Sommario: 1. Le tappe della vicenda giudiziaria - 2. Le motivazioni della sentenza - 3. Riflessioni, a margine della sentenza, sull’utilizzabilità del 41 bis per impedire la diffusione di messaggi pericolosi per la sicurezza pubblica.
1. Le tappe della vicenda giudiziaria
Con la sentenza della Cassazione 24 febbraio 2023, n. 13258 (dep. 29 marzo 2023) si è aggiunta una nuova tappa tassello alla vicenda giudiziaria di Alfredo Cospito: un caso sotto diversi punti di vista complesso, che – in ragione della sua esposizione mediatica – ha costituito l’occasione per il riaccendersi del dibattito pubblico, ed anche dell’interesse della dottrina, sul controverso istituto del 41 bis. Volendo riassumere in estrema sintesi tale tormentata vicenda, si può ricordare che Alfredo Cospito è detenuto dal 2012 in esecuzione di un cumulo di pene per varie condanne (tra cui associazione ed attentati per finalità di terrorismo o di eversione, reati in materia di armi, furto aggravato, danneggiamento, istigazione a delinquere) ed è anche, a far data dal 2016, in stato di custodia cautelare per una serie di reati tra cui il delitto di ‘strage politica’ ex art. 285 c.p. (per aver collocato e fatto esplodere alcuni ordigni esplosivi all’ingresso della Scuola Allievi Carabinieri di Fossano)[1]. A partire dal 4 maggio 2022, Cospito è poi sottoposto al regime detentivo speciale di cui all’art. 41 bis co. 2 ss. o. p. in ragione della sua particolare pericolosità e della capacità di mantenere contatti con esponenti dell’organizzazione eversiva di appartenenza. Contro il decreto ministeriale di applicazione di tale regime, la difesa del detenuto ha, da un lato, proposto reclamo al Tribunale di sorveglianza di Roma e ha, dall’altro, avanzato richiesta di revoca al Ministro della Giustizia. Entrambe le istanze sono state rigettate: dapprima, il Tribunale di sorveglianza con ordinanza del 1 dicembre 2022, poco tempo dopo, il Ministro della giustizia con decreto del 9 febbraio 2023. Contro l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza, è stato infine proposto ricorso per Cassazione, anch’esso rigettato con la sentenza oggetto di queste osservazioni.
Nel frattempo, come è a tutti noto, il detenuto, a far data dal 22 ottobre 2022, ha intrapreso uno sciopero della fame ancora oggi in atto per protestare contro il regime detentivo del 41 bis: in considerazione del grave pregiudizio alla salute determinato dal prolungato digiuno, i difensori del detenuto, che nel frattempo è stato trasferito presso il Reparto di Medicina Penitenziaria dell’Ospedale San Paolo di Milano, hanno richiesto al Tribunale di sorveglianza di Milano la concessione della detenzione domiciliare ex art. 47 ter co. 1 ter (ossia la misura domiciliare applicabile nei casi in cui si può disporre il rinvio obbligatorio o facoltativo della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 c.p.), richiesta anche questa rigettata in data 24 marzo 2023.
Occorre ancora ricordare, a dimostrazione della molteplicità delle questioni che la vicenda solleva, che il Ministro della giustizia (con evidente, seppur non esplicito, riferimento al caso di specie) ha posto al Comitato nazionale di bioetica un complesso quesito relativo alla possibilità di eseguire, in caso di imminente pericolo di vita, interventi di nutrizione e rianimazione contro la volontà, precedentemente espressa, di persona che abbia intrapreso uno sciopero della fame, con particolare riferimento alla situazione del soggetto privato della libertà personale: al quesito il Comitato ha risposto con un documento, datato 6 marzo 2023, nel quale si prende atto dell’impossibilità di assumere una posizione unitaria sul tema, essendosi evidenziate all’interno di tale organo una pluralità di opinioni tra loro non conciliabili.
