ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
commento a Cass., sez. II, sentenza n. 13795 del 7 marzo 2019 (dep. 29 marzo 2019)
Sommario: 1. Lo strano destino dell'autoriciclaggio (un passo indietro) - 2. Gli opposti orientamenti giurisprudenziali nel caso de quo - 3. La leva dell'interpretazione estensiva (in materia penale) - 4. L'importanza sistematica della sentenza in commento.
1. Lo strano destino dell'autoriciclaggio (un passo indietro).
Quello dell'autoriciclaggio è uno strano destino: per più di un ventennio - a partire dal 1993, anno del consolidamento della fattispecie di riciclaggio nell'ordinamento italiano - l'istituto è stato oggetto di un vivo e mai interrotto dibattito dottrinale, a fronte del silenzio della giurisprudenza, che ossequiava un dato normativo eloquente nei suoi aspetti applicativi (e, sopratutto, disapplicativi); quasi d'improvviso, nel dicembre del 2014, l'autoriciclaggio è apparso sotto le spoglie dell'art. 648-ter.1 del codice penale, chiudendo un dibattito ed aprendone un altro, imperniato su questioni vertiginose, anche più complesse di quelle d'origine. Perché se prima ci si scontrava con l' innegabile deficit di effettività dell' art. 648- bis - laddove per effettività debba intendersi quel passaggio tra diritto e fatto, tra norma e realtà empirica ad essa sottesa -, la legge n. 186/2014 e la contestuale introduzione del delitto di autoriciclaggio ha dischiuso un inedito orizzonte problematico, nella misura in cui può arrivarsi a fagocitare ogni possibile condotta riciclatoria posta in essere da quel soggetto che abbia in precedenza commesso, o concorso a commettere, il delitto da cui derivino le utilità oggetto delle attività di ripulitura.
Per meglio dire: la norma fece il suo ingresso nell'ordinamento intessuta di formule del tutto generiche, semanticamente amplissime, tanto che fin da subito gli interpreti si sono chiesti quale ne sarebbe stata la sorte giudiziale[1]: sarebbe potuta rimanere (guardando anche alla pena straordinariamente elevata, dai 4 ai 12 anni di reclusione, e agli effetti processuali che questa produce[2]) del tutto disapplicata, a voler stringere le maglie dell'ermeneutica; sarebbe invece potuta appigliarsi a numerosissime tipologie di condotta post delictum - tutte le volte cioè che si maneggino il denaro o i beni provenienti da delitto -, ma ciò sarebbe potuto accadere solo grazie a decise spinte propulsive dei giudici di legittimità, a vere e proprie operazioni ermeneutiche "a lungo termine".
Una duplice impostazione plasticamente rappresentata dal contrasto ermeneutico tra il Tribunale della Libertà di Milano e la Cassazione, i cui giudici hanno assunto posizioni simmetricamente antitetiche.
2. Gli opposti orientamenti giurisprudenziali nel caso de quo.
Il primo organo giudicante si era trovato a vagliare il caso di un soggetto che aveva conseguito un profitto di circa 260.000 euro grazie ad una serie di truffe per poi impiegare parte di quei proventi (oltre 100.000 euro) in giochi (slot machines, poker ecc.) e scommesse sportive on-line. Secondo i giudici milanesi, in questo caso non può parlarsi di autoriciclaggio: anzitutto perchè le "arrività speculative" sono - recuperando anche la dizione fornita dalla Treccani - investimenti da cui si traggono utili per mezzo di attività commerciali o finanziarie, mentre i giochi e le scommesse sono caratterizzati (come insegna il codice civile) da un'alea ingovernabile, e rappresentano una mera spendita di denaro in attività che possono portare anche a nessun rientro economico - un conto quindi è la speculazione, altro è il gioco; ma poi, secondo il Tribunale della Libertà, a tutto voler concedere rimarrebbe da spendere la clausola di non punibilità di cui al comma quarto dell'art. 648-ter.1, secondo cui «Fuori dei casi di cui ai commi precedenti, non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale», tale dovendosi considerare anche la condotta di chi spende denaro al gioco o alle scommesse, per soddisfare un impulso personale, spesso di carattere patologico. L'indagato, insomma, non avrebbe compiuto alcuna delle attività previste dalla fattispecie che punisce l'autoriciclaggio; cosicché, per carenza di limiti edittali in relazione alla sola truffa, il Tribunale annullava l'ordinanza genetica di applicazione di misure cautelari, decisione cui faceva seguito il ricorso per Cassazione della Procura meneghina.
Nella sentenza in commento, la Cassazione - dopo i primi anni, a partire dalla legge n. 186/2014, segnati da incertezze e da talune pronunce invero poco inclini a conferire effettività alla norma[3] - mostra di voler proseguire nel solco del percorso tracciato dall'importante sentenza dell'anno precedente[4] che delimita in termini generali la clausola di non punibilità di cui al quarto comma; mostra insomma di volere "dare vita" al reato di autoriciclaggio, e rende pertanto palese l'intenzione dei giudici di legittimità di espandere, fin dove è possibile, i confini della norma, procedendo con una delle più importanti operazioni di politica ermeneutica degli ultimi anni, almeno in materia penale.
