Il Giorno della Memoria è da celebrare, tanto più quest’anno alla luce delle manifestazioni di antisemitismo seguite al conflitto tra Israele e Hamas. A Roma sono state oggetto di gesti vandalici le pietre d’inciampo, memoria del rastrellamento degli ebrei romani avvenuto nell’ottobre del 1943. Episodi analoghi sono avvenuti in altre città d’Europa.
Il rapporto Eurispes Italia del 2020 rassegna una situazione, sotto il profilo della dissociazione della memoria collettiva dall’Olocausto, non rassicurante. In particolare, è emerso che il 15,6% degli italiani nega l’Olocausto, a fronte dell’84,4% non concorde. L’affermazione secondo cui l’Olocausto non avrebbe prodotto così tante vittime, come viene sostenuto, trova una percentuale di accordo solo lievemente superiore: 16,1%, mentre il disaccordo raggiunge l’83,8% degli italiani. Secondo il 23,9% degli italiani gli ebrei controllerebbero il potere economico e finanziario e, a detta di più di un quinto degli italiani intervistati (22,2%), controllerebbero i mezzi d’informazione. La tesi secondo cui gli ebrei determinano le scelte politiche americane incontra la percentuale più elevata di consensi, pur restando minoritaria: il 26,4%, contro un 73,6% di pareri contrari.
Per celebrare il Giorno della Memoria pubblichiamo l’intervento del prof. Ruggero Taradel tenuto a un incontro organizzato dall’associazione Grande come una città [1] a Roma il 27 gennaio 2019, il cui testo è stato poi pubblicato da Castelvecchi Editore nel 2021[2].
Il sonno della ragione. Razzismo, antisemitismo e Shoah
di Ruggero Taradel
1. Il Giorno della Memoria
Una scritta recentemente vergata con lo spray all'ingresso di un cimitero ebraico in Ungheria recita: “l'Olocausto che non c'è mai stato ci sarà presto”; in un'altra nei pressi di Kiev si legge “per fare felice l'Ucraina bisogna fare due cose: deportare tutti gli omosessuali nei gulag e espellere tutti gli ebrei” altri e numerosi sarebbero gli esempi che in molti paesi mostrano in modo tangibile la crescente forza di questi rigurgiti d'odio, che si sono fatti sempre più frequenti e diffusi a partire dagli anni Novanta.
L'apparentemente ovvia equazione fra il crollo del nazismo e dei fascismi e la fine del razzismo e dell’antisemitismo nelle società europee mostra ormai da molti anni tutta la sua natura illusoria.
Il Giorno della Memoria, designato nel 2005 dall'Unione europea e ricorrente il 27 gennaio, data della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, si trova così a vivere un rapporto ambiguo in merito al suo senso e significato. Da un lato, la comunità scientifica e gli Stati nazionali riconoscono il carattere fondamentale di questa commemorazione poiché, con la progressiva scomparsa dei testimoni diretti e l'allontanarsi degli eventi nel tempo, il rischio di un ritorno degli antichi demoni del razzismo e dell'antisemitismo viene percepito come una sempre più possibile incombente realtà. Dall'altro lato, questa commemorazione è problematica, e accade di assistere sempre più di frequente a iniziative ed eventi che restituiscono un'immagine parziale, distorta, o perfino edulcorata della Shoah. Il rischio, denunciato da più parti, è quello del verificarsi di una dissociazione tra storia e memoria. Per poter far chiarezza è innanzitutto necessario chiarire i termini della vexata quaestio riguardo la distinzione fra antigiudaismo e antisemitismo.
Le radici storiche - sia chiaro che non che non sto parlando di cause meccaniche dirette - su cui si innesta l'esito estremo della Shoah rimontano, se vogliamo identificare un momento politico specifico al momento in cui l'Imperatore tedesco Teodosio nel IV secolo sancì la religione cristiana come unica forma di culto lecito e tollerato all'interno dell'Impero, bandendo così definitivamente tutti gli dèi dell'antichità. L'unica religione a cui da questo momento in poi viene permesso di esistere, accanto a quella cristiana ufficiale, è l'ebraismo, che si definisce come unico elemento di diversità religiosa e culturale rispetto a una società integralmente cristiana.
