ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Ciro Angelillis
sommario: 1. Premessa. - 2. L’estensione erga alios delle sentenze della CEDU.- 3.Il principio consolidato nella Giurisprudenza della Corte e la ‘serialità delle violazioni’. - 4. Il principio consolidato della prevedibilità della decisione giudiziaria - 5. Il binario morto della dicotomia ‘Prevedibilità soggettiva/ oggettiva’. - 6. Mutamento interpretativo e mutamento giurisprudenziale -7. Mutamento interpretativo e rispetto del principio di prevedibilità nella vicenda Contrada
1.Premessa
La questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite dalla 6^ sezione penale è la seguente: “Se la sentenza della Corte Edu del 14 aprile 2015 sul caso Contrada abbia una portata generale, estensibile nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione, quanto alla prevedibilità della condanna; e, conseguentemente, laddove sia necessario conformarsi alla predetta sentenza nei confronti di questi ultimi, quale sia il rimedio applicabile”.
Il tema della possibile estensione erga alios della sentenza del 2015 della Corte EDU sul caso Contrada c. Italia si innesta in quello generale degli effetti sul giudicato penale delle sentenze della CEDU e della individuazione degli strumenti processuali che consentano al Giudice di eseguirle, intervenendo sul processo o sulla sentenza. L’ordinanza, le cui argomentazioni rispecchiano il convulso dibattito che caratterizza, da qualche anno, questo spicchio della materia della esecuzione, condivide l’opzione prospettata dal ricorrente di rimettere alle SSUU la decisione del ricorso, per via di diversi contrasti giurisprudenziali su questioni rilevanti ai fini della soluzione del caso in esame, ma presenta una peculiarità nella parte in cui - dopo avere evidenziato le criticità dei due orientamenti che oggi, con riferimento al quesito sopra indicato, si contendono il campo nel seno della Suprema Corte e che fanno capo alle sentenze ‘Dell’Utri’ ed ‘Esti’, entrambe della prima Sezione - sottopone all’esame delle SSUU una terza opzione di cui non nasconde gli effetti dirompenti. Mentre, infatti, le sentenze ‘Dell’utri’ ed ‘Esti’, per ragioni diverse e attraverso strumenti processuali diversi (la revisione europea la prima e l’incidente di esecuzione la seconda), escludono la possibilità di estendere ai rispettivi ricorrenti gli effetti della sentenza ‘Contrada’, la “terza via interpretativa” conferisce al principio posto dalla Corte europea - per cui, secondo l’ordinanza, “la garanzia di accessibilità del precedente ‘sfavorevole’ è riconosciuto dalla Corte EDU al solo precedente di legittimità a Sezioni Unite” - una valenza generale con effetti caducatori, a cascata, rispetto, non solo, a tutte le sentenze definitive di condanna per l’ipotesi delittuosa di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p. commessa prima del 1994 ma a tutte le “condanne” intervenute “prima del consolidamento della giurisprudenza sfavorevole al reo” determinato dall’intervento delle Sezioni Unite.
La prospettazione di questa opzione, nonostante i suoi possibili effetti dirompenti rispetto al principio della stabilità del giudicato, consegue alla considerazione che le sentenze ‘Esti’ e Dell’Utri’, per un verso o per l’altro, escludendo che “la sentenza emessa sul caso Contrada avesse effettivamente rilevato un deficit sistemico”, avevano escluso la esportabilità dei principi affermati dalla sentenza Contrada sulla base di soluzioni “non appaganti” rispetto “all’impostazione della sentenza Contrada”.
In primis, secondo l’ordinanza, non è la natura di origine giurisprudenziale della fattispecie del concorso esterno ad avere indotto la Corte EDU a pervenire alle sue conclusioni, come sostenuto dalla sentenza Esti e da quelle che si sono inscritte nella sua scia, ma la carenza di “certezza applicativa” della norma penale, presupposto indefettibile del principio di legalità di cui all’art. 7 della Convenzione, poichè anche una norma “formulata in maniera chiara e precisa” potrebbe essere oggetto di “una interpretazione giurisprudenziale non uniforme” .
Allo stesso modo, l’ordinanza rileva la criticità della sentenza Dell’Utri che ha condizionato all’esame della condotta processuale tenuta dal ricorrente illo tempore, la possibilità di prospettare il conflitto interpretativo rispetto ad un diversa qualificazione giuridica dei fatti contestati, nel senso che Dell’Utri non avrebbe potuto beneficiare della estensione degli effetti della sentenza della Corte EDU per non avere prospettato, al Giudice nazionale, come invece aveva fatto Contrada, la possibile riqualificazione dei fatti contestati nel diverso reato di favoreggiamento personale. La sesta sezione rileva che il comportamento processuale non può essere influente rispetto al giudizio di prevedibilità, pena la trasformazione del “ vulnus sistemico rilevato dalla Corte EDU in un vizio del singolo processo”.
Tanto chiarito, la questione di fondo enucleata dall’ordinanza è se ritenere violato il principio di prevedibilità convenzionale per tutti coloro che sono stati condannati in via definitiva per concorso esterno nel reato di cui all’art. 416-bis c.p. in relazione a condotte poste in essere prima del 1994 e della pronuncia della sentenza Dimitry delle Sezioni Unite ovvero, più in generale, per tutti coloro che hanno subito “condanne” intervenute “prima del consolidamento della giurisprudenza sfavorevole al reo” determinato dall’intervento delle Sezioni Unite e, conseguentemente, se la Corte europea abbia evidenziato o meno un difetto strutturale del sistema normativo interno tale da non potere non avere ricadute erga omnes.
2.L’estensione erga alios delle sentenze della CEDU
Si è detto che nella materia in trattazione i punti fermi non abbondano, ma tra i pochi che è possibile enucleare dall’interno del frastagliato e complesso panorama giurisprudenziale vi è quello (ben evidenziato dalla sentenza Esti del 12 gennaio 2018) della diversità di posizione di chi, dopo avere adito vittoriosamente la Corte EDU chieda al Giudice interno di elidere gli effetti del giudicato reputato iniquo dalla Corte, rispetto a chi (c.d. fratello minore) chieda gli stessi benefici rappresentando al Giudice nazionale di trovarsi nella situazione della parte vittoriosa a Strasburgo. Il giudice interno, infatti, solo nel primo caso è obbligato ad adeguarsi senza riserve e senza spazi di valutazione al dictum della sentenza della Corte, in virtù dell’art. 46 della Convenzione europea che prevede l’obbligo per gli Stati contraenti, di uniformarsi alle sentenze definitive della CoEDU per le controversie in cui sono parte, e, nel caso di condanna, di rimuovere tutte le conseguenze pregiudizievoli per la vittima che abbia adito la corte europea, senza che possa ritenersi di ostacolo, in questo senso, l’effetto preclusivo del giudicato, stante l’efficacia immediatamente precettiva nell’ordinamento italiano delle norme convenzionali, naturalmente nei limiti tracciati dalle sentenze gemelle della corte Costituzionale, che sono quelli della loro inidoneità a determinare l’inapplicabilità di norme interne con esse contrastanti, senza un intervento ablatorio della stessa corte Costituzionale.
Non così quando la questione affrontata dalla Corte EDU è portata all’esame del Giudice interno dai c.d. fratelli minori; in questi casi, svincolato dall’obbligo posto dall’art. 46 della Convenzione, il Giudice deve valutare, in via pregiudiziale, la ‘esportabilità’ al di fuori della vicenda processuale coinvolta dalla decisione della CEDU e la estensibilità erga omnes delle conclusioni formulate dalla Corte Edu. Oggi lo stato dell’arte ci consente di ritenere pacifico che la portata precettiva dell’art. 46 rimane confinata allo specifico caso coinvolto dalla pronuncia del giudice europeo, sicchè, negli altri casi, non esiste un obbligo di indifferenziata estensione erga omnes dei principi affermati da una sentenza CEDU.
A riprova di tanto si segnalano sinteticamente:
L’ordinamento convenzionale che, per un verso, prevede espressamente l’obbligo di adeguamento solo a vantaggio di chi è parte nel processo dinanzi alla Corte (art. 46 CoEDU), per l’altro riserva l’ipotesi della estensione dei principi erga alios alle c.d. sentenze pilota attraverso le quali, sul presupposto della pendenza di una pluralità di ricorsi vertenti sulla stessa problematica, la Corte indica allo Stato il problema strutturale o sistematico riscontrato nell’ordinamento interno e le misure riparatorie che deve adottare per porvi rimedio (art. 61 del regolamento CEDU).
I ripetuti interventi della Corte Costituzionale tra i quali si richiamano:
La sentenza n. 49 del 2015 che ha rivendicato l’autonomia esegetica del giudice nazionale che può e deve stabilire la ‘portata del precedente’, in quanto “sarebbe errato, e persino in contrasto con queste premesse, ritenere che la CEDU abbia reso gli operatori giuridici nazionali, e in primo luogo i giudici comuni, passivi ricettori di un comando esegetico impartito altrove nelle forme della pronuncia giurisdizionale, quali che siano le condizioni che lo hanno determinato. Il giudice nazionale non può spogliarsi della funzione che gli è assegnata dall'art. 101, secondo comma, Cost., con il quale si “esprime l'esigenza che il giudice non riceva se non dalla legge l'indicazione delle regole da applicare nel giudizio, e che nessun'altra autorità possa quindi dare al giudice ordini o suggerimenti circa il modo di giudicare in concreto” (sentenza n. 40 del 1964; in seguito, sentenza n. 234 del 1976), e ciò vale anche per le norme della CEDU, che hanno ricevuto ingresso nell'ordinamento giuridico interno grazie a una legge ordinaria di adattamento.”.
La sentenza n. 236 del 2011 che ha ribadito che la giurisprudenza europea va applicata con un margine di apprezzamento e di adeguamento alla luce delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata ad inserirsi e che le sentenze di Strsburgo restano pur sempre legate alla concretezza della situazione che le hanno originate.