3. La leva dell'interpretazione estensiva (in materia penale).
Non avrebbe senso, altrimenti, il richiamo iniziale a principi generalissimi: la Cassazione afferma infatti nell'abbrivio che «non possono dimenticarsi i risalenti ed incontrastati insegnamenti di questa Corte, secondo i quali anche le norme penali sono suscettibili di una interpretazione estensiva [e questo] quando sia palese che lo stesso legislatore minus dixit quam voluit». E' un cambio di passo, un diverso registro assiologico dello stesso modo di pensare al reato di autoriciclaggio (che in dottrina aveva attratto invece, fin da subito, numerose interpolazioni restrittive[5]), resosi necessario «al fine di evitare conclusioni sostanzialmente abrogative della previsione in parola»; di talché, vengono attinti da censure entrambi i motivi che avevano portato i giudici milanesi a non ravvisare l'art. 648-ter.1.
Il primo punto riguardava, come detto, la taratura applicativa della locuzione "attività speculativa". Per il vero, l'accenno contenuto nella norma alle «attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative», agli interpreti è apparso fin da subito, tra i numerosi elementi della norma, quello meno controverso; anzi, pareva (e tutt'ora pare) piuttosto una superfetazione che nulla aggiunge al fatto di riciclaggio ricompreso nell'art. 648-bis, che è da sempre inteso come un delitto che può esplicarsi soltanto nella realtà economico-finanziaria. L' esistenza della locuzione si giustifica soltanto in quanto formale "tributo" al finitimo art. 648-ter, che fonda la sua punibilità in attività economiche o finanziare. Rispetto a quest'ultimo delitto, poi, l'aggiunta delle attività imprenditoriali o speculative non comporta un effettivo allargamento del recinto della punibilità, dal momento che, com'è stato opportunamente osservato, nell'attività economica si fa ricomprendere tutto ciò che è attinente allo scambio di beni e servizi nell'ambito di un'attività imprenditoriale, mentre le attività speculative (al netto dell'estrema genericità della formula), laddove non dovessero ricadere in quelle più propriamente imprenditoriali, sarebbero comunque da riporre all'interno di attività "finanziarie"[6].
Ecco perché la Cassazione si premura di palesare subito, e senza incertezze di sorta, la propria posizione su questo punto, giacché - anche alla luce del lungo e travagliato percorso che ha condotto il Parlamento a varare la legge n. 186/2014, e dell'intentio legis che se ne può ricavare - «del tutto logicamente deve ritenersi che [si sia] inteso perseguire, mediante l'utilizzo delle ampie locuzioni citate (attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative), qualsiasi forma di re-immissione delle disponibilità di provenienza delittuosa all'interno del circuito economico legale», ivi compresa, naturalmente, la scommessa o il gioco d'azzardo, che non sono certo avulsi dal perseguimento di significative finalità economiche.
Più densa di significato è la preclusione all'attivazione della clausola di non punibilità di cui al quarto comma nel caso di specie. Il Collegio condivide e richiama l'accurata ricostruzione ermeneutica già operata - come poc'anzi accennato - nella sentenza n. 30399 del 2018, secondo la quale la norma va interpretata in base al significato proprio delle locuzioni utilizzate, e cioè nel senso che la suddetta clausola non si applica a tutte le condotte descritte nei commi precedenti: l'espressione iniziale "fuori dei casi", su cui si regge, «a livello semantico, null'altro significa che la fattispecie in essa considerata è diversa ed autonoma rispetto a quelle previste nei commi precedenti. Con la conseguenza che, una volta che la fattispecie criminosa di cui al comma 1 dell'art. 648 ter.1 cp. sia integrata intutti i suoi requisiti, l'agente è sanzionabile penalmente, restando del tutto indifferente che, alla fine delle operazioni di autoriciclaggio, egli abbia "meramente" utilizzato o goduto personalmente dei suddetti beni a titolo personale».
In altri termini, se è vero che il cuore della fattispecie di autoriciclaggio è nel compiere una qualsiasi operazione in grado di "ostacolare concretamente l'identificazione della provenienza delittuosa" del provento illecito[7], una volta realizzato, sul piano della condotta, un siffatto modulo descrittivo, non ha alcun senso recuperare la clausola di non punibilità, avendo questa natura residuale; o forse, neppure.
4. L'importanza sistematica della sentenza in commento.
Si consideri - ed è in ciò che va colta l'importanza, diremmo sistematica, della sentenza in commento, anche per come si raccorda a quella del 2018 - che all'epoca gli interpreti più autorevoli, al cospetto del novum, avevano conferito una valenza ben diversa a questa clausola.
