ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’avvocato ed il diritto alla verità
lettera a Giustizia Insieme di Cataldo Intrieri
Giustizia Insieme (bellissima rivista che ha l’ambizioso e non facile programma di ospitare un confronto tra avvocati, magistrati e studiosi) ha pubblicato una intervista a Carlo Smuraglia, avvocato e parlamentare del PCI, che mezzo secolo fa difese la famiglia di Giuseppe Pinelli , l’anarchico “volato via” da una finestra della questura di Milano nelle ore successive alla strage di piazza Fontana https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/824-il-delitto-pinelli-e-il-diritto-alla-verita.
C’è una circostanza che mi ha colpito come avvocato e che avevo dimenticato. Smuraglia per avere sostenuto la tesi del possibile omicidio dell’anarchico fu denunciato per calunnia dalla famiglia Calabresi, nonostante la vedova Pinelli avesse assunto ogni responsabilità in ordine al contenuto della denuncia. Ciò nonostante l’avvocato Smuraglia rimase imputato per due anni prima di essere prosciolto. Probabilmente pagava così il prezzo di difendere i diritti di una parte che si opponeva alla “giustizia di Stato”, meglio , di quel pezzo di “stato” ( minuscolo ) coinvolto nelle stragi. E pagava il prezzo quel difensore di avere tutti contro, magistratura , informazione ed opinione pubblica.
Sostengono alcuni autorevoli editorialisti di questa rivista che esista, inestinguibile, un “diritto alla verità" che come tale graverebbe anche su un avvocato come il “caso Smuraglia” perseguito per avere seguito la sua coscienza dimostrerebbe.
Io condivido tale convinzione e la ritengo strettamente connessa al ruolo dell’avvocato, come si dice in gergo curiale “nei limiti che qui si precisano”.
Io credo che l’obbligo di verità dell’avvocato sia quello verso i diritti di ogni suo assistito, anche dei peggiori. Colpevole o innocente, vittima o abietto responsabile, ogni essere umano porta con se il suo piccolo e pesante pacco di ragioni e di pretese, di colpe da espiare e diritti da esigere. Tutti, nessuno escluso e di questo diritto insopprimibile “di verità” , l’avvocato è fedele testimone e custode. Non è facile. Non lo è stato per Smuraglia che difendeva la vedova di un anarchico, etichettato, “poco di buono”, non lo è per chi deve difendere un detenuto malmenato ( se Cucchi avesse avuto l’avvocato subito ...ma cosa avrebbe dovuto affrontare il suo difensore nel denunciare le violenze di fronte ai magistrati che all’inizio non avevano visto?).
Ieri la memoria di FaceBook mi ha restituito un vecchio post di cinque anni fa in cui riportavo un documento della mia Camera Penale che denunciava apertamente una serie di distorsioni durante le indagini di un processo che ha segnato la storia giudiziaria di Roma (e non solo). Si era agli inizi con stampa ed opinione pubblica schierati senza esitazione contro chiunque ponesse minimamente in dubbio le ragioni dell’accusa. Non posso dimenticare come da più parti alcuni avvocati di quel processo fossero indicati come complici dei loro assistiti, investiti dalla luce obliqua del sospetto legato alla loro funzione, confondendo reati e profili deontologici.
Il tempo e una sentenza della Corte di Cassazione che l’ex presidente della Corte Canzio oggi auspica ponga fine al “disordine creato” nella giurisprudenza sui reati di Mafia hanno dimostrato che una volta tanto non erano loro, gli avvocati , a sedere, soli, disprezzati ed isolati dalla parte del torto.
Oggi in molti si rendono conto del rischio che prevalga, secondo un efficace termine del prof. Fiandaca, un’ "interpretazione criminologica" della realtà che investe ormai la stessa funzione difensiva. Una “antropologia criminale" che non risparmia gli stessi difensori incasellati in qualche riquadro di un organigramma mafioso, senza darsi cura, talvolta, di individuare condotte di concreta offensività.
Allora se ne resero conto solo gli avvocati che difendevano gente anche colpevole ma che avevano chiaro che il principio di legalità valeva pure per i “malacarne” dietro le sbarre. Mi sono stupito che non lo cogliessero i magistrati che avevo di fronte, che pure venivano tutti da una cultura che una volta alle garanzie era attenta, mi stupisco oggi che non si parli a sufficienza tra la magistratura progressista del rischio crescente di scivolare verso il diritto penale del nemico ed il reato di autore, “con le migliori intenzioni” beninteso.
Si può denunciare l’ossessione securitaria quando colpisce alcune categorie di diseredati ed esigerla come necessaria per altri tipi di reati? È veramente possibile scindere le garanzie dagli imputati in base a criteri di distinzione meramente criminologici?
Non dovremmo forse condividere l’idea che una società democratica debba accettare il rischio che delle libertà taluno faccia un pessimo uso piuttosto che cercare la sicurezza sopprimendo diritti e garanzie costituzionali?
E’ il controllo di legalità il totem cui sacrificare ogni altro diritto o il principio di ragionevolezza e proporzionalità pone dei contro-limiti anche ad esso esigendo un ragionevole contemperamento con il rispetto delle libertà individuali?
Ecco: “l’obbligo di verità” dell’avvocato è in queste poche moleste domande ed a mio parere, assai più gravoso per lui che per altri perchè sempre a differenza di quegli altri si troverà a sostenerlo sempre da solo. Anche se poi arriveranno gli altri...poi.
Mi piacerebbe che nessuno lo dimenticasse.
Edilizia di culto: un importante passo avanti verso la “laicità positiva”.
Nota a Corte cost. n. 254/2019
Giuseppe Tropea
In un precedente contributo, pubblicato su questa Rivista, relativo a una vicenda conclusasi con la condanna in Cassazione per un mutamento di destinazione d’uso al fine della creazione di un luogo di culto senza previo permesso di costruire, chi scrive evidenziava come essa, al netto delle peculiarità penalistiche, andasse inquadrata nell’ambito di una serie di problemi, legati alla legislazione regionale in materia, ancora irrisolti dalla giurisprudenza costituzionale – G. Tropea, Edilizia di culto e giudice penale: nuove limitazioni per la libertà religiosa? Nota a Cass. pen., Sez. III, 3 agosto 2019, n. 1854 - (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-processo-penale/792-edilizia-di-culto-e-giudice-penale)
Le brevi considerazioni che seguono costituiscono una piccola postilla a tale nota, alla luce della sopraggiunta sentenza n. 254/2019.