Successivamente, nel corso del Medioevo, agli ebrei venne assegnato uno statuto particolare, di matrice prettamente teologica, che li definiva collettivamente colpevoli di deicidio, ovvero della crocifissione di Cristo, e al contempo ostinati negatori della sua messianicità: di conseguenza gli ebrei si trovarono a costituire all'interno della societas medievale una comunità a parte, i cui soggetti sono da sottoporre a speciali interdizioni e a vere e proprie segregazioni. La parola ghetto, di origine veneziana, indicava le aree speciali delle città in cui gli ebrei erano costretti a vivere relegati, condizione che si aggiungeva al divieto di esercitare tutta una serie di professioni. Nel corso dei secoli si era stratificata una molteplicità di stereotipi sul popolo ebraico a livello culturale, ecclesiastico, politico e popolare: stereotipi che spaziavano dagli aspetti più triviali - l'ebreo come sinonimo di usuraio avido e avaro - a quelli apparentemente più fantasiosi e immaginari - ebrei accusati di omicidio rituale e di rapire i bambini cristiani per berne il sangue durante le celebrazioni pasquali -. L’insieme di questo complesso di imagery e di narrazioni viene a volte definito antigiudaismo ma il termine antisemitismo teologico è, a mio avviso preferibile, almeno a partire dall'VIII secolo, poiché il pregiudizio si nutre, essenzialmente, di una radice ideologica che fa capo alla teologia, ma, al tempo stesso, edifica un’immagine negativa fantastica e chimerica del giudaismo, del popolo ebraico e della sua cultura e tradizioni. Il paradigma antiebraico medievale costituisce un netto salto di livello rispetto alla vecchia polemica teologica dei padri della Chiesa. Nel corso del XVII e XVIII secolo, dopo la pace di Vestfalia (1648) e con l'avvento dell'età dei lumi l'ebraismo europeo entra in una fase di emancipazione: i vecchi statuti e interdizioni vengono faticosamente ma progressivamente abrogati e gli ebrei, soprattutto a partire dalla metà del XIX secolo, cominciano ad acquistare la piena cittadinanza in vari paesi d’Europa. Tuttavia, questo processo non si svolse senza opposizioni e resistenze: il vecchio immaginario catastrofico sugli ebrei continuava a persistere in molti strati sociali e culturali, come nei circoli ecclesiastici protestanti, ortodossi e cattolici, per citarne alcuni. Il processo di emancipazione si accompagnava inoltre a una rapida impetuosa evoluzione delle società e delle economie europee le cui contraddizioni irrisolte avrebbero fatto da sfondo e fornito la base la premessa per la nascita di quello che è l’antisemitismo moderno, e proprio nel XIX secolo viene coniato dal giornalista tedesco Wilhelm Marr il termine antisemitismo: le nuove forme di ostilità antiebraica, pur mantenendo diversi elementi dell'antisemitismo teologico preesistente, che finiscono per affiancare, assumono ben presto connotazioni politiche e razziste soprattutto in paesi come la Germania. Gli ebrei non vengono più concepiti come pericolosi, malvagi o parassiti sulla base di argomenti teologici di una tradizione religiosa, bensì come componenti di un popolo costituente una vera e propria natio, una nazione a sé stante: una nazione al tempo stesso distinta e diversa che vive in maniera parassitaria o perniciosa all'interno di altre nazioni territoriali definite. Accanto alla progressiva politicizzazione, si assiste in questo periodo sorgere di una sedicente scienza razziale, una pseudoscienza divulgata da autori come Joseph Arthur de Gobineau, il quale introduce una trasformazione concettuale della definizione di ebreo. A fine ‘800, infatti, alle tradizionali ostilità teologicamente fondate si affianca un nuovo tipo di antisemitismo, ben più virulento, aggressivo e potenzialmente letale. La novità fondamentale portata da questa trasmutazione e cambio di paradigma è la seguente: all'interno del tradizionale framework teologico, l'ebreo aveva la possibilità - concreta non solo teorica - di essere accolto all’interno della società cristiana grazie a un atto di conversione; nel nuovo paradigma, al contrario, questo non è più sufficiente, poiché all'ebreo viene assegnata l'appartenenza a un'unità etnica e razziale specifica che trascende e supera qualsiasi connotazione religiosa. Ciò si evince chiaramente dai testi e dai pamphlet di propaganda antisemita che cominciano a circolare per l'Europa: essi, infatti, avvertono l'opinione pubblica a cui si rivolgono di tenersi in guardia dall'ebreo, anche quello convertito al cristianesimo o socialmente assimilato, la cui natura razziale è tale indipendentemente dalla fede che sceglie individualmente tracciare e con cui identificarsi.
2. Il nazismo al potere
Tale trasformazione ideologica, dopo alcuni decenni di incubazione, è ben consolidata già agli inizi del 900, ed è ben visibile nel programma del 1924 del partito nazionalsocialista: l'ebreo non può e non deve essere considerato un Volksgenosse, ossia un membro della comunità tedesca, e gli si deve imporre una posizione speciale e subordinata all'interno della società. Questo è il pericolo in cui tutta la propaganda antisemita più violenta e aggressiva del secolo precedente viene ripresa e utilizzata da Hitler e dai suoi seguaci per attirare voti per la costruzione del consenso attorno al nuovo movimento politico. La Germania era uscita in condizioni disastrose dalla Prima Guerra Mondiale: la pace di Versailles infatti l'aveva privata dai suoi domini coloniali, aveva costretto il suo Kaiser all'abdicazione, l'aveva condannata a pagare esorbitanti riparazioni di guerra e, soprattutto, l'aveva politicamente umiliata. Per attirare i voti e consensi di una popolazione disorientata, impoverita e timorosa del futuro, i nazisti alimentarono il mito della “pugnalata alle spalle” virgolette applicandolo su due fronti: uno imputava la perdita della guerra per la Germania non a motivi militari, ma al tradimento di una quinta colonna interna; l'altro, rinvigorito dal falso dei Protocolli dei Savi di Sion, ritraeva gli ebrei come i veri agenti di guerre, rivoluzioni, crisi economiche e sociali orchestrate per ottenere il dominio del mondo. L'ebreo diventa, in questa narrazione, il capro espiatorio di tutti i mali nazionali e internazionali. Il partito nazionalsocialista, che agli inizi degli anni Venti veniva ancora considerato da buona parte dell’opinione pubblica tedesca come una rumorosa minoranza di fanatici inclini alla violenza di piazza, trionfa politicamente nel 1933: Hitler riceve il cancellierato dalle riluttanti ma rassegnate mani dell'anziano presidente Hindenburg. La morte di quest'ultimo, avvenuta poco dopo, permette a Hitler di cumulare a quella del cancelliere la carica del presidente del Reich. Con la dissoluzione del Parlamento tedesco e l'istituzione del partito unico venne in brevissimo tempo instaurato il sistema totalitario nazionalista che avrebbe retto le sorti del paese sino al maggio del 1945.
L'ascesa di Hitler al potere rappresentò un vero terremoto per l'Europa intera: la rapidità con cui riuscì a trasformare radicalmente la società tedesca visitata dalla Repubblica di Weimar rappresenta un evento storico davvero impressionante.
Nel 1933 Hitler emana l’Arierparagraph ossia la prima legge del Terzo Reich contro gli ebrei. I nazisti, in questo momento, erano ancora costretti a confrontarsi con un problema che già aveva angustiato tutti i movimenti antisemiti di fine Ottocento. I loro tentativi di far approvare ai parlamenti di Austria e Germania una qualche legislazione speciale erano naufragati miseramente: non solo per mancanza di sufficiente leverage politico, ma per il fatto che non riuscivano, a dispetto di notevoli sforzi, a trovare una definizione legale di chi fosse ebreo che potesse essere giuridicamente accettabile e traducibile in politiche discriminatorie. La complessità sociale e la convenienza fra gli ebrei e il resto della popolazione rendevano ormai davvero difficile, se non impossibile, stabilire dei criteri di demarcazione chiari e che potessero fare da base a leggi speciali.