Nella formulazione dell'art. 648-ter.1, come noto, il legislatore si era imposto il compito di sopprimere il c.d. "privilegio dell'autoriciclaggio", congegnato nella formula "fuori dei casi di concorso nel reato" innestata nell'art. 648-bis. Sappiamo, però, che non si è operato su questo delitto mediante la "semplice" resezione della clausola di riserva, ma si è preferito profilare, nonostante le problematicità connesse, un nuovo reato (l'art. 648-ter.1, per l'appunto), e che quella clausola, intonsa, governa ancora il delitto di riciclaggio.
Ma proprio per evitare la creazione di una fattispecie dall'incalcolabile perimetro applicativo, il legislatore avrebbe consegnato all'interprete strumenti volti a "normalizzare" un delitto teoricamente onnipresente nelle indagini e nei processi, che sul piano empirico rischiava (e rischia) di trasformarsi, per ogni reato capace di generare un profitto apprezzabile, in un quid pluris: in una contestazione ulteriore, spesso più grave di quella afferente il reato da cui derivano i proventi illeciti. Cosicché il quarto comma dell'art. 648-ter.1, sempre secondo le prime tesi avanzate[8], vorrebbe porsi come limite alla tipicità e funzionare come clausola di interpretazione autentica del primo comma, che contiene il nucleo tipico della condotta: il legislatore avrebbe voluto dire - utilizzando un costrutto sintattico ambiguo se non proprio erroneo[9] - che l'utilizzo o il godimento personale è fuori dalla tipicità della norma, e le relative condotte risultano pertanto non punibili. Non saremmo dunque di fronte ad una causa di non punibilità ma, come più correttamente è stato rilevato, ad una clausola di delimitazione del tipo: essa «segna un limite negativo del tipo, in quanto descrive una modalità della condotta espressamente esclusa dalla rilevanza penale»[10].
A distanza di quattro anni, la Cassazione rigetta adesso con forza questa tesi "mitigatrice" e - benché sul piano dogmatico non può certo negarsi che una causa di non punibilità si innesta pur sempre su «di un "completo" disvalore oggettivo e soggettivo del fatto»[11], creando all’interno del quadro tipico sacche di impunità per ragioni di mera opportunità pratica - nega al quarto comma ogni funzione delimitativa della tipicità del reato, secondo una regola che potremmo definire dell'aut aut: o si configura il reato come descritto nei primi tre commi, oppure, non configurandosi - e solo in questo caso - può essere attivata la clausola di non punibilità di cui al quarto comma; che viene così relegata in un angolo di sostanziale irrilevanza; né può più, tale formula, neppure porsi in termini di sussidiarietà con il reato compiutamente descritto nei primi tre commi, se è vero che essa regola l' ipotesi - cristallizzata nel principio di diritto espresso nella sentenza del 2018 - in cui l'agente «utilizzi o goda dei beni provento del delitto presupposto in modo diretto e senza che compia su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa»: insomma, nulla deve indiziare nella sua condotta alcun intento riciclatorio, se si vuol utilizzare la clausola di non punibilità.
I giudici di legittimità finiscono così per dare vita al reato di autoriciclaggio per mezzo di un'interpretazione estensiva dei suoi elementi costitutivi principali, destinando all'aborto quei tentativi compiuti dai giudici territoriali di passare dalla clausola di non punibilità del quarto comma per mitigare[12] gli effetti dirompenti (quoad poenam, ma non solo) che l'art. 648-ter.1 cp. produce: tentativo appunto non riuscito al Tribunale della Libertà di Milano, che si vedrà ritrasmessi gli atti affinché provveda alla luce dei canoni interpretativi forniti.
[1] Il primo a porsi queste domande è stato, autorevolmente, F. Sgubbi, Il nuovo delitto di "autoriciclaggio": una fonte inesauribile di "effetti perversi" dell'azione legislativa, in Dir. pen. cont. (web), 10 dicembre 2014; ma già molti anni prima si ragionava su questi profili, a partire dai numerosi progetti di riforma: vd, ad esempio, S. Seminara, I soggetti attivi del reato di riciclaggio tra diritto vigente e proposte di riforma, in Dir. pen. proc., 2005, p. 239 ss.
[2] Basti pensare alla possibilità di applicare le più incisive misure cautelari mercé l'ampiezza della cornice edittale: così F. Sgubbi, Il nuovo delitto di "autoriciclaggio", cit., p. 4.