2. Le motivazioni della sentenza
Con la sentenza in esame, la Corte di cassazione ha ritenuto in parte inammissibili ed in parte infondati i motivi di ricorso della difesa, la quale aveva eccepito che il Tribunale di sorveglianza non avesse motivato adeguatamente sulla sussistenza dei presupposti applicativi del regime detentivo speciale, tanto con riferimento all’accertamento della persistente operatività della associazione criminale di appartenenza, quanto con riferimento alla sussistenza di collegamenti tra il detenuto e i sodali operanti all’esterno.
Prima di entrare nel merito delle argomentazioni, la Corte di cassazione ha reputato necessario ricostruire l’evoluzione normativa dell’art. 41 bis e, per quanto più ci interessa, definire il perimetro del sindacato giudiziale sui decreti ministeriali di applicazione (e proroga) del regime detentivo speciale, così come delineato dalla giurisprudenza costituzionale e dalle più recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità. In un passaggio che risulta di particolare rilevanza per la questione su cui intendiamo concentrare l’attenzione, la Cassazione sottolinea che seppur la formulazione attuale dell’art. 41 bis – così come risultante dall’ultimo intervento di modifica operato con la legge 15 luglio 2009, n. 94 – limiti il sindacato del tribunale di sorveglianza alla ricorrenza dei presupposti applicativi, essendo stata eliminata la previsione di un controllo sulla “congruità del contenuto del provvedimento rispetto alle esigenze di sicurezza pubblica”, la giurisprudenza costituzionale ha chiarito che ciò non esime l’organo giudicante dal vagliare la funzionalità dell’imposizione del regime detentivo speciale rispetto al perseguimento delle finalità previste dalla disciplina normativa[2]. In questo senso si è quindi orientata la giurisprudenza della Corte di cassazione, la quale ha sempre riconosciuto la sussistenza di un potere giudiziale di controllo in ordine al “collegamento funzionale tra le prescrizioni imposte e la tutela delle esigenze di ordine e di sicurezza”, affermando anche di recente che il controllo del tribunale di sorveglianza in sede di reclamo sui provvedimenti ministeriali di applicazione e proroga del 41 bis deve avere ad oggetto “l’accertamento della capacità del soggetto di mantenere collegamenti con la criminalità organizzata, la pericolosità sociale e il collegamento funzionale tra le prescrizioni imposte e la tutela delle esigenze di ordine e di sicurezza”[3].
Venendo ora al merito della sentenza, per quanto attiene al profilo della persistente operatività dell’associazione di cui il detenuto è ritenuto essere parte (ossia la FAI, Federazione Anarchica informale), la Cassazione ha ritenuto esaurienti le motivazioni del Tribunale, in quanto fondate su accertamenti giudiziali (le sentenze di condanna a carico di Cospito) che consentono di ritenere accertata la sussistenza e la vitalità dell’associazione fino ad epoca prossima all’applicazione del regime detentivo speciale[4].
Anche in relazione alla sussistenza di collegamenti con l’associazione di appartenenza, la Cassazione ha ritenuto adeguate le motivazioni dell’ordinanza impugnata. Sul punto, la difesa aveva contestato il fatto che la prova dei collegamenti fosse desunta esclusivamente dall’aver il detenuto fatto pervenire all’esterno scritti, poi pubblicati su riviste e siti internet, caratterizzati da una chiara ed innegabile valenza istigatrice, nei quali l’autore esortava i “compagni anarchici in libertà” a porre in essere azioni violente e ad intraprendere la strada dello scontro armato contro lo Stato. Nella sostanza, la difesa ha ritenuto che il regime del 41 bis sia stato utilizzato per uno scopo diverso da quello per il quale esso può essere legittimamente utilizzato: cioè non per impedire al detenuto di inviare messaggi o direttive criminose a specifici sodali all’esterno, pronti a mettere in atto i suoi propositi criminosi, ma piuttosto “per impedire al Cospito di continuare ad esternare il proprio pensiero politico, ovvero per sanzionare l’istigazione o comunque il proselitismo”; l’attività comunicativa del detenuto “apertamente diffusa all’esterno in incertam personam” sarebbe stata dunque illegittimamente equiparata ai messaggi criptici o ai pizzini, così operando – sempre secondo la prospettiva della difesa del detenuto – un’illegittima estensione del perimetro applicativo del regime detentivo. Né il Tribunale di sorveglianza avrebbe offerto una motivazione convincente circa il fatto che la pericolosità del detenuto si sarebbe potuta neutralizzare tramite strumenti meno afflittivi ma comunque idonei allo scopo, quali ad esempio la collocazione nel circuito dell’Alta sorveglianza, con sottoposizione a censura della corrispondenza.