Questo ostacolo venne superato dai giuristi tedeschi con le leggi di Norimberga del 1935, che per la prima volta elaborano un sistema giuridicamente coerente per classificare con precisione i soggetti del Reich secondo coordinate razziali: alcuni cittadini erano da considerare ebrei a tutti gli effetti, altri erano da considerare dei mezzosangue di diverso grado, aventi ancora diritto a un certo tipo di esenzioni, mentre coloro che non ricadevano in queste categorie venivano invece massificati come completamente ariani. Le leggi di Norimberga presentarono una singolare commistione di criteri tassonomici: vi convivevano criteri razziali, tesi a identificare i rami familiari di un individuo, e quelli religiosi, finalizzati ad accertare l'appartenenza di un soggetto alla religione ebraica o meno. Si tratta di tassonomie logicamente, e a volte chiaramente, contraddittorie che tuttavia avevano il vantaggio di non lasciare margini di incertezza o di dubbi alla pubblica amministrazione del Reich. Sul piano materiale, le carte d'identità vengono riformulate secondo il nuovo sistema giuridico: ogni cittadino tedesco, che rispondeva a determinati parametri, doveva essere immediatamente identificabile come ebreo o ariano. La parola Jude fa la sua apparizione, e l'appartenenza razziale è chiaramente indicata con effetti discriminanti in tutti gli atti della pubblica amministrazione nazista. L'opinione pubblica internazionale, che pur osservava con sconcerto e preoccupazione queste dinamiche, non stentava a comprendere con chiarezza la portata e la direzione che gli eventi stavano per prendere. Certamente a Hitler si rimproveravano misure medievali e anacronistiche che imponevano agli ebrei tedeschi le vecchie e segregazioni e discriminazioni. Ciononostante, quello che sfuggiva a molti cronisti e osservatori degli anni Trenta era la specificità e l'intrinseca pericolosità di un antisemitismo che era adesso di tipo rigidamente biologico e razziale, infinitamente più letale di quello teologico tradizionale.
In Germania la propaganda del regime, che si sarebbe presto fatta martellante e ossessiva a tutti i livelli - dalle scuole all'università, dai cinema alle radio e ai giornali - fu esplicitamente diretta a convincere i cittadini tedeschi del fatto che gli ebrei erano non solo una razza aliena e parassitaria, ma anche pericolosa. Assieme alla legislazione speciale e alla propaganda vennero poi varate misure tese a danneggiare la base oggettiva dell'esistenza degli ebrei tedeschi: tra le tante, il boicottaggio dei negozi e delle attività commerciali di proprietà ebraica, l'espulsione delle scuole e dalle università, il divieto ai medici ebrei di curare pazienti ariani. Ciononostante, molte delle vittime di queste discriminazioni non avevano piena coscienza dei possibili svolgimenti futuri e pensavano che, malgrado la situazione fosse terribilmente difficile, si sarebbe prima o poi raggiunto un punto di equilibrio e di stabilizzazione.
Un primo momento decisivo di radicalizzazione dell'antisemitismo nazista è dato dall’Anshluss ovvero l'annessione dell’Austria avvenuta nel 1938. Questo evento rappresenta una norma successo politico internazionale per Hitler, aiutato in questa impresa anche da Mussolini nel corso di una serie di consultazioni di concesse nel nihil obstat geopolitico. In quell'anno, mentre gli ebrei tedeschi avevano subito da anni un progressivo e costante crescente di misure antiebraiche, gli ebrei austriaci passarono senza soluzione di continuità da uno status dei cittadini austriaci con pari diritti a essere soggetti all'interno del corpus della legislazione antiebraica del Terzo Reich.
L'annessione, salutata da una buona percentuale della popolazione austriaca con genuino entusiasmo, si accompagnò a una serie di violente azioni antisemite, in particolare a Vienna, con gravi aggressioni, pestaggi, umiliazioni pubbliche, al punto che dopo alcune settimane le stesse autorità naziste intervennero per porre un freno a queste manifestazioni di plateale e disordinata violenza: non era questo il tipo di immagine che il Reich intendeva proiettare all'esterno. Allo stesso tempo, diverse cartoline di propaganda mostravano la fuga di un numero crescente di ebrei dall’Austria e dalla Germania in modo sarcastico e derisorio, interpretandola come un momento di Selbstreinigung cioè di “autopurificazione” del Volk tedesco.
È questo l'anno, questo è il contesto in cui in Italia Mussolini decide di emanare le leggi razziali. Si è scritto molto sui motivi che indussero a prendere una simile decisione, ed è possibile indicare due tesi particolarmente rilevanti: mentre alcuni studiosi ritengono che Mussolini non fosse intrinsecamente antisemita, interpretarono così le leggi come un'operazione opportunistica per dare un segnale urbi et orbi di una saldatura e coesione tra l’Italia fascista e la Germania nazista; altri invece sostengono che l'antisemitismo fascista non fu un fenomeno superficiale o opportunistico, quanto piuttosto un autentico momento di radicalizzazione ideologica del regime. Si ritiene attualmente più corretta la seconda ipotesi, dal momento che il fascismo aveva ampiamente dato prova di pensiero e propaganda razzista all'epoca della costruzione dell'impero coloniale. In altre parole, i germi del razzismo fascista erano già presenti ad abundantiam nel momento in cui Mussolini opta per le leggi razziali. Dopo la loro emanazione, praticamente tutti i settori della società italiana abbracciarono senza particolari resistenze la svolta antisemita del regime: in questo svolse un importante ruolo una propaganda pervasiva esemplata sul modello tedesco con metodi già collaudati come la pubblicazione di riviste, giornali e pamphlet dedicati a istituire la popolazione sulla questione ebraica. La celebre copertina del primo numero della rivista “La difesa della razza”, ad esempio, mostra una spada che protegge l'ariano non solo dall'ebreo ma anche dall'americano.