[3] Ci si riferisce, per esempio, a Cass., sez. II, sentenza n. 33074 del 14.7.2016, in C.E.D. n. 267459, secondo cui non integra il reato di autoriciclaggio il versamento del profitto di furto su conto corrente o su carta di credito prepagata, intestati allo stesso autore del delitto presupposto, perché non costituisce attività idonea ad occultare la provenienza delittuosa del denaro. Una sentenza che però andrà presto letta in combinato disposto con Cass., Sez. V, sent. 11.12.2018 (dep. 5.2.2019), n. 5719, in Dir. pen. cont. (web) del 28.3.2019, con nota di M. Barcellona, In tema di autoriciclaggio e "paper trail", nella misura in cui i giudici di legittimità affermano che «il mero trasferimento di denaro di provenienza delittuosa da un conto corrente bancario ad un altro, diversamente intestato e acceso presso un altro istituto di credito, integra il delitto di autoriciclaggio ex art. 648-ter.1 c.p.».
[4] Si tratta di Cass. sez. II, sentenza n. 30399 del 5.7.2018, in C.E.D. n. 19674.
[5] Tra queste, sotto vari profili, ricordiamo le tesi avanzate da F. Consulich, La norma penale doppia. Ne bis in idem sostanziale e politiche di prevenzione generale: il banco di prova dell'autoriciclaggio, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2015, p. 55 ss.; D. Brunelli, Autoriciclaggio e divieto di retroattività: brevi note a margine del dibattito sulla nuova incriminazione, in Dir. pen. cont., 1, 2015, p. 86 ss.; I. Caraccioli, Incerta definizione del reato di autoriciclaggio, in Il Fisco, 2015, p. 355 ss.
[6] Quand'anche, alla fine dei conti, la triplice aggettivazione non si consideri, pur diversamente declinata, come species del genus delle attività economiche. In questo senso, Troyer-Cavallini, Apocalittici o integrati? Il nuovo reato di autoriciclaggio: ragionevoli sentieri ermeneutici all'ombra del "vicino ingombrante", in Dir. pen. cont. (web), 23 gennaio 2015. p. 9.
[7] E, come è stato detto da ultimo: è «pressoché scontato che tale forma di ostacolo si concretizzerà ogni qualvolta non venga espressamente indicata la provenienza delittuosa del bene sul quale ricade l'azione» (Insolera-Guerini, Diritto penale e criminalità organizzata, Torino, 2019, p. 184).
[8] Cfr. A. M. Dell'Osso, Il reato di autoriciclaggio: la politica criminale cede il passo a esigenze mediatiche e investigative, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, p. 806.
[9] Netto è, in questo senso, A. M. Dell'Osso, Il reato di autoriciclaggio, cit., p. 806, secondo cui il legislatore è incorso in «un errore di italiano tanto banale quanto biasimevole, scrivendo "fuori dei casi" invece di "nei casi"»; ci si troverebbe allora, sempre secondo lo stesso autore, di fronte ad una «ipotesi di sciatteria legislativa da antologia, foriera, peraltro, di criticità applicative di non poco conto».
[10] F. Mucciarelli, Qualche nota sul delitto di autoriciclaggio, in Dir. pen. cont. (web), 24 dicembre 2014. p. 19.
[11] M. Romano, Cause di giustificazione, cause scusanti, cause di non punibilità, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, p. 65, a detta del quale, peraltro, la non punibilità sarebbe fondata su situazioni e accadimenti esterni alla meritevolezza della pena ed è collegata, di consueto, ad un singolo soggetto (p. 69).
[12] Nondimeno, essi possono ancora essere mitigati tramite il giudizio di pericolo concreto che - già sotto il profilo lessicale - importa l'avverbio "concretamente", non per caso inserito nella chiusa del primo comma («in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa»): al riguardo, sia permesso il rinvio a A. Apollonio, Condotta dell'autoriciclatore e interazioni con gli arti. 416-bis e 648-bis c.p.: problemi concorsuali e soluzioni esegetiche, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1-2, 2016, p. 8.
Niente più rito abbreviato per i reati che prevedono la pena dell’ergastolo. Con 168 voti favorevoli, 48 contrari e 43 astensioni, il Senato ha approvato in via definitiva il disegno di legge di riforma del rito abbreviato.
“Con l’approvazione di questa legge in Senato diamo un segnale fortissimo a tutti i cittadini di questo Paese – ha commentato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede -.
Il messaggio è che c’è la certezza della pena, non ci sono più gli sconti di pena a cui i criminali un po’ si sono abituati quando ci sono reati gravissimi”. Ma l’approvazione del provvedimento suscita anche forti perplessità.
Come quelle espresse da Glauco Giostra, ordinario di Procedura Penale all’università Sapienza di Roma, presidente della Commissione che lavorò a lungo, la scorsa legislatura, alla riforma dell’Ordinamento penitenziario e consulente ministeriale per numerose altre riforme del sistema penale.
Professore, cosa pensa della nuova legge?
Penso che ad un problema esistente si è risposto, come troppo spesso capita, con una soluzione che non lo risolve, anzi, che ne genera altri, ma che può essere utile dare in pasto all’opinione pubblica per raccogliere consensi.
