ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il nuovo minimo edittale per il reato di cui all'art. 73 DPR n. 309/1990 e legalità della pena
di Manuela Fasolato
A seguito della recente sentenza della Corte costituzionale n. 40/2019 che ha dichiarato sproporzionata la pena minima di otto anni prevista per i reati non lievi in materia di stupefacenti per droghe c.d. pesanti dichiarando illegittimo l’articolo 73, primo comma, del Testo unico sugli stupefacenti (d.P.R. n. 309 del 1990) là dove prevede come pena minima edittale la reclusione di otto anni invece che di sei, l’organo requirente in sede esecutiva si pone in prima battuta la doverosa riflessione in ordine alla regolarità e attuale legittimità degli ordini di esecuzione emessi nei casi in cui la condanna è basata sulla pena base del 73 comma 1 di 8 anni di reclusione, dopo la sentenza Corte costituzionale del 2014. Si ritiene che ci si debba determinare come uffici requirenti nel senso di acquisire tutti i procedimenti di esecuzione per art.73 comma 1 DPR 309 /90 e vedere quelli che erano partiti da pena base di otto anni per il calcolo della pena.
Leggendo le sentenze relative in punto calcolo pena, si ritiene sia da avanzare istanza motivata al GE competente per operare una rimodulazione pena richiamando la giurisprudenza di legittimità sul punto delle competenze del GE nella rimodulazione pena in caso di declaratoria di incostituzionalità e sul fatto che la situazione è da ritenersi non esaurita dato che lo stato di esecuzione penale è suscettibile di modifiche.
La richiesta al GE dovrebbe essere avanzata per tutte le sentenze – sia quelle che erano partite come pena base da 8 anni, sia quelle che ad esempio partono da pena superiore, giacchè anche in questo caso è evidente chela pena è così individuata partendo comunque dalla cornice edittale minima di 8 anni e quindi da cornice illegale.
Nei casi in cui pacificamente si sarebbe andati a 4 anni pena finale qualora la pena base fosse stata di 6 , si ritiene debba andare verificato la sussistenza comunque al momento del giudicato di cause ostative di emissione di ordine di esecuzione sospeso, ad esempio soggetti in custodia cautelare ; oppure se vi erano soggetti agli arresti domiciliari che proseguivano con tale regime.
In caso non vi fossero cause ostative al momento del giudicato, si dovrebbe emettere ordine di scarcerazione provvisorio in attesa della decisione del GE..
Andrebbe valutata anche la situazione di soggetti tossicodipendenti con programma recupero in corso che avrebbero potuto avere misura alternativa se condannati a pena non superiore a sei anni.
Sarà da vedere se prevarrà l'orientamento, che allo stato mi pare sia stato il più seguito e che ho condiviso, secondo cui le Procure si dovrebbero muovere d'ufficio in sede di esecuzione per richiamare e rivedere prima di tutto quantomeno gli ordini di esecuzione in carcere senza sospensione per sentenze di condanna per stupefacenti per art. 73 comma 1 droghe pesanti e che sono partite nel calcolo da pena base di otto anni. Se si segue l'orientamento espresso da alcuni uffici requirenti (es parere in questo senso in recente passato di Avv Gen Napoli su applicazione d'ufficio del limite di 4 anni per sospensione pena ordini di esecuzione già emessi quando il limite era 3 anni, senza attendere istanza interessato) sul fatto che il giudicato non può intendersi esaurito e coprire situazioni in itinere come è lo stato di esecuzione pena di un soggetto in carcere, si dovrebbe mettere mano autonomamente quantomeno a tutti gli ordini di esecuzione non sospesi per incidere prima su quelli e poi anche a quelli sospesi in attesa di misure alternative alla pena che sono basati su calcolo pena che parte da 8 anni.
Le pene accessorie della bancarotta fraudolenta: le S.U aprono nuovi scenari del procedimento di esecuzione?
di Paola Cervo
Con sentenza depositata in data 5 dicembre 2018, n. 222/2018, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziché: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni».
Sommario: 1. L’antefatto - 2. Proporzionalità e pene accessorie - 3. Gli effetti della sentenza 222/2018. Le prime pronunce della Corte di Cassazione - 4.La remissione alle Sezioni Unite. - 5. Le ricadute pratiche in sede esecutiva. La posizione di Cass. Sez. Un. n. 6240/2014 - 6. La decisione delle Sezioni Unite del 28.2.2019, ric. Suraci. Quali ricadute?
1. L’antefatto. La sentenza in questione trova il proprio diretto antecedente nella sentenza C. Cost. 10 novembre 2016 n. 236 , emessa nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 567 co. 2 c.p., sentenza cui del resto la motivazione della decisione 222/2018 opera ripetuti e consapevoli richiami. Con il citato precedente del 2016, dunque, la Corte Costituzionale superava un proprio precedente negativo (ord. 106/2007) ed individuava la proporzionalità della pena come limite alla discrezionalità delle scelte legislative, dichiarando illegittimo, per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., il severo quadro edittale (reclusione da cinque a quindici anni) previsto per il delitto di cui all’art. 567, secondo comma, c.p., che incrimina l’alterazione dello stato civile di un neonato realizzato mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità; quadro edittale cui, per effetto della sentenza qui in esame, è stato sostituito quello più mite previsto dallo stesso art. 567 primo comma (reclusione da tre a dieci anni).
Si tratta di una decisione imprescindibile perché l’accoglimento della questione di costituzionalità non nasceva dalla disparità di trattamento tra la disposizione censurata e altra disposizione assunta come tertium comparationis, quanto piuttosto dal riconoscimento della irragionevolezza intrinseca del trattamento sanzionatorio previsto dalla disposizione oggetto di scrutinio. Viene riconosciuto che la cornice edittale della pena prevista per la norma censurata è manifestamente sproporzionata rispetto al reale disvalore della condotta punita, alla luce del principio della funzione rieducativa della pena e – in generale – dell’esigenza di proporzionalità del sacrificio dei diritti fondamentali cagionata dalla pena rispetto all’importanza del fine perseguito attraverso l’incriminazione.
Tanto precisato sul piano concettuale, la Corte analizza poi il tema che più interessava al remittente: con quale pena punire? E’ passaggio delicato, si potrebbe sconfinare da un momento all’altro nel potere legislativo e nella discrezionalità politica che insindacabilmente consegnata al legislatore. Ma la Corte Costituzionale può intervenire, in materia di proporzionalità della pena, soltanto allorché la dichiarazione di illegittimità di un dato quadro edittale comporti la sua sostituzione, idealmente “a rime obbligate”, con altro quadro edittale già operante nell’ordinamento per fattispecie di disvalore comparabile; giacché «obiettivo del controllo sulla manifesta irragionevolezza delle scelte sanzionatorie non è alterare le opzioni discrezionali del legislatore, ma ricondurre a coerenza le scelte già delineate a tutela di un determinato bene giuridico, procedendo puntualmente, ove possibile, all’eliminazione di ingiustificabili incongruenze».
Il quadro edittale previsto dal primo comma dell’art. 567 c.p. (reclusione da tre a dieci anni) sembra allora il più adeguato a sostituirsi a quello dichiarato illegittimo, consentendo alla Corte – testualmente – di non «sovrapporre, dall’esterno, una dosimetria sanzionatoria eterogenea rispetto alle scelte legislative», ma di giudicare «”per linee interne”», «entro il perimetro conchiuso del medesimo articolo», «la coerenza e la proporzionalità delle sanzioni rispettivamente attribuite dal legislatore a ciascuna delle due fattispecie di cui si compone il reato di alternazione di stato». La Corte riconosce, invero, che le due fattispecie non sono identiche, né possiedono il medesimo disvalore, potendo anzi non implausibilmente argomentarsi, come fa l’ordinanza di rimessione, che i fatti previsti dal primo comma (sostituzione di neonato) siano addirittura più gravi, coinvolgendo non uno solo, ma due neonati. Dal momento però che entrambe le fattispecie sono poste a tutela del medesimo bene giuridico – la veridicità dello stato di filiazione o, più precisamente, l’interesse del minore a cedersi riconosciuto un rapporto familiare corrispondente alla propria effettiva ascendenza –, distinguendosi in definitiva soltanto per le modalità esecutive, l’equiparazione del quadro sanzionatorio previsto dal primo comma a entrambe le fattispecie appare alla Corte una soluzione non solo possibile, ma anzi «l’unica soluzione praticabile» in grado di raggiungere l’obiettivo: e cioè quello di garantire al giudice la possibilità di commisurare, muovendo dal muovo minimo di tre anni di reclusione, una pena non più sproporzionata per eccesso rispetto all’effettivo disvalore del fatto.
Così eliminata la manifesta irragionevolezza presente nel sistema, valuterà poi il legislatore – conclude la Corte – se riconsiderare funditus, e complessivamente, i quadri sanzionatori previsti dal settore normativo in esame, eventualmente reintroducendo le differenziazioni che saranno ritenute più adeguate.