In particolare, si segnalavano alcuni profili di criticità della precedente sentenza della Corte costituzionale n. 63/2016, che costituiva l’impalcatura su cui si fondavano le argomentazioni del giudice penale:
i) i distinguo fatti dalla Consulta nel 2016, con la sentenza n. 63, fanno emergere una particolare attenzione sui limiti della libertà religiosa, a fronte del difficile contesto terroristico che viviamo. Si pensi alla dichiarazione di incostituzionalità delle disposizioni della legge regionale lombarda relative alla sicurezza e all’ordine pubblico: in esse non si esclude che tali interventi possano essere legittimi se presi dallo Stato che ha competenza esclusiva in materia, anzi tra gli interessi costituzionali che possono essere invocati per modulare (in stretta proporzionalità) la libertà religiosa vengono invocati proprio ordine pubblico e sicurezza, nozioni alquanto lasche e vaghe, molto delicate da maneggiare a fronte delle libertà tutelate in Costituzione, anche di quella religiosa.
ii) è inoltre previsto un temperamento delle esigenze egualitarie, nella parte in cui si fa notare che le risorse sono finite (siano essi contributi economici siano parti di suolo). Orbene il punto è che a fronte di minoranze l’art. 3, co. 2, Cost. implica proprio trattamenti di favore finalizzati a rimuovere ostacoli di tipo economico e sociale e la condizione delle minoranze religiose in relazione all’edilizia di culto secondo molti integrerebbe una di quelle situazioni di svantaggio da rimuovere.
iii) si nota una certa tendenza a rinviare alle scelte amministrative e alla giurisdizione amministrativa – con l’utilizzo della sentenza interpretativa di rigetto – la concretizzazione di disposizioni che possono essere foriere di discriminazioni confidando in sviluppi positivi in quelle sedi. Ora, se sul piano della teoria generale delle situazioni giuridiche soggettive è forse corretto parlare del diritto costituzionale ad un bene immobile destinato al culto come interesse legittimo costituzionale plurisoggettivo, nel senso che l’esercizio discrezionale del potere pianificatorio non viene meno dinanzi all’art. 19 Cost., pur dovendo essere conforme al suo contenuto minimo essenziale, il problema è più complesso quando entra in gioco quella che dovrebbe essere l’extrema ratio rappresentata dal diritto penale.
Nello stesso senso altri hanno notato che la sentenza in questione presenta luci ed ombre: se è meritorio che la Corte abbia rintuzzato quei tentativi di introdurre nell’ordinamento trattamenti discriminatori tra confessioni religiose utilizzando il sistema delle intese, d’altra parte vi sono profili sui quali la Consulta non si è spinta, ad esempio proprio la legittimità della previsione di uno strumento urbanistico ulteriore (Piano per le attrezzature religiose) all’interno del Piano dei servizi, in assenza del quale non sono possibili nuove attrezzature religiose, aggravamento procedurale che destava sospetti, fra l’altro, di discriminazione indiretta, applicandosi evidentemente a nuovi edifici di culto, dunque diretto statisticamente a gravare soprattutto sulle confessioni religiose di recente insediamento (S. Cantisani, Luci e ombre nella sentenza Corte costituzionale n. 63 del 2016 (e nella connessa sentenza n. 52). Tra affermazioni di competenza ed esigenze di sicurezza, in www.giurcost.it, p. 21).
Si può dire, quindi, che la sentenza n. 63/2016, come la precedente n. 52/2016 in tema di diniego di attivazione della procedura volta all’intesa ex art. 8, co. 3, Cost. con l’UARR, sposi una logica giudiziale di modello “etnocentrico” di risoluzione dei conflitti in una società multiculturale, che avversa il comportamento multiculturale, malgrado non incida sui diritti fondamentali. Improntata invece al modello “garantista” appare la successiva sentenza n. 254/2019, ove per modello garantista si afferma l’esistenza di un limite insuperabile corrispondente alla difesa dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone e a tutela del principio di eguaglianza (su tali due distinti approcci v. G. Di Cosimo, Giudici e politica alle prese con i conflitti multiculturali, in www.rivistaaic.it).
Il passo avanti è notevole. Non a caso il Governatore della Regione Lombardia dell’epoca ritenne la legge di fatto sostanzialmente integra dopo la pronuncia del 2016. Non si può dire lo stesso oggi.
Nella sentenza n. 63/2016 si era ritenuta, fra l’altro, manifestamente inammissibile la q.l.c. riferita all’art. 72, co. 5, della legge regionale n. 12/2005 della Lombardia che prevede l’approvazione da parte del Comune del Piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge, o, in mancanza, unitamente al nuovo PGT. Ciò in quanto il ricorso governativo, fondato sulla violazione dell’art. 117, co. 2, lett. l) (quella facoltà contrasterebbe con il d.m. n. 1444/1968 in materia di standard urbanistici), non sarebbe stato sul punto sufficientemente motivato.
Nella sentenza n. 254/2019, al contrario, quelle disposizioni, che costituiscono il cuore della normativa regionale lombarda del 2005, come modificata nel 2015, vengono finalmente attaccate di petto.
Dopo la premessa, già esistente nell’arresto del 2016, circa la inscindibile connessione libertà religiosa/libero esercizio del culto/diritto di disporre di spazi adeguati per l’esercizio di tale libertà, e il passaggio in cui si ricorda che l’art. 72, co. 1 e 2, della legge regionale Lombardia non era stato impugnato dal Governo, mentre l’art. 72, co. 5, era stato oggetto di una dichiarazione di inammissibilità, si dichiara l’incostituzionalità sia del co. 2 che del co. 5.