La sentenza n. 210 del 2013 che ha affermato che “Spetta anzitutto al legislatore rilevare il conflitto verificatosi tra l’ordinamento nazionale e il sistema della Convenzione e rimuovere le disposizioni che lo hanno generato, privandole di effetti” ed in mancanza sarà la stessa Corte Costituzionale a valutare eventuali “contro limiti” rispetto alla accertata contrarietà della normativa interna al paradigma dell’aer. 7 della convenzione (nel caso di specie sottoposto all’attenzione della Corte non furono ravvisati ‘controlimiti’ nel principio di stabilità del giudicato rispetto ad una norma penale concernente il trattamento sanzionatorio).
I precedenti casi di estensione erga alios degli effetti delle sentenze della CEDU che hanno accertato un difetto strutturale dell’ordinamento per via di “pacifiche violazioni convenzionali di carattere oggettivo e generale” . Si è trattato di interventi del Legislatore (con valenza solo per il futuro) o della Corte Costituzionale (attraverso declaratorie di illegittimità costituzionale che hanno travolto potenzialmente i giudicati) o anche del Giudice di legittimità, sul piano interpretativo che, come è evidente, in nessun caso sono stati passivi esecutori di un comando altrui ma hanno determinato un ‘adattamento’ dell’ordinamento interno ai principi della convenzione, attraverso un ineludibile percorso di riflessione sul dictum del Corte europea:
la sentenza Sejdoc contro Italia che ha indotto il legislatore italiano a modificare l’art. 175 c.p.p. in materia di restituzione nel termine per impugnare le sentenze contumaciali;
la sentenza Torregiani del 2013 sul sovraffollamento carcerario in seguito alla quale è intervenuto il legislatore;
le vicende Dasgupta e Lorefice in ordine al principio di immediatezza nel secondo grado di giudizio, in cui l’adeguamento è avvenuto prima sul piano interpretativo poi su quello normativo (art. 603 cpp);
la vicenda Scoppola/Ercolano in cui la CEDU era intervenuta ritenendo in violazione dell’art 7 della Convenzione la norma che prevedeva, per i delitti puniti con l’ ergastolo e giudicati con rito abbreviato, la pena dell’ergastolo in luogo della pena dell’ergastolo con isolamento diurno e non la pena della reclusione temporanea in luogo della pena dell’ergastolo. In quest’ultimo caso è noto che, dopo che Scoppola, la parte vittoriosa a Strasburgo, aveva ottenuto dalla Suprema Corte - sia pure in sede di ricorso straordinario per errore di fatto (art. 625 bis cpp) - la sostituzione della pena dell’ergastolo con quella della pena della reclusione temporanea, la Corte Costituzionale (sollevata la questione dalla Suprema Corte alla quale si era rivolto Ercolano, un ‘fratello minore’ di Scoppola , impugnando l’ ordinanza del Giudice dell’esecuzione che aveva escluso che potessero essere estesi a lui gli effetti della sentenza Scoppola), aveva ritenuto costituzionalmente illegittima la norma già censurata dalla CEDU, stabilendo che il giudicato non può che ritenersi recessivo rispetto alle compromissioni dei valori e dei diritti fondamentali della persona;
La vicenda Drassich sul principio del contraddittorio in ordine alla qualificazione giuridica del fatto, in cui l’adeguamento è avvenuto sul piano interpretativo.
La necessità di fugare il rischio di collocare la CoEDU all’interno del nostro ordinamento quasi fosse l’organo del quarto grado di giudizio, con il potere di annullare le decisioni della Corte di Cassazione. Ipotesi, quest’ultima, che non è concettualmente ipotizzabile come non lo è un contrasto tra Corte europea e Stato contraente che abbia ad oggetto l’applicazione di un principio ai casi concreti: il possibile contrasto tra loro può ipotizzarsi esclusivamente sul piano della compatibilità/incompatibilità di diritti e principi, il quale trova la sua composizione attraverso il c.d. “dialogo tra le Corti” costituito dalla reciproca cessione di spazi all’evoluzione interpretativa dei diritti fondamentali, oppure, in ultima analisi, attraverso i meccanismi interni fissati dalla Corte Costituzionale con le c.d. sentenze gemelle del 2007 n. 348 e n. 349.
Per queste ragioni, alla domanda che l’ordinanza pone apertis verbis se “la sentenza sul caso Contrada lasci al giudice nazionale un margine di apprezzamento per valutare [se e ndr]come applicare erga alios la nozione di prevedibilità della legge penale in presenza di contrasti giurisprudenziali” , si ritiene di rispondere positivamente.
3.Il principio consolidato nella Giurisprudenza della Corte e la ‘serialità delle violazioni’
Nessun automatismo, dunque, ma apprezzamento della sentenza della Corte di Strasburgo sotto un duplice profilo, se sia espressione di una giurisprudenza europea consolidata e se accerti una violazione destinata a ripetersi tutte le volte che si faccia interpretazione/applicazione del diritto, fisiologica nello Stato contraente (c.d. serialità delle violazioni).
Quanto al primo profilo, l’esigenza di valutare la giurisprudenza europea nel suo complesso discende dal fatto che le sentenze della Corte, ancorchè l’interpretazione estensiva dell’art. 46 implichi una ‘autorità di cosa giudicata interpretata’ ai principi di diritto espressi in esse rispetto ai casi simili, restano pur sempre legate alla concretezza della situazione che le hanno originate, sicchè la peculiarità della singola vicenda su cui è intervenuta la sentenza, deve essere adeguatamente valutata dal giudice nazionale che sarà chiamato a trasporre il principio affermato dalla Corte di Strasburgo nel diritto interno solo dopo avere escluso il rischio che quel principio, per non essere ‘consolidato’ nell’ambito della complessiva elaborazione giurisprudenziale, sia smentito da altre pronunce.
E’ noto che questa impostazione, ripetutamente sostenuta dalla Corte Costituzionale (sent. n. 236/11; sent. n. 49/2015), è stata contestata dalla Grande Camera di Strasburgo che, nella causa GIEM c. Italia del 2018, ha ricordato come le sentenze della Corte abbiano tutte lo stesso carattere vincolante; tuttavia, come è stato condivisibilmente osservato in dottrina, il richiamo alla nozione di ‘diritto consolidato’ non intende sindacare la vincolatività delle pronunce della Corte rispetto al caso specifico, ma risponde all’esigenza di prevenire l’inevitabile rischio di contrasti nella giurisprudenza della CEDU e di acquisire, prima di provvedere ad una declaratoria di incostituzionalità di una norma interna per contrasto con la Convezione, la ragionevole certezza che l’orientamento della Corte europea non muterà.
Ne deriva, in conclusione, la necessità di vagliare se il principio affermato dalla Corte nella sentenza Contrada risponda al ‘diritto consolidato’ della Corte di Strasburgo sull’art. 7 della Convenzione ovvero se quella decisione sia stata il frutto di una valutazione condizionata dal caso concreto ed insuscettibile di ricevere una generale applicazione.
Sotto diverso profilo, occorre, poi, apprezzare se la sentenza di condanna della Corte costituisca una red flag in ordine ad un possibile difetto strutturale dell’ordinamento, per essere la violazione della Convenzione destinata a ripetersi, nel senso che il giudice nazionale dovrà accertare se l’ applicazione/interpretazione del diritto interno, che secondo la Corte europea integra una violazione della Convenzione, sia quella fisiologica oppure se la lettura del nostro ordinamento che la Corte europea ha effettuato nel caso di specie, non corrisponda effettivamente al nostro diritto vivente.
Nel caso di specie si dovrà accertare se la vicenda Contrada sia stata espressione di un ‘mutamento di diritto giurisprudenziale’, non consentito dal principio di legalità di cui all’art. 7 della Convenzione e destinato a ripetersi poiché applicazione fisiologica del diritto interno, oppure, avendo la Corte europea errato nel ricondurre un semplice ‘mutamento interpretativo’, pienamente consentito anche dalla Convenzione (in quanto non può essere un mero contrasto giurisprudenziale ad inibire l’applicazione di una determinata fattispecie di reato), ad un mutamento del diritto giurisprudenziale applicabile, nessun effetto generale sarebbe riconducibile alla sentenza, poiché nessun difetto strutturale, corrispondente a quello accertato dalla sentenza Contrada, esisterebbe nel nostro ordinamento.
4. Il principio consolidato della prevedibilità della decisione giudiziaria
4 .1 La Corte Europea dei diritti dell’uomo, nell’ affaire Contrada c. Italia, ricorso n. 66655/13), premesso che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa è “il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni ottanta e consolidatasi nel 1994 con la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 5/10/94, ‘Demitry’, e che, l’addebito riguarda episodi relativi ad un periodo tra il 1979 e il 1988, in cui il diritto vivente non si era ancora cristallizzato con l’intervento delle Sezioni Unite penali, ha ritenuto che la condanna di Contrada violasse il principio della ‘prevedibilità della decisione giudiziaria’, principio strettamente collegato con quello di legalità. Per pervenire alle sue conclusioni, la Corte di Strasburgo ha dato decisivo rilievo alle sentenze della Cassazione che hanno escluso la configurabilità giuridica del concorso esterno in associazione mafiosa, la prima risalente al 1987, un’altra al 1989 e altre due al 1994.
La CoEDU, come è evidente, non mette nel mirino una norma penale interna o la sua interpretazione da parte dei giudici nazionali e, tanto meno, la valutazione e la qualificazione giuridica dei fatti. Quello che la Corte europea pone in rotta di collisione con il principio di legalità di cui all’art. 7 della Convenzione, è il mutamento giurisprudenziale che incida sull’ambito di applicazione di una norma penale.
La fonte giurisprudenziale concorre ad integrare il diritto vivente e, pertanto, un indirizzo giurisprudenziale innovativo non può estendere la punibilità a fatti anteriormente commessi a meno che la nuova interpretazione non sia “ragionevolmente prevedibile”.