Il 1938 si conclude in Germania con la Kristallnacht, “la Notte dei cristalli”, espressione che indica un vero e proprio pogrom su scala nazionale, incitato e orchestrato direttamente dal regime, che si risolse nella distruzione di centinaia di negozi ebraici, di dozzine di sinagoghe e nell'uccisione e nel pestaggio di moltissimi ebrei. A Vienna, da poco degradata da capitale dell’Austria a città del Terzo Reich, delle novantatré sinagoghe e case di preghiera delle comunità ebraiche presenti al momento dell’Anschlussrimase solo la Stadttempel.
La Sinagoga non venne distrutta dai nazisti solo perché nel 1826 era stata costruita in un modo che integrava gli altri edifici: bruciarla o raderla al suolo avrebbe comportato seri danni anche per altri palazzi.
Questa serie di misure discriminatorie e persecutorie provocò una nuova ondata di emigrazioni: gli ebrei cercarono in questo periodo di fuggire dai territori del Reich per stanziarsi altrove. Tuttavia, solo il numero limitato di ebrei riuscì nell’intento: le fasce più povere socialmente deboli della popolazione non avevano infatti le risorse materiali per affrontare un’impresa simile. Altri ebrei, contro ogni evidenza, speravano poi ancora che la situazione avesse raggiunto il suo punto più estremo, che non avrebbe potuto ulteriormente aggravarsi.
A distanza di poco più di un anno dall'Anschluss, nel settembre 1939, Hitler invade la Polonia - senza una dichiarazione formale di guerra - dando inizio al secondo conflitto mondiale. I milioni di ebrei che vivevano sul suolo polacco si ritrovarono all'improvviso sotto il controllo diretto del Reich e sottoposti, con effetti immediati, alle sue leggi persecutorie, deportati dalle proprie abitazioni, reclusi nei ghetti come gruppo ostaggio alla mercé degli occupanti. È il caso dei ghetti di Cracovia, di Varsavia, di Lublino e di infinite altre città. Thomas Toivi Blatt, uno dei pochissimi sopravvissuti al campo di sterminio di Sobibór, racconta dell'arrivo dei tedeschi a Izbica, in Polonia, aveva 12 anni: lui era terrorizzato, ma il padre, che aveva conosciuto i soldati tedeschi vent'anni prima durante la Prima Guerra Mondiale, li ricordava come brava gente, rispettosa e compassionevole. In realtà, i tedeschi che occupano la Polonia - sia le SS sia la Wehrmacht - non avevano più niente a che vedere con la generazione che li aveva preceduti: erano soldati ufficiali imbevuti di ideologia e propaganda razzista, che presto non avrebbero avuto nessun problema a compiere atti che sarebbero stati assolutamente inconcepibili e inimmaginabili per i soldati tedeschi del primo conflitto mondiale.
L'invasione dell'Unione Sovietica nel giugno del 1941 con l'Operazione Barbarossa rappresenta il vero momento iniziale d'inizio dell'Olocausto: l'annientamento sistematico delle popolazioni ebraiche e bielorusse, ucraine e russe, segna l'avvio di quella che poi verrà chiamata dai burocrati nazisti Endlösung, “la soluzione finale”. Sin dalle prime sue battute la campagna di Russia è radicalmente diversa rispetto alle operazioni militari precedenti: se in Polonia fino a quel momento si era provveduto alla persecuzione, discriminazione e ghettizzazione degli ebrei, in Russia si opta immediatamente e direttamente per lo sterminio. Gli Einsatzgruppen, unità speciali sotto il controllo delle SS che seguivano le truppe della Wehrmacht avevano infatti il compito esclusivo di rastrellare e uccidere gli ebrei nei territori man mano occupati. Per dare un'idea di quanto ampie fossero le dimensioni di questa operazione, basti ricordare l'azione che seguì l'occupazione di Kiev nel 1941. Nei giorni successivi all'occupazione della città da parte dell'esercito tedesco venne emanato un decreto che imponeva a tutta la popolazione ebraica della società della città di presentarsi alle autorità per essere avviata, schedata e utilizzata come forza lavoro: era una trappola, nei giorni seguenti circa 33.000 ebrei, praticamente l'intera popolazione ebraica di Kiev, furono uccisi a Babi Yar, una località di canali e cave nei pressi della città. Un rapporto presentato a Himmler dagli Einsatzgruppen in questo periodo indicava il numero delle vittime delle loro operazioni per area geografica, e si possono notare alcune zone definite come Judenfrei, interamente “libere da ebrei”.