Quanto al co. 2, che subordina l’installazione di tutte le nuove attrezzature religiose al PAR, si osserva che le Regioni, nel regolare, in sede di disciplina del governo del territorio, l’edilizia di culto, possono perseguire esclusivamente finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere ricondotta anche la necessaria specifica considerazione delle esigenze di allocazione delle attrezzature religiose. In ragione del peculiare rango costituzionale della libertà di culto, inoltre, la stessa disciplina urbanistico-edilizia deve far fronte, con riferimento alle attrezzature religiose, all’ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per il loro insediamento, con la conseguenza che essa non può comportare l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare strutture di questo tipo.
Una normativa regionale sul punto, per non essere illegittima, deve quindi rispettare due condizioni: a) perseguire lo scopo del corretto insediamento nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto urbanistico; b) tenere in debito conto la necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose. Secondo la Corte tali presupposti non sono rispettati dalla legge regionale lombarda, nella misura in cui la subordinazione di qualsiasi attrezzatura religiosa al PAR riguarda appunto le sole attrezzature religiosa e non altre (scuole, ospedali, palestre, etc.), andando a comprimere la libertà religiosa e di culto, peraltro soprattutto delle fedi di più recente insediamento. Insomma: la libertà di culto è compressa senza alcuna ragionevolezza da finalità urbanistiche, violandosi gli artt. 2, 3, co. 1, 19 Cost.
Quanto all’art. 72, co. 5, la Consulta sottolinea come l’approvazione del PAR sia sottoposta a tempi del tutto incerti e aleatori, in considerazione del fatto che il comune può procedere alla formazione del PGT, o di una sua variante, a loro volta condizioni necessarie perché la struttura possa essere autorizzata una volta decorsi inutilmente i diciotto mesi per l’approvazione del PAR, con assoluta discrezionalità, sia sull’an che sul quantum dell’intervento.
Insomma: le competenze regionali concorrenti sul governo del territorio devono essere esercitate con ragionevolezza e proporzionalità, specie se è in gioco la libertà di culto declinata secondo esigenze di eguaglianza e non discriminazione.
Una sentenza dal tono molto “costituzionale” e poco “amministrativo”, si direbbe, che evidenzia un curioso paradosso accademico: la sentenza del 2016 è stata scritta da una costituzionalista, quella del 2019 da una amministrativista.
Il che, al netto del divertissement retroscenista, induce un triplice ordine di riflessioni generali, con una chiosa riconciliante finale.
Innanzi tutto, si rileva la tendenza della Corte, nel conflitto multiculturale, almeno a stare all’approccio degli ultimissimi anni, ad assumere un profilo più “garantista”, certo maggiormente adatto ai valori di fondo della nostra Carta fondamentale (letti assieme all’ art. 9 Cedu e alla giurisprudenza del giudice alsaziano sul punto).
In un secondo senso, più recondito ma altrettanto importante, la Consulta preferisce intervenire direttamente sulla politica pubblica regionale in materia, favorita in ciò forse dal fatto che questa volta la questione era stata sollevata in via incidentale dal Tar Lombardia e non in sede di conflitto col Governo. In questo senso ha minori margini di azione la tecnica dell’interpretativa di rigetto, che come visto nella precedente sentenza n. 63/2016 aveva assecondato un rinvio alle scelte amministrative e alla giurisdizione amministrativa rispetto alla concretizzazione di disposizioni che possono essere foriere di discriminazioni, confidando in sviluppi positivi in quelle sedi. Senonché questa conseguenza è insita nel mutamento di prospettiva della Corte, che ha effettuato questa volta direttamente un sindacato sulla ragionevolezza e proporzionalità delle norme oggetto di censura.
Infine, manca un’altra “parte amministrativa”, che chi scrive avrebbe invece forse apprezzato, per ragioni teoriche più che pratiche, ma che è risultata (giocoforza) assorbita per l’accoglimento delle questioni costituzionali relative agli artt. 2, 3, 19 Cost. Mi riferisco a quel passaggio dell’ordinanza di rimessione in cui si rilevava che la norma regionale impugnata violerebbe anche l’art. 97 Cost. in quanto la mancata previsione di tempi certi di risposta all’istanza dei fedeli, da un lato, contrasterebbe con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa e, dall’altro lato, esprimerebbe «uno sfavore dell’Amministrazione nei confronti del fenomeno religioso», con conseguente violazione del principio di imparzialità dell’azione amministrativa. Inoltre, la mancata previsione di tempi certi violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto la predeterminazione della durata massima dei procedimenti atterrebbe ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili, in base all’art. 29 della legge n. 241 del 1990.
Sarebbe stata molto interessante una pronuncia della Consulta anche su tali sollecitazioni del Tar Lombardia, non solo perché la redattrice è come detto una insigne amministrativista, ma anche per il modo arguto con cui i giudici amministrativi lombardi hanno saputo maneggiare il doppio volto dell’art. 97 (buona andamento/imparzialità), principi troppo spesso declinati in potenziale antitesi (si pensi al dibattito sui rapporti fra efficienza e garanzie procedimentali).
Ma tant’è: la sentenza n. 254/2019 ci invita pure a superare gli steccati disciplinari e a ragionare da giuspubblicisti a tutto tondo, come succede da tempo in altre gloriose tradizioni continentali (su tutte quella tedesca).
E ci fa ben sperare per il futuro, se, la stessa autorevole redattrice della sentenza n. 63/2016, appena insediatasi Presidente della Corte costituzionale, oltre alle meritorie (e più note) dichiarazioni sull’incompiuto cammino della donna nelle cariche pubbliche, nel riferirsi alle matrici culturali dei componenti della Corte, ha dichiarato: «Tutti noi abbiamo una formazione, chi cattolica, chi laica, chi politicamente di destra e chi di sinistra, di uomo o di donna, di una generazione o dell’altra. E quando entriamo in camera di consiglio ogni giudice porta con sé il proprio vissuto, la propria esperienza, le proprie idee. Tutto questo è una ricchezza, non un problema, per la Corte di uno Stato laico che esprime una “laicità positiva”, come scritto in una recente sentenza: non indifferente ma equidistante dalle religioni, per tutelare un valore riconosciuto a tutti» (Il Corriere della sera, 12 dicembre 2019, p. 9).
