagg. 161-221; P. Corvi, Trattamento penitenziario della criminalità organizzata, Padova, 2010.
[21] Così atti del Senato della Repubblica, n. 733-A, Relazione delle Commissioni permanenti 1ª e 2ª Riunite, pag. 7.
[22] C. Fiorio, Il trattamento penitenziario nei confronti degli appartenenti alla criminalità organizzata: artt. 4-bis e 41-bis ord. penit., in A. Bargi (a cura di), Il «doppio binario» nell’accertamento dei fatti di mafia, Torino, 2013, pag. 1161; F. Fiorentin, Regime penitenziario speciale del “41-bis” e tutela dei diritti fondamentali, in Rass. penit. crim., 2, 2013, pagg. 188-201.
[23] Sulle modifiche del 2009 vi era stato un “avvertimento” in occasione del Report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura sulla visita dal 14 al 26 settembre 2008.
[24] Secondo quanto stabilito dall’art. 3 (Struttura del G.O.M.) del d.m. 30 luglio 2020, il G.O.M. è un ufficio di livello dirigenziale non generale costituito nell’ambito dell’Ufficio del Capo del Dipartimento e che opera alle sue dirette dipendenze; si articola in un Ufficio centrale e in Reparti operativi mobili istituiti presso istituti penitenziari e servizi territoriali dell’Amministrazione penitenziaria per il tempo necessario all’espletamento del servizio in tali sedi. Secondo l’art. 2 del citato decreto, il G.O.M. provvede, tra l’altro, alla vigilanza e all’osservazione dei detenuti sottoposti al regime previsto dall’art. 41-bis, comma 2, Ord. pen.; allo svolgimento di attività di controllo della corrispondenza, dei colloqui visivi e telefonici, del sopravvitto, della ricezione dei pacchi, nonché di ogni altro servizio riguardante i suddetti detenuti; alla vigilanza e osservazione dei detenuti che collaborano con la giustizia in quanto maggiormente esposti a rischio; alle traduzioni e ai piantonamenti di detenuti e internati ritenuti dalla Direzione generale dei detenuti e del trattamento ad elevato indice di pericolosità; tali servizi possono essere espletati, per motivi di sicurezza e riservatezza, con modalità operative anche in deroga alle vigenti disposizioni amministrative in materia; alla vigilanza e osservazione di detenuti per reati di terrorismo, anche internazionale, specificamente individuati dalla Direzione generale dei detenuti e del trattamento, anche se ristretti in regimi diversi da quello previsto dall’art. 41-bis, comma 2, Ord. pen. Su disposizione del Capo del Dipartimento, il G.O.M. può essere impiegato: nei casi previsti dall’art. 41-bis, comma 1, Ord. pen.; in ogni altro caso di emergenza del sistema penitenziario.
[25] Oltre che nei confronti di soggetti o in espiazione di pena o in esecuzione di misura di sicurezza, il provvedimento applicativo può essere emesso anche nei confronti degli imputati in misura cautelare, posto che, in tal caso, le limitazioni imposte hanno natura di prevenzione e non sono in contrasto con la presunzione di non colpevolezza (v. Corte costituzionale, sentenze n. 376 del 1997 e n. 197 del 2021).
[26] In base alle statuizioni di Sez. U, n. 14 del 30/06/1999, Ronga, un primo indirizzo riteneva che il regime differenziato potesse permanere fintanto che il detenuto non avesse scontato la porzione di pena relativa alla condanna per uno dei reati per i quali è previsto l’art. 41-bis Ord. pen.; mentre secondo altro indirizzo della giurisprudenza di legittimità, si riteneva «irrilevante la circostanza che il condannato, detenuto in virtù di un cumulo comprensivo di pene per reati legittimanti l’applicazione del predetto regime e per altri reati, abbia già espiato la parte di pena relativa ai primi reati, tenuto conto non solo del principio di unicità della pena di cui all’art. 76, comma 1, c.p., ma anche delle specifiche finalità di ordine e sicurezza del regime differenziato» (così Sez. 1, 11/07/2008, Della Ventura, Rv. 240938).
[27] Sul tema delle applicazioni del principio di ragionevolezza sotto il profilo della idoneità della norma a raggiungere l’obiettivo ad essa conferito si veda A. Cerri, Spunti e riflessioni sulla ragionevolezza nel diritto, in Diritto pubblico, 2/2016, pagg. 625 ss.
[28] Una chiara indicazione in questo senso è stata recentemente fornita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 197 del 2021, ove è stato affermato, con specifico riferimento alla situazione degli internati, ma con affermazione di principio chiaramente generalizzabile, che i decreti applicativi debbano essere modulati in maniera diversa a seconda delle esigenze trattamentali dei singoli destinatari.
[29] Sez. 1, n. 5446 del 15/11/2019, dep. 2020, Amato, Rv. 278180 – 01; Sez. 1, n. 23945 del 26/06/2020, Rv. 279526 – 01.
[30] C. Fiorio, Le prescrizioni trattamentali e le fonti normative, dalla legge alla circolare amministrativa 2 ottobre 2017, in Giurisprudenza penale (Rivista web), 2020.
[31] L’obbligo dell’Amministrazione penitenziaria di dare esecuzione ai provvedimenti assunti dalla magistratura di sorveglianza a tutela dei diritti dei detenuti è stato affermato, come noto, da Corte cost. 7 giugno 2013, n. 135, in Dir. pen. cont., 2013, con nota di A. Della Bella, La Corte costituzionale stabilisce che l’Amministrazione penitenziaria è obbligata ad eseguire i provvedimenti assunti dal magistrato di sorveglianza a tutela dei diritti dei detenuti.
[32] In argomento si veda V. Manca, il Dap riorganizza il 41-bis o.p.: un difficile bilanciamento tra prevenzione sociale, omogeneità di trattamento e umanità della pena. Brevi note a margine della circolare Dap n. 3676/616 del 2 ottobre 2017, in Dir. pen. cont., 6 novembre 2017.
[33] Ci si riferisce ai decreti ministeriali del 19 febbraio 1999, del 4 giugno 2007 e del 30 luglio 2020.
[34] Quanto alla nozione di “familiari”, va ricordato che l’art. 16 della circolare DAP del 2 ottobre 2017 la circoscrive ai parenti entro il terzo grado. Per tale ragione la giurisprudenza ha escluso il colloquio con il figlio del nipote ex fratre, in quanto parente di quarto grado: Sez. 1, n. 9169 del 14/12/2022, dep. 2023, Mineo, Rv. 284066 - 01.
[35] Tale rischio era già stato evidenziato nel Report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura sulla visita dal 14 al 26 settembre 2008.
[36] V. Corte cost. n. 190 del 2010. In argomento F. Della Casa, Interpretabile secundum Costitutionem la normativa che ha dimezzato il controllo giurisdizionale sulla detenzione speciale?, in Giur. it., 2010, pagg. 2511 ss.; M. Ruotolo, Tra integrazione e maieutica: Corte costituzionale e diritti dei detenuti, in Rivista AIC, 3, 2016, pagg. 21-22.