2. Proporzionalità e pene accessorie. Il principio di proporzionalità deve essere declinato anche per le pene accessorie.
Vengono certamente in rilievo le precedenti pronunce della Corte Costituzionale ( C. Cost. 31/2012 e C.Cost. 7/2013) che hanno rispettivamente dichiarato la illegittimità costituzionale dell’automatismo della pena accessoria della perdita della potestà genitoriale, prevista in conseguenza del delitto di alterazione di stato di cui all’art. 567 co. 2 c.p. (si tratta proprio della previsione il cui trattamento sanzionatorio è stato dichiarato incostituzionale con la sentenza 236/2016) nonché della analoga pena accessoria prevista in caso di condanna per il delitto di cui all’art. 566 co. 2 c.p.. Tali sentenze declinano però il principio di proporzionalità rispetto all’ingerenza della pena accessoria nella vita del minore coinvolto, poiché un siffatto automatismo impedisce al giudice di valutarne l’interesse nel caso concreto.
La pronuncia 222/2018, oggetto del presente commento, si inserisce appunto in questo contesto.
La sentenza, alla luce di una attenta esegesi della motivazione dell’ordinanza di rimessione, delimita preliminarmente il petitum del giudice rimettente al solo scrutinio sulla legittimità della durata, decennale e fissa, della pena accessoria, e non si pronuncia in ordine all’automatismo che prevede inesorabilmente l’ applicazione di tale pena accessoria in caso di condanna; è importante qui notare che il meccanismo in forza del quale la Corte Costituzionale, accogliendo l’eccezione di costituzionalità, ha interpolato la norma censurata, è lo stesso cui già aveva fatto ricorso nella citata decisione 236/2016.
Disattendendo proprie precedenti decisioni del 2012 che avevano già respinto questioni analoghe, la Corte procede ad una
C. Cost. 222/2018 muove da tale principio ma lo precisa ulteriormente, affermando che << a consentire l’intervento della Corte non è necessario che esista nel sistema un’unica soluzione costituzionalmente vincolata chiamata a sostituirsi a quella illegittima […]; essenziale e sufficiente […] è che il sistema nel suo complesso offra alla Corte precisi punti di riferimento e soluzioni già esistenti, esse stesse immuni da vizi di legittimità, ancorchè non costituzionalmente obbligate, che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata costituzionalmente illegittima; sì da consentire alla Corte di porre rimedio nell’immediato al vulnus riscontrato, senza creare insostenibili vuoti di tutela degli interessi di volta in volta tutelati dalla norma incriminatrice incisa dalla propria pronuncia>>. Dunque, la decisione qui in esame passa ad indagare il sistema dei reati fallimentari, per valutare se esso possa offrire <
In questa ricerca la Corte Costituzionale – siamo alle pagg. 14 e 15 della motivazione – afferma con chiarezza di non essere persuasa dalla soluzione suggerita dalla sezione rimettente, che proponeva di sostituire la norma ritenuta incostituzionale con l’art. 37 c.p. (<<quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di insolvibilità del condannato. Tuttavia, in nessun caso essa può oltrepassare il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria>>) ; e ciò sulla base di una approfondita disamina della funzione che il legislatore storico intendeva assegnare alla pena accessoria prevista dall’art. 216 l.f.
Riespandere il meccanismo previsto dall’art. 37 c.p. significa attingere ad una soluzione costituzionalmente legittima essa stessa, e già presente nell’ordinamento; inoltre, ancorare la durata della pena accessoria a quella della pena detentiva – che viene fissata in base ai criteri dettati dall’art. 133 c.p. – assicurerebbe un certo grado di rispetto del principio di individualizzazione delle pene accessorie. Tuttavia <
3. Gli effetti della sentenza 222/2018. Le prime pronunce della Corte di Cassazione. A tale sentenza hanno immediatamente fatto seguito pronunce discordanti della Corte di Cassazione, posta dinanzi al dubbio se annullare la sentenza di condanna per bancarotta con rinvio al giudice di merito per la nuova determinazione della durata della pena accessoria ormai divenuta illegittima nella sua misura fissa, ovvero se determinare essa stessa la durata della pena accessoria in misura pari a quella della pena detentiva inflitta.
In particolare, Cass. sez. V 7 dicembre 2018 n. 1963 ric. Piermartiri e Cass. sez. V 7 dicembre 2018 n. 1968, ric. Montolone hanno affermato che in tema di bancarotta fraudolenta, le pene accessorie previste dall'art. 216, ult. comm., legge fall., nella formulazione derivata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018, devono essere commisurate alla durata della pena principale, in quanto, essendo determinate solo nel massimo, sono soggette alla disciplina di cui all'art. 37 cod. pen. In coerente applicazione del principio, tali decisioni hanno riconosciuto d'ufficio l'illegalità delle pene accessorie irrogate prima della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 216, ult. comm., legge fall., ed hanno annullato senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla durata delle pene accessorie, che è stata quindi rideterminata in quella corrispondente alla pena principale inflitta all'imputato.
L’orientamento giurisprudenziale qui in esame, pur tenendo nel debito conto la decisione della Corte Costituzionale, evidenzia tuttavia che esso non è vincolante, e che – alla luce della pronuncia delle Sezioni Unite n. 6240/2014 e della giurisprudenza che ad essa si è conformata, in termini conformi e tali da costituire ormai diritto vivente – le pene accessorie previste per il delitto di bancarotta, in quanto pene determinate dalla legge solo nel massimo (‘fino a dieci anni’, per effetto della citata pronuncia della Corte Costituzionale) sono ricondotte dal diritto vivente alla disciplina dell’art. 37 c.p.
Di diverso avviso Cass. Sez. V n. 5882 del 29/01/2019 Ud. (dep. 06/02/2019 ) Rv. 274413 - 01 , secondo cui
4.La remissione alle Sezioni Unite. Inevitabile la rimessione alle Sezioni Unite, operata ancora una volta dalla V sezione con ordinanza n. 56458 del 14 dicembre 2018, per valutare se le pene accessorie previste dalla legge fallimentare per il reato di bancarotta fraudolenta vadano considerate:
-pene accessorie di durata predeterminata, soggette alla regola dell’art. 37 c.p. (soluzione che però la sentenza C. Cost. 222/2018 sembra avere già espressamente disatteso);
- ovvero pene accessorie di durata non predeterminata, quantificabili dunque ai sensi dell’art. 133 c.p. e pertanto rimesse alla determinazione discrezionale del giudice di merito, con una valutazione in fatto che è precluso in sede di legittimità.
L’ordinanza di rimessione afferma di non poter condividere il principio di diritto enunciato dalla citata decisione del 7.12.2018 ric. Piermartiri, in quanto il dispositivo della sentenza della Corte Costituzionale deve essere letto – e compreso – alla luce della motivazione, ed in motivazione il giudice delle leggi ha esplicitato le ragioni che rendono inapplicabile il meccanismo previsto dall’art. 37 c.p.. Inoltre, ad avviso della sezione rimettente è anche legittimo dubitare del fatto che l’orientamento espresso da Sez. Un. n. 6240/14 possa essere consideraro alla stregua di diritto vivente, e ciò inquanto esso è stato <
La sezione rimettente evidenzia a questo punto che <
Tali conclusioni potrebbero però conseguire a due diversi percorsi argomentativi: l’uno, basato su una completa rivisitazione delle interpretazioni ispiratrici della sentenza n. 6240/2015; l’altro, più selettivamente, rivolto a sottrarre dalla disciplina dell’art. 37 c.p. solo le specifiche pene accessorie scaturenti dalla formulazione dell’art. 216 ult. comma legge fall., così come ridisegnato dalla Consulta>>.
5. Le ricadute pratiche in sede esecutiva. La posizione di Cass. Sez. Un. n. 6240/2014. La questione rimessa alle Sezioni Unite chiama direttamente in causa i poteri del giudice dell’esecuzione, poichè per tutte le sentenze di condanna per bancarotta fraudolenta già passate in giudicato si pone il problema di ricondurre a legalità un segmento della pena – la pena accessoria fa infatti parte a pieno titolo della pena intesa in senso ampio – dichiarato incostituzionale. Naturalmente, le considerazioni che seguono si riferiscono all’ipotesi in cui la pena debba essere ancora eseguita, pochè l’ipotesi della situazione già esaurita con l’integrale espiazione anche della pena accessoria non può più essere messa in discussione, nemeno dal punto di vista teorico.
Orbene, nella decisione n. 6240/2014 le Sezioni Unite hanno chiarito che una pena inflitta contra, o preter, legem deve essere rimossa non solo attraverso i rimedi impugnatori previsti durante il giudizio di cognizione, ma anche , dopo il passaggio in giudicato della sentenza, ad opera del giudice dell’esecuzione. La legittimazione ad intervenire sulla pena è conferita al giudice dell’esecuzione dal principio di legalità della pena, che ne permea anche la fase esecutiva e dinanzi al quale anche il giudicato deve cedere; e dalla pacifica applicabilità alla pena accessoria dei principi elaborati dalla giurisprudenza per la pena principale, non essendo consentita dall’ordinamento l’esecuzione di una pena non conforme in tutto ai parametri legali. Dunque le Sezioni Unite riaffermano l’orientamento, peraltro maggioritario, che riconosce al giudice la possibilità di intervenire in sede esecutiva per emendare una pena accessoria illegale. La questione, però, è stabilire limiti ed ambito di tale intervento.