Inutile dire, a questo punto, che la sentenza cui si fa riferimento è proprio la n. 254/2019.
di Andrea Apollonio
In questi giorni la Sicilia giudiziaria è in fermento. A Caltanissetta è in corso il processo sui depistaggi avvenuti all'indomani della strage palermitana di via d'Amelio, in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino; inchiesta nell'ambito della quale, a quanto se ne sa, è stato aperto un fascicolo a Messina, competente a valutare le ipotesi di reato a carico di magistrati in servizio a Catania. Perché su quella strage ancora non è stata fatta piena luce, al contrario: la sentenza della Corte d'Assise nissena nel "Borsellino-quater" (giudizio su quei fatti arrivato non per caso alla quarta puntata) parla del "più grande depistaggio della storia d'Italia": le indagini sulle bombe furono sviate fin da subito, anche per mezzo di "falsi" pentiti, forse imbeccati ad arte da uomini dello Stato, tanto da produrre numerose, ingiuste condanne all'ergastolo per quei fatti. Ancora un depistaggio accertato e conclamato; l'ennesimo.
Assume quindi un significato tutt'altro che retorico l'esortazione rivolta qualche giorno fa, su questa Rivista, da Giovanni Tamburino (che negli anni Settanta indagò efficacemente e pericolosamente sui servizi segreti deviati) alle nuove leve di magistrati affinché, nelle proprie indagini e nelle proprie decisioni, si ricerchi la verità lontano da ogni condizionamento esterno, sempre e comunque, "verità della quale siamo semplice strumento".
Una parte di quei colleghi a cui Tamburino si rivolgeva - tra cui chi scrive - è nata nell'anno in cui Dario Fo riusciva finalmente a portare sugli schermi televisivi il suo spettacolo teatrale "Morte accidentale di un anarchico", messo in scena quasi clandestinamente diciassette anni prima, nel dicembre 1970, e fin da subito osteggiato da Questure, Prefetture, Procure e Tribunali d'Italia (la piéce generò decine di processi per diffamazione in giro per il Paese). L'avvenimento da cui nasceva lo spettacolo, infatti, era tanto noto quanto scomodo per tutti: la morte dell'anarchico Pinelli - occorsa il 16 dicembre 1969 - precipitato dal quarto piano della Questura di Milano, a pochi giorni dalla strage di piazza Fontana: dai poliziotti dell'ufficio politico era considerato - a torto - uno dei possibili artefici dell'atto. Cosicché, per l'inesorabile legge del tempo calendarizzato, qualche giorno fa, anche su questa Rivista, si è celebrato l'anniversario della madre di tutte le stragi italiane; mentre oggi occorre evocare quell'episodio che è forse la genesi di tutti i depistaggi italiani, che sono tanti, troppi.
"Morte accidentale di un anarchico" è il tipico testo del Fo politico, in cui farsa e satira si intrecciano strettamente alla realtà politica e sociale, ed è forse il più grande capolavoro di un Maestro che all'epoca, raggiungendo il culmine della maturità artistica, intercettò la sconvolgente realtà che stava gradatamente emergendo, proprio in quegli anni e dopo una lunga parentesi di silenzi e omissioni: le numerose deposizioni reticenti, i falsi verbali, i referti insabbiati, le versioni costruite a tavolino, che permettessero di scagionare coloro che la notte di cinquant'anni fa interrogavano con fare energico l'anarchico Pinelli; che poi, senza un grido, precipitava dalla finestra di quegli uffici. Ed è paradossale che (come ricorda Fo al suo "nuovo" pubblico televisivo; il video è reperibile su YouTube) le indagini su quell'evento e su quei depistaggi rimasero di fatto insabbiate dall'uccisione del commissario Calabresi, che quell'interrogatorio conduceva: vicenda che molti ritengono ancora oscura, nonostante le note - ma molto controverse - condanne di Sofri e di altri esponenti di Lotta Continua, intervenute negli anni Novanta; condanne, anche queste, che per molti sarebbero il frutto di (altri) depistaggi, dell'operato di (altri) falsi pentiti.
Il Giullare insomma, in quel lontano 1987, stava recitando riferendosi a quanto già accaduto, e, senza saperlo ma certo immaginandolo, a quello che sarebbe accaduto da lì a poco: a tutte le controverse vicende giudiziarie che avrebbero intessuto - avvelenandola - la storia d'Italia. "Morte accidentale di un anarchico" è quindi l'inconsapevole (o consapevole?) messa in scena di un metodo tutto italiano di "fare" verità, che a ben vedere non poteva trovare un aedo migliore, che ha vinto il Nobel della letteratura per "avere, nella tradizione dei giullari medievali, fustigato il potere", precisando poi Stoccolma: "Se c'è qualcuno che merita l'epiteto di giullare nella vera accezione del termine, questi è lui". E quanto (amaramente) divertente è, godersi sul palco questi attori-funzionari che, con fare impacciato al limite del grottesco, cercano di far coincidere i loro verbali, ingraziandosi all'italiana il magistrato di turno, il superiore di turno, perché è sempre, ed è sempre stato, "tutto a posto"; e se qualcosa è accaduto, lo è stato per disgrazia, per fatalità: per qualcosa che non si poteva sapere, o prevedere: a Milano, a Caltanissetta, passando per Roma e per molti altri luoghi di "costruzione" - o sarebbe meglio dire: "accertamento" - dei fatti. Queste ricorrenze, questi ritorni non accidentali, ed i modi letterari e non con cui sono evocati e consegnati al presente (in ciò, questa Rivista, assieme ad altre, fa il suo bel dovere), devono aiutarci a far leva sulla memoria, affinché la ricerca incondizionata della verità non sia soppiantata da altri fini; da una tutela ad ogni costo dello Stato e delle sue articolazioni, per intenderci. Anche perché, la verità, presto o tardi, trova sempre i suoi canali di sfogo: che siano leali pubblici ministeri, che siano buoni giudici; che siano i Giullari del nostro tempo
Intervista di Paola Filippi a Carlo Smuraglia
Sommario: 1. La scelta dell’intervista.- 2 le domande. – 3. Le risposte. – Le conclusioni.