Dinanzi al divieto di retroattività, il principio di legalità convenzionale pone sullo stesso piano la legge e la giurisprudenza, sicchè il nuovo e non prevedibile indirizzo ermeneutico non può frustrare l'affidamento ingenerato da una interpretazione giurisprudenziale reiterata nel tempo anche se successivamente riconosciuta errata.
In altri termini, secondo l’interpretazione che dell’art. 7 della Convenzione fornisce la CoEDU, i requisiti di accessibilità e prevedibilità devono sussistere in riferimento al diritto come vive nella giurisprudenza, così che i mutamenti della norma possono assumere rilievo indipendentemente dal mutamento del testo di legge.
Questa interpretazione del dato normativo convenzionale non può essere messa in discussione dal Giudice interno e, d’altra parte, sottende un principio che non costituisce una novità nel panorama della giurisprudenza europea ( cfr CoEDU, sent. 10/10/2006, Pessino contro Francia; sent. 22/9/95, S.W. contro Regno Unito) tanto da potersi senz’altro definire un principio consolidato.
4.2 Tanto premesso, deve rilevarsi che detto principio ha piena cittadinanza nella giurisprudenza di legittimità anch’essa impegnata a presidiare il principio della certezza applicativa della norma all’interno del nostro ordinamento, sul presupposto che, dietro l’apparenza di semplici dinamiche interpretative della norma incriminatrice, possano nascondersi fenomeni di retroattività in malam partem del “diritto vivente”, che potrebbero rivelarsi più insidiosi di quelli riguardanti il diritto scritto. In particolare le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno più volte ribadito che i valori dell’ accessibilità (accessibility) della norma violata e della prevedibilità (foreseeability) della sanzione, si riferiscono non tanto all'astratta previsione legale quanto alla norma ‘vivente’ quale risulta dall’ interpretazione dei giudici e hanno affermato che, anche nel nostro ordinamento, il principio di legalità convenzionale “non consente che un'applicazione univoca decennale da parte della Corte di cassazione di un principio affermato a garanzia della libertà della persona possa essere messo nel nulla da una difforme interpretazione, anche se plausibile, proprio perché questo risultato interpretativo non è "prevedibile" dall'agente. (S.U. Beschi n. 18288/10, S.U. Gallo n. 29556/14).
Dunque, sotto questo profilo, non è riscontrabile alcun ‘deficit sistemico’ del nostro ordinamento nel quale trova piena cittadinanza la ‘prevedibilità della decisione giudiziaria’, sia pure all’interno di parametri di giudizio che siano compatibili con il nostro ordinamento, saldamente ancorato al principio della riserva di legge e alla concezione tradizionale che attribuisce una valenza meramente dichiarativa all’attività di interpretazione della giurisprudenza, volta esclusivamente ad enucleare il significato della norma. D’altra parte, secondo quanto ribadito dalla sentenza n. 236 del 2011 della Corte Costituzionale, la giurisprudenza europea va applicata con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata ad inserirsi. Cosicchè sullo sfondo rimane nitida la diversa valenza che assume il principio della prevedibilità del risultato interpretativo della norma, cui perviene l’elaborazione giurisprudenziale, nella misura in cui contribuisce ad individuare i comportamenti penalmente rilevanti, negli stati di civil law dove non ha cittadinanza il vincolo al precedente, rispetto a quelli di common law dove invece, come è noto, detto vincolo è finalizzato a favorire la stabilizzazione giurisprudenziale.
5.Il binario morto della dicotomia ‘Prevedibilità soggettiva/ oggettiva’
Sotto il diverso versante del paradigma valutativo della ‘ragionevolezza’ della prevedibilità della rilevanza penale di un fatto, emergono invece innegabili punti di frizione tra la sentenza Contrada e il nostro ordinamento, ben evidenziati dall’ordinanza di rimessione.
La Corte europea definisce il concorso esterno in associazione di tipo mafioso, il “risultato di una evoluzione giurisprudenziale” (paragrafo 74), individuando lo spartiacque della ragionevole prevedibilità, in un dato oggettivo, la sentenza Demitry del 1994, prima della quale “il reato non era sufficientemente chiaro e prevedibile”.
L’ordinanza della sesta sezione, per questa ragione, non condivide la “lettura”, della sentenza ‘dell’Utri che, “in chiave prettamente interna del dictum della Corte EDU” ha ancorato “la ragionevole prevedibilità della rilevanza penale di un fatto ad un profilo eminentemente soggettivo, anziché alla qualità della norma da valutarsi oggettivamente», e prospetta, in piena adesione alla impostazione della sentenza Contrada, la terza opzione interpretativa che porterebbe a reputare imprevedibile “qualunque condanna per fatti commessi prima del ‘consolidamento’ della giurisprudenza sfavorevole al reo”.
Si ritiene che la contrapposizione tra prevedibilità in termini oggettivi delle conseguenze sanzionatorie della fattispecie, di matrice europea, e prevedibilità soggettiva ritagliata sulle qualità personali dell’imputato, sia collocata su un binario morto, almeno per tre ordini di argomenti.
In primo luogo, quella che si ritrova nella sentenza Contrada è una nozione di prevedibilità in senso oggettivo che non può ritenersi espressione di giurisprudenza consolidata. Al contrario, in alcune pronunce la Corte valorizza come indice di valutazione della prevedibilità i fisiologici mutamenti socioculturali, tali da giustificare la comune contezza della illiceità della condotta (i c.d. reati naturali, sent. 22/11/’95 S.W. contro Regno Unito), altre volte la tipologia dei destinatari della norma che rende il dubbio sulla liceità della condotta fonte di un dovere di astensione dall’azione o quantomeno di grande prudenza (sent. 1/9/16, X e Y contro Francia).
Tanto basterebbe a rendere la sentenza Contrada, sotto questo specifico motivo, priva della forza espansionistica rivendicata dai ricorrenti.
In secondo luogo, la trasposizione del sistema ‘oggettivo’ di misurazione della prevedibilità della decisione genererebbe inevitabili sofferenze del sistema interno in ordine, quanto meno, alla individuazione del momento in cui possa ritenersi raggiunta la soglia minima della prevedibilità della decisione giudiziaria che, nel caso in esame, è stata individuata dalla CoEDU nell’intervento delle Sezioni Unite. Nel nostro ordinamento, infatti, il Supremo Consesso della Corte di Cassazione non interviene all’improvviso determinando una portata applicativa del precetto del tutto inaspettata e spiazzando i destinatari delle norme in ordine alla loro interpretazione; al contrario, il suo ruolo è quello di presiedere alla “graduale chiarificazione delle norme penali che contribuisce alla evoluzione del diritto penale”, per usare le parole della Corte di Strasburgo, concludendo un dibattito animatosi nelle Sezioni semplici con sentenze da tutti conoscibili. Inoltre, proprio la vicenda Contrada, caratterizzata da interventi delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione successivi a quello del 1994, che hanno ridisegnato, in modo decisivo, i contorni della portata applicativa della fattispecie in esame (si pensi all’abbandono del requisito dello ‘stato di fibrillazione’ dell’associazione mafiosa), dimostra il rischio di una mobilità permanente di detta soglia della prevedibilità.
Per altro verso, non può non convenirsi con la sentenza ‘Dell’Utri’ per cui il concetto di ‘prevedibilità delle conseguenze della propria condotta’ e di ‘conoscibilità del diritto vivente’ ingloba un’insopprimibile dimensione soggettiva dei suoi parametri valutativi tanto che il nostro ordinamento, del tutto coerentemente, sul presupposto che il giudizio di prevedibilità riferito alle conseguenze penali della condotta, non può prescindere dall’elemento psicologico, colloca il rimedio avverso le decisioni giudiziarie imprevedibili sul polo dell’elemento soggettivo, riconoscendo rilevanza all’errore inevitabile dell’imputato sul precetto a norma dell’art. 5 c.p., come rivisitato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 364 del 1988 che, non si dimentichi, prende le mosse da una vicenda in cui l’imputato aveva ritenuto, in buona fede, sulla base della giurisprudenza maggioritaria del Consiglio di Stato, di poter eseguire alcuni lavori senza licenza edilizia. Con il principio della ‘ignoranza inevitabile’ la Corte Costituzionale fornisce, evidentemente, una sponda al requisito della determinatezza della fattispecie penale, baluardo del principio di legalità di cui all'art. 25 della Costituzione, per cui se su un versante il legislatore deve rendere obiettivamente riconoscibile il perimetro del precetto normativo e l’ambito della sua portata applicativa, sull’altro, il giudice, nell’attività di adeguamento della norma al caso di specie, non può debordare dal limite della prevedibilità, in capo all’imputato, delle conseguenze criminose della sua condotta.
In conclusione, nel caso di specie, il principio di legalità convenzionale si innesta nel nostro ordinamento grazie all’art. 5 del c.p., come rivisitato dalla Corte Costituzionale, la cui giurisprudenza, in piena sintonia con quella della Suprema Corte di Cassazione. (S.U. Beschi n. 18288/10, S.U. Gallo n. 29556/14), garantisce equilibrio al sistema, salvaguardando la specificità della tradizione costituzionale e, al contempo, assicurando piena cittadinanza alla legalità convenzionale.
Soprattutto (terzo argomento), la questione della prevedibilità soggettiva/oggettiva non è rilevante poiché risulta disinnescata a monte dalla considerazione (connessa a quella immediatamente precedente sul ruolo delle Sezioni Unite) che, in un caso o nell’altro, il deficit di legalità accertato dalla CoEDU, nel caso Contrada, si basa su una lettura del nostro ordinamento che non corrisponde effettivamente al nostro ‘diritto vivente’. Il processo di avvicinamento verso la individuazione del ‘deficit sistemico’, del ‘difetto strutturale’ dell’ordinamento si ferma, così, inesorabilmente dinanzi al vaglio della c,d, ‘serialità delle violazioni’. Erroneamente, infatti, la Corte europea ha ricondotto ad una ipotesi di ‘mutamento giurisprudenziale’ la vicenda Contrada che, invece, ha concretizzato non altro che una ipotesi di ‘mutamento interpretativo’, pienamente ammessa dalla stessa Convenzione poiché in piena sintonia con il principio consolidato della prevedibilità giudiziaria.