C’è da dire che l’opinione pubblica resta spesso sconcertata di fronte a drastiche riduzioni di pena. Che necessità c’è di prevedere certi sconti sulla base della scelta del rito?
“Ogni ordinamento che, come il nostro, è incentrato sulla formazione della prova nel contraddittorio dibattimentale, fa ricorso, per la sopravvivenza del sistema, a riti speciali. Cioè a procedure semplificate nelle quali la rinuncia da parte dell’imputato alla garanzia del dibattimento e la relativa accettazione ad essere giudicato sulla base degli atti di indagine, è premiata dallo Stato con una riduzione di pena. Per il giudizio abbreviato la riduzione è di un terzo della pena temporanea inflitta, mentre l’ergastolo, sino all’approvazione di ieri, era sostituito con la reclusione a 30 anni, e in caso di ergastolo con isolamento diurno veniva eliminato l’isolamento”.
Non si può negare che, soprattutto quando la riduzione per la scelta del rito abbreviato si somma a quella per il concorso di circostanze attenuanti, si determinano abbattimenti di pena difficilmente accettabili dal comune senso di giustizia… “Certo. Per questo le dicevo che un problema esiste, soprattutto quando alla riduzione per la scelta del rito si cumula quella per il riconoscimento delle attenuanti generiche. Ma la legge non lo risolve, ignora le possibili soluzioni adeguate e crea serissimi problemi alla giustizia”.
Andiamo con ordine. Perché dice che non lo risolve?
“Prima lei ha fatto giustamente riferimento al senso comune di giustizia. Ebbene dopo l’approvazione della legge, chi a seguito di abbreviato viene condannato a trent’anni continuerà a vedere ridotta la pena a venti anni. Mi dica lei: è davvero più inaccettabile di questo sconto quello di cui poteva usufruire chi, avendo scelto il rito abbreviato, si vedeva applicata la pena dell’ergastolo invece della pena dell’ergastolo con isolamento diurno? Oppure trent’anni invece che l’ergastolo? La verità è che la riduzione di un terzo della pena per i reati più gravi è eccessiva. Lei pensi che un condannato per ottenere una riduzione di pena di dieci anni con la misura della liberazione anticipata dovrebbe tenere in carcere una condotta irreprensibile e impegnata per 40 anni. Inoltre si consideri che chi viene giudicato con l’abbreviato ha il solo merito di aver fatto risparmiare tempo e risorse. Il condannato in esecuzione di pena, invece, di aver dato prova di ravvedimento sociale”.
Come se ne esce, se il sistema ha bisogno di procedure semplificate e queste devono essere incentivate?
“Si sarebbe dovuto lavorare sull’incentivo. Ad esempio, prevedere che la riduzione è sì di un terzo, ma che non possa essere superiore ad un certo tetto: ad esempio cinque anni. Per l’ergastolo si poteva lasciare il regime di conversione attuale o renderlo anche più severo, anche intervenendo sulla cumulabilità con altre attenuanti, soprattutto con le cosiddette generiche, ma prevedendo sempre un vantaggio per chi accetta il rito abbreviato, sia per una giustizia comparativa nei confronti degli altri imputati, sia per evitare problemi gravissimi all’amministrazione della giustizia”.
Quali problemi prevede per l’amministrazione della giustizia?
“La legge appena approvata appesantirà in maniera preoccupante una giustizia già ansimante, forse dandole il definitivo colpo di grazia. Innanzitutto, i procedimenti per reati puniti con l’ergastolo oggi definiti in abbreviato da un giudice monocratico dovranno ‘migrare’ verso la Corte di assise, andandone ad ingolfare i ruoli già ora gestiti con affanno. Ma poi, potendo l’imputazione variare nel corso del procedimento penale, si determineranno fatalmente ritorni, sbandamenti ed ingiustizie. Facciamo il caso di un’accusa per un reato punito con pena temporanea: l’imputato sceglie il rito abbreviato nel corso del quale, in seguito all’assunzione di prove, l’imputazione si aggrava e viene contestato un reato punito con l’ergastolo. Il processo deve tornare indietro e riprendere nelle forme ordinarie, vanificando quanto già fatto e non tenendo conto, di regola, delle prove assunte in abbreviato.
Ancora più imbarazzante la situazione opposta: si procede con il rito ordinario, perché il reato originariamente contestato era punito con l’ergastolo e quindi preclusivo del rito abbreviato. Dice la nuova legge che, se la richiesta di abbreviato era stata dichiarata inammissibile per tale ragione, quando il giudice alla fine del dibattimento ritiene invece di condannare per un reato punito con pena temporanea, deve applicare la riduzione di un terzo di pena.
A parte che in questo modo tutti gli imputati di crimini puniti con l’ergastolo saranno indotti a chiedere l’abbreviato per farselo dichiarare inammissibile (altro lavoro a vuoto per i giudici) ed ottenere lo sconto di pena dopo il giudizio ordinario qualora, come capita non di rado, venisse ‘derubricato’ il reato. Con il che avremmo il capolavoro ‘economico’ di un imputato che ha usufruito di tutte le maggiori opportunità del dibattimento e che poi lucrerà anche uno sconto di dieci anni di pena.