1. La scelta dell’Intervista.
La notte tra il 15 e 16 dicembre del 1969 Giuseppe Pinelli morì precipitando dalla finestra della questura di Milano. Era stato fermato il 12 dicembre del 1969, poche ore dopo l’esplosione della bomba a piazza Fontana e portato lì dove sarebbe morto.
Sono passati cinquant’anni e non si conosce la dinamica della caduta o meglio chi la cagionò. La morte di Giuseppe Pinelli è ancora la Morte accidentale di un anarchico, come la scrisse Dario Fo, senza verità.
Nessuno si è pentito, nessuno ha parlato, nessuno dopo 10 anni, 30 anni o ora dopo 50 anni, ha pensato: è ora di confessare.
Il Presidente Napolitano – come ci ricorderà Carlo Smuraglia – ha detto che Giuseppe Pinelli è stato vittima due volte, “prima di pesantissimi e infondati sospetti, poi di un’ improvvisa, assurda, fine”.
Ma Giuseppe Pinelli non è vittima due volte bensì tre volte, è stato leso anche il diritto di verità nella dimensione plurale in cui tale valore si declina: quello immortale di Pinelli e dei suoi familiari ed anche quello collettivo della società civile, al cui interno viene sempre più emergendo un’esigenza diffusa alla conoscenza di fatti che costituiscono parte delle ragioni di identità dello Stato.
Con l’intervista a Carlo Smuraglia, professore e avvocato, consigliere del Csm nel quadriennio 1986-1990, senatore della Repubblica, difensore di parte civile della famiglia Pinelli, Giustizia Insieme oggi vuole rendere onore e ricordare Giuseppe Pinelli.
L’omicidio impunito di Giuseppe Pinelli di cinquant’anni fa offre un altro spunto di riflessione - dopo l’intervista a Giovanni Tamburino alla quale l’intervista di Carlo Smuraglia come vedrete si collega - sulla funzione giurisdizionale, sull’indipendenza, sul rispetto della dignità umana e dell’habeas corpus.
La responsabilità di tutti gli operatori di giustizia verso il diritto alla verità.
Carlo Smuraglia, come leggerete, ci introduce con sapienti tratti descrittivi, all’Italia degli anni settanta in uno scenario apparentemente molto diverso dall’attuale. Ma il monito, attraverso il cenno ai fatti di Genova del 2011 e al caso Cucchi, richiama al realismo: quanto è accaduto può ripetersi.
1. Le domande
1. Gentilissimo Prof. Carlo Smuraglia, lei è stato avvocato di parte civile nel procedimento penale aperto a seguito della morte di Giuseppe Pinelli, avvenuta la notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969. Vorremmo far conoscere ai lettori di Giustizia Insieme e dalla sua voce i particolari di quella vicenda, ancora oscura dopo cinquant’anni. Cosa si ricorda di quell’incarico, da chi lo ricevette e quando, quanto durò il procedimento, quali furono le indagini e se, secondo lei, ci fu un momento in cui, nel corso delle indagini, i magistrati furono vicini alla verità?
2. Quanto segnò la sua attività professionale l’essere stato l’avvocato di parte civile di Giuseppe Pinelli?
3. Quali sono le persone che nell’ambito di quel procedimento hanno inciso di più sulla sua memoria in positivo e quali quelle che hanno inciso in negativo?
4. Nel corso della sua carriera ha frequentato molti magistrati italiani, li ha visti lavorare e ha lavorato a fianco a loro, quali furono le difficoltà che secondo lei incontrò l’autorità giudiziaria italiana?
5. Dalla fine degli anni sessanta ad oggi come è cambiata la magistratura in termini di indipendenza?
6. Ci sono stati episodi analoghi al malore attivo di Giuseppe Pinelli?
7. Potrebbe accadere ancora quello che accadde il 16 dicembre 1969?
8. Cosa pensa della ricorrente proposta di separare la magistratura requirente dalla magistratura giudicante, come potrebbe influire sul giusto processo? In che modo lo può essere anche per la parte civile?
3. Le risposte
Gentilissimo prof. Carlo Smuraglia lei è stato avvocato di parte civile nel procedimento penale aperto a seguito della morte di Giuseppe Pinelli, avvenuta la notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, vorremmo far conoscere ai lettori di Giustizia Insieme e dalla sua voce i particolari di quella vicenda, ancora oscura dopo cinquant’anni. Cosa si ricorda di quell’incarico, da chi lo ricevette e quando, quanto durò il procedimento, quali furono le indagine e se, secondo lei, ci fu un momento in cui nel corso delle indagini i magistrati furono vicino alla verità?
Carlo Smuraglia: alla prima domanda rispondo – come in altri casi simili - richiamandomi a quanto ho scritto in un mio piccolo libro del 2018 (“Con la Costituzione nel cuore “, edizioni del Gruppo Abele), in particolare alle pagine 106 – 107 (che allego, per comodità). Aggiungerei: L’estraneità totale, rispetto ai fatti, di Giuseppe Pinelli fu ampiamente riconosciuta dalla sentenza istruttoria redatta dal dott. D’Ambrosio, ma - in più - alcuni anni dopo dal Presidente della Repubblica Napolitano, in occasione di una giornata della memoria (9 maggio 2009), che non solo restituì completamente la piena dignità a Giuseppe Pinelli, confermando la sua totale estraneità rispetto ai fatti, ma lo definì come “innocente, vittima due volte, prima di pesantissimi e infondati sospetti, poi di un’ improvvisa, assurda, fine”
Quello per la morte di Giuseppe Pinelli fu un processo di grande delicatezza, anche per le sue implicazioni politiche. Lo seguii dall'inizio per conto della vedova e delle figlie, allora bambine. Pinelli era morto, tre giorni dopo la strage di piazza Fontana, precipitando da una finestra della Questura dove era stato illegittimamente trattenuto e interrogato. Le prime indagini si conclusero rapidamente con un decreto di archiviazione: furono indagini frettolose e lacunose. C'era una gran fretta di chiudere la vicenda perché, sul versante istituzionale, tornava comodo a molti sostenere che si era trattato di un suicidio, sia per confermare la matrice anarchica della strage e la responsabilità di Pietro Valpreda (allora in carcere) sia per salvaguardare l'operato della polizia. Il Questore di Milano — dopo la morte di Pinelli — se ne uscì con una frase diventata famosa: «Apprezzavo molto Pinelli. Era un cavaliere dell'ideale e quando gli abbiamo detto che Valpreda aveva confessato, ha gridato: "per l'anarchia è finita" e si è buttato dalla finestra». Una cosa davvero vergognosa. Ma in quel contesto anche una parte della magistratura non colse la gravità dell'accaduto, tant'è che le indagini si conclusero rapidamente.