6.Mutamento interpretativo e mutamento giurisprudenziale
L’ actio finium regundorum risulta inevitabile: il mutamento interpretativo rappresenta un significato possibile e prevedibile attribuito agli enunciati normativi in vigore al momento del fatto senza che possa ravvisarsi alcuna forma di violazione dell’art. 7 della Convenzione in quanto escludere la legalità di una condanna nei casi di incertezza applicativa significherebbe impedire qualunque processo di concretizzazione giurisprudenziale delle disposizioni legislative, in palese contraddizione con l’assunto fondamentale della stessa giurisprudenza europea secondo la quale alla produzione del diritto concorrono i due formanti legislativo e giurisprudenziale.
Anche sotto questo profilo è agevole registrare piena sintonia tra i principi consolidati di matrice europea e quelli interni che informano il ‘mutamento interpretativo’. Quanto meno va evidenziato con nettezza che questi ultimi non sono nel mirino della sentenza Contrada.
Il dovere “d’informazione e di attenzione” sulla norma penale, rientra pacificamente nei parametri valutativi dell’atteggiamento psicologico dell’imputato per cui, non è consentito ritenere, a priori, che un’oscillazione della giurisprudenza giustifichi l’assenza di remora per il cittadino a porre in essere comportamenti che, anche secondo una sola parte della Suprema Corte, sono punibili: “La colpevolezza prevista dagli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p. va, pertanto, arricchita, in attuazione dell'art. 27, primo e terzo comma, Cost., fino ad investire, prima ancora del momento della violazione della legge penale nell'ignoranza di quest'ultima, l'atteggiamento psicologico del reo di fronte ai doveri d'informazione o d'attenzione sulle norme penali, doveri che sono alla base della convivenza civile” C.Cost.n. 364/88.
I Giudici di Strasburgo, d’altro canto, quando filtrano la vicenda giudiziaria di Contrada attraverso il setaccio del principio di legalità convenzionale, richiamano una casistica variegata in cui le specifiche vicende sono trasversalmente accomunate da una imprevedibile inversione di rotta della giurisprudenza, rispetto ad un errato orientamento precedente (c.d.overruling correttivo) che nulla ha in comune con il mero contrasto di giurisprudenza, sicchè nel mirino della Corte europea è la violazione del principio dell’affidamento ingenerato da una giurisprudenza costante poi smentita all’improvviso.
Pertanto, se la vicenda Contrada - in cui l’oscillazione della Corte di Cassazione ebbe ad oggetto la configurazione giuridica di tutte quelle condotte di contiguità alla mafia siciliana poste in essere da esponenti del mondo istituzionale e ricondotte sotto l’ombrello della fattispecie associativa attraverso l’applicazione del meccanismo estensivo, di parte generale, del concorso di persone - si fosse spiegata interamente nell’alveo del mutamento interpretativo, non vi sarebbe stata violazione del principio di legalità che, proprio così come interpretato dalla CoEDU, contrasta le sole ipotesi di giurisprudenza costante poi smentita all’improvviso da una retroattiva interpretazione normativa in malam partem.
Occorre, allora, rompere gli indugi ed entrare senza remore (finalmente) in medias res in quanto la risposta al quesito posto dalla sesta sezione passa attraverso una riflessione che consenta - attraverso la rivisitazione della giurisprudenza che ha preceduto la sentenza Dimitry del 1994 e che ha costituito il panorama entro il quale sono state poste in essere le condotte del Contrada come dei suoi fratelli minori - di rispondere alla domanda se la rilevanza penale della condotta del Contrada e dei suoi fratelli minori poteva ritenersi, o meno, incerta per via delle oscillanti, contraddittorie, ambigue ricostruzioni della giurisprudenza, in ordine al significato della lettera dell’art. 416 bis. c.p., se, cioè, la lettura del nostro ordinamento che la CoEDU ha effettuato nel caso di specie, corrisponde effettivamente al nostro ‘diritto vivente’ oppure, al contrario, se la Corte europea ha errato nella lettura del nostro ordinamento riconducendo un semplice mutamento interpretativo a un mutamento della legge applicabile.
7. Mutamento interpretativo e rispetto del principio di prevedibilità nella vicenda Contrada
7.1 Il presupposto da cui prende le mosse la sentenza della Corte EDU è costituito da “una sentenza di condanna pronunciata nei confronti del Contrada .. basata su una giurisprudenza consolidatasi in malam partem successivamente ai fatti ascritti..” (cfr ordinanza di rimessione). Come si è detto, questa affermazione necessita di una verifica funditus, per cui, dopo avere riavvolto sinteticamente il nastro, occorre verificare se sia possibile formulare ipotesi di qualificazione alternativa della condotta del Contrada (e, per quanto interessa in questa sede, dei suoi fratelli minori) che fossero, al momento della commissione dei fatti, ragionevolmente prevedibili rispetto a quella per cui è seguita la condanna.
L’indagine, avente ad oggetto il panorama normativo ma anche giurisprudenziale coevo al decennio in cui sono stati commessi i fatti ascritti al Contrada (1979- 1988), appare, evidentemente, conseguenziale alla stessa pronuncia della CoEDU che si è fermata sulla soglia dell’affermazione del principio violato, limitandosi a ricostruire la cronologia dei diversi orientamenti giurisprudenziali nazionali senza valutare direttamente le disposizioni interne e il loro ambito di applicazione, versante, quest’ultimo, che costituisce prerogativa del Giudice nazionale.
7.2 Per la CoEDU, dunque, Contrada “non poteva conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti”.
Orbene, “gli atti compiuti” dal Contrada, non sono controversi e possono essere ricavati dalla sentenza di condanna secondo cui l’imputato contribuì “all’attività ed alla realizzazione degli scopi criminali dell’associazione mafiosa denominata ’cosa nostra’, in particolare fornendo ad esponenti della Commissione provinciale di Palermo notizie riservate riguardanti indagini e operazioni di polizia”.
Nonostante la questione della possibilità di applicare il meccanismo estensivo di cui all’art. 110 c.p. alle fattispecie plurisoggettive di associazione fosse sul tappeto sin dagli anni 70, la Corte europea concentra la sua attenzione su alcune sentenze della Cassazione che avrebbero “contestato l’esistenza di un tale reato”: la sentenza Cillari, n. 8092 del 14/7/87, e quelle, successive, Agostani, n. 8864 del 27/6/89 e Abbate e Clementi, nn. 2342 e 2348 del 27/6/94.
Di queste, l’unica sentenza coeva ai fatti ascritti al Contrada è la sentenza Cillari che, per questa ragione, assume un peso specifico decisivo nell’economia dell’intera motivazione della sentenza della CoEDU, in quanto, evidentemente, le sentenze rappresentative della tesi negazionista intervenute in epoca successiva ai fatti commessi dal Contrada e dallo stesso Genco (sentenze ‘Clementi’ e ‘Della Corte’ rispettivamente di maggio e di giugno del 1994), non possono essere prese in considerazione.
La sentenza Cillari, però, a ben vedere, “contesta” la fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa non sul presupposto della irrilevanza penale della relativa condotta ma, più semplicemente, ritenendo che: “La cosiddetta "partecipazione esterna", che ai sensi dell'articolo 110 cod. pen. renderebbe responsabile colui che pur non essendo formalmente entrato a far parte di una consorteria mafiosa abbia tuttavia prestato al sodalizio un proprio ed adeguato contributo con la consapevole volontà di operare perché lo stesso realizzasse i suoi scopi, si risolve, in realtà, nel fatto tipico della partecipazione punibile, la quale deve ritenersi integrata da ogni contributo apprezzabile effettivamente apportato alla vita dell'ente ed in vista del perseguimento dei suoi scopi, mediante una fattiva e consapevole condivisione della logica di intimidazione e di dipendenza personale propria del gruppo e nella consapevolezza del nesso causale del contributo stesso.”
Secondo la sentenza, cioè, il parametro valutativo della ‘partecipazione’, elemento costitutivo della fattispecie associativa, è affidato solo al contributo causale e non può essere limitato dal dato formale dell’inserimento nella struttura organizzativa della compagine criminale. Pertanto la condotta di partecipazione – intesa nel senso di ‘svolgimento di un ruolo’ all’interno dell’organizzazione e non di un mero ‘ far parte’ dell’associazione che renderebbe logicamente incompatibile un contributo causale del concorrente - può essere anche quella dell’extraneus, di colui, cioè, che non sia formalmente inserito nell’organigramma associativo, a condizione che sia obiettivamente rilevante, sotto il profilo causale, ai fini del perseguimento degli scopi dell’associazione. Altri stralci delle sentenze rappresentative della tesi negazionista confermano questa traiettoria interpretativa: il concorrente “eventuale” « non soltanto deve realizzare una condotta […] o, quanto meno, deve contribuire con il suo comportamento alla realizzazione della medesima, ma pur anche deve agire con la volontaria consapevolezza che detta sua azione contribuisce all’ulteriore realizzazione degli scopi della societas sceleris: il che, di tutta evidenza, non differisce dagli elementi - soggettivo ed oggettivo - caratterizzanti la “partecipazione”» sez. I, 18 maggio 1994, n. 2348, Clementi.