Di solito si tende istintivamente ad associare l'Olocausto alle immagini di Auschwitz, a volte ai nomi di Sóbibor, Treblinka, Belzec: immagini e nomi, quindi, che rimandano a puri campi di sterminio, o a campi misti con funzione di concentramento, lavoro e sterminio. In realtà, quasi la metà del totale delle vittime non furono uccise nelle camere a gas di campi, bensì in questa fase nota come the holocaust by bullets [3], l'olocausto dei proiettili. Un personaggio cui dobbiamo molto a questo proposito è Patrick Desbois, un sacerdote francese che superando ostacoli apparentemente insormontabili, negli ultimi decenni ha condotto delle ricerche sistematiche nei territori dell'est europeo alla ricerca dei luoghi in cui trovarono la morte decine di migliaia di ebrei, e dove ancora un numero incalcolabile di vittime rimangono lì dove furono sepolte dai loro carnefici, senza possibilità di memoria. Il lavoro di Desbois è stato fondamentale per la ricostruzione di questo aspetto dell'Olocausto: ha riportato alla luce non solo proiettili o resti umani, ma anche molte delle vanghe con cui le vittime furono costrette a scavare le proprie fosse comuni. Importantissimo è stato l'aiuto volontario di persone del posto impiegate come traduttori, interpreti e accompagnatori durante le interviste fatte ormai ad anziani che da bambini avevano assistito, volenti o nolenti, a questi massacri. I rastrellamenti e massacri sistematici che accompagnarono l'Operazione Barbarossa sin dal suo inizio rappresentano l'esito di un processo di radicalizzazione ideologica che negli anni successivi avrebbe prodotto eventi apparentemente paradossali. Nella mente di Hitler, di Heydrich, di Himmler e di altri l'eliminazione di ogni singolo ebreo dalla sfera di influenza del Reich era parte inscindibile della lotta per la conquista del Lebensraum e per la creazione del Reich di 1000 anni. Si assiste dunque ad accanimenti - apparentemente senza senso nel quadro di una guerra ormai irrimediabilmente perduta - come il deportare e lo sterminare tra il 1944 e il 1945 ciò che rimaneva dell'inerme popolazione ebraica ungherese, impiegando a questo scopo risorse che sarebbero stati utili per scopi militari ben più urgenti. Questo rispondeva a una logica inesorabile dal momento che la guerra andava combattuta su due fronti: contro l'Unione Sovietica e gli Alleati da una parte, e contro l'ebraismo internazionale dall'altra. Nell'immaginario antisemita nazista, infatti, una parte rilevante degli eventi e dei processi storici, in particolare quelli di tipo negativo (crisi economiche, rivoluzioni violente, guerre), era da attribuirsi a una cospirazione ebraica internazionale.
Nel dicembre del 1941 fallisce l'Operazione Tifone, ossia l'operazione con cui i nazisti tentarono di assestare il colpo di grazia all'Unione Sovietica con la presa di Mosca. Una serie di ritardi, dure condizioni climatiche e l'arrivo di truppe sovietiche dalla Siberia posero il Reich di fronte a uno stallo completamente inaspettato. Hitler e diversi dei suoi generali erano infatti convinti che la campagna di Russia si sarebbe conclusa in circa sette mesi. Dopo aver stabilito un perimetro difensivo dei territori conquistati sulla cosiddetta linea A-A (da Arkhangelsk, a nord, ad Astrakhan, a sud) ci si sarebbe potuti dedicare alla riorganizzazione dei territori conquistati. Alla fine del 1941 diventò invece chiaro che la guerra sarebbe stata molto più lunga, più sanguinosa e usurante, e soprattutto dagli esiti ben più incerti di quanto previsto. È nel gennaio del 1942, proprio nel momento in cui le truppe tedesche sono costrette prima a fermarsi e poi ad arretrare di fronte a Mosca, che viene convocata a Wannsee, nei pressi di Berlino, una conferenza segreta presieduta da Reinhard Heydrich, il terzo in comando nell'organizzazione delle SS, dopo Himmler e lo stesso Hitler. Lo scopo della conferenza era quello di ottenere la collaborazione il coordinamento dei ministeri e delle agenzie del Reich per l'attuazione della soluzione finale. Dei protocolli e delle trascrizioni dalle conferenze non rimane che una delle trentuno copie destinate ai partecipanti, ritrovata alla fine della guerra da alcuni soldati americani, miracolosamente sfuggita alla distruzione. Nel testo preparato da Eichmann è possibile leggere la valutazione del numero di ebrei, Paese per Paese, in una stima delle progettate conquiste del Reich. Il totale era di undici milioni ebrei destinati allo sterminio.
Questo è il momento in cui si prende atto che i metodi usati nella prima fase della Shoah, cioè quella dell'Olocausto dei proiettili indietro si erano dimostrati caotici e usuranti per le truppe soprattutto inadeguati all'enormità delle operazioni in questione. Problemi che vennero tecnicamente risolti con l'organizzazione dei campi di sterminio e di concentramento e con l'individuazione, dopo vari tentativi, del gas Zyklon B per l'uccisione industriale di deportati ed ebrei.
È necessario a questo distinguere tre tipologie fondamentali di lager nazisti: 1. Campi di puro sterminio. Erano di dimensioni molto ridotte poiché prevedevano solo la presenza stabile di soldati SS, ausiliari locali e alcuni deportati, utilizzati per esse per i lavori essenziali. La stragrande maggioranza di coloro che vi arrivavano venivano immediatamente uccisi. Sono di questo tipo i campi di Sóbibor, Treblinka, Belzec; 2. Campi di concentramento. Vi erano esecuzioni uccisioni, senza però che l'attività di sterminio fosse preminente; 3. Campi “misti”, come quello di Auschwitz-Birkenau, che rappresentano una sintesi dei due sistemi, riunendo e integrando concentramento, sfruttamento schiavile della forza lavoro dei deportati e sterminio.
Auschwitz non ha dunque un esempio esauriente di quello che era il progetto nazista: anche perché questo campo, come quello di Mauthausen o Dachau, rimase alla fine della guerra quasi intatto. L'intero ciclo di azione della macchina di sterminio esiste invece ben rappresentato dai campi di Sóbibor, Treblinka, Belzec. Il campo di Sóbibor è un buon esempio: tra il 1942 e il 1943 viene costruito, messo in attività e infine chiuso sterminando tutti i deportati rimanenti. Tutto il complesso viene poi immediatamente raso al suolo e al suo posto viene ripristinata la foresta preesistente. Poco o nulla, alla fine della guerra, si offriva alla lista di chi visitava l'area dove sorgeva.
