ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
1. Legge e diritto non sono sinonimi, ma concetti complementari, sono entità reali che si fondono nel crogiuolo dell’interpretazione. Il nostro sistema giurisdizionale, di tipo c.d. “continentale”, non cristallizza la giurisprudenza dei giudici con lo stare decisis, ma prevede un organo di nomofilachia centrale -la Corte di Cassazione- che in questi giorni festeggia i suoi 100 anni.
2. Un secolo è tanto e poco. In un secolo la Corte ha avuto una mutazione progressiva, da luogo esclusivo per i magistrati “eletti” e per un’utenza elitaria a contenitore di esperienze giudicanti/requirenti le più varie e ricettore di un flusso enorme di cause civili e penali. Conseguentemente si è accentuata l’ “ambiguità” e la precarietà dell’equilibrio del suo ruolo, geneticamente e costituzionalmente spartito tra produzione di diritto oggettivo “vivente” (c.d. jus constitutionis) e risoluzione di controversie concrete (c.d. jus litigatoris), tra controllo di legalità dei provvedimenti giurisdizionali e assicurazione dell’ uniforme interpretazione della legge.
3. Negli ultimi decenni e sempre di più, questo quadro operativo, di per sé a complessità crescente, è stato ed è ulteriormente implementato, ma complicato, dall’ingresso in scena delle Corti sovranazionali e dalla correlata ermeneutica multilivello, con tutti i conseguenti vincoli preventivi e postumi.
4. L’attualità della funzione di nomofilachia è dunque profondamente condizionata da questa tensione funzionale o, per essere più chiari, prima e soprattutto, dai suoi “numeri”. Le esigenze produttivistiche hanno assunto una chiara preponderanza, le ordinanze prevalgono di gran lunga sulle sentenze, il “dominio statistico” ha compresso enormemente il ruolo della motivazione. Il trend è: sempre più definizione di liti, sempre meno orientamento interpretativo, sempre maggiori rischi di oscillazione e contrasto giurisprudenziali. E’ questa una deriva di difficile governo, astretto com’è e come è giusto che sia dal dovere istituzionale ineludibile di preservare l’essenza stessa del giudizio accentrato di legittimità, che, al fondo, è quello di rendere concreto il principio supremo dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge.
5. E’ essenziale a tal fine l’attuazione di prassi che prevengano l’adozione da parte della giurisprudenza di merito di soluzioni interpretative difformi o ondivaghe.
In quest’ottica occorre valorizzare quanto più possibile il lavoro dell'ufficio del Massimario e assicurare la massima diffusione delle sue relazioni presso gli uffici di merito per prevenire il rischio di soluzioni interpretative difformi.
Per evitare il formarsi di deleteri contrasti di giurisprudenza all'interno della corte, occorre invece percorrere la via preventiva del confronto tra i giudici della Cassazione attraverso riunioni, sezionali e intersezionali, nonché il confronto periodico, del quale si sente la mancanza, con la Procura generale.
6. Deve essere poi considerato che la Cassazione non è esente dal rischio derivante da sollecitazioni, mediate dai giudici di merito, a guardare al “fenomeno” piuttosto che alla corretta applicazione del diritto, e così a privilegiare, di fatto, la libertà interpretativa a scapito della certezza giuridica.
L’attenzione al "fenomeno", ne occorre consapevolezza, trasfigura il ruolo e la funzione della Cassazione.
Il rischio può essere evitato solo attraverso il coordinamento interno e lo sforzo costante di tutti i magistrati della Cassazione e della Procura generale ad astenersi dal controllo sul fatto nella consapevolezza che non c’è danno peggiore di quello derivante dall’imprevedibilità della decisione perché condizionata dal fatto.
7. Al fine di garantire l’efficienza e l’uniformità della funzione di legittimità è essenziale valorizzare al massimo momenti di effettivo coordinamento tra Cassazione e Procura generale affinché le funzioni di legittimità siano coerentemente esercitate da tutti i magistrati della Cassazione e della Procura , e ciò al fine di prevenire la difformità delle decisioni e altresì garantite l’utile utilizzo delle risorse assai “scarse” rispetto al carico di lavoro.
8. D’altro canto l’importanza della comune appartenenza alla giurisdizione di legittimità dei consiglieri e dei pubblici ministeri della Cassazione tanto più deve essere riaffermata in questo momento, per la "difficile" attualità della politica giudiziaria ove si "aggira lo spettro" della separazione delle carriere. La Procura Generale presso la Corte non è collocata in una "zona franca". Il rischio, già per molti versi attuale a causa della limitazione nei mutamenti di funzioni tra giudicante e requirente, è la sua trasformazione progressiva in un -indesiderabile- pubblico ministero di ultimo grado.
9. Da questo contesto problematico, al netto di improbabili e forse nemmeno auspicabili modifiche costituzionali, la Corte può uscire soltanto “in avanti”, provando a governare cum modo i flussi degli affari e, allo stesso tempo, aprendo nuovi e forti canali di dialogo con i giudici di merito, così come è prassi consolidata con le Corti europee, nella consapevole prospettiva di avviare una necessaria linea di continuità giurisprudenziale a tutela dei diritti fondamentali.
Strumenti decisivi in questo senso sono la piena valorizzazione dell’Ufficio del processo e il rinvio pregiudiziale nel civile. Ma ovviamente non basta. Bisogna pensare a forme innovative, strutturate ed efficaci, di coordinamento giurisprudenziale preventivo, che si basino sull’attività formativa ed organizzativa della SSM, sia centrale sia decentrata. Un’idea – specifica - è quella di prevedere l’istituzione di conferenze (almeno) annuali Corte/Corti territoriali, Procura generali/Procure generali territoriali.