Per converso, nelle sentenze rappresentative della tesi possibilista, in relazione alla condotta dell’extraneus, non è mai stato messo in discussione che è necessario « che tale apporto, valutato ex ante, e in relazione alla dimensione lesiva del fatto ed alla complessità della fattispecie, sia idoneo se non al potenziamento almeno al consolidamento ed al mantenimento dell’organizzazione criminosa » (Cass. pen., sez. I, 13 giugno 1987, n. 3492, Altivalle, cit.). Nella stessa pronuncia i Supremi Giudici hanno sottolineato che « il concorso non sussiste quando il contributo è dato ai singoli associati, ovvero ha ad oggetto specifiche imprese criminose e l’agente persegua fini suoi propri, in una posizione di assoluta indifferenza rispetto alle finalità proprie dell’associazione ».
Evidentemente, i due diversi approcci culturali alla questione dell’ammissibilità del concorso di persone ex art. 110 c.p. per le fattispecie associative hanno generato un confronto all’interno della giurisprudenza (per altro animatosi solo in epoca successiva a quella della commissione dei fatti da parte del Contrada) in cui, però, la condotta causalmente orientata al perseguimento degli scopi associativi, non è mai stata collocata al di fuori dell’ alternativa, di pari trattamento sanzionatorio, partecipazione/ concorso esterno.
7.3 Pertanto, rispetto alla giurisprudenza rappresentata dalla sentenza Cillari, l’orientamento opposto che, riconoscendo cittadinanza nel nostro ordinamento al concorso esterno in associazione mafiosa, ha costituito, con la sentenza Demitry del 1994, il punto di approdo della elaborazione giurisprudenziale, non può definirsi ‘in malam partem’ (se non in senso lato). Anzi, dopo l’abbrivio della sentenza Demitry, la giurisprudenza delle Sezioni Unite, proseguendo l’elaborazione garantista del concorso esterno, al fine di scongiurare possibili approcci ‘morbidi’ alla valutazione dell’apporto causale del contributo, cui, in astratto, potrebbe prestarsi lo schema concorsuale, ha richiesto una verifica con giudizio ex post della efficacia causale della condotta del concorrente, secondo il modello della condicio sine qua non adottato dalla sentenza Franzese per i reati colposi ad evento naturalistico (Sez. U. Mannino, n. 33784/05).
Insomma, se lo schema giuridico del concorso esterno in reato associativo - che pure si affacciava, all’epoca dei fatti in esame, nel panorama del diritto giurisprudenziale vivente, anche grazie a pronunce di merito di particolare portata come quella del c.d. maxiprocesso dell’8/11/1985, Abbate Giovanni + 706 - è stato ritenuto non sufficientemente chiaro e prevedibile per Contrada, non rimane che incanalare “gli atti compiuti” dal Contrada nell’unica categoria giuridica alternativa possibile che è quella della partecipazione associativa piena. Lo stato d’incertezza generato dalla giurisprudenza e censurato dalla CoEDU atteneva alla collocazione delle condotte di contiguità alla mafia siciliana all’interno o all’esterno del perimetro della partecipazione e non, certo, alla loro riconducibilità nell’ambito della categoria della fattispecie associativa.
La lettura di altri stralci della motivazione della sentenza rappresentativa della tesi negazionista, la sentenza Cillari della prima sezione della Cassazione, sopra indicata, ne fornisce una formidabile conferma.
A pg. 7 della sentenza, infatti, la Prima sezione, ritiene “irrilevante ai fini della decisione” la fondatezza della censura mossa dai ricorrenti alla sentenza della Corte di Appello in punto di ammissibilità del “concorso eventuale nella realizzazione del reato de quo”. “Cio che ha rilevanza” prosegue la Corte, “è che il contributo cosciente apportato dal singolo si innesti nella struttura dell’associazione ed in vista del perseguimento della sua finalità, divenuta così, causa comune (civilisticamente intesa) dell’agire suo e dell’ente”.
In altri termini la prima sezione esclude la possibilità (invocata dai ricorrenti) di veicolare le condotte contestate verso il reato di favoreggiamento, per il sol fatto che la Corte di Appello aveva erroneamente ipotizzato il concorso esterno. Sicchè, prosegue la Corte, “si impone l’esame ..della posizione di ciascun ricorrente”, all’esito della quale il Giudice di legittimità perviene alla sua decisione di annullare con rinvio la sentenza della Corte di Appello, con riferimento ad alcuni dei ricorrenti, non perché le loro condotte erano state sussunte nella fattispecie concorsuale ma perchè difettava “il contributo cosciente”
7.4 Non solo allora, rimane impraticabile la via, mai ipotizzata da alcuna pronuncia della Cassazione, della irrilevanza penale delle condotte di Contrada come di coloro che sono stati condannati per concorso in associazione mafiosa, prima del 1994 (deve condividersi sul punto la sentenza Dell’Utri), ma anche l’alternativa di una qualificazione giuridica, in termini di favoreggiamento personale o, comunque, in termini diversi da quelli associativi.
Il punto è cruciale: configurare per il ‘fratello minore’ Genco, ma anche per lo stesso Contrada, la fattispecie del favoreggiamento, significherebbe, infatti, rimettere in gioco l’accertamento in concerto dei fatti - definitivamente cristallizzato dalle sentenze della Cassazione che definirono la vicenda processuale della cognizione - con una inconcepibile oltre che inammissibile rivisitazione delle condotte, involgendo un ambito della questione che rimane estraneo a questo giudizio come a quello della Cedu.
I Giudici interni nel caso Contrada come nel caso Genco avevano escluso, cognita causa, la configurabilità del reato di favoreggiamento personale con una valutazione in concreto della vicenda che, nel caso Contrada, non poteva essere (e non è stata) messa in discussione dalla CoEDU. Così come la dinamica degli eventi ascritti al Contrada, ha indotto il Giudice interno ad escludere che “gli atti compiuti” dal Contrada, finalizzati “alla realizzazione degli scopi criminali dell’associazione mafiosa denominata ’cosa nostra’”, fossero di natura saltuaria od episodica o comunque avessero caratteristiche tali da poter retrocedere verso la categoria del favoreggiamento personale di cui all’art. 378 c.p., allo stesso modo per Genco le condotte di “agevolazione di affari illeciti in favore di personaggi mafiosi” hanno indotto i Giudici della cognizione ad escludere che fossero configurabili fattispecie diverse da quella associativa.
In altri termini, deve escludersi che la sentenza Demitry abbia eroso l’ambito applicativo della fattispecie del favoreggiamento personale o di altre fattispecie limitrofe a vantaggio della fattispecie di concorso esterno, collocando alcune condotte che in precedenza erano qualificate diversamente, nel cono proiettivo della fattispecie concorsuale. Deve escludersi, cioè, che prima della sentenza Demitry vi fosse un dubbio interpretativo in ordine al contenuto negativo del contributo causale del partecipe come del concorrente esterno, in quanto in entrambi gli orientamenti rivisitati dalla sentenza Demitry, non sono mai state messe in discussione le condotte esterne al perimetro dell’area di punibilità della fattispecie associativa ( contributo dato per la commissione dei singoli delitti scopo o alle persone dei singoli associati, fenomeni di fiancheggiamento verso uno o più associati per motivi individuali e non per arrecare un contributo alla vita del consorzio criminale, ecc.) né il fine della tesi possibilista, condivisa dalle Sezioni Unite, è mai stato quello di introdurre all’interno di questo perimetro dette condotte.
Pertanto deve concludersi che l’operato dei Giudici interni ha determinato un assetto interpretativo della norma pienamente prevedibile o, quanto meno, non ha prodotto alcun effetto pregiudizievole per il Contrada come per Genco come per gli altri fratelli minori per i quali, alla luce delle considerazioni svolte, se non esistevano le condizioni per ritenere prevedibile che la loro condotta fosse qualificata in termini di concorso esterno, certamente esistevano le condizioni per ritenere prevedibile una decisione giudiziaria di condanna per il reato di partecipazione in reato associativo mafioso, condanna che, rispetto a quella subita, non avrebbe avuto connotazioni meno afflittive.
Conclusioni: rigetto del ricorso.
di Fabio Squillaci
Sommario: 1. Premessa – 2. Il “pacchetto corruzione”: i nuovi volti della pena – 3. Conclusioni
1.Premessa
Il dettato costituzionale secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato (art. 27, III comma Cost.) rappresenta il fulcro del lavoro che segue. Questo è il presupposto essenziale e irrinunciabile da cui si deve muovere quando si parla di pene e delle loro funzioni. Tuttavia, specie gli ultimi decenni del secolo scorso sono stati segnati – come è noto – da un notevole aumento della popolazione presente negli istituti di pena e la drammatica situazione carceraria ha suscitato “interesse” anche nei confronti della la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha condannato il nostro ordinamento per violazione dell’articolo 3 della Convenzione. È proprio attraverso la riduzione della popolazione ristretta, invero, che si creano i presupposti affinché quella funzione risocializzante possa essere davvero perseguita all’interno degli istituti penitenziari, in cui devono essere necessariamente garantiti e tutelati i diritti dei detenuti. È fuori discussione, del resto, che una detenzione disumana perde gli stessi connotati assegnati dalla Costituzione al trattamento sanzionatorio penale e, primo tra tutti, la sua attitudine rieducativa, coerentemente a quella che è la lettura data dalla Corte circa l’interpretazione dell’articolo 27, terzo comma della Costituzione.
Storicamente, facendo riferimento a una formulazione risalente a Seneca, si possono individuare due diverse concezioni del senso della pena. Da un lato vi sono quelle dottrine che giustificano la pena in base al concetto di quia peccatum est, con uno sguardo rivolto esclusivamente al passato; dall’altro, vi sono le dottrine che giustificano la pena in base al ne peccetur, guardando al futuro, focalizzandosi sullo scopo, sul miglioramento che può derivare dalla pena. Avendo puntualizzato tale discrepanza tra le due scuole di pensiero, possiamo affermare che il primo gruppo è formato essenzialmente da una sola dottrina, la teoria assoluta o retributiva della pena; e il secondo gruppo è composto da varie dottrine, che sono riconducibili ad almeno tre orientamenti: la teoria della prevenzione, dell’emenda e della difesa sociale.