A quel punto la vedova Pinelli, consigliata dagli amici che la sostenevano, si rivolse a me e ad alcuni altri avvocati per ottenere la riapertura dell'istruttoria e per costituirsi nel processo come parte civile. Decidemmo di rivolgerci alla Procura generale di Milano, retta da un magistrato di grandissimo prestigio, Luigi Bianchi d'Espinosa, noto negli ambienti culturali e politici come democratico, liberale e grande giurista. La vedova Pinelli presentò una denuncia per omicidio nei confronti degli agenti e dei funzionari presenti nella stanza della Questura durante l'interrogatorio del marito, o vicini, come il commissario Luigi Calabresi. Accadde allora una cosa grave e anomala: il difensore degli imputati mi denunciò per calunnia. La cosa era insidiosa e mirava a bloccare il processo. Peraltro, la vedova Pinelli — sentita dai magistrati — si assunse la responsabilità diretta del contenuto della denuncia, dichiarando che io mi ero limitato a fornirle consigli sul piano strettamente giuridico e confermando in pieno la sua volontà che i colpevoli fossero puniti. Ciononostante, rimasi, per ben due anni, nel processo come imputato, prima di uscirne totalmente prosciolto.
Il clima fuori dal tribunale era molto pesante. La vicenda di questo anarchico caduto da una finestra della Questura suscitò subito interesse, passioni e aspre polemiche. Camilla Cederna, giornalista e inviata de L 'Espresso, fu tra i primi, insieme a Corrado Stajano, ad accorrere in Questura quando si diffuse la notizia della morte di Pinelli. Da allora, pur essendosi fino a quel giorno occupata di tutt'altro, si impegnò in prima persona, promosse e partecipò a eventi su quel tema di grande risonanza. Ci furono tantissimi dibattiti pubblici, ci fu lo spettacolo teatrale di Diario Fo, si impegnò gran parte del mondo della cultura: una parte della stampa capi’, infine, che bisognava fare chiarezza.
Titolare del processo era nel frattempo diventato il giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio. Su nostra richiesta venne disposta la riesumazione del cadavere di Pinelli ma, purtroppo, era ormai passato troppo tempo e non fu possibile acquisire elementi utili a chiarire la dinamica dei fatti. Si fecero anche molte prove per stabilire, in base alla traiettoria della caduta, se questa fosse propria di un corpo inerte oppure se si potesse ipotizzare una spinta. Purtroppo, gli esperimenti non produssero risultati significativi, anche perché poco sotto la finestra c'era un cornicione e ciò rendeva possibile che il corpo di Pinelli non fosse caduto direttamente al suolo ma fosse rimbalzato dopo averlo urtato. Un esperto consulente costruì — su nostra richiesta — un manichino del peso e delle dimensioni di Pinelli, che fu gettato dalla finestra e rimbalzò sul cornicione prima di precipitare al suolo, rendendo impossibile una conclusione tecnicamente valida. Si fecero anche delle simulazioni con un tuffatore che cadeva da un trampolino in una piscina. Si compirono, cioè in questa seconda fase, molti sforzi per giungere alla verità, ma non ci si riuscì e il processo si concluse con un proscioglimento generale.
Quanto segnò la sua attività professionale l’essere stato l’avvocato di parte civile di Giuseppe Pinelli?
Carlo Smuraglia: la vicenda “Pinelli” ha segnato profondamente la mia vita professionale, per essere stato testimone di una grave tragedia e di una ingiustizia, ma anche la mia vita personale, perché ho conosciuto e frequentato una persona di estrema dignità come Licia Pinelli e le sue figlie coraggiose, Silvia e Claudia, ed anche perché ho visto e seguito di persona il lavoro di un gruppo di giornalisti seri ed indipendenti, che, a partire dalla tragica notizia, fecero di tutto per raggiungere la verità e per informare i cittadini, trovandosi, non di rado, contro corrente.
Sono cose che non si dimenticano ed incitano ad essere ancora più rigorosi nella vita, nella professione e nella politica. Insomma, ne sono uscito “diverso” e certamente non in senso peggiorativo. Si è alimentata ulteriormente la mia convinzione di sempre, che un buon avvocato deve credere in quello che fa e comportarsi sempre secondo coscienza, a qualunque costo.
Quali sono le persone che nell’ambito di quel procedimento hanno inciso di più sulla sua memoria in positivo e quali quelle che hanno inciso in negativo?
In qualche modo, ho già risposto: sulle esperienze e frequentazioni devo aggiungere anche il mio fortissimo apprezzamento per diverse persone che hanno aiutato Licia e le figlie a sopravvivere a tanto dolore, offrendo un’amicizia e un sostegno incomparabili.
Ho valutato negativamente, invece, il comportamento di tutti coloro che non cercarono la verità, ed anzi tentarono di ostacolarla o comunque si comportarono in modo disumano. Ricordo fra l’altro, il Tribunale civile, che respinse la domanda legittima di risarcimento di Licia Pinelli, fondata sul semplice principio di affidamento (un uomo non può entrare vivo in un palazzo delle istituzioni ed uscirne praticamente senza vita), e addirittura la condannò alle “spese di giustizia”.
Nel corso della sua carriera ha frequentato molti magistrati italiani li ha visti lavorare e ha lavorato a fianco a loro, quali furono le difficoltà che secondo lei incontrò l’autorità giudiziaria italiana?