10. Dopo cento anni di Cassazione nazionale è dunque arrivato il tempo di un rapporto nuovo tra giurisdizione di merito e giurisdizione di legittimità. E’ indispensabile un profondo “cambio culturale”: bisogna pensare alla giurisprudenza come un’ azione comune, strutturata nello scambio e nel confronto tra i suoi “produttori”, che sono tutti i magistrati, giudicanti e requirenti. Bisogna concepire l’organizzazione dell’ interpretazione giudiziale in termini “circolari” e quindi riconoscere il plesso Corte di Cassazione/Procura Generale non più solo, in termini formali/oggettivi, quale “vertice funzionale” della giurisdizione nazionale, ma, in termini sostanziali/soggettivi, quale “centro” di un agire comunicativo corale, costante, osmotico, dunque autenticamente costituzionale.
approfondimenti sul tema:
Il ruolo del giudice ai fini della effettività dei precetti posti dalla legge di Giacomo Fumu
Un cambiamento del volto della giustizia Italiana di Antonella Di Florio
Appunti sui numeri della Cassazione di Pierpaolo Gori
Il passaggio dalla requisitoria orale a quella scritta di Pasquale Serrao D'Aquino
Il passaggio dalla requisitoria orale a quella scritta di Pasquale Serrao D'AquinoBrevi note sul dimenticato art. 110 Cost.* Di Giuliano Scarselli
Il passaggio dalla requisitoria orale a quella, di regola, scritta consente alla Procura Generale di lasciare sistematicamente una traccia del suo orientamento sulle diverse questioni, pur con le difficoltà di conciliare uniformità di indirizzo dell’Ufficio e autonomia dei Sostituti Procuratori Generali.
È un cambiamento di prospettiva che amplifica il contributo nomofilattico dell’Ufficio requirente.
Si tratta di un'opportunità, come spesso avviene, nata dalla drammatica necessità dell’emergenza pandemica, che va sfruttata al meglio. Occorre, infatti, che questi contributi interpretativi non siano circoscritti nella fruizione al solo Collegio del singolo procedimento ma, oltre che per esigenze di coerenza interna dell’Ufficio e di ineludibile dialettica processuale, anche per opportune trasparenza e informazione degli Uffici giudiziari e degli Avvocati, inserite nelle banche dati di fruizione pubblica, quanto meno per le requisitorie che hanno rilevanza nomofilattica o che riguardano casi di rilievo sociale, da collegarsi alle sentenze che decidono sul ricorso.
La separazione delle carriere in atto, frutto dell’intervento già operato sull’art. 13 del d.lgs. n. 160/2006 da parte dell’art. 12 della legge n. 71 del 2022 deve mettere la magistratura in allarme rispetto al destino della Procura Generale. Il suo profilo ordinamentale rischia di allontanarsi dal modello dell'Avvocato Generale delle Corte di giustizia dell'UE, ridimensionando tanto il suo contributo alla nomofilachia quanto la sua funzione di tutela del cittadino nel giudizio di ultima istanza, per trasformarla in un pubblico ministero nel terzo grado. Occorre resistere a questa involuzione e ribadire la necessità, per garantire la maggiore ricchezza di esperienze professionali di legittimità, di garantire sul piano ordinamentale una permanente circolarità di funzioni, non solo tra quelle di merito e di legittimità, ma anche tra funzioni di legittimità giudicanti e requirenti.
* sull'argomento Cassazione
Il ruolo del giudice ai fini della effettività dei precetti posti dalla legge di Giacomo Fumu
Appunti sui numeri della Cassazione di Pierpaolo Gori
Prima di occuparsi del ruolo, della posizione della Corte di cassazione e della necessità di un dialogo virtuoso con i giudici di merito è opportuno un chiarimento sulla nozione di “diritto vivente”, frequentemente evocata proprio con riguardo all’attività interpretativa della Corte di legittimità.
L’espressione è spesso usata in senso polemico, per significare la crescita incontrollata del diritto giurisprudenziale, per censurare quella che viene denunciata come indebita invasione di campo del giudiziario rispetto al legislativo, ovvero per evidenziare il distacco della Corte dai giudici del merito e dalle loro esigenze.
In realtà, in modo assolutamente approssimato, l’espressione diritto vivente, così come compare in numerose sentenze della nostra Corte costituzionale, non significa affatto “diritto libero” o “libera creazione del diritto”, bensì, più modestamente, “attuale stato dell’interpretazione giurisprudenziale di una norma suscettibile di diverse letture”.
In quanto “vivente” il diritto è mutevole e la sua cifra caratteristica è l’incertezza; una incertezza che il processo dovrebbe essere in grado di sciogliere.
Molto si parla di “prevedibilità della decisione”, ravvisando nella stessa il tratto che dovrebbe caratterizzare le moderne giurisdizioni, ma non si può pensare che la giurisprudenza sia immutabile, che la prevedibilità coincida con la immutabilità di ciò che è consolidato.
A ben vedere, l’esito di ogni processo ha sempre una componente di imprevedibilità e tante previsioni più o meno azzardate su “come andrà a finire” sono destinate ad essere smentite.
Ciò appartiene alla fisiologia, non alla patologia del giudiziario. Si possono fare pronostici su come il giudice interpreterà una norma (sostanziale o processuale), ma non si potrà mai dar per scontata l’opzione interpretativa che alla fine sarà preferita.
2. Le condizioni in cui opera la Corte di cassazione
All’indomani dell’unificazione della Corte di cassazione penale (1889), un giurista dei primi del novecento offriva una descrizione piuttosto sconfortante della situazione in cui versava la “nuova” Cassazione con sede nella Capitale, evidenziando i contrasti interni alle Sezioni, le oscillazioni interpretative mai risolte, le sentenze iperboliche, l’esasperante individualismo tra i giudici di legittimità.
È sorprendente constatare che gli stessi problemi che oggi riguardano la Corte di cassazione erano già presenti in anni così lontani e in contesti profondamente diversi.
Naturalmente, l’attuale difficoltà della Corte di legittimità, percepita spesso come distante dai giudici di merito, a “fare nomofilachia”, dipende da numerosi fattori, cui non è estranea, è opportuno ricordarlo, la stessa natura “ambigua” di questo giudice, che deriva dall’impianto delle norme fondamentali che regolano le sue funzioni: da un lato, l’art. 65 ord. giud. che stabilisce che la Corte di cassazione assicura l’esatta osservanza e l’uniformità dell’interpretazione della legge; dall’altro, l’art. 111, comma 7, Cost., che prevede che contro le sentenze è sempre ammesso ricorso per cassazione, per violazione di legge.