Il Codice Rocco è riuscito, nell’ambito del sistema sanzionatorio, a fondere le idee della Scuola Classica e della Scuola Positiva, e su questo punto si è sostanziato, a lungo, il connotato dell’originalità dell’impianto sanzionatorio codicistico, noto comunemente con l’espressione di “doppio binario”. Un termine sintetico con la quale si richiama il profilo di coesistenza della pena e della misura di sicurezza. Si tratta, in entrambi i casi, di sanzioni penali che vengono connotate da diversi indici distintivi: infatti, la pena è commisurata alla gravità del reato commesso e la sua funzione è quella di essere la sanzione per il reo in relazione all’avvenuta commissione di un fatto, previsto dalla legge come reato. La misura di sicurezza, invece, non è ricollegata alla commissione del fatto delittuoso, ma al diverso profilo della pericolosità sociale dell’agente, la quale si rinviene nella probabilità, e non nella mera possibilità, della commissione, da parte di quello stesso soggetto, di ulteriori reati. Vengono, quindi, introdotte le misure di sicurezza per ragioni di carattere politico, volendo sanzionare anche circostanze non riconducibili alla commissione di un delitto tout court, ma che richiedevano un controllo da parte dell’autorità istituzionale, come afferma Rocco nella Relazione di accompagnamento al codice del 1930: “La necessità di costituire un sistema di rigida difesa sociale, sistema reclamato dalla mutata coscienza nazionale che ha bisogno dell’impiego di mezzi che assicurino in maniera decisa ed energica la prevalenza degli interessi generali sugli interessi particolari ovvero la subordinazione della parte al tutto per una necessità ferrea di comune disciplina”. Il sistema del doppio binario si rivelò, nei fatti, contraddittorio ed incongruente a causa della sua natura eccessivamente compromissoria. La dottrina vi ritrovò una pesante contraddizione teorica, dovuta al fatto che il sistema così licenziato suppone una concezione dell’uomo come “diviso in due parti”: una parte libera e responsabile, quindi, assoggettabile a pena; e una parte, determinata e pericolosa, assoggettabile a misura di sicurezza.
2.Il “pacchetto corruzione”: i nuovi volti della pena.
Scandita la premessa è opportuno muovere verso lidi più consoni al vero punto focale del lavoro, ovverosia le novità sanzionatorie in tema di delitti contro la P.A. Si fa riferimento al nuovo volto “punitivo” assunto dalla normativa vigente sempre più lontano da schemi repressivi tradizionali ed aperto, finalmente, ad una commistione tra modelli, influenzato forse da quella cultura europeista che considera la “pena” come un unicum pur se pregno di sfumature. La legislazione emergenziale degli ultimi anni in tema di corruzione permette di cogliere a pieno l’itinerario di viaggio del legislatore. Dopo la legge “Severino” legge n. 190/2012 e la legge n. 69/2015, è sopraggiunta il 9 gennaio scorso la legge n. 3/2019, recante «Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza e movimenti politici». Ad innescare il trend di profonda rivisitazione delle discipline anticorruzione è stata la legge n. 190/2012 che ha rappresentato un reale spartiacque nelle strategie di contrasto ai fenomeni corruttivi. La prima ha seguito lo schema dell’espansione del diritto penale: nuovi reati, fattispecie più ampie, pene più severe; da un altro versante, il legislatore del 2012 ha infranto, mediante lo sdoppiamento della fattispecie di concussione e la creazione del nuovo delitto di cui all’art. 319-quater c.p., un tabù che appariva sino a quel momento inviolabile: l’impunità, in qualità di vittima-concusso, del privato “indotto” ad un pagamento indebito dall’abuso del pubblico agente. La successiva legge n. 69/2015 si è limitata a razionalizzare il materiale normativo eliminando qualche incongruenza normativa. In aggiunta, la penna del legislatore ha ulteriormente arricchito il corpus degli strumenti anticorruzione, mediante l’innesto nel codice penale della riparazione pecuniaria di cui all’art. 322-quater e l’attenuante della collaborazione processuale, collocata nel nuovo comma 2 dell’art. 323-bis. Questo programma politico-criminale trova ora la sua definitiva affermazione mediante la l. n. 3/2019, battezzata dalla critica legge “Spazzacorrotti”. Sarebbe dunque riduttivo presentare quest’ultimo prodotto della penna legislativa un “accidente” della storia, giacché esso rappresenta piuttosto la chiusura di un cerchio legislativo iniziato poco più di un lustro fa. In secondo luogo, il robusto aumento delle pene comminate per i predetti reati, risponde a esigenze pragmatiche che spaziano da profili filosofici ad aspetti pratici: ad esempio nell’innalzamento dei minimi edittali si cela la voluntas legislatoris di rendere più difficile la sospensione condizionale della pena e l’accesso alle misure alternative alla detenzione, i cui spazi operativi peraltro sono stati via via compressi pure attraverso manipolazioni dirette delle relative norme. Ovviamente, questa escalation punitiva sottende l’idea, tutt’altro che fondata, che basti inasprire la minaccia edittale e incrementare i tassi di carcerazione per ottenere un corrispondente effetto dissuasivo. Sembra che il legislatore abbia accolto gli approdi dell’AED che ricollega l’effetto di deterrenza al paradigma della convenienza economica degli attori in campo, tanto in chiave di svantaggio per il reo, quanto in chiave di costi di per il soggetto pubblico inquisitore. In tal senso viene svilito il postulato di Beccaria secondo cui la probabilità di condanna è più importante del malum passionis minacciato. Certo, l’assoluta “certezza del castigo”, a cui anelava il padre del diritto penale moderno, appare oramai un’utopia, tanto più che molti studi ormai attestano come conti più che l’oggettiva probabilità della pena la sua percezione psicologica, vale a dire la probabilità attesa.
Oltre alla già riscontrata dilatazione delle fattispecie incriminatrici, all’introduzione di nuovi tipi penali e all’aumento smisurato delle pene edittali, ci sembra paradigmatica l’evoluzione conosciuta dall’immane apparato degli strumenti di abbattimento dei patrimoni illecitamente acquisiti. Un primo ambito di “contaminazione” ha riguardato il sistema delle misure di prevenzione patrimoniale: una regione ai confini del diritto penale, dilatatasi grandemente negli ultimi anni, ben oltre l’originaria sfera dell’antimafia (cfr. la legge “Rognoni-La Torre” n. 646/1982). Sennonché, al di là delle etichette formali, è arduo distinguere dal diritto penale in senso stretto (soprattutto) le misure patrimoniali, essendo queste protese più che al contenimento di una pericolosità soggettiva (dell’indiziato di reati) alla salvaguardia del sistema economico da intorbimenti criminosi.
Le novità su cui intendiamo soffermarci è la nuova sanzione della “riparazione pecuniaria” introdotta all’art. 322 quater c.p. Tale istituto, introdotto nel 2015, e la cui disciplina ora è stata ulteriormente rafforzata, completa quell’effetto “moltiplicatore” della risposta sanzionatoria che in un clima emergenziale si è voluto attribuire ai reati contro la p.a. in difetto di qualsivoglia ragionamento di sistema.
Innanzitutto, l’art. 322 quater c.p. delinea una forma di riparazione coattiva, di tipo non risarcitorio (restando difatti impregiudicato il risarcimento dei danni), non affidata all’iniziativa volontaria del reo e neppure subordinata ad un’espressa richiesta della persona offesa. Inoltre, la quantificazione dell’ammontare dovuto a titolo compensativo non è rimessa all’apprezzamento del giudice né commisurata ai pregiudizi complessivamente subiti dall’amministrazione di appartenenza, ma forfettariamente calibrata sui proventi materiali indebitamente ricevuti. Tali peculiarità rendono la misura del tutto inedita nel nostro sistema penale. Di certo, essa ha assai poco a che spartire con l’idea della riparazione del danno: nel caso di specie, la restituzione coattiva dell’indebito costituisce una sanzione patrimoniale che si aggiunge alla reclusione, operando contestualmente e indipendentemente da questa, anche in sede esecutiva. Va, inoltre, osservato che nonostante il nomen iuris (“riparazione pecuniaria”), l’istituto adombra una vocazione funzionale non solo compensatoria, ma anche (e soprattutto) punitivo-deterrente. In particolare, essa solleva seri problemi di coordinamento e sovrapposizione con l’istituto della confisca del prezzo o profitto del reato ex art. 322-ter c.p. Per queste ragioni, un’irrogazione cumulativa comporterebbe una violazione del ne bis in idem sanzionatorio e del principio di proporzione (art. 3 Cost.), anche per come delineato dai casi Grande Stevens c. Italia et similia, scongiurabile solo attraverso un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente (CEDU) orientata. Di fatto, e prescindendo dalle differenze nominalistiche, la somma delle due misure darebbe luogo ad una pena patrimoniale, formalmente inespressa, quantificata nel doppio del vantaggio illecito.