Anche su questo punto la Cassazione non accoglie le tesi della difesa, ritenendo che la sussistenza dei collegamenti tra il detenuto e l’associazione di appartenenza possano ritenersi dimostrati sulla base di diversi elementi: innanzitutto, in ragione della posizione ricoperta da Cospito all’interno dell’associazione, avendo le sentenze relative ai diversi reati per i quali è condannato accertato senza possibilità di smentita il suo ruolo di “capo ed organizzatore” del FAI; in secondo luogo, in ragione dell’assiduità delle comunicazioni intrattenute durante la detenzione nel regime ordinario con le realtà anarchiche all’esterno del circuito carcerario, di cui gli scritti pubblicati su riviste e siti on line, rappresentano chiara prova, essendosi con essi perseguito l’obiettivo di sollecitare “i soggetti più predisposti alle azioni violente e (…) alla commissione di attentati”; ancora, alla luce dell’evidente seguito goduto da Cospito nell’ambiente anarchico-insurrezionalista, desumibile dalle plurime campagne di solidarietà organizzate dalle cellule anarchiche nel corso della sua detenzione, spesso tradottesi in atti di violenza e fatti costituenti reato. Per le stesse ragioni la Suprema Corte ha ritenuto adeguatamente dimostrato il fatto che il detenuto, una volta collocato nel regime detentivo ordinario, avrebbe continuato ad essere il punto di riferimento per gli accoliti all’esterno e che dunque il regime detentivo ordinario (anche nel circuito dell’Alta sicurezza), non sarebbe stato idoneo a contrastare adeguatamente la pericolosità del detenuto.
Quanto infine alla tesi secondo cui il 41 bis sarebbe stato utilizzato per scopi diversi da quelli per i quali è stato introdotto, la Cassazione ha osservato che il regime detentivo speciale “non si caratterizza per una elettiva ovvero fisiologica applicazione per determinati tipi di associazione criminale”, come dimostra il richiamo contenuto nello stesso co. 2 dell’art. 41 bis ai delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza. Né il tenore letterale della norma consentirebbe di ritenere che le comunicazioni che il 41 bis intende vietare sarebbero solo “messaggi criptici” o i c.d. “pizzini”.
3. Riflessioni, a margine della sentenza, sull’utilizzabilità del 41 bis per impedire la diffusione di messaggi pericolosi per la sicurezza pubblica
Tra le questioni affrontate dalla Corte di cassazione, ci pare interessante soffermarsi, per la sua valenza generale, sull’ultima, cioè sull’utilizzabilità del regime detentivo speciale per affrontare – questa l’espressione utilizzata nella requisitoria della Procura generale presso la Cassazione – “un’ipotesi ermeneutica del tutto inedita, e quasi ‘di confine’, di possibile applicazione del regime detentivo speciale”[5]: ossia, se tale istituto possa essere utilizzato non per ostacolare il passaggio di precise direttive criminose attraverso messaggi cifrati o pizzini a specifici sodali all’esterno, ma per impedire la diffusione in incertam personam di messaggi dalla forte valenza istigatrice, in quanto tali pericolosi per la sicurezza pubblica.
In proposito è opportuno ricordare che l’esigenza a cui il 41 bis intendeva rispondere nel momento in cui è stato introdotto, nei primi anni ’90, era quella di garantire il rafforzamento della funzione custodialistica del carcere nei confronti di una specifica categoria di detenuti pericolosi, rappresentata dai soggetti che ricoprivano posizioni apicali all’interno di associazioni criminali di stampo mafioso: detenuti che, dal carcere, continuavano a impartire ordini e dettare direttive ai sodali all’esterno, avvalendosi degli strumenti che l’ordinamento penitenziario ordinariamente prevede per garantire la continuità dei rapporti familiari (ossia colloqui, telefonate, corrispondenza, trasmissione di pacchi con vestiti e viveri) e sfruttando tutte le occasioni di contatto con altri detenuti per far circolare informazioni, trasmettere messaggi o comunque consolidare il proprio potere. Ed in effetti il contenuto del regime detentivo speciale – ora tipizzato nell’elenco di prescrizioni contenuto nell’art. 2 quater dell’art. 41 bis – è andato modellandosi sulle restrizioni che, a partire dai primi anni di vita del 41 bis si erano dimostrate come le più efficaci per frenare il flusso comunicativo all’interno delle organizzazioni criminali di stampo mafioso, caratterizzate dalla stabilità del vincolo associativo e da una struttura fortemente gerarchizzata[6].