Si tratta di due disposizioni che disegnano il DNA della Corte di cassazione e che giustificano pienamente la fortunata definizione di questo giudice come di un “vertice ambiguo”, per sottolineare che, allo stesso tempo, svolge funzioni di corte suprema (ius constitutionis) e di corte di terza istanza che assicura una tutela dei diritti delle parti (ius litigatoris), ponendosi nel sistema costituzionale come strumento di tutela contro le “decisioni ingiuste” e insostituibile baluardo per le garanzie dell’imputato.
Proprio l’essere baluardo contro le decisioni ingiuste ha contribuito all’aumento esponenziale dei ricorsi con il conseguente ridimensionamento del ruolo di Corte suprema, svolto in maniera prevalente dalle Sezioni unite.
Le Sezioni semplici finiscono infatti per svolgere prevalentemente funzioni di giudice dello ius litigatoris, pronunciando un numero elevatissimo di decisioni, con il rischio conseguente di un aumento esponenziale dei contrasti giurisprudenziali tra Sezioni, ma anche all’interno della stessa Sezione, di contrasti consapevoli ed inconsapevoli, di obiettive difficoltà di individuare con chiarezza gli orientamenti consolidati.
Detto rischio è accentuato dall’attività di massimazione e, più in generale, dalle funzioni delle banche dati, in cui i giudici finiscono sempre per trovare quel che cercano, con conseguente difficoltà per la Corte di apparire coerente e stabile.
Ciò produce difficoltà nell’assicurare uniformità interpretativa e complica le possibilità di instaurare un corretto rapporto tra giudice di legittimità e giudice di merito.
3. Le norme e i fenomeni criminali: le sollecitazioni e la compressione dei diritti.
In questo contesto problematico la Corte di cassazione rende la propria giurisprudenza e dialoga con i giudici di merito.
Si sono registrate frequenti spinte, forti sollecitazioni alla Corte da parte dei giudici di merito – per lo più derivanti dalla esigenza di limitare manifestazioni criminali sempre più allarmanti - a guardare al “fenomeno” e non alle norme e alla corretta applicazione del diritto, ad assecondare e privilegiare, di fatto, una libertà interpretativa, anziché la certezza giuridica, a “trasformare” il ruolo e la funzione propri della Corte, intesa come invalicabile presidio di legittimità e luogo di garanzia dei diritti fondamentali delle persone.
Sollecitazioni finalizzate a privilegiare una lettura delle disposizioni penali “di tipo estensivo additivo”, in un’ottica volta a valorizzare le esigenze di difesa sociale, a ritenere erroneamente che la necessita di stabilità e la prevedibilità delle decisioni, garantita dalle Sezioni unite, sia assicurata dalla immutabilità di ciò che è consolidato.
Non vi è solo la nota vicenda del concorso esterno nell’associazione mafiosa (di cui tanto si parla), ma ci si può riferire anche al tema della c.d. corruzione funzionale, cioè del funzionario a libro paga (prima della modifica dell’art. 318 c.p. dovuto alla legge Severino); a certe applicazioni dell’abuso d’ufficio; alla lettura che la Corte di cassazione, per anni, ha fatto del reato di maltrattamenti in famiglia, estendendo la tutela anche al non più convivente, soluzione che, da ultimo, è stata significativamente criticata dalla Corte costituzionale (sent. n. 98 del 2021); ancora, alla giurisprudenza sul disastro innominato oppure all’applicazione del reato di getto pericoloso di cose esteso alle emissioni di onde elettromagnetiche o, ancora, alle malattie professionali e all’estensione della lottizzazione abusiva, fino alle confische senza condanna.
4. Il virtuoso dialogo tra giudice di legittimità e giudice di merito.
Si tratta di operazioni interpretative che, sotto diversi profili, sono state compensate da altri modelli di intervento, caratterizzati da una linea di proficuo dialogo con i giudici di merito, dalla comune scelta di innalzare qualitativamente e stabilizzare i livelli di garanzia, di respingere l’idea che il processo penale sia un inutile orpello volto sostanzialmente a garantire l’impunità, dalla considerazione per cui la necessità di “dare risposte” non può piegare le norme, limitare la legalità penale, conformare la funzione di accertamento con le regole del giusto processo.
Un innalzamento delle garanzie derivato dal progressivo e costante recepimento degli spunti offerti dalle decisioni di Strasburgo: si pensi, ad esempio, all’interpretazione evolutiva dell’art. 7 CEDU fornita dalla Corte di Strasburgo, che ha offerto un fondamento molto più solido al principio di retroattività della lex mitior e che ha portato poi le Sezioni unite Gatto ed Ercolano ad estenderne l’operatività anche in executivis; ai tentativi di ampliare la sfera operativa dell’istituto del ricorso straordinario di cui all’art. 625-bis c.p.p. per dare esecuzione a sentenze della Corte EDU (caso Drassich); alla valorizzazione dell’istituto della restituzione in termini per porre rimedio alla disciplina del processo contumaciale (caso Somogyi); alla sostanziale abrogazione per indeterminatezza del reato previsto dall’art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011, che puniva il soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale per non aver rispettato l’obbligo di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”, operata dalle Sezioni unite Paternò nel 2017; alle Sezioni unite Caruso del 2019 sulla coltivazione di stupefacenti (ancora un intervento sulla tipicità del reato).
Non diversamente, sotto altro profilo, è necessario dialogare con la migliore dottrina, che ormai da tempo ha indicato come il diritto giurisprudenziale determini effetti, quali la retroattività dei mutamenti giurisprudenziali e la interpretazione estensiva (che, pur essendo riconducibile alla lettera dell’enunciato normativo, può non apparire ragionevolmente prevedibile), rispetto ai quali occorre riempire i vuoti di tutela che si aprono con soluzioni adeguate alla complessità delle questioni: la continua elaborazione della giurisprudenza di merito, per sua natura vicina alla percezione dei mutamenti e del novum dell’evoluzione sociale, e l’opera “uniformatrice” svolta dalla Corte di cassazione hanno il dovere di misurarsi seriamente con tali problemi nell’ottica della progressiva espansione della tutela dei diritti fondamentali.