Con riferimento ai reati di corruzione la nuova misura non colpisce anche il privato corruttore, posto il mancato richiamo all’art. 321 c.p.: la norma fa riferimento a quanto ricevuto dal pubblico agente e non anche al vantaggio tratto dal privato e tale circostanza dovrebbe determinare la non applicabilità del nuovo istituto nei confronti del “privato indotto” e nei confronti del “privato corruttore internazionale”. La logica repressiva riformatrice non si esaurisce nell’innalzamento delle pene principali: il vero punctum dolens sono infatti le pene accessorie applicabili alle persone fisiche per i principali delitti contro la p.a. Le apportate modifiche normative, da un lato, tendono ad allungarne la durata e, dall’altro, a presidiarne l’effettività in caso di sospensione condizionale, patteggiamento o a seguito di riabilitazione del condannato. Analogo disegno è stato replicato nei riguardi dei soggetti collettivi, come emerge dall’inasprimento delle sanzioni interdittive irrogabili ai sensi del d.lgs. n. 231/2001. La ricerca di una severità “oltranzistica” dell’apparato punitivo ha raggiunto risultati per certi versi aberranti con l’estensione ai corrotti e ai corruttori del regime carcerario differenziato preveduto dall’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, il tutto in uno scenario appena scosso dalla pronuncia dei giudici di Strasburgo. Inoltre, sono cresciuti sia i casi di interdizione accessoria perpetua sia la durata della corrispondente misura temporanee. Il rigore repressivo è per giunta amplificato dall’attuale innalzamento edittale concernente la maggior parte dei delitti contro la p.a., che riduce sensibilmente le chances di condanna a una pena detentiva inferiore a 2 anni. Se l’innesto dell’induzione indebita del pubblico agente sana una stortura della riforma del 2012, l’inclusione della corruzione per l’esercizio delle funzioni e soprattutto del traffico di influenze illecite suscita non poche perplessità dall’angolazione della proporzione. Tale severità riverbera i suoi effetti anche sulla fase cautelare del procedimento, giacché la novella del 2019 ha altresì introdotto il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione quale ulteriore misura interdittiva applicabile prima della condanna, senza necessità di attenersi ai limiti di pena previsti dall’art. 287, comma 1, c.p.p. (nuovo art. 289-bis c.p.p.). Il legislatore, in secondo luogo, ha inteso enfatizzare la capacità afflittiva delle pene accessorie pure in caso di sospensione condizionale della pena e, sul piano processuale, di applicazione della pena su richiesta delle parti. La stessa logica si riverbera sull’istituto del patteggiamento nonché quelli dell’affidamento in prova al servizio sociale e della riabilitazione. Il nuovo comma 1-ter dell’art. 445 c.p.p. affida al giudice la scelta se applicare le pene previste dall’art. 317-bis c.p. anche nei casi di condanna a pena detentiva che non superi i 2 anni soli o congiunti a pena pecuniaria. Quanto all’affidamento in prova, l’esito positivo della misura estingue gli effetti penali della condanna ad esclusione delle pene accessorie perpetue, mentre, l’istituto della riabilitazione, si è detto, «non produce effetti» sulle pene accessorie perpetue.
3.Conclusioni In definitiva gli ultimi approdi sanzionatori nell’ambito dei reati contro la p.a. rivelano una pericolosa incapacità selettiva del legislatore che, influenzato dalle “emozioni di repressioni esemplari”, ha congeniato un sistema bizzarro che presta il fianco ad innumerevoli censure e rischia di essere colpito dalla scure della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. L’inasprimento delle comminatorie edittali cela una volontà di sterilizzare gli istituti premiali per alcune categorie di reati, evidenziando il serio rischio di concepire la pena detentiva quale misura fisiologica per i reati commessi dai white collars. Per altro verso lo snaturamento delle pene accessorie che, perduta la loro caratura di automatismo sanzionatorio e lasciati nella disponibilità decisionale del giudicante, diventano da predicato della pena una seconda pena, radicano nel sistema ordinamentale nuove ipotesi di contrasto con il principio del ne bis in idem sostanziale. Da ultimo la misura introdotta dall’art. 322 quater c.p., lasciando intatte le perplessità di cui si è detto, potrebbe rappresentare un principio di rinnovamento della logica punitiva attraverso l’affermazione di una seriazione di reati (ad esempio quelli contro la p.a.) per i quali la risposta detentiva non può essere l’unica concepibile e percorribile. In altri termini, in chiave futuristica, l’istituto de quo è un germe per inaugurare una nuova stagione punitiva in cui il diritto penale qualifichi la sanzione pecuniaria quale unico strumento più idoneo a realizzare quegli obiettivi di prevenzione, punizione ed emenda che sono posti a fondamento dell’art. 27 della
di Filippo Ruggiero
Tra le diverse narrazioni che ha avuto, nei diversi ambiti giudiziario, storico, e artistico letterario, Piazza Fontana al cinema è soprattutto Romanzo di una strage (Marco Tullio Giordana, 2012). A 50 anni dal 12 dicembre del 1969, le riflessioni ancora oggi si concentrano sulla scena di allora, che ha marcato indelebilmente la storia recente italiana. Come del resto suggerito dal titolo, a guardare gli eventi di allora attraverso il cinema si guarda un romanzo, efficace ed ancora attuale. In due ore di narrazione sono concentrate tante pillole di fatti, necessari alla contestualizzazione; sullo sfondo dell’autunno caldo si intrecciano le vite spezzate di semplici comparse della storia, come Annarumma, e l’intimità dell’ambiente familiare e domestico di un protagonista, come il commissario Calabresi (Valerio Mastandrea) e la moglie Gemma (Laura Chiatti); una società civile in fermento in relazione alla quale, tra i vari, lo sguardo si sofferma da una parte sulla figura di Pinelli (Pierfrancesco Favino), visto come padre nelle sue due diverse famiglie, e dall’altra su quelle di altri attori che hanno giocato il ruolo dei soldati, su un palcoscenico diretto da chi, dietro la scena, cercava di guidare a sé gli eventi. In questo contesto, un venerdì pomeriggio, in una banca allora colma di gente in piena attività di contrattazione, un orologio segna le 16.37 e una deflagrazione attesa si materializza agli occhi dello spettatore. Si può sentire lo stordimento di chi accorre sulla scena; si può vedere la reazione commossa della città, nelle scene di repertorio dei funerali sullo sfondo della musica di Mozart. La storia è storia, ed è nota. Al romanzo sono concesse licenze. Così è concessa la costruzione di un rapporto personale pacificante tra due protagonisti come Pinelli e Calabresi; è concesso prendere una posizione anche solo parziale sui fatti che seguirono la strage, la morte di un uomo che si trovava nelle mani di rappresentanti dello Stato; così come è concessa la libera ispirazione sul racconto dell’ultimo cambio di cravatta della vita del commissario Calabresi (stando al racconto che ne fu poi fatto dalla moglie). Ma al di là delle licenze, il romanziere vuole mostrare il crinale che la democrazia italiana ha attraversato in quel periodo. Perché in situazioni di incertezza, gli italiani seguono le voci sicure; perché in situazioni di incertezza si assiste al muoversi di spinte autoritarie; perché le tendenze della società civile, inoltre, possono orientarsi sulla base di fake news ante litteram, costruite ad arte, fatte diffondere allo scopo e che diventano verità. Il romanziere, alla fine del racconto, non crede che sia stata fatta giustizia per i fatti di allora; crede, anzi, che si sia preferita un’opera di rimozione, lasciando che fosse il tempo a lenire la ferita di morti innocenti. Ma ciononostante, non è la delusione il sentimento prevalente e il romanzo è caratterizzato da una tensione positiva; a fronte delle tentazioni autoritarie, una democrazia giovane – come quella italiana di allora e di oggi – è una conquista che si deve preservare e custodire con premura, attraverso il necessario impegno di tutti i suoi attori: sapienti uomini delle istituzioni, pronti a non assecondare tali impulsi; uno Stato composito, dove giostrano servizi oscuri e personaggi stravaganti come il questore Guida, ma anche persone come lo stesso commissario Calabresi o il magistrato Paolillo; una vedova, rappresentante della società civile che, nonostante tutto, trova in questi interlocutori la conferma alla propria fiducia nella giustizia. È grazie all’impegno di uomini come loro, a vario titolo, che il pericolo può essere evitato.
di Marco Imperato
La legge 69 del 2019 (il c.d. Codice Rosso), in vigore dallo scorso 9 agosto, è l’ennesimo intervento del legislatore che si occupa del fenomeno della violenza domestica e di genere.
Sono introdotte numerose novità di natura sostanziale, a cominciare dall’ennesimo aumento delle pene edittali e dall’introduzione di nuove figure di reato: diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate (cd. revenge porn), deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, costrizione o induzione al matrimonio e la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
La norma manifesto dell’intero provvedimento, tuttavia, è quella che stabilisce l’obbligo di assumere informazioni dalla persona offesa e da chi ha presentato denuncia entro 3 giorni dall’iscrizione nel registro delle notizie di reato.
Il vero intento della regola, sintomatica di profonda sfiducia verso la magistratura, è quello di esercitare pressione sulle Procure affinché garantiscano l’ascolto delle vittime in tempi strettissimi: da un’eventuale violazione del termine, infatti, non deriverebbe alcuna sanzione processuale e l’unica conseguenza effettiva sarebbe solo un procedimento disciplinare a carico del Pubblico Ministero inadempiente. Questo monito non credo contribuirà in alcun modo a garantire un servizio migliore; anzi, toglie serenità a chi deve valutare quotidianamente moltissimi fatti potenzialmente delicati ma ciascuno diverso dall’altro (e se io fossi una vittima o un indagato ci terrei molto alla serenità dell’autorità giudiziaria…).
L’ urgenza presunta ex lege per casi tra loro eterogenei (maltrattamenti e atti persecutori di qualsiasi gravità, violenze sessuali, lesioni aggravate di vario tipo) è incongrua e illogica perché costringe a trattare allo stesso modo e con analoga urgenza situazioni che dovrebbero consentire scelte e valutazioni differenziate.
Sarebbe come pretendere di diminuire i tempi di attesa al Pronto Soccorso solo stabilendo che tutti i malati vanno trattati con codice rosso (appunto…) e quindi massima priorità: è lapalissiano che senza aumentare le risorse a disposizione non vi potranno essere miglioramenti, ma si rischierà soltanto di ingolfare ancor di più il lavoro di chi deve gestire l’emergenza, senza alcun beneficio per le vittime in sala d’attesa.
Si tratta di scelte che non rispondono a logiche di funzionalità ma a strategie di propaganda.