3. La questione della Resistenza ebraica
Vorrei adesso soffermarmi sulla questione della resistenza. A differenza di quanto sostiene una certa superficiale vulgata, particolarmente popolare a partire dagli anni Sessanta, non è affatto vero che gli ebrei non tentarono di resistere nei limiti loro imposti da circostanze esterne, alla deportazione e allo sterminio. Nel dopoguerra alcuni criticarono con superficialità l'atteggiamento degli Judenräte, i consigli ebraici che svolgevano funzioni da interfaccia tra le autorità naziste e le comunità ebraiche. Le procedure istituite da Heydrich contavano paradossalmente sulla razionalità del perseguitato e se correttamente comprese spiegano il motivo per cui spesso gli Judenräte si trovavano paradossalmente a collaborare o a obbedire agli ordini delle autorità naziste. Venivano infatti posti sistematicamente di fronte alla scelta tra il male e il peggio, costringendoli a un corso d'azione di disperata e contingente limitazione del danno. È purtroppo ho accettato che diversi scenari in cui le comunità ebraiche dell'Europa centrale e dell'est provarono a reagire alle autorità naziste non produssero in ultima analisi alcun risultato positivo: qualsiasi decisione, incline o meno a optare per una collaborazione tattica, non cambiava l'esito finale, ovvero lo sterminio completo della comunità.
Per quanto riguarda le vicende che vedono protagoniste le comunità ebraiche, è possibile citare degli episodi su sono stati fatti degli studi più recenti. Esempio importanti di resistenza, a parte la clamorosa rivolta del Ghetto di Varsavia, sono rappresentati dalla Brigata Bielski, un gruppo armato di partigiani ebrei che salvarono migliaia di ebrei in fuga dai ghetti e dalle città; dalla rivolta nel campo di sterminio di Sóbibor, in cui molti deportati riuscirono a uccidere molte SS e guardie ucraine e a fuggire; e dalle iniziative del Sonderkommando ad Auschwitz. Thomas Blatt notava che la resistenza, nella Shoah, poteva assumere forme e declinazioni per noi difficilmente apprezzabili o percepibili. A Sóbibor, raccontava, c'era la cosiddetta Himmelstrasse, “la strada del paradiso”, come la chiamavano ironicamente nazisti, ossia un percorso attraversato dai deportati avviati alla camera a gas. Uno dei compiti di Blatt, selezionato al suo arrivo come inserviente nel campo, era rastrellare la strada dopo ogni trasporto, in maniera tale che i deportati successivi, attesi per i giorni seguenti, lo avrebbero trovato pulito e privo di qualsiasi segno che potesse far presagire il destino che li attendeva. Nei mesi in cui rimase nel campo, Blatt, nel rastrellare il percorso in terra battuta, ritrovava molto spesso dei piccoli frammenti di banconote olandesi, polacche, tedesche o russe: gli ultimi averi che i deportati portavano con sé e che, avendo preso coscienza di andare a morire, avevano deciso di non lasciare al carnefice.
Quegli uomini e donne avevano usato gli ultimi minuti della loro esistenza per distruggere minutamente le ultime banconote che avevano. Anche questa è resistenza.
Il 27 gennaio 1945 le avanguardie dell'armata rossa, nel corso dell'offensiva sulla Vistola, raggiunsero il campo di Auschwitz, trovando sparuti gruppi di sopravvissuti. Nelle settimane precedenti, infatti, i tedeschi avevano tentato di distruggere i forni crematori e qualunque altro tipo di prova, e avevano avviato moltissimi prigionieri a delle marce forzate verso Ovest, altrimenti chiamate marce della morte, in cui morirono altre decine di migliaia di persone. Primo Levi in un suggestivo passo della Tregua, descrive con queste parole l'arrivo dei russi: “A noi parevano mirabilmente corporee e reali, sospesi [. . .] sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo”[4]. Levi ricorda che non fu coinvolto nelle marce solo perché, come molte altre persone troppo deboli per poter essere evacuate, era gravemente malato.
4. La caduta del Terzo Reich
La caduta del Terzo Reich e la fine della guerra non comportarono purtroppo la scomparsa dell'antisemitismo in Europa. In Polonia, diversi degli ebrei superstiti, non appena tornati dai campi per riprendere possesso delle loro case o dei loro averi, furono vittime di una serie di Pogrom - fra cui il più noto è quello di Kielce del 1946 - e aggrediti dalla popolazione. Vi furono decine di morti e centinaia di feriti: questi eventi indussero alla fuga buona parte del poco che rimaneva dell'ebraismo polacco verso il costituendo stato di Israele. A provocare l'ondata di furore popolare fu l’inaspettato riemergere della vecchia accusa medievale di omicidio rituale, diffusa attraverso una notizia secondo cui alcuni ebrei avevano rapito un bambino parentesi - per altro poi trovato sano e salvo - parentesi per berne il sangue. Tale diceria aveva trovato terreno fertile nelle credenze popolari sedimentate da secoli di antigiudaismo e antisemitismo teologo teologico. Sebbene il programma di sterminio degli ebrei d'Europa sia stato un patto specifico della Germania nazista, i suoi esecutori poterono spesso contare sulla attiva collaborazione, spesso genuinamente volenterosa, delle autorità di diversi Paesi occupati o alleati.
Alla fine della guerra gli Alleati e il mondo si trovarono di fronte all’emergere in piena evidenza di un massacro di proporzioni e caratteristiche senza precedenti. Il termine Genocidio, il neologismo introdotto dal giurista polacco Raphael Lemkin, venne coniato proprio negli anni del secondo conflitto mondiale, nel tentativo di trovare una parola specifica per descrivere in qualche modo l'eccezionalità e l'unicità di quanto stava avvenendo: ovvero, il tentativo da parte di un governo di sterminare completamente uno specifico gruppo etnico. La questione l'Olocausto, dunque, è centrale nel contesto della ricostruzione e dell'edificazione dell'Europa post-bellica. Il processo di Norimberga permise di far emergere per la prima volta di fronte al mondo la vastità e la sistematicità dei crimini contro l'umanità perpetrati dalla dirigenza nazista. Il processo, inoltre, può in piena luce il problema delle fonti primarie e delle testimonianze: problema di particolare rilievo perché i nazisti avevano cercato in ogni modo di distruggere qualsiasi prova relativa alla Shoah. Solo un repentino collasso del Terzo Reich impedì il successo di questo tentativo. Malgrado le distruzioni, siamo fortunatamente in possesso di un numero cospicuo di fonti di vario tipo. A Norimberga i paesi vincitori - Unione Sovietica, Stati Uniti, Francia e Regno Unito - furono installate in grado di produrre un’enorme quantità di documenti e materiali sequestrati dagli archivi tedeschi, unitamente a filmati e fotografie incriminanti ammessi in sede di giudizio come ulteriori prove a carico degli imputati.