Entro questa prospettiva assume un particolare rilievo l’esigenza di promuovere ed assicurare una maggiore uniformità interpretativa all’interno delle sezioni semplici della Corte di cassazione, attraverso l’organizzazione di apposite riunioni sezionali e intersezionali.
Una maggiore attenzione va riservata alla valutazione, sin dalle prime fasi del giudizio di merito, delle questioni oggetto di un possibile rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ovvero di un eventuale ricorso alla Corte EDU, ponendosi in una più ampia dimensione ordinamentale di tutela diffusa dei diritti della persona, la cui protezione “convenzionale” è in via primaria riservata alla sensibilità del giudice comune.
Si avverte, inoltre, l’esigenza di innalzare i livelli di formazione professionale dei magistrati e di potenziare il ruolo della Scuola superiore, orientando l’attività formativa anche sull’esperienza di dialoghi tematici volti ad approfondite la comune messa a fuoco delle questioni che più di frequente costituiscono oggetto di ricorsi proposti alla Corte di cassazione.
Potrebbe rivelarsi opportuna, infine, sulla base dell’esperienza ricavabile dall’esame di altri modelli ordinamentali vicino al nostro (ad es., il sistema francese), la possibilità di istituire conferenze permanenti dei presidenti delle Corti di appello e dei procuratori generali, che rispettivamente individuino e raccolgano sul territorio le comuni questioni problematiche da sottoporre all’attenzione della Corte, al fine di elaborare proposte virtuose e l’instaurazione di buone prassi in materia organizzativa, anche nella prospettiva di una più rapida fissazione e trattazione dei giudizi di impugnazione.
Approfondimenti sul tema:
Il ruolo del giudice ai fini della effettività dei precetti posti dalla legge di Giacomo Fumu
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Appunti sui numeri della Cassazione di Pierpaolo Gori
Il passaggio dalla requisitoria orale a quella scritta di Pasquale Serrao D'Aquino
Relazione del Segretario di AreaDG Eugenio Albamonte
È prodotto di recenti studi di politologia l’aver individuato un rapporto di forte connessione tra la maggiore o minore forza e coesione politica dei governi e l’attribuzione di spazi più ampi o più ristretti alla funzione giurisdizionale.
Viene definito “tribunalizzazione della politica” il fenomeno in base al quale vengono trasferiti verso le corti giudiziarie temi politici e sociali di grande rilievo, per il fatto che la politica non abbia voluto o non sia stata capace di risolverli nelle sedi parlamentari. E ciò solitamente avviene o in ragione della difficoltà ad affrontare temi spinosi senza perdere di popolarità o a causa della eccessiva ampiezza della composizione politica della maggioranza di Governo, che non è in grado di trovare un minimo comun denominatore omogeneo per dare risposte alle istanze sociali.
Anche quando la risposta del legislatore arriva, peraltro, questa è frutto di estenuanti mediazioni che si traducono in una lettera normativa ambigua ed in un suo spirito incerto e confuso. Anche tale fenomeno contiene una implicita delega alla magistratura ed alla sua funzione interpretativa che è tanto più ampia quanto più la legge è mal scritta o ambigua e generica.
Ciò è avvenuto con grande evidenza in relazione a temi eticamente sensibili ma, in modo sotterraneo e ben più assiduo, ha riguardato questioni di primo rilievo nella definizione dell’identità democratica del nostro Paese.
Il trend è destinato ad invertirsi quando la coalizione politica di Governo abbia una maggiore omogeneità di principi e di programma e soprattutto sia investita di consenso maggioritario.
In queste circostanze la fisarmonica della delega rimessa alla giurisdizione è destinata a restringersi sia perché è ipotizzabile una più forte rappresentatività dei valori dominanti nel Paese, da porre a fondamento delle scelte politiche e normative più sensibili, sia perché il drafting normativo, non più frutto di estenuanti compromessi, dovrebbe essere più netto ed incisivo e lasciare minori spazi all’interpretazione della magistratura.
L’epoca del maggioritarismo non è per ciò solo negativa. All’opposto abbiamo sempre sostenuto che la debolezza della politica determina l’inevitabile apertura di spazi, talvolta davvero eccessivi, rimessi con delega in bianco al potere giudiziario. Ed abbiamo più volte sottolineato come questo abbia determinato una sovraesposizione della magistratura, chiamata a sopperire attraverso il diritto giurisprudenziale all’immobilismo nell’azione politica del Governo e del Parlamento. Sovraesposizione che alla lunga impone alla magistratura di operare scelte dall’indubbio contenuto politico e che, quindi, ne può mettere in discussione l’apparente terzietà rispetto agli opposti schieramenti che animano il dibattito sociale sui temi sensibili.
Ben venga quindi una politica forte, con ampio consenso nel Paese e portatrice di valori netti, capaci di tradursi in testi normativi chiari così restituendo le scelte politiche alla loro sede naturale. Se il maggioritarismo si limitasse a questo…
Ciò a cui assistiamo invece va ben oltre: sia in Polonia che in Israele, ma anche in Ungheria, in Turchia, in Tunisia più di recente, tutti Paesi nei quali i Governi in carica hanno una investitura maggioritaria, viene espressamente rimesso in discussione il ruolo del potere giudiziario, a partire dalle rispettive Corti Costituzionali, quale presidio di garanzia delle minoranze ed argine alla “tirannia delle maggioranze”, attraverso il controllo di legittimità sulle scelte normative operate dal Parlamento. Si sciolgono gli organi di autogoverno, si destituiscono magistrati autori di decisioni sgradite.
Nel nostro Paese, da un anno a questa parte, i segnali di insofferenza delle forze di Governo nei confronti delle istituzioni di garanzia si susseguono in modo allarmante attraverso vere e proprie campagne di delegittimazione che hanno colpito già l’Autorità nazionale anticorruzione, il Governatore della Banca d’Italia, il Procuratore Nazionale Antimafia, gli Uffici di bilancio della Camera dei Deputati e del Senato…
E non sono mancati gli interventi normativi già adottati e volti alla riduzione dei poteri di controllo attribuiti alla Corte dei Conti proprio in concomitanza con la spesa dei finanziamenti del PNRR. Come se tale attività non comportasse il concreto rischio di sviamento dei fondi pubblici, determinato dall’illegalità politico-economica o dalla criminalità organizzata.