Carlo Smuraglia: le difficoltà per l’accertamento della verità furono rappresentate dal tentativo di chiudere rapidamente una vicenda “scottante”, lasciando sospetti e dubbi sulla stessa condotta di Pinelli, per lungo tempo. Ma il “potere” politico aveva deciso che la colpa doveva essere degli anarchici e questo prevalse su tutto, fino a quando, in vari momenti e in varie forme, si è potuto stabilire che in Piazza Fontana c’era stata una strage voluta e messa in atto dai fascisti e “tollerata” da una parte delle stesse istituzioni. Naturalmente questo giudizio negativo non coinvolge tutti quei Magistrati del Veneto e di Milano, che fecero il possibile per stabilire ed acquisire la verità sulla strage e sulla morte di Pinelli.
Dalla fine degli anni sessanta ad oggi come è cambiata la magistratura in termini di indipendenza?
Carlo Smuraglia: Non vorrei fare confronti. A me sembra che, nel complesso, la Magistratura abbia oggi un livello notevole di indipendenza, comunque da conservare ed irrobustire, nell’interesse della collettività. Peraltro io, che sono profondamente interessato non solo alla giurisdizione, ma anche e soprattutto alla “cultura” della giurisdizione, penso che occorra lavorare ancora di più per ottenere il massimo dell’indipendenza “interiore” del Magistrato. Questo richiede una particolare cultura e una particolare formazione, sulle quali penso che dovrebbe svolgere ancora più intensamente il suo ruolo la Scuola Superiore della Magistratura.
Sono inoltre convinto che non sempre la “cultura della giurisdizione”, nel senso più ampio e completo, riesce ad affermarsi, anche e soprattutto nelle nuove leve. Occorre sempre una piena consapevolezza della importanza, delicatezza e responsabilità del Magistrato, evitando ogni forma di alterigia, che poi finisce per allontanare il cittadino, anziché avvicinarlo alla giustizia.
Ci sono stati episodi analoghi al malore attivo di Giuseppe Pinelli?
Carlo Smuraglia: mi risulta che ci siano stati in altre epoche e in altri Paesi, episodi di persone “cadute” dalle finestre dei palazzi delle istituzioni, ma non conosco esattamente i casi in questione. Quanto al “malore” (l’aggettivo “attivo” non è nella sentenza, ma è frutto di successive semplificazioni), si trattò solo di un’ipotesi, priva di qualsiasi rilevanza giuridica, formulata da un Giudice Istruttore, peraltro noto per la sua preparazione e la sua indipendenza. Fu solo un ragionamento (superfluo) per indicare la possibile soluzione di un caso per il quale non erano emerse prove concrete di responsabilità e non era possibile ipotizzare un suicidio. Un tentativo di spiegazione, che peraltro suscitò molti malumori e accuse che ritengo infondate. Insomma, D’Ambrosio avrebbe forse fatto meglio a non prospettarla in un provvedimento, ma si può capire anche l’intima difficoltà di un Magistrato che si senta impotente a “spiegare” le ragioni di un evento così tragico.
Potrebbe accadere ancora quello che accadde il 16 dicembre 1969?
Carlo Smuraglia: Per escludere ogni rischio, bisogna che le istituzioni, ad ogni livello, si ispirino in modo profondo, coerente e senza incertezze, alla sostanza della democrazia, che implica rispetto per la persona e per la dignità, oltre che per la vita. Le vicende di Genova del 2011 – sotto questo profilo – preoccupano, perché oggi non dovrebbero essere concepibili comportamenti che la Corte europea di diritti ha definito come torture. E lo stesso va detto per il caso Cucchi. E’ necessario che la democrazia venga vissuta come il fondamento della convivenza civile, nel pieno rispetto della persona, in ogni momento e sotto qualunque profilo. In questo senso, si sono fatti certamente dei passi in avanti, ma la nostra democrazia ha ancora bisogno di penetrare più a fondo nelle istituzioni. Altrimenti, tutto è possibile, anche se dovremmo ormai considerarci vaccinati, dopo un dopoguerra come quello che abbiamo vissuto (stragi, tentativi di golpe, terrorismo, abusi d’autorità, ecc.).
Cosa pensa della ricorrente proposta di separare la magistratura requirente dalla magistratura giudicante, come potrebbe influire sul giusto processo? In che modo lo può essere anche per la parte civile?
Carlo Smuraglia: sono nettamente contrario alla separazione delle carriere. Il Pubblico Ministero deve restare all’interno del sistema processuale al pari degli altri Magistrati, perché l’unitarietà della giurisdizione - quale che sia il ruolo dei suoi componenti - deve essere sempre garantita, nell’interesse e in nome del popolo. Il rischio, separando, è quello di “asservire” il Pubblico Ministero all’esecutivo o quanto meno, di avvicinarlo troppo ad esso, a scapito dell’indipendenza
4. Conclusioni
Carlo Smuraglia è stato uno dei protagonisti positivi di questa storia, uno di coloro che non si sono mai arresi.
Come Davide davanti a Golia, l'avvocato Smuraglia davanti a questo delitto ad opera di ignoti in un palazzo dello stato, non ha piegato il capo.
Un avvocato, processato per calunnia, che non ha esitato ad agire secondo coscienza davanti alla tragica ingiustizia di quel fine anno del 1969, i cui semi infetti hanno avvelenato la storia successiva del nostro paese con altre vittime illustri.
Le sue parole sollecitano più di quanto ci saremmo aspettati, non la rabbia, ma l’equilibrata riflessione sulle cause, i rischi che vicende analoghe si ripetano, la necessità di predisporre strumenti di difesa.
Per la polizia giudiziaria, per l’avvocato e per il magistrato la soluzione è nel rispetto e nell’ascolto.
Carlo Smuraglia, in perfetta consonanza con lo spirito di Giustizia Insieme, si è rivolto agli avvocati ricordando loro che un buon avvocato deve credere in quello che fa e comportarsi sempre secondo coscienza, ai magistrati, per i quali richiama l’essenzialità della “cultura” della giurisdizione, per arrivare alla massima espansione dell’indipendenza “interiore” del Magistrato.