Ora, é vero che l’istituto è stato modellato sulle esigenze di prevenzione speciale proprie della criminalità di stampo mafioso e che, nella prassi, esso viene utilizzato quasi esclusivamente a questo fine[7]; nondimeno la legge non limita l’operatività dell’istituto a tale specifica realtà associativa: il suo ambito di applicabilità, infatti, è stato sin dall’inizio ‘agganciato’ ai delitti di cui al primo comma dell’art. 4 bis o.p., tra i quali compaiono anche i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico.
Su questo punto, occorre dunque convenire con la Cassazione sul fatto che secondo la disciplina vigente – a prescindere cioè dall’opportunità di circoscrivere de iure condendo l’applicabilità dell’art. 41 bis alla sola criminalità di stampo mafioso – il regime detentivo speciale risulta applicabile a qualsiasi forma di criminalità associativa, purché ovviamente si tratti di un reato compreso nell’elenco di cui all’art. 4 bis co. 1.
Ancora, bisogna convenire con la Cassazione sul fatto che la legge si limita ad affermare che lo scopo del regime detentivo speciale è di recidere i collegamenti ‘pericolosi’ tra il detenuto e l’associazione all’esterno, senza specificare in alcun modo quale siano le forme di comunicazione che devono essere limitate: da ciò si ricava che lo strumento può essere legittimamente utilizzato anche per impedire modalità di comunicazione diverse da quelle tradizionalmente impiegate dagli associati delle consorterie mafiose (tipicamente rappresentate dai messaggi in codice o dai c.d. pizzini), come nel caso di diffusione di scritti destinati ad essere pubblicati su riviste e siti online.
Detto ciò, si possono tuttavia fare alcune riflessioni a partire dalla stessa lettera della legge ed in particolare dall’art. 41 bis co. 2, laddove si specifica che il regime detentivo speciale ha la funzione di soddisfare le “esigenze di ordine e di sicurezza” che sono poste da detenuti “nei confronti dei quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’organizzazione criminale, terroristica o eversiva” ed ancora precisa che la misura “comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze [di ordine e di sicurezza] e per impedire i collegamenti con l'associazione (…)”. Dunque se le restrizioni sono funzionali a soddisfare le esigenze di ordine e di sicurezza che derivano dalla sussistenza dei collegamenti e ad impedire i collegamenti con l’associazione di appartenenza, ciò parrebbe significare che il regime detentivo speciale non può essere utilizzato per impedire la diffusione di messaggi di propaganda ideologica ‘in incertam personam’, ma presuppone che le comunicazioni ‘pericolose’ del detenuto (qualsiasi siano le forme che esse assumano) siano destinate ai soggetti in libertà a lui ‘collegati’ in forza dell’appartenenza alla medesima associazione criminale: una prova che non può escludersi in astratto, ma che in concreto non risulterà semplice, laddove l’associazione criminale non sia strutturata gerarchicamente, ma presenti caratteri ‘orizzontali’ e di ‘fluidità’, come nel caso di organizzazioni che gravano nell’area dei movimenti anarchico-insurrezionali.
Una seconda riflessione riguarda il fatto che l’applicazione del regime detentivo speciale può considerarsi legittima solo qualora le restrizioni che ne discendono siano “necessarie per il soddisfacimento delle esigenze” di prevenzione, qualora si sia cioè dimostrato che le restrizioni applicate siano congrue rispetto agli obiettivi di prevenzione che il regime si propone di perseguire e che restrizioni diverse, meno gravose in termini di compressione dei diritti e delle libertà individuali, non possano considerarsi idonee allo scopo di impedire i collegamenti pericolosi tra il detenuto e le associazioni criminali di appartenenza[8]. E’ questo, con tutta evidenza, un requisito essenziale per fondare la legittimità, sotto il profilo del principio di proporzionalità, di un istituto che si caratterizza per limitazioni estremamente severe dei diritti fondamentali della persona.