Ma il nodo centrale è costituito dall'attacco portato alla giurisdizione ed ai diritti.
Su questi ultimi abbiamo organizzato una tavola rotonda, che seguirà il mio intervento, e per brevità rimando ad essa e ai nostri ospiti, che tracceranno il quadro degli interventi governativi, in parte programmati e in parte già eseguiti, e che sono funzionali a rimettere in discussione traguardi già conseguiti e che ritenevamo inviolabili nella salvaguardia dei diritti civili e politici, del lavoro, della libertà di informazione, degli stranieri e dei migranti, del principio di indipendenza interna ed esterna della magistratura.
Rivolgo invece la mia attenzione all'attacco portato alla giurisdizione. Che mi sembra mosso su diversi piani e a diversi livelli, tutti convergenti verso un drastico ridimensionamento del potere giudiziario quale strumento di controllo della legalità del Paese, di tutela dei diritti, di contrasto ai fenomeni illegali.
Un primo piano è certamente quello dell'attacco portato alla funzione interpretativa del diritto; funzione che costituisce l'essenza del nostro ruolo nel sistema costituzionale.
È diffusa l'insofferenza per le decisioni che affermano e tutelano diritti che la cultura di Governo vorrebbe fossero negletti o fortemente ridimensionati. Anche quando quella tutela discende direttamente dai principi costituzionali e dalla normazione sovranazionale che l'Italia si è impegnata a rispettare. Si pretende che l'attività di interpretazione si sviluppi non in linea con tali architravi ma in coerenza con i nuovi valori che si vanno affermando, ancorché non ancora normativamente definiti. Si pretende sostanzialmente di sostituire il riferimento costituzionale che guida l'interpretazione con il sentimento diffuso nel Paese, rispetto al quale la maggioranza si propone interprete. E quando questo non avviene, e difficilmente potrebbe, immediata è la reazione di rigetto, che confonde artatamente l'interpretazione del diritto operata dalla magistratura con la creazione del diritto riservata al legislatore e propone all'opinione pubblica l'immagine di una magistratura usurpatrice degli altri poteri e trasmodante in una funzione politica a lei estranea. Devo dire con rammarico che questa lettura è condivisa anche ad alcuni orientamenti culturali interni alla magistratura che rimbalzano e riecheggiano, con linguaggio forbito, questa ricostruzione falsificata.
Altro versante è quello della libertà di manifestazione del pensiero, soprattutto quando è critico, da parte dei singoli magistrati e delle nostre associazioni. Anche qui la reazione è veemente, ma solo quando il magistrato dice cose sgradite e non sintoniche al sentiment maggioritario. Si arriva a negare la libertà di espressione, utilizzando strumentalmente ed in modo inappropriato una lettura del dovere di terzietà del magistrato che aveva forse campo nell'epoca del regime e a brandire la minaccia disciplinare; potere del quale, peraltro abbiamo già dovuto contestare recenti utilizzi strumentali e in contrasto con le norme vigenti. Oltre alla libertà di espressione dei singoli viene poi contestata la libertà di associazione dei magistrati. Mai avremmo immaginato di dover difendere, nel dibattito pubblico, la libertà dell’ANM, la sua piena legittimazione, ad intervenire sui temi delle riforme della giustizia e della magistratura come avvenuto in questo anno. E' grave che anche segmenti autorevoli dell'avvocatura anziché schierarsi a tutela della libertà di espressione di tutti e anche nostra, avvalorino questa lettura antidemocratica di un principio cardine della giurisdizione quale la terzietà del magistrato.
Potrei continuare ricordando le aggressioni al ruolo e alla persona, subite da magistrati impegnati nella gestione di complesse indagini e relativi processi che coinvolgono personalità politiche di primo piano. Tra queste la più grave è certamente quella portata alla Procura della Repubblica di Firenze e in particolare ad alcuni di quei magistrati ai quali rivolgiamo la nostra calorosa solidarietà. Ma per brevità mi limito a rammentare l'ultima declinazione della campagna orientata a delegittimare il ruolo della giurisdizione e persino le decisioni giudiziarie. La definirei “revisionismo giudiziario” perché, come nel revisionismo storico si tenta di rimettere in discussione la verità dei fatti accaduti al fine di alleggerire il peso di responsabilità politiche che grava sulle spalle degli eredi di risalenti e tramontate esperienze politiche che sono state drammatiche per il Paese. In questa nuova declinazione il revisionismo riguarda i fatti accertati da giudicati risalenti, tra i pochi che hanno fornito risposte reali circa la ricostruzione dei fatti e l'individuazione almeno parziale dei responsabili. Mi riferisco in particolare alla strage di Bologna. Risposte che si vuole rimettere in discussione attraverso l'utilizzo inappropriato delle commissioni parlamentari di inchiesta i cui esiti sarebbero scagliati contro le sentenze per inquinarne la credibilità e così travolgendo definitivamente l'autorevolezza di accertamenti, raggiunti all'esito di un impegno condotto con grande sacrificio da generazioni di magistrati.
E fin qui nulla abbiamo ancora detto delle riforme...
Anche in questo campo si distinguono due piani. Quello della riforma della magistratura e dell'organo di governo autonomo e quello delle riforme che riguardano la giustizia e, principalmente, lo strumentario di diritto penale sostanziale e processuale.
In relazione al primo aspetto non voglio sottrarre argomenti a chi abbiamo invitato con grande piacere a partecipare alla nostra tavola rotonda proprio per approfondire il tema.
Mi limito a ribadire cosa già detta più volte: sotto l’ombrello della c.d. “separazione delle carriere” vengono nascoste norme insidiose per gli equilibri democratici definiti dalla Costituzione, alcune di queste sono state più volte anticipate dal Ministro Nordio che si appresta a presentare un disegno di legge.