Le linee guida di tale operazione si ricavano, ad avviso della Corte, dal sistema: innanzitutto l’intervento sulla pena accessoria in executivis va escluso quando il giudice della cognizione si sia pronunciato e sia pervenuto, anche se in modo erroneo, all’applicazione di una pena illegale: in tali casi, si afferma, il rimedio consiste (o meglio avrebbe dovuto consistere) negli ordinari mezzi di impugnazione. Tale soluzione si argomenta dagli artt. 671, 630, co. 1, lett. c) e 625 bis c.p.p., i quali si compongono in un sistema che esclude l'intervento sul giudicato nell'ipotesi in cui il giudice della cognizione abbia già espresso le sue valutazioni, a meno che queste ultime abbiano dato origine ad errori macroscopici di calcolo o abbiano comportato l'applicazione di una pena avulsa dal sistema.
In secondo luogo, l’intervento del giudice dell’esecuzione è ammesso sempre che non implichi valutazioni discrezionali ai sensi dell’art. 133 c.p. in ordine alla specie ed alla misura della pena. Tale specifica conclusione viene argomentata dagli artt. 183 e 187 disp. att. c.p.p. che, limitando il potere del giudice dell'esecuzione all'attuazione del dictum della sentenza, ne consentono l'interpretazione o integrazione, ma non lasciano al giudice dell’esecuzione la facoltà di determinarlo. Ad avviso della Corte la maggior limitazione , rispetto alla fase della cognizione, non è in contrasto con i parametri dell’art. 24 Cost perché i poteri del giudice dell’esecuzione sono ispirati al criterio della intangibilità del giudicato. È ironico rilevare che quale esempio di pene accessorie predeterminate dalla legge, certamente applicabili ad opera del giudice dell’esecuzione perchè non postulano l’esercizio di alcuna forma di discrezionalità, la Corte indichi proprio quelle previste dalla legge fallimentare per il caso di condanna per bancarotta.
Più problematico il caso in cui la pena accessoria sia indicata con un limite minimo o con un limite massimo di durata. Si tratta della situazione che, per effetto della pronuncia della Corte Costituzionale n. 222/2018, viene a crearsi per le pene accessorie che conseguono alla condanna per bancarotta, la cui durata massima risulta stabilita
Le Sezioni Unite danno atto della creazione di due orientamenti in materia: uno, che afferma che in tali casi la determinazione della durata della pena accessoria spetta al giudice con gli ordinari criteri di cui all’art. 133 c.p. e dunque non trova applicazione l’art. 37 c.p.; l’altro, secondo cui in simili casi la durata della pena non può dirsi ‘espressamente determinata’ e dunque trova applicazione l’art. 37 c.p., con la conseguenza che la pena accessoria acquista la stessa durata della pena principale.
Le Sezioni Unite hanno accolto tale secondo orientamento, evidenziando che ‘pena espressamente determinata’ è solo quella che sia stata indicata nella specie e nella durata, e che la predeterminazione per legge presuppone che non vi sia margine di discrezionalità nell’applicazione della pena , situazione che non si verifica quando sia previsto un minimo ed un massimo entro il quale il giudice possa spaziare. A sostegno di tale conclusione la sentenza indica un argomento testuale - l'inciso finale dell’art. 37 c.p. non avrebbe ragion d'essere se il principio di uniformità temporale tra pena principale e pena accessoria non trovasse applicazione anche nell'ipotesi in cui venga indicato solo un minimo o un massimo di durata della pena accessoria – ed un argomento sistematico, in forza del quale l’art. 37 c.p., collocato al termine del capo dedicato alle pene accessorie, funge da norma di chiusura che trova applicazione in ogni ipotesi in cui il legislatore non abbia diversamente stabilito, attraverso una indicazione precisa della durata della pena accessoria da applicare. Pertanto, le Sezioni Unite ritengono ammissibile l’intervento del giudice dell’esecuzione anche nelle ipotesi riconducibili all'art. 37 c.p., poiché senza esercitare il potere discrezionale che gli è precluso egli determinerà automaticamente la pena accessoria in base alla durata della pena principale inflitta dal giudice della cognizione.
Conclusivamente, la Corte affermava il seguente principio di diritto: "l'applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell'esecuzione, purché essa sia determinata per legge (o determinabile, senza alcuna discrezionalità) nella specie e nella durata, e non derivi da un errore valutativo del giudice della cognizione".
Come si è visto analizzando la motivazione di C. Cost. 222/2018, con la esplicita confutazione della validità del meccanismo previsto dall’art. 37 c.p. la Corte Costituzionale assume una posizione apparentemente inconciliabile con quella assunta invece dalle Sezioni Unite e dalla successiva giurisprudenza di legittimità in ordine alla determinazione della durata della pena accessoria che consegue alla condanna per bancarotta fraudolenta. All’indomani della nuova remissione della questione alle Sezioni Unite, da più parti si è osservato – e lo ha fatto anche la V Sezione con l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, poc’anzi sintetizzata - che la posizione assunta da Cass. Sez. Un. 6240/2014 necessitava una riflessione, poichè allo stato essa non consente di dare piena attuazione alla sentenza C. Cost. 222/2018.
6. La decisione delle Sezioni Unite del 28.2.2019, ric. Suraci. Quali ricadute? All’udienza del 28.2.2019 le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione hanno deciso la questione rimessa dalla V Sezione. Alla data in cui viene scritto questo contributo è nota solo l’informazione provvisoria, che di seguito si riporta testualmente: <
In altre parole, nei giudizi attualmente pendenti in fase di legittimità, tutte le sentenze di condanna per bancarotta fraudolenta cui consegue l’applicazione delle pene accessorie previste dalla legge dovranno essere annullate con rinvio, per consentire al giudice di merito la determinazione della durata della pena accessoria secondo le indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale e secondo i criteri indicati dall’art. 133 c.p.. Come detto, tale operazione potrà condurre alla determinazione di una durata della pena accessoria maggiore rispetto a quella della pena principale; oppure si potrebbe pervenire alla determinazione di una durata identica a quella della pena principale, ma in tal caso occorrerà una dettagliata ed esaustiva motivazione che, se adeguatamente argomentata in punto di fatto, sarà insuscettibile di sindacato in sede di legittimità.
Resta da comprendere la sorte della pena accessoria irrogata nei procedimenti per i quali la sentenza di condanna sia ormai passata in giudicato.
Non essendo ancora nota la motivazione della decisione delle Sezioni Unite del 28 febbraio 2019, qualunque speculazione rischia di degradare a pura illazione; tuttavia alcune considerazioni possono essere formulate.
In primo luogo, pare innegabile che le Sezioni Unite non abbiano raccolto il suggerimento, proveniente dall’ordinanza di rimessione, volto a considerare le pene accessorie del delitto di bancarotta fraudolenta come genus autonomo: stando all’informazione provvisoria, il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione riguarda in ugual misura tutte le pene accessorie la cui durata non sia predeterminata dal legislatore.
Per altro verso, l’art. 37 c.p. non ha perso vigore, e dunque occorre attendere la motivazione per verificare in che termini il principio di diritto riportato dall’informazione provvisoria possa essere armonizzato con il tenore letterale della citata norma, che invece espressamente prevede che la pena accessoria della quale la legge non predetermini la durata <
La questione più interessante, naturalmente, pare essere proprio quella che concerne i processi definiti con sentenza già passata in giudicato. Non è detto che essa sia stata affrontata esplicitamente, atteso che il caso da decidere riguardava un giudizio pendente in fase di legittimità; tuttavia quantomeno per i reati di bancarotta la pena accessoria di durata fissa e decennale è divenuta ‘pena illegale’, e dunque almeno in tali casi il giudice dell’esecuzione potrà essere adito per ricondurre a legalità tale parte della pena.
Il punto saliente è verificare se la decisione qui in commento consenta o meno un simile intervento: si è già visto che nel precedente contesto interpretativo- in cui la pena accessoria conseguente alla condanna per bancarotta sarebbe stata determinabile senza discrezionalità alcuna in misura pari a quella della pena principale, in forza del meccanismo dell’art. 37 c.p.- qualora il giudice della cognizione avesse omesso di pronunciarsi sul punto , il giudice dell’esecuzione avrebbe potuto integrare la sentenza applicando la pena accessoria ‘dimenticata’. Nel nuovo quadro che si va delineando, la pena di durata fissa decennale va rimossa, in quanto pena divenuta illegale; ma le coordinate tracciate dalle Sezioni Unite nel 2014 imporrebbero di affermare che in sede esecutiva non è possibile sostituire la pena di durata fissa con quella discrezionalmente quantificata ex art. 133 c.p., per cui il giudice dell’esecuzione, una volta revocata la pena accessoria, dovrebbe lasciare aperto un vuoto sanzionatorio. Si tratta di conclusione che presterebbe il fianco a più di una obiezione.