Fino agli anni Cinquanta, dunque, il problema principale fu quello di ricostruire e capire esattamente cosa fosse successo e secondo quali modalità, in uno sforzo costante atto a ricostruire il meccanismo dello sterminio attraverso l'ascolto sopravvissuto e dei testimoni.
Successivamente, dagli anni Sessanta in poi, emerge una domanda particolarmente importante e spesso dibattuta con polemiche aspre: com'è possibile che tutto ciò sia accaduto? Il processo ad Eichmann a Gerusalemme nel 1961, sulla scia del libro di Hannah Arendt, spinse molti a interrogarsi sulla cosiddetta “banalità del male” e a chiedersi quali fossero i meccanismi di obbedienza, di passivo conformismo sociale e di rispetto acritico dell'autorità che avevano creato le condizioni che permisero a centinaia di migliaia di altrimenti “normali” esseri umani di partecipare attivamente a quest'opera di sterminio. Le ipotesi proposte da allora sono state molte, e si sono appuntate soprattutto sul pregiudizio antisemita, sulla forza della propaganda nei regimi autoritari e totalitari o, ancora, sulla personalità del burocrate, privo di scrupoli morali sulle conseguenze delle sue azioni.
A tal proposito, occorre accennare alla disputa storiografica che da decenni impegna i cosiddetti funzionalisti e intenzionalisti. I primi sostengono quella di dirigenza nazista abbia costruito l'idea dello sterminio fisico e totale degli ebrei solo attraverso i momenti successivi, e sono in risposta a una serie di contingenze e di situazioni di ingestibilità operativa delle politiche precedentemente attuate. I secondi, invece, affermano che la progressione delle persecuzioni, in ultima battuta allo sterminio, erano in qualche modo già iscritti implicitamente in un piano complessivo. Personalmente ritengo che il momento iniziale del trapasso dalla segregazione e persecuzione degli ebrei d'Europa allo sterminio fisico sia da rintracciare già con l'inizio della guerra e l'invasione della Polonia: la ghettizzazione, l'espulsione e la requisizione dei beni di milioni di ebrei nei nuovi territori annessi avevano creato una situazione difficilmente gestibile a medio e lungo termine. A un livello generale, occorre ricordare come l'ideologia nazionalsocialista predicava l'espulsione del negativo da ogni contesto della vita nazionale e internazionale. Questo approccio radicale di ingegneria sociale interna e di nation building esterno rappresenta la cifra che unisce operazione apparentemente molto diverse, e sicuramente specifiche, come il programma T4 (l'uccisione di handicappati fisici e mentali o di elementi “asociali”), lo sterminio delle comunità rom e sinti, la persecuzione degli omosessuali e la soluzione finale. L'idea alla base era quella dell'autopurificazione del Volk: i medici nazisti potevano condurre esperimenti su esseri umani o uccidere i propri pazienti perché il giuramento di Ippocrate, primum non nocere, era stato radicalmente reinterpretato ponendo in primo piano il dovere della difesa e tutela della comunità razziale, e subordinandovi i diritti dell'individuo. Il dovere del medico non è più quello di curare o proteggere il singolo paziente ma il Volk, il popolo tedesco nel suo insieme. Negli anni Sessanta e Settanta, lo sguardo retroattivo sulla Shoah si è rivolto allo studio del conformismo e dell'obbedienza: esperimenti dei sociologi e psicologi americani come Milgram e Zimbardo avevano come scopo quello di comprendere come persone non dotate di caratteristiche psicologiche aberranti possano essere indotte in un tempo relativamente breve a cooperazioni eticamente ripugnanti anche in contesti democratici, dove le pressioni esterne non sono in nessun modo a quella esperibili uno stato totalitario.
Gli sviluppi più interessanti - che non sostituiscono ma integrano le acquisizioni precedenti - provengono ultimamente dal campo delle neuroscienze. Sulla base di alcuni studi sui meccanismi neurologici e sociali, gli esseri umani, aventi una determinata vita biologica derivata dall'evoluzione di animali sociali, tendono a percepire e concettualizzare la differenza tra un “noi” e un “loro” attraverso un processo di pseudo- speciazione. Attraverso una serie di analisi e studi, recentemente compendiati da Robert Sapolsky nel suo libro Behave[5] si è riscontrato a livello sperimentale che l'essere umano possiede una vulnerabilità biologicamente determinata che spiega la tendenza istintiva a stabilire delle tassonomie tra l’identico e il diverso, rassicurante e pericoloso, sulla base di meccanismi che precedono la razionalizzazione.
Ogni forma di razzismo tende a classificare gli oggetti del suo odio o pregiudizio in base a tre categorie fondamentali: quella del muscolo, di cui fa parte il “bruto”, ovvero un essere umano di tipo razzialmente e culturalmente inferiore da utilizzare come schiavo o forza lavoro; quella del parassita, in cui rientra la figura della “zavorra”, cioè del soggetto del gruppo sociale inutile e fastidioso di cui liberarsi, benché non lo si percepisca come direttamente pericoloso; l'ultima categoria, la più pericolosa e letale, è quella dell'agente patogeno che se posto in mezzo a “noi” può distruggere il “nostro” stile di vita, la “nostra” civiltà e il “nostro” benessere. Queste categorie tipiche sono chiaramente identificabili all'interno dell'ideologia nazista: il muscolo veniva visto soprattutto nei popoli slavi, di cui una parte andava sterminata e l'altra ridotta in schiavitù; i parassiti veniamo identificati nelle comunità rom e sinti, percepite come pericolose pur costituendo un oggetto di dispute oggetto di disprezzo; infine, la categoria dell'agente patogeno e pericoloso, da eliminare con misure radicali è rappresentato dall'ebraismo. Nel film di propaganda nazista del 1940 Der ewige Jude, “L'ebreo errante”, ad esempio, delle sequenze seguenti sequenze raffigurano gli ebrei sovrapponendoli a immagini di ratti, unendo in un tutt'uno disgusto fisico e disgusto morale.