Un PM separato che non conduce più le indagini e che non coordina la polizia giudiziaria sarà strumento dell'iniziativa di quest'ultima che, a sua volta, sarà alle dirette dipendenze del decisore politico da cui dipende funzionalmente e gerarchicamente. Verrà meno quindi lo scudo, fornito dalla nostra indipendenza e direzione delle indagini. Un presidio che, fino ad ora, ha impedito che il diritto penale venisse piegato in chiave securitaria, di diritto penale del nemico sociale della maggioranza di turno, di strumento di lotta politica da brandire contro l'opposizione, ed inguainare al cospetto delle illegalità diffuse nelle file dei Governi e dei loro alleati politici ed economici.
Anche l'intervento riformatore sull’art. 101 comma 2 della Costituzione inquieta e sgomenta. Se i giudici non sono più soggetti “soltanto” alla legge sono soggetti a “qualcos'altro” rispetto alla legge. Qualcosa che può interferire nelle loro decisioni e condizionarle, anche soltanto dall'interno degli uffici e della piramide giudiziaria, trasformando definitivamente il modello costituzione della giustizia, inquinandone la limpidezza e compromettendone l'affidabilità e la reputazione nella comunità.
Quanto allo strumentario penale vengono subito in mente le nuove norme incriminatrici introdotte per contrastare i rave party ed i graffitisti che, in parallelo con la spinta turbocompressa in favore dell’abolizione dell'abuso d'ufficio, definiscono una dimensione del diritto penale sempre inteso in chiave politica e classista. Caratterizzato da un marcato accento securitario che si accompagna alla blandizia verso segmenti di illegalità che riguardano il potere politico ben più da vicino.
E le stesse linee direttrici si leggono chiaramente nell'approccio agli strumenti investigativi, primi tra gli altri le intercettazioni telefoniche ed il trojan. Qui le limitazioni perseguite sono volte esclusivamente a tutelare la stessa classe politica ed amministrativa nonché i settori economici a lei più prossimi, i cui reati vengono declassati tra quelli “di minor gravità”. Mentre la propaganda legalitaria viene alimentata attraverso la sbandierata fermezza nel contrasto al crimine organizzato, come se i magistrati più autorevoli ed impegnati sul campo non avessero spiegato, con argomenti ed esempi concreti, la forte interconnessione tra quest'ultima criminalità e l'illegalità del mondo politico, amministrativo ed economico.
C'è da dire che questa forte spinta al ridimensionamento del ruolo e della funzione della giurisdizione coglie la magistratura in una fase di debolezza. Una debolezza determinata da carichi di lavoro ingovernabili e crescenti, da carenze di persone e mezzi, dalla frustrazione determinata dai tempi lunghi e dalla scarsa effettività delle decisioni, da riforme che, come quella intestata alla Ministra Cartabia, spingono verso risultati misurabili soltanto attraverso il parametro della quantità trascurando gli aspetti qualitativi. Che introduce procedure che complicano e rallentano invece di snellire, che vede una chiave di soluzione dei problemi nella gerarchizzazione, anche degli uffici giudicanti, nel conformismo acritico rispetto al precedente giurisprudenziale e nell'agitare lo spauracchio delle valutazioni di professionalità e della responsabilità disciplinare. Misure forse utili a governare una categoria di neghittosi e incapaci ma mortificanti per i magistrati italiani che tra mille difficoltà hanno mantenuto un livello alto di impegno e professionalità.
Spero di essere smentito ma non mi aspetto che il CSM voglia contrapporre, al disegno di restaurazione dell’attuale maggioranza politica, le energie necessarie e che solo pochi anni fa sarebbero state messe in campo, coralmente, da tutte le anime culturali della magistratura. Questo perché, ad un anno dal suo insediamento, il nuovo Consiglio sembra anch'esso caratterizzato da logiche maggioritarie che vedono alleati i rappresentanti della magistratura conservatrice ed i laici espressi dalla stessa maggioranza di Governo, accomunati anche dalla condivisione di alcune posizioni. Mi riferisco, ad esempio, al tema dell'interpretazione delle leggi e del diritto alla manifestazione pubblica del pensiero da parte dei magistrati già sopra richiamati.
In verità sembra essersi creata anche una forte collaborazione operativa tra le stesse componenti della magistratura e le forze di Governo, che trova le sue articolazioni principali in Via Arenula e anche presso la Presidenza del Consiglio.
Sembra difficile immaginare che questa intesa possa infrangersi al cospetto del disegno politico di complessivo ridimensionamento del ruolo della giurisdizione.
Eppure, non è una cosa buona che il CSM possa essere governato stabilmente da un unico blocco maggioritario che ne determini le scelte di alta amministrazione e di politica giudiziaria. Non è bene perché il CSM non è organo di governo ma di garanzia e deve, nelle sue decisioni consentire a tutti i magistrati di riconoscersi e sentirsi rappresentati.
Già in passato abbiamo assistito ad un Consiglio governato da una maggioranza stabile e pressoché permanente. Ne è seguito il consociativismo delle permanenti unanimità, basate su logiche di spartizione correntizia. Né l'una né l'altra esperienza hanno fatto bene alla magistratura ed all'organo quanto potrebbe invece un Consiglio che, pur agendo attraverso l'inevitabile schema delle maggioranze, preveda una composizione volta a volta differente delle stesse, dando immagine concreta ad una contrapposizione tra differenti opzioni e valori e non di una aggregazione animata dal comune intento, seppur per finalità differenti, di gestire da sola il potere che l'organo esercita sulla comunità dei magistrati e sulla direzione e organizzazione degli uffici giudiziari.
Certamente in questo anno il CSM non ha avuto modo ancora di affrontare i temi che evidenzino la radicale differenza tra la visione della giurisdizione largamente condivisa in magistratura e quella che viene prospettata dal Governo in carica. Ma alcune scelte, se valutate per le argomentazioni esplicitate, sono già indicative di valori che certo non possiamo condividere.