Un diverso , possibile scenario è quello in cui la Corte, valorizzando il principio per cui la pena accessoria è parte integrante della pena, estenda ad essa i principi elaborati in ordine alla rideterminazione in executivis della pena principale, in tal modo consentendo al giudice dell’esecuzione di esercitare anche la discrezionalità normalmente affidata al giudice della cognizione nella quantificazione della pena. Si aprirebbe così un nuovo capitolo della progressiva erosione del giudicato ; ma non essendo ancora nota la motivazione della sentenza appare più corretto fermarsi qui.
La Favorita
A siderale distanza dall’invisibile guerra anglofrancese per l’egemonia del nordamerica, nella reggia inglese degli Stuart si consuma il palpabile conflitto gentilizio tra due donne infatuate del potere.
Abigail, cugina blasonata ma decaduta di Lady Sarah Churchill duchessa di Marlborough, torna a corte infangata di un fetido e popolare letame che gradatamente scrolla da sé nella perversa sequenza della sua scalata alla regina, spodestando l’ambiziosa cugina.
Due donne (anche) acusticamente forgiate in cadenze filmiche dal ritmo ossessivo (alla Nik Bärsch) di due sole note di fondo, come misero registro sonoro di un opificio metallico che annunci ostilità.
Anna, malata di gotta e capricciosamente sovrana del suo sfarzoso nulla d’imbarazzi e umorali bizzarie, eterodiretta da Sarah che la vincola a sè con cure e lusinghe, realizza il suo regio disagio popolandosi l’anima (e la stanza) di diciassette conigli, surrogato animale dei diciassette figli perduti, e compensando il corpo disfatto con overdose culinarie e improbabili trucchi del viso.
A sua volta Lady Marlborough, vera e astuta governatrice di tutto, fautrice con i whig e contro i tory della guerra in corso, attratta e poi contrariata da Abigail fino alla violenza fisica e verbale, ingaggia con questa un duello smaccato e raffinato che la vedrà solo apparentemente soccombere.
Un duello scandito da parole e mosse d’ambiguità tagliente, patinate di un’aristocratica eleganza non per questo meno lesiva; un duello calibrato sul transito, cinico, carnale e sanguigno, di quel favore che la regina accorda, prima a Sarah e poi ad Abigail, che con candida ferocia l’irretisce nel corpo e nella mente.
Lo iato tra l’aristocrazia maschile e le dame di corte, dipinto e rimarcato dal regista greco con tratti rappresentativi estenuati dal fascino dell’estremo (i ridondanti parrucconi, la gara delle oche, il lancio degli agrumi sul cortigiano nudo e sorridente, simboli tutti di leziosa e grossolana mascolinità), segna il confine ironico del film e ne rilancia il senso verso una generale ammirazione del mondo femminile, colorando, in un abile mixaggio filmico che lascia traccia nello spettatore, gli attributi di ferocia delle due contendenti in virtù splendenti di arguta e intelligente belligeranza, che lo stesso Lanthimos celebra con la distintissima bellezza estetica, uguale e contraria, della mora Sarah e della bionda Abigail e del loro autosufficiente erotismo (l’intuita distratta masturbazione di Samuel Masham, che sposando Abigail la fa baronessa, ha il pregio di incoronare in un solo simbolo il primato femminile, proiettando l’universo dell’uomo nel ghetto della più ridicola subalternità).
Così, ridiventata nobile e ascesa virtualmente al trono regio per la preferenza accordatale dalla regina Anna, la nuova Favorita tuttavia, per eccesso di potere e sicumera, ne discenderà presto.
L’ingaggio di una scena allegorica che il regista elegge a seducente finale - la sorpresa in flagranza che la sovrana fa di Abigail alle prese con atti di sevizie sui suoi conigli - ricompone ruoli e ranghi: costretta per i capelli giù per terra a massaggiarle le gambe inferme, Abigail, nel medesimo gesto dapprima erotico adesso umiliante, ridiventa serva; mentre la regina, al riflesso immaginifico e geniale di un grembo materno brulicante di conigli, con nobilissimo vigore e muto dolore innalza la testa in segno di triste ma inflessibile comando.
L’esistente goffo e malato di Anna, il ripudio di Sarah esiliata dal regno, la rovinosa sorte di Abigail ripiombata nel gorgo dell’inferiorità sociale allineano, ciascuno per il suo verso, i destini delle tre donne in un incubo irrisolto, dove non c’è spazio né tempo per l’amore insincero e dove fasto e miseria si mescolano confondendosi nella volgarità dei loro eccessi.
Attorno al conflitto al femminile storie di mollezze, trame cospiratorie, grandezze effimere e sontuosi cedimenti che in un’apprezzabile sapienza filmica consacrano della perfida Albione l’anima cinica ed eterna.
La difesa è sempre legittima? No.
di Giuseppe Amara
Il presente breve scritto si pone l’obiettivo di inquadrare le recenti modifiche normative di cui alla proposta di legge C1390-A in tema di legittima difesa, approvata, in testo unificato, lo scorso 6 marzo 2019 dalla Camera dei Deputati, individuando possibili spunti di riflessione per la quotidiana applicazione giurisprudenziale, in attesa della conclusione dell’iter legislativo in corso, per cui è prevista una seconda votazione del Senato della Repubblica, per il prossimo 26 marzo 2019.
Sommario: 1. Premessa.- 2. Lavori preparatori.- 3. Modifiche normative.- 4. Spunti di riflessione.-
1. Premessa.
Lo scorso 6 marzo 2019, la Camera dei Deputati, a larga maggioranza (373 voti favorevoli, 104 contrari e 2 astenuti), ha approvato, con modifiche, la proposta di legge in tema di legittima difesa C. 1309-A, già trasmessa dal Senato il 25 ottobre 2018. Il voto del Senato della Repubblica, in sede di seconda lettura, è previsto per il prossimo 26 marzo. Alla Camera, la proposta di legge 1309 risulta abbinata alle proposte 274 – 580 – 607 – 1303 ed approvata, in testo unificato, dopo una prima presentazione avvenuta lo scorso 23 marzo 2018.
2 . Lavori preparatori.
Dalla lettura dei lavori preparatori della proposte di legge, cui risulta abbinata la 1309-A approvata lo scorso 6 marzo, si evince come la genesi della riforma, fortemente criticata anche dalla Dottrina[1], è da rinvenire nel filone della produzione normativa emergenziale[2] e spesso compulsiva, correlata alla necessità di dare una risposta di natura politica ad esigenze securitarie, sollecitate da fatti di cronaca nera e relativi esiti giudiziari.
Del tutto chiarificatori, in tal senso, sono taluni passaggi dell’introduzione alla proposta C-274, passaggi che si ritiene di riportare in virgolettato, stante l’eloquente messaggio espresso. Si legge infatti come: « recenti fatti di cronaca relativi a violente aggressioni in abitazioni private a scopo di furto e a rapine presso attività commerciali quali la rivendita di tabacchi, di prodotti petroliferi o di preziosi che vengono sempre più di frequente perpetrate ai danni di nostri concittadini, ci impongono, nella nostra responsabilità di legislatori, di verificare che il nostro ordinamento sia adeguato per contrastare e prevenire tali fenomeni », con l’ulteriore chiara affermazione del principio della privata difesa, integrativo/sostitutivo all’intervento dello Stato, per cui « La repressione e la prevenzione dei reati spettano innanzitutto allo Stato, ma è necessario predisporre strumenti adeguati di tutela, nei casi in cui ci sia un pericolo imminente e l’impossibilità di scongiurarlo attraverso il tempestivo intervento delle Forze dell’ordine ».
Ripercorrendo ancora le dichiarazioni d’intenti dei firmatari della proposta, si evince la ritenuta non adeguatezza dell’attuale configurazione della scriminante di cui all’art. 52 c.p., peraltro già significativamente riformulata nel 2006, con la legge n. 59, nella misura in cui prevede, ai fini del riconoscimento della stessa, la necessaria proporzionalità tra offesa ed azione difensiva: « La norma dell’articolo 52 del codice penale appare, infatti, insufficiente a garantire una possibilità di difesa da aggressioni violente, soprattutto nella parte in cui richiede, affinché ricorra la legittima difesa, la proporzionalità tra difesa e offesa ».