Attento alla cultura della giurisdizione segnala quanto è importante che il Pubblico Ministero resti all’interno del sistema processuale al pari degli altri Magistrati, perché l’unitarietà della giurisdizione - quale che sia il ruolo dei suoi componenti - deve essere sempre garantita, nell’interesse e in nome del popolo e il tragico delitto Pinelli è una buona occasione per ricordarlo.
[In ricordo di Carlo Smuraglia, 12 agosto 1923 - 30 maggio 2022, ripubblichiamo l’intervista del 19 dicembre 2019 il 31 maggio 2022.]
L’azione umana è veramente libera? I dubbi delle neuroscienze
Santo Di Nuovo
La nozione di responsabilità in ambito giuridico si fonda sull’assunto che l’azione umana sia libera e consapevole, e quindi la trasgressione ‘volontaria’ delle norme possa e debba essere punita.
La definizione di “free will” comporta la possibilità che la persona, nel compiere un certo atto, possa scegliere fra opzioni diverse senza che alcune di esse si impongano come costrittive per ragioni diverse dalla decisione consapevole; ma gli approcci empirici a questa definizione teorica non sono semplici né facili.
Le neuroscienze, avvalendosi di esami basati sulle tecniche di brain imaging, hanno approfondito i meccanismi cerebrali che fondano le decisioni coscienti rispetto agli atti da compiere. Anche se le motivazioni all’azione possono originarsi in diverse aree corticali e sottocorticali, l’elaborazione dell’atto volitivo finale è compito specifico della corteccia prefrontale. Sono state individuate altre aree corticali (alcune parti del lobo temporale e parietale) la cui attivazione è associata all’esperienza soggettiva di essere l’autore della specifica azione, definita “senso di agenticità (agency)”. Questo funzionamento consente all’autore di un atto di attribuirsene la responsabilità; e su questa base può essere imputato e punito per l’atto consapevolmente commesso.
Ma ci sono anche prove sperimentali di possibili perturbazioni di questo modello di ‘agenticità’. Libet in uno studio risalente a oltre trent’anni fa dimostrò che il cervello di un soggetto chiamato a compiere un movimento volontario mostra un'attività specifica e riconoscibile già diversi millisecondi (fra 300 e 500, che equivale a mezzo secondo) prima che la decisione diventi cosciente. Questo “potenziale di preparazione motoria” (Readiness potential), evidenziabile con le strumentazioni di imaging cerebrale, dimostra che il cervello comincia ad agire prima che la persona ne sia consapevole a livello cosciente.
L’atto della volizione coinvolge una serie di processi differenziati tra loro che rendono possibile la risposta motoria (quindi l’atto con conseguenze esterne), con diversi passaggi del “decision-making” che partirebbero da una base non cosciente (hidden or covert intention), che prepara il soggetto alla volontà di compiere l’atto motorio. La struttura maggiormente coinvolta in questa fase preliminare è la l’area corticale prefrontale.
L’applicazione all’ambito giudiziario di queste conclusioni neuroscientifiche sarebbe dirompente sia sul piano di principio che su quello pratico: si può essere considerati responsabili per azioni della cui ‘colpevolezza’ non ci si rende conto, perché il cervello agisce prima ancora che si attivi la volontà cosciente? Se la consapevolezza entra in gioco dopo dell’innesco della azione, si può essere condannati per questo? Si potrebbe arrivare su questa base a conclusioni drastiche, come la negazione di qualsiasi ruolo causale della coscienza e del libero arbitrio.
Questa conclusione è stata però contestata da chi ritiene che il paradigma sperimentale utilizzato da Libet in realtà non è generalizzabile a tutte le azioni che la persona realizza nella vita quotidiana. È stato fatto rilevare che nelle decisioni complesse l’area cerebrale in questione non è la prima ad attivarsi ma è preceduta da una codifica del compito da svolgere; inoltre, il tempo percepito è una costruzione mentale non sempre aderente alla realtà. Nell’esperienza cosciente quasi tutte le aree cerebrali sono simultaneamente connesse: da questo network di aree attive e sincronizzate derivano le decisioni coscienti che sono oggetto delle decisioni giudiziarie sulla responsabilità. I fenomeni studiati da Libet, e da chi segue il suo approccio neuro-determinista, sono in genere molto semplici e limitati nel tempo; ben altra dimensione di complessità e durata temporale hanno le azioni criminali per valutare le quali il metodo neuroscientifico proposto risulta insufficiente.
All’interno di questa complessa rete di funzionamento cerebrale, si parla di “attivazione preparatoria inconscia”, secondo il modello definito Default Mode Network, che considera “il cervello a riposo”, cioè in assenza di stimoli esterni o di compiti specifici da eseguire, eppure dotato di una ‘energia oscura’ che attiva il funzionamento dell’organismo anche se in modo non consapevole. Questa attivazione è influenzata da input sia esterni, come gli stimoli sensoriali, sia interni (attenzione, memoria, emozioni) e piuttosto che rappresentare un limite alla volontà libera del soggetto, potrebbe anzi costituire un meccanismo di facilitazione di base al fine di assicurare un adeguato compimento dell’atto di volizione, anche quando esso è inizialmente innescato in modo involontario.
È stato ribadito che il modello psicologico ‘popolare’ della persona e la responsabilità non viene sostanzialmente messo in discussione dal neuro-determinismo. Fino a quando non sarà dimostrato in modo conclusivo che gli esseri umani non possono essere guidati dalla propria ragione, e che gli stati mentali non hanno un ruolo nello spiegare il comportamento, il modello psicologico di responsabilità finora seguito (ed applicato in campo giudiziario) è giustificato.
I tentativi di esplorare la effettiva ‘volontà’ del soggetto in azione mediante mezzi di indagine cerebrali risultano finora riduttivi della complessità del problema del “libero arbitrio” e delle sue ricadute sul piano dell’accertamento giudiziario della responsabilità. Si auspica che un progresso nella metodologia dei disegni di ricerca e un affinamento delle tecniche usate possa chiarire meglio cosa è volontario e cosa può non esserlo nel comportamento umano giuridicamente rilevante.
Riferimenti per approfondimenti:
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