Mi riferisco, per fare solo un esempio, ad una recente delibera che, per la nomina di un procuratore della Repubblica (proprio qui in Sicilia), preferisce un componente della Procura Generale presso la Cassazione ad un magistrato che aveva già positivamente svolto lo stesso incarico in altri precedenti uffici. Quella decisione si fonda sul positivo e prevalente apprezzamento di chi possa fare “nomofilachia circolare”, cioè, immagino, una sorta di evangelizzazione delle giurisdizioni di merito attraverso la diffusione delle decisioni e dei principi affermati dalla Suprema Corte. Una scelta che tradisce una visione gerarchica e verticistica della magistratura, che pone al suo apice gli uffici di legittimità e che nei fatti certamente interpreta fedelmente, anziché contrastarlo, un disegno di arretramento rispetto all'idea di una giurisdizione orizzontale e diffusa che è propria della Costituzione.
Vedremo come si atteggerà la maggioranza consiliare alla prova delle tematiche che implicano scelte valoriali, come l'imminente circolare sull'organizzazione dell'ufficio del PM. Su questo tema è la legge che finalmente pone riparo ai guasti di una eccessiva gerarchizzazione degli uffici e di una dirigenza senza controlli e senza responsabilità, reintroducendo le Procure nel circuito tabellare. Non si tratta di rinunciare al necessario potere di indirizzo e di coordinamento del Procuratore ma di porre dei contrappesi ad un potere pressoché assoluto che consente oggi, seppur nella sua patologia, di giungere alla mortificazione personale e professionale dei magistrati dell'ufficio, come avvenuto recentemente nella Procura della Repubblica di Nola, dove oggi, i giovani magistrati che hanno avuto il coraggio di denunciare gli abusi si trovano, loro, a subire un procedimento disciplinare.
Dopo aver delineato il contesto, in modo certamente sommario ed impressionistico siamo arrivati al “Che fare?”.
Come può un gruppo di magistrati come il nostro resistere e possibilmente reagire a questo disegno di alterazione profonda del modello costituzionale di giurisdizione?
Innanzitutto, possiamo e dobbiamo mantenere accesa la luce, coltivando la cultura del nostro ruolo e delle nostre funzioni per come sono state disegnate dalla Costituzione. Esclusivamente al servizio dei diritti e dei cittadini. Praticando quotidianamente tutti gli spazi che ci sono riservati nell'interpretazione e nell'applicazione del diritto, con competenza e professionalità, senza auto censurarci per compiacere il sentiment maggioritario o per timore di essere investiti da campagne mediatiche di delegittimazione, anche personale, orchestrate ad arte.
Ponendo la massima accuratezza ed attenzione nell'assunzione delle nostre decisioni e nella redazione dei provvedimenti, nella consapevolezza che ogni distrazione, ogni scivolone verrà enfatizzato e strumentalizzato per delegittimare il nostro operato e l'intera categoria professionale.
Dobbiamo essere consapevoli della posta in gioco e rendere consapevole l'intera magistratura dei rischi connessi alla realizzazione del disegno di restaurazione, nella convinzione che il modello costituzionale sul quale ci siamo formati sia ancora patrimonio culturale vivente ed intimamente condiviso tra i colleghi, comprese le generazioni più giovani che dobbiamo saper formare innanzitutto con l’esempio.
Dobbiamo uscire dalle aule dei tribunali e partecipare al dibattito pubblico, ovunque si svolga, per spiegare ai cittadini che il drastico ridimensionamento del controllo giudiziario prima di ogni altra cosa colpisce l'effettività dei loro diritti. Dobbiamo saper fare rete coinvolgendo nella riflessione e nella critica le forze politiche e sociali che sono più affezionate al bilanciamento tra i poteri garantito dall'assetto ordinamentale vigente, la cultura giuridica, il personale amministrativo, alla cui dedizione dobbiamo tanta parte dei risultati perseguiti, l'avvocatura che dobbiamo sollecitare ad abbandonare le sterili contrapposizioni e a schierarsi per la preservazione di una giurisdizione realmente indipendente che non possono non avere anche loro a cuore.
Dobbiamo farlo, possiamo farlo e sappiamo farlo, perché siamo in possesso delle chiavi di lettura necessarie per capire la direzione che si sta prendendo e le conseguenze negative che ne verranno, forti degli strumenti culturali che vengono dai gruppi associativi che hanno dato vita ad AreaDG e del contributo dei tanti che si sono aggiunti. Siamo un gruppo di magistrati che ancora ritiene che la militanza culturale sia un valore e lo pratichiamo quotidianamente, attraverso un dibattito interno ed esterno particolarmente ricco ed effervescente. Siamo un gruppo di magistrati che non delega ad altri la rappresentanza ma nel quale ognuno rivendica il dialogo ed il confronto.
In conclusione, di questa relazione, che è l'ultima che rivolgo al gruppo nelle vesti di Segretario, mi concedo qualche ultima considerazione personale e qualche ringraziamento.
In questi ultimi quattro anni AreaDG ha proseguito il percorso già intrapreso e si è rafforzata nei contenuti e nella coesione. Molto si deve alla comunione di valori che ha tenuto unito il gruppo dirigente, le rappresentanze che si sono succedute in ANM ed al CSM, le dirigenze locali, i nostri rappresentanti nelle GES e nei consigli giudiziari. Una comunione di valori cresciuta nel dialogo continuo e nell'assoluta condivisione di strategie e di intenti. È una modalità d'essere che dobbiamo proseguire e se possibile intensificare, perché costituisce la nostra forza e ci rende un soggetto attrattivo ed aggregante. Da parte mia sono stati anni di impegno ma anche di enorme soddisfazione, sono grato ed orgoglioso per la fiducia che avete riposto in me, per il sostegno e l'affetto che non mi è mai mancato e che spero di essere riuscito a restituire, almeno in parte.