Chiara espressione di sfiducia nell’operato della Magistratura è la successiva precisazione formulata dai firmatari della proposta di legge, ovvero l’opportunità di modifica del testo legislativo, non già sottesa all’introduzione di un’area di impunità di condotte da ritenersi “reazioni spropositate per attacchi privi di una reale offensività”, bensì motivata dal bisogno di reagire alla sostanziale disapplicazione giurisprudenziale dell’esimente. Si legge: « tale norma si è nei fatti tradotta, anche attraverso la sua interpretazione giurisprudenziale, in una sostanziale inapplicabilità dell’esimente in esame. Si è perciò fatta avanti nell’opinione pubblica la convinzione che difendersi possa paradossalmente far passare l’aggredito dalla parte del torto ».
Evidente, quindi, il dichiarato intento di limitare l’area di discrezionalità nell’interpretazione dell’autorità giudiziaria, in un’ottica di sfiducia del suo operato, ponendo paletti alla valutazione del fatto da parte del Giudice ed introducendo una serie di presunzioni legali che possano, in via preventiva, perimetrarne la decisione.
3. Modifiche normative.
Venendo al testo della riforma, all’articolo 52 del codice penale sono apportate le seguenti modifiche: a) al secondo comma, dopo la parola: « sussiste » è inserita la seguente: « sempre », avverbio che qualifica, in termini di assolutezza, il rapporto di proporzione come precisato al primo comma della disposizione, ogni qual volta si procede per fattispecie di reato poste in essere con violazione di domicilio (nella sua estensione ricomprendente anche gli esercizi commerciali) ed ai fini difensivi ivi indicati (difesa della propria o altrui incolumità, nonché di beni propri o altrui, quando non vi è desistenza del reo e vi è pericolo di aggressione); b) al terzo comma, le parole: « La disposizione di cui al secondo comma si applica » sono sostituite dalle seguenti: « Le disposizioni di cui al secondo e al quarto comma (di nuova introduzione) si applicano »; c) dopo il terzo comma è aggiunto il seguente quarto comma: « Nei casi di cui al secondo e al terzo comma agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone ». Con tale ulteriore previsione si intende introdurre, di fatto, una presunzione di sussistenza della scriminante, già rimarcata con l’introduzione dell’avverbio “sempre” di cui al secondo comma, ma che, nei casi indicati, sembrerebbe prescindere da una verifica della necessità della difesa e, soprattutto, come parrebbe desumersi anche dai lavori preparatori, del rapporto di proporzione con l’offesa, sul punto, si tornerà in seguito.
Ancora, si interviene sulla disciplina dell’eccesso colposo, introducendo, dopo il primo comma dell’articolo 55 c.p., quella che si ritiene essere una nuova causa di non punibilità, peraltro dall’incerta applicazione, ovvero: « Nei casi di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell’articolo 52, la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito nelle condizioni di cui all’articolo 61, primo comma, numero 5), ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto ».
Contestualmente, si incide sui profili risarcitori civilisti correlati al fatto illecito, modificando l’art. 2044 c.c., in particolare, prevedendo un’esclusione assoluta di responsabilità nei casi in cui l’agente ha agito, in presenza dei presupposti di cui all’art. 52 c.p., commi 2, 3 e 4, precisando inoltre come, nel caso di cui all’articolo 55 c.p. comma 2, « al danneggiato è dovuta una indennità la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice, tenuto altresì conto della gravità, delle modalità realizzative e del contributo causale della condotta posta in essere dal danneggiato ».
Che detta proposta sia fortemente correlata all’esigenza di contrasto alla diffusa percezione di insicurezza è confermato anche dalla contestuale modifica di altre fattispecie di parte speciale poste a tutela del patrimonio, intervenendo con un ulteriore, significativo, inasprimento delle cornici edittali, già ritoccate in precedenti interventi normativi (anche questa tecnica normativa è esemplificativa di quella “legislazione compulsiva” di origine simbolica[3], funzionale a soddisfare il bisogno di rigore percepito dalla comunità e la sequenziale ricerca di sicurezza, quanto meno apparente).
Ed in particolare: all’articolo 614 c.p. sono apportate le seguenti modifiche: a) al primo comma, le parole: « da sei mesi a tre anni » sono sostituite dalle seguenti: « da uno a quattro anni »; b) al quarto comma, le parole: « da uno a cinque anni » sono sostituite dalle seguenti: « da due a sei anni ».
Ancora, all’art. 624bis c.p. (norma che, negli ultimi anni, assurge a campo di gioco elettivo per cercare consenso, cavalcando le diffuse esigenze securitarie), vengono apportate le seguenti modifiche: a) al primo comma, le parole: « da tre a sei anni » sono sostituite dalle seguenti: « da quattro a sette anni »; b) al terzo comma, le parole: « da quattro a dieci anni e della multa da euro 927 a euro 2.000 » sono sostituite dalle seguenti: « da cinque a dieci anni e della multa da euro 1.000 a euro 2.500 ».
Infine, all’art. 628 c.p., sono apportate le seguenti modifiche: a) al primo comma, la parola: « quattro » è sostituita dalla seguente: « cinque »; b) al terzo comma, alinea, la parola: « cinque » è sostituita dalla seguente: « sei » e le parole: « da euro 1.290 a euro 3.098 » sono sostituite dalle seguenti: « da euro 2.000 a euro 4.000 »; c) al quarto comma, la parola: « sei » è sostituita dalla seguente: « sette » e le parole: « da euro 1.538 a euro 3.098 » sono sostituite dalle seguenti: « da euro 2.500 a euro 4.000 ».
Contestualmente, inoltre, vengono previsti correttivi in tema di sospensione condizionale, ammissione al gratuito patrocinio e formazione ruoli d’udienza. In particolare: si modifica, in caso di condanna, l’articolo 165 c.p., prevedendo che la sospensione condizionale della pena per il reo sia subordinata al pagamento integrale alla parte offesa del risarcimento del danno; ancora, si interviene sulla disciplina del patrocinio a spese dello stato, con l’introduzione dell’art. 115bis d.p.r. 115/02, prevedendolo in favore di colui che sia stato assolto, prosciolto o il cui procedimento penale sia stato archiviato per fatti commessi in condizioni di legittima difesa o di eccesso colposo di legittima difesa.
In conclusione, si prevede una nuova ipotesi (comma ater) di priorità assoluta nella formazione dei ruoli d’udienza (art. 132bis disp.att. c.p.p) in relazione ai processi « relativi ai delitti di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale verificatisi in presenza delle circostanze di cui agli articoli 52, secondo, terzo e quarto comma, e 55, secondo comma, del codice penale ».
4. Spunti di riflessione.
Il testo, così come formulato, prospetta una serie di dubbi interpretativi.
Innanzi tutto, l’inserimento dell’avverbio “sempre”, al secondo comma dell’art. 52 c.p., nel rafforzare la disposizione introdotta con la legge n. 59/06, introduce, sostanzialmente, una presunzione di sussistenza del rapporto di proporzione di cui al primo comma della disposizione, ogni qual volta si procede per fattispecie di reato poste in essere con violazione di domicilio (e luoghi equiparati, quali gli esercizi commerciali) e con i fini difensivi ivi indicati (propria o altrui incolumità, beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione).
Invero, tale presunzione di sussistenza del rapporto di proporzione si ritiene non possa prescindere, nell’applicazione concreta, dalla previa verifica degli ulteriori presupposti dell’esimente, con peculiare riferimento al bilanciamento dei contrapposti beni giuridici che vengono in gioco. È questo un percorso ermeneutico già adottato dalla recente giurisprudenza[4] e dal quale, con ogni probabilità non ci si discosterà anche in futuro. Risulta, infatti, del tutto necessario procedere in tale direzione, al fine di salvaguardare una norma che, diversamente, allontanandosi da un’interpretazione costituzionalmente orientata (in ossequio all’art. 2 CEDU – 117 comma 1 Cost.), presenta aspetti di potenziale – seppur marcato – contrasto con il rispetto dei diritti fondamentali della persona, ed in particolare dei beni giuridici della vita e dell’incolumità fisica, con sequenziali profili di evidente incostituzionalità. Si pensa, in particolare, alle ipotesi ove vengono in gioco i fini difensivi di cui alla lettera b del comma 2 dell’art. 52 c.p. (beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione).
Per taluno[5], invece, acutamente, questa modifica sarebbe una “non modifica”, nel senso che, aldilà del valore volutamente simbolico che assume, non è comunque idonea ad incidere sulla disposizione di cui al secondo comma, così come giudizialmente interpretata ed applicata negli ultimi anni, dopo la sua introduzione nel 2006, in quanto: « Dire che il rapporto di proporzione sussiste “sempre”, senza modificare le situazioni, normativamente descritte, in relazione alle quali la presunzione opera, non sposta di un millimetro, a me, pare, il problema sul tappeto ».
Ancor più problematica, è l’introduzione del successivo comma 4 ove si inserisce, in sostanza, una presunzione di sussistenza di legittima difesa nella condotta di colui che compie un « atto per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone ».