Per non parlare, a proposito di ‘economie’, dell’imputato che, rinviato a giudizio per più reati, uno dei quali punito con l’ergastolo, chiede l’abbreviato per gli altri: l’ordinamento deve far svolgere due procedimenti contro la stessa persona, con il rischio che, per le ragioni appena ricordate non si crei necessità di passaggio dall’uno all’altro. La novità legislativa costituisce, dunque, un grave fattore di appesantimento e di disordine per la giustizia, ma evidentemente era più importante esibire un’inutile muscolarità sanzionatoria”.
(a cura di Teresa Valiani, dalla rivista “Redattore sociale” del 3.4.2019)
CANCELLARE LA TENUITA’ PER ABOLIRE IL PRINCIPIO DI REALTA’ di Marco Imperato
In una stagione di politica criminale già caratterizzata dalla volontà di assecondare gli umori della base, si profila all’orizzonte l’ennesima proposta muscolare, ovvero quella di abolire l’ipotesi di particolare tenuità nel reato di detenzione e spaccio di stupefacenti[1].
Con questo disegno di legge si vorrebbe di fatto cancellare dall’ordinamento ciò che senza dubbio esiste nei fatti e nella realtà quotidiana. Più che la proposta di abolire un istituto giuridico, si prefigura la volontà di cancellare dalle norme la realtà dei fatti.
Chi ha avuto di occuparsi di questo tipo di reati nelle aule di tribunali sa perfettamente che nella disciplina dell’articolo 73 del DPR 309/1990 ricadono fatti molto diversificati, con caratteristiche e capacità di offesa assai eterogenee tra loro: dalla detenzione professionale e sistematica da parte di soggetti dediti al traffico di centinaia di grammi di cocaina (o anche di chilogrammi, non scattando così facilmente l’aggravante speciale dell’articolo 80), alla cessione anche a titolo gratuito di mezzo grammo di stupefacente.
Pericolosità del fenomeno, offensività in concreto, dolo del reo, capacità delinquenziale, rischi per la salute: tutti questi elementi dovrebbero essere ignorati e messi da parte in nome di una pena che diventerebbe così esemplare e non proporzionata al fatto concreto, ovvero una sanzione penale che non svolge più alcuna funzione rieducativa e nemmeno retributiva, ma che serve solo quale dimostrazione della forza punitiva dello Stato.
Non verrebbe quindi violato solo il principio di ragionevolezza, ma ancor prima l’articolo 27, ovvero il principio di responsabilità penale personale.
Si potrebbe anche ricordare come la minaccia di pene severissime e sproporzionate non è solo di per sé ingiusto, ma non garantisce neanche l’obiettivo di dissuadere i comportamenti illeciti. La sociologia del diritto e ancor prima la storia insegnano che tale equazione è fallace, ma d’altronde che chi propone queste misure probabilmente non si illude di risolvere il problema, avendo come vero obiettivo strategico la strumentalizzazione del diritto penale per il recupero del consenso popolare.
Un legislatore razionale che conosca il fenomeno sociologico dell’abuso di stupefacenti e il connesso sistema criminale, partirebbe da una seria riflessione sul perché vi sia sempre una crescente domanda di droga, come dimostrano i report annuali della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga (organo peraltro del Ministero degli Interni…): il diffondersi degli stupefacenti non è scalfito dall’inasprimento delle sanzioni. Anzi, vi è chi sostiene il contrario, specie con riferimento alle droghe leggere, persino all’interno della maggioranza politica dell’attuale Governo[2].
Non possiamo giustificare l’abolizione della tenuità del fatto in materia di stupefacenti usando l’argomento che il fine (del contrasto al fenomeno criminale) giustificherebbe il mezzo (di una pena sproporzionata): un simile ragionamento è irricevibile nel nostro ordinamento perché l’imputato non può mai diventare il mezzo per qualche altra finalità pubblica, dovendogli essere garantito un giusto processo e un’eventuale sanzione commisurata solo al fatto concreto e alla sua personale responsabilità, non certo alle aspettative del Governo o agli umori della maggioranza.
Pare esservi un comune denominatore in tutte queste proposte e riforme recenti, ovvero la sfiducia verso il ruolo della Magistratura quale potere cui affidare l’interpretazione delle leggi e la loro applicazione in concreto.
Il dibattito pubblico, specialmente quello “social”, è assolutamente superficiale e prescinde dai fatti, diventando quindi spesso mera cassa di risonanza della propaganda che pretende di vedere rispettati nei processi i propri “desiderata”, senza alcun vero interesse ai fatti e alle prove del caso concreto. La percezione mediatica e il sentimento popolare vorrebbero prevalere su presunzione di non colpevolezza, giusto processo e responsabilità personale.