5. La memoria oggi
Le recenti ricerche e acquisizioni storiche, scientifiche e sociologiche ci aiutano a riflettere più profondamente su uno degli enigmi principali dell'Olocausto e di altre catastrofi storiche simili: come è possibile che lunghe e consolidate tradizioni di civiltà, tolleranza, riconoscimento e rispetto dell'altro possono essere così rapidamente demolite? Com'è possibile che con altrettanta rapidità si possa costruire un nemico immaginario, convincendo un gran numero di altrimenti pacifici cittadini a ghettizzarlo, isolarlo o distruggerlo perché mortalmente pericoloso? Quanto fragile e vulnerabile è, in ultima analisi, la struttura delle società aperte e democratiche? Quali sono le contromisure che si possono adottare a fronte di questa vulnerabilità?
Il Giorno della Memoria è uno di questi strumenti di cui ci si è dotati nel tentativo di impedire che siffatte derive si ripropongano o prendano forza. La sua ricorrenza, però, ha senso solo se è parte di un generale processo formativo ed educativo delle nuove generazioni che in qualche modo disinneschi la possibilità per certi tipi di retoriche e di manipolazioni di attecchire e di diffondersi.
È quindi di fondamentale importanza saper riconoscere con chiarezza l’emergere di propaganda e azioni volte a demonizzare minoranze e gruppi potenzialmente indifesi e vulnerabili, ed essere in grado di reagire tempestivamente. Se chiamati, dunque, ad applicare con intelligenza e discernimento il cosiddetto Paradox of tolerance, il “paradosso della tolleranza” enunciato da Karl Popper nel 1945 in risposta alle sfide senza precedenti poste alle società aperte e alle democrazie dai fascismi e totalitarismi[6]: una società democratica, aperta e liberale garantisce tolleranza e diritto di cittadinanza a ogni opinione, ma non può tollerare al proprio interno quelle forme di pensiero e di azione che puntano al suo disarticolamento e alla sua distruzione.
In ultima analisi il Giorno della Memoria ci pone di fronte a un compito paradossale: ricordare in modo sintetico quanto è avvenuto senza tralasciare il compito di riflettere analiticamente su eventi tanto tragici quanto estremamente complessi. Il rendere il presente l'assenza delle vittime e del loro mondo scomparso rischierebbe altrimenti, con il passare degli anni di diventare un rituale statico e soggetto a inesorabile erosione. Non basta, per quanto importante, ricordare le singole vittime in quanto individui o la loro totalità in modo indifferenziato. Occorre ricordare che dietro nomi e numeri vi sono specifiche e irripetibili comunità distrutte, dotate di una vita familiare, sociale e culturale che è andata perduta per sempre.
Il museo memoriale dell'Olocausto di Budapest rappresenta in modo chiaro questo duplice compito. Da una parte i suoi ricercatori sono tuttora impegnati a identificare più di un quarto di milione di vittime ebree ungheresi, i cui nomi vengono poi iscritti uno a un sul muro interno che si affaccia nel cortile nella sua sinagoga; dall'altra parte, in questo giardino del ricordo sono poste, su due pilastri in pietra, le iscrizioni che ricordano le comunità perdute. Su questi pilastri sono incise dozzine di nomi di città, cittadine e paesi ungheresi che dopo la guerra non hanno più visto il ritorno dei loro ebrei deportati.
Se il Giorno della Memoria ha un senso, lo ha se riesce a far sì che il ricordo dell'Olocausto non sia statico, qualcosa cioè che richiama la mente delle nuove generazioni solamente un nucleo concluso di eventi, di cui rispolverare periodicamente in astratto la rimembranza; esso deve piuttosto farsi ricordo dinamico, che corrisponda a un'attività in fieri intenta non solo a gettar luce su aspetti della storia di questo evento, che tuttora rimangono nell'ombra, ma che invita a domandarsi cosa rappresenti, in concreto, questa catastrofe per noi.
[1] Grande come una città è un movimento politico-culturale nato a Roma nel municipio III, per promuovere momenti di pedagogia pubblica, praticare e ripensare valori democratici come inclusione, femminismo, non violenza, antifascismo. Ha già dato vita a numerose iniziative sul territorio, trasformando giardini, parchi, cortili, piazze, cinema scuole biblioteche in Agorà: spazi condivisi, in cui assistere a lezioni pubbliche, partecipare a dibattiti, manifestare propri per i propri diritti, vivere la cultura come strumento di educazione al confronto e all'immaginazione della società. Il tutto grazie all’incessante impegno di volontari coordinati dalla Presidente dell’associazione Laura Taradel.
[2] Ruggero Taradel, Il sonno della ragione. Razzismo, antisemitismo e Shoah, Castelvecchi, 2021 (trascrizione di Carla Camagni), che pubblichiamo con il consenso dell'autore.
[3] Cfr. P. Desbois, P. Shapiro, The Holocaust by Bullets: A Priest's Journey to Uncover the Truth Behind the Murder of 1.5 Million Jews, Griffin, 2009.
[4] P. Levi, Se questo è un uomo-La tregua, Einaudi, 1989, p.3.
[5] Si veda R. Sapolsky, Behave: the biology of humans at our best and worst, Penguin, 2017.
[6] Cfr. K. Popper, The open society and its enemies, Routledge and Sons, 1945. [Nuova edizione 2011].