Oltre l’utilizzo di formule indeterminate che destano significativi dubbi interpretativi se portate alla loro massima espansione, non può non segnalarsi come un’interpretazione letterale ed apodittica del testo, lungi dall’escludere la legittimità di reazioni spropositate a condotte non offensive, porterebbe ad ampliare a dismisura l’ambito di operatività dell’esimente, ritenendo comunque legittimo “l’atto” oppositivo a condotte tipiche (624bis c.p. – 624, 625 c.p.) di frequentissima applicazione nella quotidiana prassi giurisprudenziale, non differenziando, in alcun modo, la natura della reazione, la sua proporzione con l’offesa ed introducendo, pertanto, una presunzione di legittimità dell’operato del privato – che, peraltro, potrà trovare applicazione ancor più ampia, a mente il disposto di cui al comma 4 dell’art. 59 c.p.
La norma, così come strutturata, si presta a profili di dubbia costituzionalità che si ritiene potranno essere superati soltanto grazie al doveroso accertamento della sussistenza dei requisiti della necessità della difesa e della proporzione tra la difesa e l’offesa, presupposti che comunque permangono indefettibili per l’accertamento dell’operatività della scriminante di cui all’art. 52 c.p. Attività interpretativa costituzionalmente orientata della Magistratura che, senz’altro, presterà il fianco a critiche, spesso slegate dal doveroso attento studio delle carte processuali, ma che potrà garantire il pieno rispetto della Carta, a mente il doveroso bilanciamento tra beni di rango costituzionale.
Una soluzione interpretativa diversa pare francamente improbabile e, con buona verosimiglianza, condurrebbe a tensioni costituzionali della norma che introdurrebbe, nell’ordinamento, un precetto contrario a principi costituzionali e sovranazionali.
Venendo poi alla modifica in tema di eccesso colposo, innanzi tutto, è evidente come anche questa previsione sia funzionale a circoscrivere ulteriormente l’ambito di valutazione del Giudice, sostanzialmente sottraendogli la verifica dell’assenza di colpa dell’agente che, nei casi indicati (aver agito nelle condizioni di cui all’art. 61 n. c.p., ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto), si presume, pertanto, non esservi. L’interpretazione letterale del testo, peraltro, conduce ad evidenti profili di indeterminatezza applicativa; invero, se il richiamo alle condizioni di cui all’art. 61 n. 5, non desta particolari problemi, alla luce dell’elaborazione giurisprudenziale già consolidata, di converso, alquanto problematico si ritiene l’accertamento in concreto dell’ulteriore ipotesi, ovvero quella di aver agito in uno stato di “grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”: l’indagine soggettiva di tale stato d’animo non può che preannunciarsi particolarmente ardua, stante l’assoluta genericità dell’ipotesi normata – grave turbamento – e l’imperscrutabilità del campo di studio. Gli elementi del fatto, pur potendo qualificare l’elemento psicologico che sorregge la condotta – peraltro con le note difficoltà –, si dubita potranno acquisire una connotazione talmente individualizzante, tale da aiutare l’investigatore a provare qualcosa che va ben oltre la prova dell’elemento soggettivo e che trasfonde nelle più intime e remote convinzioni dell’agente. Definizione normativa, peraltro, che richiama possibili tensioni con la norma di cui all’art. 90 c.p. che espressamente nega la rilevanza, ai fini dell’esclusione, ovvero dell’attenuazione dell’imputabilità, degli stati emotivi o passionali, intesi quali « fattori che non attengono alla sfera intellettiva o volitiva del soggetto ma a quella sentimentale o affettiva (es. collera; gioia, paura, ansia) »[6], ricomprendendo, per l’appunto, quello che parrebbe essere il concetto di “grave turbamento”). Infine si ritiene che, anche tale nuova disposizione, qualora approvata senza modifiche, dovrà necessariamente andare incontro ad un’interpretazione che sia costituzionalmente orientata, non ritenendo possa trovare spazio, nel nostro ordinamento, una presunzione tout court di assenza di colpa, di fronte a condotte che, dalle emergenze processuali, si evince chiaramente siano censurabili in punto di colpa, diversamente creando aree di impunità incompatibili con il sistema.
[1] Si vuol far riferimento, in particolare, al comunicato emesso dall’AIDP, nel luglio 2018, in relazione alle differenti proposte di legge, all’epoca sul tavolo, ovvero: nn. 274, 308 e 580, comunicato dagli intenti chiaramente esplicitati nel titolo: “La riforma della legittima difesa deve essere conforme ai principi costituzionali e sovranazionali e non può ingannare i cittadini. Nessuna riforma potrà impedire indagini e processi, che si svolgono anche quando si uccide il cane del vicino”,
[2] AA.VV., I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, a cura di S. Moccia, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009; M. DONINI, Il principio di offensività. Dalla penalistica italiana ai programmi europei?, in Diritto Penale Contemporaneo, 4/2013, p. 4 e ss. ed amplissima bibliografia ivi menzionata; R. BARTOLI, Legislazione e prassi in tema di contrasto al terrorismo internazionale: un nuovo paradigma emergenziale?, in Diritto Penale Contemporaneo, 3/2017, p. 233 e ss.
[3] A. MANNA, Alcuni recenti esempi di legislazione penale compulsiva e di ricorrenti tentazioni circa l’utilizzazione di un diritto penale simbolico in LA SOCIETÀ PUNITIVA Populismo, diritto penale simbolico e ruolo del penalista, in www.dirittopenalecontemporaneo.it; F. SGUBBI, Presentazione, in Insolera (a cura di), La legislazione penale compulsiva, Cedam, 2006;
[4] A titolo meramente esemplificativo Cass. Sez. IV pen., 20 giugno 2018, n. 29515; Cass. Sez. III pen., 9 luglio 2018, n. 30910; Cass. Sez. 1 pen., 8 marzo 2007 n. 16677; ed ancora: Cass. Sez. V pen., 30 marzo 2017, n. 44011, ove si legge in un inequivoco passaggio della motivazione: « La giurisprudenza di questa Corte ha, però, precisato che non ogni pericolo che si concretizza nell'ambito del domicilio giustifica la reazione difensiva, atteso che, come suggerito all'interprete dalla collocazione della norma di nuovo conio dopo quella di cui all'art. 52, comma 1, cod. pen., restano fermi i requisiti strutturali stabiliti dalla disposizione generale: il pericolo attuale di offesa ingiusta e la costrizione e la necessità della difesa, dai quali scaturisce l'inevitabilità dell'uso delle armi come mezzo di difesa della propria o dell'altrui incolumità o, alle condizioni date, dei beni propri o altrui »;
[5] G. Gatta, Sulla legittima difesa "domiciliare": una sentenza emblematica della Cassazione (caso Birolo) e una riforma affrettata all'esame del Parlamento, in www.dirittopenalecontemporaneo.it;
[6] M. Romano – G. Grasso, Commentario Sistematico del Codice Penale – II art. 85 – 149, Giuffrè. 1996 p. 44;
PROVA DEL LICENZIAMENTO ORALE LA CASSAZIONE TORNA SUI SUOI PASSI Cassazione sentenza 8 febbraio 2019 n. 3822.
di Silvia Casarino
Quando un lavoratore viene licenziato senza un atto scritto, chi deve provare che c’è stata una violazione del requisito di forma e che il licenziamento è pertanto inefficace? L’orientamento della Corte di Cassazione pareva essersi assestato attribuendo al lavoratore l’onere di provare solo che il rapporto contrattuale era cessato; spetterebbe pertanto al datore di lavoro la dimostrazione del fatto che la cessazione sia dipesa da un licenziamento scritto o dalle dimissioni del dipendente. Con la sentenza in commento (3822/2019) questo criterio di riparto probatorio torna in discussione.
La Suprema Corte, nella sentenza in commento, affronta approfonditamente la questione della ripartizione dell’onere probatorio nelle controversie relative al licenziamento orale.
Si tratta di controversie piuttosto frequenti, nelle quali, a fronte della cessazione del rapporto di lavoro (e quindi della circostanza che il lavoratore ha smesso di eseguire la propria prestazione), normalmente si contrappongono due versioni incompatibili: da una parte quella del lavoratore che afferma di essere stato licenziato oralmente dal datore di lavoro; dall’altra quella del datore di lavoro che deduce che, invece, il rapporto si è estinto per dimissioni rassegnate dal lavoratore (per lo più oralmente o con comportamento concludente) o per una risoluzione consensuale.
Poiché le rispettive prospettazioni sono basate esclusivamente su comportamenti materiali e non su atti giuridici, è immediatamente intuibile che la risoluzione della controversia dipenda dalle risultanze istruttorie. Da ciò deriva la necessità di stabilire quale sia l’onere probatorio ex art. 2697 cod. civ. su ciascuna delle parti, capitando sovente che la decisione dipenda dal mancato assolvimento di detto onere, sicché la parte che non ha dato prova del fatto che è onerata di dimostrare risulterà soccombente.
Nel caso deciso dalla Suprema Corte era pacifico che il rapporto di lavoro fosse cessato, ma mentre la Corte d’Appello aveva ritenuto che con detta allegazione il lavoratore avesse adempiuto al proprio onere probatorio relativo alla sua estromissione dal rapporto, la Cassazione giunge a conclusioni opposte.