A fronte di questa degenerazione della discussione pubblica e politica e delle conseguenti proposte, occorre adoperare tutti gli strumenti che l’ordinamento ci consegna perché non vengano stravolti i principi costituzionali e i diritti fondamentali del nostro sistema processuale.
Che sia possibile arginare la deriva populista della politica criminale lo ha dimostrato anche la recente sentenza della Corte Costituzionale[3], la quale ha riconosciuto come sproporzionata la soglia minima di 8 anni per i fatti non tenui, certificando così al contempo la necessità di modulare la sanzione in modo congruo e ragionevole rispetto all’offesa del bene giuridico e alla responsabilità dell’autore.
È importante che tutto il mondo dei giuristi e degli operatori del processo penale si adoperi per spiegare anche al resto della cittadinanza che i principi sanciti dall’articolo 3 o dall’articolo 27 della Costituzione non sono orpelli formali o fastidiosi lacci a una spregiudicata azione di Governo, ma baluardi dello Stato di Diritto, beni preziosi da riaffermare come patrimonio comune che ci è stato consegnato dalla Carta del ’48.
[1] https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/03/04/droga-salvini-presenta-disegno-di-legge-raddoppio-delle-pene-per-chi-spaccia-e-basta-con-la-modica-quantita/5013103/
[2] https://www.tgcom24.mediaset.it/politica/il-ministro-della-salute-si-a-liberalizzare-le-droghe-leggere-_3165300-201802a.shtml
[3] https://www.penalecontemporaneo.it/d/6570-stupefacenti-la-corte-costituzionale-dichiara-sproporzionata-la-pena-minima-di-otto-anni-di-reclusi
Momenti di trascurabile felicità a cura di Dino Petralia
Tra l’ovvietà che non stupisce e la profondità del banale si collocano le trascurabili felicità di Paolo e Agata, coppia stereotipa in crisi di slanci e di parole.
Per un capriccioso errore di calcolo di velocità nello sfidare, alla guida del proprio scooter, un incrocio stradale nel centro di Palermo, Paolo muore in un fatale incidente.
Catapultando la scena in un Paradiso può attendere in salsa nostrana, il novello Warren Beatty in abiti di Pif fa così ingresso in un aldilà burocratico e disorganico, realizzando insieme a un Caronte in luccicante divisa postelegrafonica (un poliedrico ed efficace Renato Carpentieri) la commissione di un errato computo cronologico del trapasso, con conseguente momentaneo rientro sulla ribalta della vita.
Il rimborso di un’ora e trentadue minuti di sopravvivenza innesca dunque il tragicomico interrogativo sul come trascorrere lo scampolo di impiego esistenziale, affidando ad un protagonismo maschile monocorde e uggioso - un Paolo motteggiante di anemiche scontatezze che a ben vedere poco o nulla ripropongono del divertente catalogo (del libro) di Francesco Piccolo - l’ingrato compito di far riflettere sorridendo; compito rapidamente evaporato nel naufragio senza soccorso di sequenze banalmente improntate al genere del vivere d’oggi - i piccoli tradimenti di lui e lei, il compensativo eccesso di passione calcistica dei compagni di tifo, i conflitti familiari dei figli e il divario digitale dei loro saperi rispetto agli adulti - in cui il ripromesso messaggio della brillantezza di una normalità vitale e vincente s’infrange in un’incostanza scenica che, sottraendo dinamismo e vivacità al racconto, lo converte in una semplice somma di riprese indipendenti e slegate.
A conclusione del modico supplemento di vita, l’affido condiviso tra destinante e destinato, traghettatore e traghettando, della riedizione dell’incidente, questa volta nella prospettiva di un esito definitivamente infausto che invece non si compie per via di una (forse) raggiunta maturità d’affetti di Paolo, ravviva per un istante le vibrazioni di un film che nel complesso non sollecita né commuove e che, pur regalando - o tentando di regalare - allo spettatore l’effimero gusto di un destino fallibile, non si sottrae ad un verdetto di grigia mediocrità.
A sollevarne le sorti soccorre tuttavia la bellezza energica, vitale e struggente di una Palermo che, nello sfondo della narrazione, nobilmente sopravvive nei momenti tutt’altro che trascurabili dei popolani ghetti e delle mirabili sue sontuosità.
Legittima difesa, illegittima convinzione (Bowling a Columbine 2002). Di Andrea Apollonio
In questa temperie storica e culturale, formulare una riflessione su leggi che implementano la legittima difesa senza cadere sulle più banali formule quali "farsi giustizia da sé", "la legge del più forte" - formule primitive che pure, di tanto in tanto, il legislatore si procura di vitalizzare - è quasi impossibile. Ma dato che oggi il Parlamento approva in via definitiva la legge che amplia il perimetro della liceità è doverso dire qualcosa - ancora qualcosa, a margine di un qualsiasi commento tecnico-giuridico quale quello, esauriente, di Giuseppe Amara (apparso su questa Rivista il 15 marzo).