La Corte di Cassazione è preposta per Costituzione al controllo di legalità dei provvedimenti giurisdizionali decisori, ma per diritto vivente ordinamentale e processuale garantisce anche l’esatta ed uniforme interpretazione del diritto. Si tratta di due concezioni del sindacato di legittimità, rispettivamente una concezione soggettiva ed una oggettiva, che possono oggi apparire in contrasto per avere acquistato la funzione soggettiva le caratteristiche di un contenzioso di massa. Quest’ultimo mina le basi della funzione oggettiva, perché la casistica di massa frammenta la giurisprudenza di legittimità, facendole perdere la natura di uniforme produzione dell’interpretazione del diritto. Le due funzioni, soggettiva ed oggettiva, sono in realtà le due facce della stessa medaglia, perché, una volta che il controllo di legalità sia esercitato da una corte di legittimità, preposta per statuto all’esatta ed uniforme interpretazione del diritto, la nomofilachia diventa un attributo naturale della giurisprudenza della Corte di cassazione. Nel risolvere il singolo caso, la Corte è naturalmente nomofilattica (ed è il caso la fonte del potere di interpretazione del diritto, il quale perde la legittimazione se viene esercitato in modo disancorato dal punto controverso, come accade quando si indulge oltre misura nell’obiter dictum: sul punto andrebbe fatta una riflessione fortemente critica).
Noi abbiamo oggi il compito di restituire alla Corte questa funzione di nomofilachia naturale e non possiamo farlo se tale compito viene addossato esclusivamente sulla Corte. Dal punto di vista della Corte di cassazione civile questa strada è stata da tempo intrapresa, con riforme processuali (il rito di sesta sezione, l’introduzione del rito non partecipato con la decisione in forma di ordinanza, la proposta di definizione del giudizio) che mirano a separare la funzione del controllo di legalità in senso stretto, priva di un significato nomofilattico, dalla funzione nomofilattica in senso proprio, assolta dalla decisione con sentenza all’esito di pubblica udienza. La risposta all’accrescimento della complessità esterna al sistema è stata quella di incorporarla all’interno del sistema stesso mediante la differenziazione interna di funzioni, avrebbe detto un grando sociologo del secolo scorso, Niklas Luhmann. Si tratta di una strada dagli esiti ancora aperti. Decisioni in forma di ordinanza e proposte di definizione del giudizio, nell’ambito di una puntuale organizzazione dell’attività di spoglio dei ricorsi, dovrebbero puntare a porre le basi per un ritorno alla nomofilachia naturale della Corte. E’ una sfida per la Corte, la quale è chiamata ad uno sforzo organizzativo straordinario.
Quella sfida non può essere affrontata, però, se l’intero circuito della giurisprudenza non è chiamato ad affrontarla, con esiti che possono essere virtuosi non solo per la Corte di Cassazione, ma anche per gli uffici di merito. Il nuovo istituto del rinvio pregiudiziale è una spia di tutto ciò, perché esso è una chiara opzione di potenziamento della funzione nomofilattica, ma con implicazioni di efficienza del sistema, per gli esiti deflattivi che potrebbe avere, ma anche con un carico di responsabilizzazione per i giudici di merito, perché sono chiamati a fare delle scelte su quale sia la questione effettivamente rilevante e ad assumersi le responsabilità interpretative, nel caso di mancato rinvio. Il vero è che la giurisprudenza, complessivamente intesa, al di là della distinzione fra legittimità e merito, è una prassi istituzionale. Non è un ordinamento retto da regole di validità, perché altrimenti opererebbe la regola dello stare decisis, ma è un’istituzione, retta da regole funzionali (l’art. 360 – bis n. 1; il principio di diritto nell’interesse della legge o enunciato anche nei casi di inammissibilità e infondatezza del ricorso; la sezione semplice che rimette alle sezioni unite nel caso di non condivisione del principio enunciato da queste), che mirano a rendere possibile una certa prassi, la cui riuscita dipende dalla lealtà all’istituzione dei suoi attori. Dovremmo tutti, giudici di legittimità e giudici di merito, sentirci parte di un’unica istituzione, la giurisprudenza, e restare leali e fedeli ad essa. In questo quadro, dovremmo sentirci tutti responsabili della buona riuscita di questa prassi istituzionale. Bisogna trovare i modi e le sedi per perseguire la cultura dell’uniformità della giurisprudenza, la sola che rende stabile e identificabile un’istituzione, facendo sì però che anche i giudici di merito contribuiscano alla formazione degli indirizzi interpretativi, al di là dello strumento del rinvio pregiudiziale, affinché l’uniformità sia davvero avvertita come un bene di tutti i magistrati. L’uniformità è l’apporto di efficienza al sistema che la giurisprudenza può offrire, ma vanno allo stesso tempo favorite le interferenze fra i due mondi, quello di legittimità e quello di merito. Le sedi della formazione dei magistrati sono naturalmente le prime a cui pensare, per lo scambio di esperienze che lì si stabilisce. Nelle occasioni di formazione dovrebbe venire in primo piano, in modo forte, la diffusione e socializzazione delle reciproche esigenze dei giudici di legittimità e di quelli di merito. Ma si dovrebbe pensare anche ad occasioni più istituzionali.
Un’idea, fra le tante, potrebbe essere quella di periodici “stati generali della giurisprudenza”, in occasione di decisioni delle sezioni unite le quali non siano meramente determinate da contrasti fra sezioni semplici, ma abbiano una significativa ricaduta pratica nei giudizi di merito. Su impulso della formazione decentrata presso la Corte di Cassazione, in ciascuna corte d’appello potrebbe essere costituito del presidente della corte un gruppo di lavoro, che predisponga, con il sostegno della formazione decentrata presso la singola corte territoriale, una relazione sintetica avente ad oggetto la giurisprudenza locale sulla questione rimessa alle sezioni unite, con l’illustrazione delle ragioni, in primo luogo pratiche, di determinate scelte interpretative. Queste relazioni, unitamente alla relazione dell’ufficio del massimario, vengono trasmesse al collegio che deciderà la questione e ad esse verrà dato spazio, con un’apposita sessione, nell’incontro di formazione decentrata che precede in Corte l’udienza delle sezioni unite.
approfondimenti sul tema:
Il ruolo del giudice ai fini della effettività dei precetti posti dalla legge di Giacomo Fumu
Un cambiamento del volto della giustizia Italiana di Antonella Di Florio
Appunti sui numeri della Cassazione di Pierpaolo Gori
Il passaggio dalla requisitoria orale a quella scritta di Pasquale Serrao D'Aquino
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