Osserva la Cassazione che sulla questione si contrappongono due diversi orientamenti.
Un primo secondo il quale, essendo il fatto costitutivo del diritto alla riassunzione e alla reintegrazione attribuibile alla sola iniziativa del datore di lavoro ed alla sua sfera volitiva (il licenziamento), cui non corrisponde un’identica iniziativa del lavoratore, quest’ultimo deve soltanto dimostrare l’estromissione dal rapporto, mentre la controdeduzione di un fatto che nega il licenziamento, collegando l’estromissione a dimissioni del lavoratore, costituisce un’eccezione in senso stretto, con onere, quindi, a carico del datore di lavoro (la Suprema Corte cita Cass. n. 2853/1995 e numerose sentenze successive).
Dunque, da una parte prova dell’estromissione (in capo al lavoratore), sostanzialmente coincidente con la prova della cessazione del rapporto di lavoro, e, dall’altra, prova delle dimissioni (a carico del datore di lavoro).
Il secondo orientamento ritiene invece che il termine “estromissione” sia sinonimo di “espulsione” e quindi di “licenziamento”, di talché la prova del licenziamento deve essere fornita dalla parte che propone l’impugnazione, integrando il licenziamento il fatto costitutivo della domanda.
Ne deriva che il datore di lavoro, che ben può opporre un diverso fatto estintivo del rapporto (quale le dimissioni del lavoratore), può anche limitarsi a negare detto fatto costitutivo (così Cass. n. 12520/2000 e altre pronunce menzionate dalla Suprema Corte).
La sentenza in commento dichiara di aderire al secondo orientamento ed enuncia il seguente principio di diritto per il giudice del rinvio: “Il lavoratore subordinato che impugni un licenziamento allegando che è stato intimato senza l’osservanza della forma prescritta ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della sua domanda, che la risoluzione del rapporto di lavoro è ascrivibile alla volontà del datore di lavoro, anche se manifestata con comportamenti concludenti; la mera cessazione nell’esecuzione delle prestazioni non è circostanza di per sé sola idonea a fornire tale prova.
Ove il datore di lavoro eccepisca che il rapporto si è risolto per le dimissioni del lavoratore, il giudice sarà chiamato a ricostruire i fatti con indagine rigorosa – anche avvalendosi dell’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c. – e solo nel caso perduri l’incertezza probatoria farà applicazione della regola residuale desumibile dall’art. 2697, co. 1, cod. civ., rigettando la domanda del lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua pretesa”.
L’“estromissione” dal rapporto, per la Suprema Corte, non coincide con la mera circostanza di fatto della cessazione del rapporto di lavoro, con la conseguenza che la non contestazione di detta circostanza fattuale – ossia che il lavoratore abbia smesso di prestare la propria attività – non ha alcuna conseguenza a livello probatorio.
Quindi l’allegazione del lavoratore ricorrente in merito alla cessazione del rapporto di lavoro non fa scattare in capo al datore di lavoro convenuto l’onere di dimostrare un fatto estintivo diverso dal licenziamento, in particolare le dimissioni.
Il punto fondamentale della sentenza è dunque la riconduzione del licenziamento, ancorché intimato in forma diversa da quella prevista dalla legge ai fini della sua validità, al fatto costitutivo della domanda di impugnazione dello stesso.
E’ quindi netta la diversità di prospettiva rispetto all’indirizzo secondo cui sarebbe sufficiente la semplice allegazione, da parte del lavoratore, della cessazione del rapporto, quale conseguenza della considerazione per cui il licenziamento verbale, atto unilaterale del datore di lavoro, costituisce manifestazione di un atto volitivo il cui onere probatorio non può essere posto a carico di chi di detto atto si limita a subire gli effetti.
L’impostazione della sentenza in commento è più aderente alle categorie processuali, che, soprattutto in tempi recenti, fanno procedere di pari passo gli oneri di allegazione e quelli probatori, come è accaduto, per esempio, anche in materia di repechage.
E’ tuttavia innegabile che l’indirizzo dalla Suprema Corte, sintetizzato in modo chiaro nel principio di diritto formulato per il giudice del rinvio, pone oneri probatori molto difficili in capo al lavoratore.
Essendo il licenziamento verbale ricondotto al fatto costitutivo della domanda di impugnazione del licenziamento, neppure la contumacia del datore di lavoro di per sé dispensa il lavoratore dal fornirne la prova, come espressamente osservato dalla Suprema Corte.
Troverà in questo caso applicazione l’art. 232 cod. proc. civ., e pertanto laddove il convenuto contumace non renda l’interrogatorio formale, il giudice potrà ritenere provata la circostanza storica del licenziamento verbale, allegata dal lavoratore, ciò tuttavia “valutato ogni altro elemento di prova”, non consentendo la contumacia alcuna deroga alla ripartizione dell'onere della prova.
Il datore di lavoro convenuto che si costituisca in giudizio semplicemente negando di avere licenziato verbalmente il lavoratore non è quindi neppure tenuto a fornire una sua diversa ricostruzione dei fatti, essendo le dimissioni o altra causa estintiva del rapporto (come la risoluzione consensuale) un’eccezione, la cui rilevanza a livello probatorio sorge soltanto laddove risulti provato il licenziamento verbale.
Questo principio è enunciato dalla Cassazione nella sentenza n. 3822/2019 mediante richiamo all’art. 2967 cod. civ. che disciplina la distribuzione degli oneri probatori dei fatti costitutivi da una parte e dei fatti modificativi, impeditivi ed estintivi dall’altra, ponendoli a carico, rispettivamente nel primo e nel secondo comma, sulla parte che propone la domanda fondata su quei fatti costitutivi e sulla parte che sollevi eccezioni, dirette a contrastare le altrui deduzioni, basate a loro volta sui fatti da essa dedotti.
Di tali difficoltà probatorie è consapevole la Cassazione, che, nella pronuncia in commento, ritiene che esse possano essere mitigate da una parte mediante un utilizzo appropriato delle presunzioni, oggetto, ex art. 2729 cod. civ., del prudente apprezzamento del giudice, e, dall’altra, facendo uso dei poteri officiosi a livello istruttorio, che caratterizzano il processo del lavoro.
La fattispecie esaminata dalla Cassazione, come da essa precisato, e a cui si applicano i principi enunciati nella sentenza, è tuttavia ben delimitata e non coinvolge tutte le possibili questioni in cui si controverta sull’esistenza di un valido atto estintivo del rapporto di lavoro.
E’ di per sé estranea alla questione della prova del licenziamento verbale la tematica della validità delle dimissioni (e della risoluzione consensuale), oggi sottoposte ad una particolare procedura, contenuta nell’art. 26 d. lgs. 151/2015.
D’altra parte, laddove tra le parti sia incontroverso che il rapporto si sia risolto per licenziamento, ma si discuta con quali forme e modalità esso sia stato intimato, non viene in questione la tematica del licenziamento verbale e della sua dimostrazione.
Si pensi, per esempio, ai casi di licenziamento comunicato tramite sms, WhatsApp, o a mezzo dei social media: in questi casi (recentemente esaminati nella giurisprudenza di merito) si tratta eventualmente di valutare se sia rispettata la forma scritta richiesta dall’art. 2 comma primo legge 604/1966, con la conseguenza che, laddove dette forme non dovessero essere ritenute valide, vi sarebbe un profilo di illegittimità del licenziamento per violazione della forma prescritta, senza che si debba indagare sulla comunicazione di un licenziamento orale. In altri termini, in questi casi il licenziamento è validamente comunicato oppure non lo è; ma se non è validamente comunicato, il mezzo utilizzato per intimare il licenziamento non può essere “degradato” a licenziamento verbale con le connesse tematiche di riparto dell’onere della prova.
Il principio affermato dalla Suprema Corte nella sentenza n. 3822/2019, pertanto, riguarda soltanto le fattispecie in cui sia controverso l’atto risolutivo del rapporto di lavoro, e quindi se vi sia stato un licenziamento, intimato oralmente, rispetto al quale venga opposto (o comunque sia astrattamente opponibile) la risoluzione per dimissioni.
Si può osservare che, secondo il primo dei due indirizzi citati dalla Cassazione, anche un’allegazione generica del lavoratore ricorrente faceva scattare sulla controparte un onere di contestazione. Era pertanto sufficiente che il lavoratore deducesse di essere stato licenziato verbalmente, senza alcuna ulteriore specificazione spazio-temporale, in ciò consistendo l’allegazione circa l’“estromissione” dal rapporto di lavoro, ossia, in sostanza, in merito alla cessazione del rapporto.
Se il datore di lavoro restava contumace si riteneva che il lavoratore avesse assolto al proprio onere probatorio, e prima ancora di allegazione, con conseguente soccombenza del datore di lavoro onerato di fornire la dimostrazione di un fatto estintivo diverso dal licenziamento verbale allegato dal lavoratore.