Ed appunto per evitare di incorrere impunemente in banalità, è bene servirsi della metafora cinematografica per raccontare un tema che solo a valle diventa un problema giuridico, perché a monte nasce come fenomeno sociale che involge paure collettive, ed il più antico - proprio primitivo - dei sentimenti: l'insicurezza. Gli strumenti per meglio comprendere ce li fornisce il documentarista Michael Moore, con il suo "Bowling a Columbine" (2002), che riguarda la strage di studenti e insegnanti perpetrata nella Columbine High School da due adolescenti armati fino ai denti: correva l'anno 1999.
Moore, telecamera in spalla, documenta anzitutto la claustrofobica normalità in cui è immersa Columbine, come la maggior parte delle contee statunitensi; ed è sempre incredibilmente normale, a Columbine come in tutti gli Stati Uniti, l' accesso semplificato all'acquisto di armi, senza un effettivo controllo.
Moore, continuamente ammiccando al suo pubblico, sfoglia allora i cataloghi di fucili e munizioni davanti alla faccia gentile e pulita di un'addetta alla vendita; acquista e spara maldestramente, dando subito a vedere di essere il solo a non saper maneggiare un'arma. Perché per gli intervistati - uomini e donne, giovani e anziani, middle e upper class: l'approccio al tema della difesa personale è ugualmente trasversale - "avere un'arma vuol dire essere persone più responsabili"; senza, infatti, si lascerebbero i propri beni e la propria famiglia alla mercé di chiunque. Non essere armati vuol dire lasciare le chiavi di casa attaccate alla porta, né più né meno. E' una convinzione ridicola, resa non a caso con un registro filmico parossistico e grottesco (il vero marchio di fabbrica dei documentari di Moore), che pure, osservata nel caleidoscopio costituzionale degli Stati Uniti, trova un suo fondamento storico, ed una sua (diremmo così) legittimità: tutti conosciamo il secondo emendamento, che dal 1791 afferma in Costituzione, indisturbato, "il diritto dei cittadini di detenere e portare armi".
Coltivare una tale idea, in Italia, non avrebbe invece alcuna reale (giuridica, o meta-giuridica) giustificazione, giacché i nostri Padri Costituenti, appena conclusa una sanguinosa guerra civile, mai si sarebbero neppure sognati di inserire la parola "armi" nella Costituzione. E allora, cosa c'entra "Bowling a Columbine", cosa c'entrano gli Stati Uniti, con l'approvazione della "nuova" legittima difesa in Italia? Dopo tutto, da queste parti non cambiano i requisiti (neanche troppo stringenti) per l'acquisto di un'arma, né la legislazione (più severa, questa) che punisce l'illegale detenzione.
A dimostrare che le convinzioni d'oltreoceano sono a noi prossime più di quanto si immagini - e le idee delle persone scaturiscono anche dalle leggi, siccome di Antigoni in giro se ne vedono pochi - soccorre un video che spopola sul web: comuni cittadini partecipanti ad una convention politica sulla legittima difesa, che intervistati, dicono senza freni inibitori cosa farebbero se trovassero qualcuno in casa, entrato "senza essere invitato". L'ironia caustica di Moore, al confronto, si tramuta in una barzelletta da educande che non fa ridere nessuno.
Ma se proprio volessimo procedere in parallelo, ebbene: non c'è alcuna differenza tra l'immagine di una donna in bikini leopardato che, sorridente, spara a sagome nere poste a rappresentare minacciosi intrusi (nel docu-film di Moore) e quella del cartello esposto fuori le private abitazioni, che sembra andare di moda sopratutto nel nord-est: "Questa casa è protetta da Dio e da un'arma. Se vuoi incontrare entrambi basta entrare senza permesso" (è spesso pubblicato anche sulle pagine social, e non si esimono dal farlo politici e personaggi pubblici): le immagini si aggrinciano assieme perché entrambe trash, anche nel senso di essere ancorate ad una convinzione profondamente irrazionale.
Le idee scaturiscono anche dalle leggi, come il caso degli Stati Uniti (campione e capo-fila della civiltà occidentale) insegna - e come il nostro legislatore dovrebbe sempre tenere presente. Per questo Moore, col suo registro canzonatorio, rischia di raccontare oramai anche la società italiana, sempre più piegata sotto il peso di indicibili, irragionevoli paure, e da oggi finalmente più "tutelata". La storia della Columbine High School raccontata da Moore è una metafora, certo, e per di più risalente a vent'anni fa: ma se questa metafora è irradiata da un film dalla verità oggettiva e incontrovertibile, che poteva essere illustrata solo in modo grottesco per quanto essa stessa appare grottesca, allora questo messaggio d'allarme non può che allargare il suo spettro con l'allargarsi del tempo.
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