Come riconosciuto dalla Corte di cassazione in questa stessa sentenza (cfr. supra par. 2), tanto la congruità delle restrizioni rispetto alle “esigenze di ordine e sicurezza”, quanto la loro necessità deve essere oggetto di sindacato giurisdizionale in sede di controllo sulla legittimità dei decreti ministeriali di applicazione e proroga del regime detentivo speciale: in tale sede dovrà dunque dimostrarsi che gli obiettivi di prevenzione che si intendono perseguire attraverso l’applicazione del regime detentivo speciale sono realizzati, così come il principio di proporzionalità richiede, con il minor sacrificio possibile dei diritti e delle libertà individuali.
*Angela Di Bella è Professoressa di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano
[1] In relazione a tale procedimento, la Corte di assise d'appello di Torino, cui la Corte di cassazione ha rinviato gli atti per la determinazione della pena a seguito della riqualificazione del fatto quale strage politica ex ar.t 285 c.p., ha sollevato questione di costituzionalità dell’art. 69 co. 4 co. c.p., nella parte in cui, relativamente al reato previsto dall'art. 285 c.p., non consente di ritenere prevalente la circostanza attenuante di cui all'art. 311 c.p. sulla recidiva di cui all'art. 99, co. 4 c.p. L’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale può leggersi in Sist. pen., 8 febbraio 2023, con nota di F. Alma.
[2] Corte cost., sent. 26 maggio 2010, n. 190.
[3] Cass., sez. I, 23 aprile 2021, n. 18434.
[4] Secondo quanto riportato nella pronuncia della Cassazione, tali sentenze hanno appurato che l’associazione eversiva di cui Cospito è parte è costituita sin dal 2003 come ‘organizzazione orizzontale’, in quanto caratterizzata dal coordinamento di vari gruppi di ideologia anarchica, operanti in diverse zone d’Italia con finalità terroristiche ed eversive e che tale coordinamento ha assunto nel tempo un carattere sempre più formalizzato, potendosi individuare al suo interno anche una sorta di comitato direttivo centrale con funzione di programmazione e direzione strategica rispetto alle singole cellule. Ancora, tali sentenze hanno accertato che, a partire dal 2011, l’organizzazione ha assunto una dimensione internazionale, assumendosi il compito del coordinamento tra diverse cellule anarchiche operanti in numerose nazioni europee ed extra-europee
[5] Le conclusioni della Procura generale possono leggersi in Sist. pen., 3 aprile 2023, con un commento di G.L. Gatta, Estremismo ideologico dal carcere e 41 bis: dalla Cassazione nuovi spunti di riflessione sul caso Cospito’.
[6] Sul punto sia consentito rinviare a A. Della Bella, Il ‘carcere duro’ tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali, Giuffrè, 2016, p. 105 ss.
[7] Dal recente “Rapporto tematico sul regime detentivo speciale ex articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario” del Garante nazionale delle persone private della libertà personale (23 marzo 2023) si apprende che sul totale delle 740 persone attualmente sottoposte al regime speciale, quelle che non sono stati condannate o non sono in corso di giudizio per reati connessi alla criminalità organizzata di tipo mafioso sono solamente quattro
[8] Che il regime detentivo speciale possa considerarsi legittimo solo nella misura in cui sia necessario per realizzare gli obiettivi di prevenzione speciale è affermazione ricorrente nella giurisprudenza costituzionale che, sin dalle sue prime pronunce aventi ad oggetto il 41 bis, ha posto in evidenza come la mancanza di congruità tra le misure restrittive e le esigenze di sicurezza che motivano il provvedimento trasforma le stesse in ‘‘ingiustificate deroghe all’ordinario regime carcerario, con una portata puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento’’ (Corte cost. 351/1996).