Applicando il principio affermato da Cass. n. 3822/2019, invece, a fronte di una simile generica allegazione attorea, il licenziamento verbale non può ritenersi dimostrato, né il datore di lavoro convenuto è tenuto a contestare le deduzioni del lavoratore. Un onere di specifica contestazione, infatti, sorge soltanto rispetto a circostanze a loro volta specificamente allegate.
Quando, invece, il lavoratore formuli un’allegazione storica specifica (indicando il giorno e le circostanze in cui si sarebbe verificato il licenziamento verbale, la persona che l’avrebbe comunicato e il suo ruolo nell’azienda, le parole da questa utilizzate, ecc.), seppure egli sia onerato della prova del licenziamento verbale, rileverà comunque il comportamento processuale del convenuto, tenuto, ai sensi dell’art. 416 comma terzo cod. proc. civ. - a rischio, altrimenti, del consolidarsi a livello probatorio dei fatti come incontroversi in virtù del principio di non contestazione -, a prendere posizione, nella memoria di costituzione ex art. 415 cod. proc. civ., “in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda”.
Quindi la negazione dell’asserito licenziamento verbale con formule generiche o di mero stile, senza offerta di una diversa ricostruzione fattuale, pur applicando i principi espressi nella sentenza in commento potrebbe condurre ad un giudizio di non contestazione, ai sensi degli artt. 115 primo comma e 416 terzo comma cod. proc. civ., delle circostanze di fatto affermate dal lavoratore, pur onerato della prova del licenziamento verbale.
La soluzione delle controversie potrà quindi dipendere anche dalle prospettazioni difensive delle parti e dal comportamento processuale di ciascuna.
Più precisamente, se è vero che, secondo il principio enunciato dalla Cassazione, il licenziamento verbale dev’essere provato dal lavoratore che lo alleghi e che il datore di lavoro può limitarsi ad una mera negazione dei fatti affermati dal lavoratore, un qualche rilievo, nella valutazione complessiva del giudice, potrà assumere la verosimiglianza della diversa deduzione del datore di lavoro in merito alle circostanze fattuali che, secondo la sua prospettazione difensiva, hanno condotto alla risoluzione del rapporto di lavoro.
Si può, per esempio, pensare ad una fattispecie, anch’essa ricorrente nella pratica, di licenziamento per fatti concludenti, come nel caso in cui il lavoratore alleghi di non avere più potuto, a un certo punto, prestare la propria attività per aver trovato l’azienda chiusa o comunque non operativa.
A fronte di un’allegazione precisa, relativa ad un fatto storico individuato e collegato alla sfera dell’azienda, il datore di lavoro, per evitare che i fatti (la cui prova incombe sul lavoratore) vengano considerati processualmente incontestati, dovrà prendere una posizione specifica, contestando le affermazioni attoree, e quindi deducendo che l’azienda era invece aperta e attiva.
Soltanto a fronte di una simile specifica allegazione del lavoratore e di una altrettanto specifica contestazione del datore di lavoro, verrà in questione la distribuzione dell’onere probatorio sull’una e sull’altra parte, in applicazione del principio enunciato dalla Suprema Corte nella sentenza in commento.
Come osservato, la particolare difficoltà probatoria conseguente al regime di distribuzione dell’onere della prova affermato nella sentenza n. 3822/2019 è avvertita dalla stessa Cassazione, che sottolinea che essa può essere temperata dall’uso delle presunzioni e dei poteri istruttori officiosi previsti dall’art. 421 comma secondo cod. proc. civ..
In effetti la prova diretta, in particolare quella testimoniale, del licenziamento verbale (essendo alquanto rara la confessione nel contesto di un interrogatorio formale) è statisticamente infrequente, salvo che nelle ipotesi di licenziamento asseritamente comunicato per telefono con riferimento al quale sovente si afferma che abbiano assistito altre persone, magari con inserimento del dispositivo “viva voce”, così sentendo le parole pronunciate dal datore di lavoro.
Nella pratica giudiziaria recentemente capita spesso che vengano prodotte registrazioni di conversazioni, essendo le parti in ciò agevolate dalla diffusione di telefoni cellulari, smartphone o altri dispositivi elettronici, che consentono di effettuare registrazioni in modo agevole.
In questo caso si tratterà di una prova documentale del licenziamento verbale, il cui valore in giudizio dipenderà dall’atteggiamento difensivo del datore di lavoro, in particolare se quest’ultimo disconoscerà o meno, ai sensi dell’art. 2712 cod. civ., la conformità della registrazione ai fatti rappresentati.
La situazione più onerosa dal punto di vista probatorio si verifica quando, secondo la prospettazione dello stesso lavoratore ricorrente, il licenziamento verbale è stato intimato senza che alcuno vi abbia assistito.
In questo caso, salvo un’improbabile confessione, potranno essere utilizzate unicamente le presunzioni e i poteri istruttori officiosi ex art. 421 cod. proc. civ..
Potrà assumere rilievo, a livello presuntivo, il comportamento tenuto dalle parti nell’immediatezza rispetto al momento dell’asserito licenziamento verbale, come l’offerta del lavoratore della propria prestazione nei giorni successivi all’asserito licenziamento verbale, per iscritto (seppur per il licenziamento verbale non occorra l’impugnazione entro i termini di decadenza ex art. 6 legge 604/1966) o mediante presentazione presso l’azienda.
Oppure, nell’ipotesi di un colloquio avvenuto all’interno dell’ufficio del datore di lavoro a cui non ha assistito alcun testimone, potrebbero essere oggetto di valutazione, quale elemento di prova nell’ambito del complessivo quadro processuale, le affermazioni fatte nell’immediatezza dal lavoratore ai propri colleghi in merito a quanto accaduto. Infatti, pur non avendo la testimonianza "de relato ex parte actoris", di per sé sola, alcun valore probatorio, nemmeno indiziario, essa può tuttavia essere valutata come elemento di prova quando sia suffragata da ulteriori risultanze probatorie, che concorrano a confermarne la credibilità.
D’altra parte, laddove il datore di lavoro eccepisca che il rapporto si è risolto non per licenziamento verbale ma per dimissioni, sempre sotto il profilo della valutazione del comportamento successivo delle parti, può assumere rilievo l’esperimento o meno, da parte sua, delle procedure previste dalla legge ai fini della validità delle dimissioni, che il datore di lavoro, se in buona fede sulle dimissioni da lui affermate, dovrebbe espletare.
Eventualmente simili circostanze potranno essere indagate anche d’ufficio ai sensi dell’art. 421 cod. proc. civ. (per esempio mediante acquisizione di informazioni presso il Centro per l’Impiego), secondo quanto enunciato da Cass. n. 3822/2019, che, citando la nota pronuncia n. 11353/2004 delle Sezioni Unite, sollecita detto utilizzo anche nel caso in cui si siano verificate preclusioni o decadenze in danno delle parti.
Ciò, tuttavia, avendo presente che – ed è questo il punto più rilevante dell’orientamento espresso dalla sentenza in commento –, applicando il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte non è più necessario che il datore di lavoro fornisca la prova delle dimissioni, potendo, si ritiene, comunque assumere rilievo, nella valutazione complessiva delle rispettive prospettazioni difensive, la verosimiglianza o meno della ricostruzione storica proposta dal datore di lavoro anche come conseguenza della contestazione, più o meno specifica ex art. 416 comma secondo cod. proc. civ., delle deduzioni fattuali del lavoratore.
Restano i casi, definiti dalla pronuncia in commento “residuali”, in cui, nonostante l’utilizzo delle presunzioni e dei poteri istruttori officiosi, permanga comunque “una non superabile incertezza probatoria”, in cui – anche a prescindere dalla prova delle dimissioni eccepite dal datore di lavoro –, non raggiunta la prova del licenziamento verbale, fatto costituivo della domanda di impugnazione proposta dal lavoratore, quest’ultimo, ai sensi dell’art. 2697 comma primo cod. civ., dovrà essere considerato soccombente.
Si tratta, secondo la Suprema Corte, di casi, appunto, “residuali”, nel senso che, nonostante tutti i mezzi probatori esperibili, anche in via officiosa, non sia possibile raggiungere la prova del licenziamento verbale.
A conclusione di queste brevi considerazioni si deve osservare che, secondo l’esperienza giudiziaria, i casi residuali ricorrono in realtà assai frequentemente: i licenziamenti verbali, invero, si verificano (o comunque vengono dedotti) nel contesto, per lo più, di aziende di piccole dimensioni (non particolarmente strutturate, prive, per esempio, di un ufficio del personale), ed in cui, per dette caratteristiche, i rapporti personali sono più accentuati, sicché frasi, magari pronunciate d’impeto nell’ambito di un semplice diverbio, possono essere interpretate in modo polivalente, così come il comportamento successivo delle parti non sempre può fornire significativi elementi presuntivi da fare oggetto di valutazione in ambito processuale.
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