La legge si preoccupa anche della formazione degli operatori ma non bastano enunciati generici; in questa materia l’esperienza è necessaria e la sfida sarebbe garantire un approccio adeguato anche da parte delle forze dell’ordine più “periferiche”, baluardo indispensabile nel Paese dei centri medio-piccoli (due terzi degli italiani vivono in comuni da meno di 50.000 persone), ma a cui è difficile chiedere una gestione professionale quando manca loro la possibilità stessa di specializzarsi. Senza dimenticare la difficoltà a districarsi in una giungla di novità legislative compulsive in cui si disorientano anche gli operatori giuridici più esperti.
Soprattutto agli operatori di prima linea sarebbe di aiuto un quadro normativo chiaro, stabile e semplificato, per aiutarli ad orientarsi nelle prime decisive scelte dell’indagine e nelle indicazioni da dare alla vittima al primo contatto.
Per gestire in modo più razionale l’emergenza del fenomeno, nella Procura Bologna si è data disposizione di utilizzare un protocollo di valutazione del rischio denominato SARA (Spousal Assault Risk Assessment), che consente di dare maggiore uniformità ed oggettività alla verifiche di rischi e priorità, ma non si potrà mai prescindere da esperienza, sensibilità personale e contesto culturale.
In questo quadro, la previsione dell’audizione automatica e immediata della vittima entro 3 giorni (spesso la seconda audizione, perché in molti casi l’indagine scaturisce da una denuncia\querela) rischia per un verso di essere inutile perché ripetitiva, per altro verso di risultare dannosa, perché si traduce nella c.d. vittimizzazione secondaria della persona offesa, cui ogni rievocazione delle condotte subite può provocare sofferenza ulteriore. Tanto è vero che nel recente passato la scelta legislativa era stata di segno opposto, mirando ad un’audizione unica della vittima, mediante la previsione dell’incidente probatorio per le persone offese dei medesimi reati per cui oggi si pretende invece un (secondo) ascolto frettoloso e senza contraddittorio.
Mi occupo di violenza domestica e di genere ormai dal 2004 e ho spesso ritenuto essenziale risentire le vittime di questi reati, ma non di rado è opportuno farlo solo dopo aver ampliato il ventaglio di conoscenze del contesto mediante altre indagini (così da saper porre anche le domande giuste); quando non emergono immediati ed evidenti elementi di rischio sarà anzi utile procedere ad una nuova audizione almeno dopo qualche settimana e non immediatamente.
Chi si occupa di queste vicende sa bene quanto fluide e instabili siano queste situazioni e quindi volta per volta va verificato l’andamento della vicenda e anche se vi siano dei cambiamenti nell’approccio della persona offesa. Eventuali ripensamenti della vittima non sono sempre determinanti o affidabili, potendo a volte essere il segnale anzi di situazione di vulnerabilità e paura, ma nemmeno possono essere ignorati: la persona che subisce dei maltrattamenti non va spremuta ma accompagnata, con un lavoro e un’attenzione che non sono mai meramente investigativi ma che devono farsi carico del contesto concreto.
Ancora una volta il profilo che manca in questa iniziativa legislativa è la prevenzione (non potendosi ritenere tale la mera previsione di misure di prevenzione in senso tecnico): ci si illude di risolvere un fenomeno così complesso e radicato concentrandosi solo sui sintomi e sulle conseguenze, senza fare alcuna seria riflessione o investimento sulle cause culturali, sociali ed economiche.
Si è di fatto investito il procedimento penale anche di funzioni preventive, che possono essere svolte dai nostri Uffici solo in casi specifici e comunque solo in presenza di gravi indizi di colpevolezza e concrete esigenze cautelari. Questo approccio non solo è inadeguato, ma complica le cose nel momento in cui il processo penale pone (giustamente e inevitabilmente) standard molto alti dal punto di vista probatorio e delle garanzie.
Se vogliamo davvero invertire la tendenza che vede questi fenomeni crescere inesorabilmente (e con loro crescono i costi umani e sociali della violenza), le vere sfide da affrontare sono al di fuori del processo penale:
- Prevenzione culturale che rimetta al centro la donna, la sua dignità e indipendenza nella società e all’interno dei nuclei familiari
- Sostegno alle pari opportunità come primo passo di emancipazione delle donne (la fragilità economica è un fattore non secondario nel rafforzare situazioni di maltrattamento e abuso)
- Forte campagna di informazione ed educazione per aiutare a riconoscere e prevenire gli abusi e per rendere le vittime consapevoli dei propri diritti
- Sostengo alle famiglie e alle comunità
- Politiche di integrazione in particolare verso il mondo dell’immigrazione, nel quale spesso la condizione femminile è ancor più vulnerabile e isolata
- Sostegno dopo il processo: cosa ne è della vittima una volta terminata la misura cautelare o emessa la sentenza?
Tutto questo poi deve trovare alla fine un sistema giustizia complessivamente credibile ed efficace, perché le vittime devono poter riporre fiducia nelle forze dell’ordine, nella magistratura e nella capacità delle istituzioni di non lasciarle da sole.
Nel contrasto alle violenze domestiche e di genere bisogna uscire dall’eterna emergenza di una stagione di propaganda, per avviare una percorso di serio investimento in cultura e risorse, affinché le regole già esistenti siano conosciute ed applicate con effettività e al contempo si diffonda consapevolezza di quanto sia prioritario proteggere le donne e sostenere la loro piena emancipazione e realizzazione.
di Giuseppe Fichera
Sommario: 1. – L’antefatto processuale. 2. – L’ordinanza interlocutoria delle Sezioni Unite del 2018. 3. – Il contraddittorio nel procedimento di approvazione del piano di riparto. 4. – Le conseguenze della violazione del contraddittorio. 5. – La decisione delle Sezioni Unite del 2019.
1. – L’antefatto processuale.
La vicenda che si commenta con queste brevi note ha certamente un tratto assai singolare: la violazione del contraddittorio tra tutti i creditori ammessi al concorso fallimentare nell’ambito del procedimento di approvazione di un piano di riparto delle somme da distribuire tra i medesimi creditori, viene rilevata d’ufficio per la prima volta dalle Sezioni Unite della S.C., dopo che la questione era passata sostanzialmente inosservata – nessuna delle parti avendo sollevato eccezioni di sorta sul punto – sia davanti al giudice delegato alla procedura che al tribunale fallimentare e pure innanzi ad un collegio della Prima sezione civile della medesima S.C.
In fatto la questione portata all’esame della S.C. può così riassumersi in breve: il commissario straordinario di una società, già posta in amministrazione straordinaria ex d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 (la c.d. Prodi bis), depositò un piano di riparto parziale dell’attivo disponibile tra taluni creditori già ammessi al concorso.
Avverso il detto piano di riparto venne proposto reclamo dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, dal Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (di seguito breviter i “Ministeri”), tutti soggetti che risultavano non ancora ammessi al concorso, essendo pendente il relativo giudizio di opposizione innanzi al tribunale fallimentare; il giudice delegato accolse il reclamo, ordinando l’accantonamento di tutte le somme appostate nel detto piano di riparto.
I Ministeri reclamanti, in particolare, contestavano la possibilità di procedere al riparto, sussistendo un loro credito di natura prededucibile – conseguente a danni da disastro ambientale cagionato dall’attività industriale svolta dalla società debitrice – pari complessivamente a circa 3,439 miliardi di euro, destinato ad essere pagato in via preferenziale; il giudice delegato, in prime cure, ritenne che fosse necessario un accantonamento integrale dell’attivo liquidato, in vista del relativo accertamento dei crediti all’esito del cennato giudizio di opposizione pendente.
Un creditore concorrente, già ammesso alla distribuzione dell’attivo disponibile in base al progetto di riparto parziale originario, propose allora reclamo avverso il decreto del giudice delegato, che venne accolto dal tribunale; il collegio del reclamo affermò che, alla luce delle risultanze dello stato passivo, non poteva tenersi in considerazione il credito vantato dalle amministrazioni – escluso dal concorso e dunque senza titolo idoneo a fondare una pronuncia interinale di accantonamento –, non potendosi includere i crediti degli opponenti allo stato passivo tra quelli di cui all’art. 110, comma quarto, l.fall., posto che la detta norma si riferisce esclusivamente ai crediti già inclusi nel piano di riparto anche se contestati; in mancanza quindi di una giustificazione dell'accantonamento, il tribunale dichiarò l’esecutività del progetto di ripartizione depositato dal commissario.
I Ministeri reclamati a questo punto proposero ricorso per cassazione avverso il decreto del tribunale; ad esso resistettero con controricorso il creditore concorrente e, in unica difesa, la società in amministrazione straordinaria e il suo commissario straordinario.
Con ordinanza interlocutoria n. 9250 del 13 aprile 2018, la Prima sezione civile, rimise gli atti al Primo presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
In particolare, le Sezioni Unite furono sollecitate dall’ordinanza interlocutoria a decidere la seguente questione di massima di particolare importanza: «se sia ammissibile il ricorso per cassazione, ex art. 111, comma settimo, Cost., nei confronti del decreto del tribunale fallimentare che, decidendo sul reclamo contro il provvedimento del giudice delegato, abbia ordinato l’esecuzione del piano di riparto parziale, avuto riguardo alla sua idoneità a stabilire, in maniera irreversibile o meno, da un lato, il diritto del creditore concorrente a partecipare al riparto dell’attivo fino a quel momento disponibile e, dall’altro, il diritto degli altri interessati ad ottenere gli accantonamenti nei casi previsti dall’art. 113 l.fall.».
2. – L’ordinanza interlocutoria delle Sezioni Unite del 2018.
Va premesso che con Cass. S.U. 26 settembre 2019, n. 24068, le Sezioni Unite in commento hanno risolto, in maniera abbastanza agevole, la questione di massima di particolare importanza sottoposta dalla cennata ordinanza interlocutoria della prima sezione civile, dando continuità a quello che si può definire un orientamento “granitico” della S.C. (a partire già dalle remote Cass., Sez. 1, 27 gennaio 1961, n. 124 e Cass., Sez. 1, 4 aprile 1962, n. 703, cui fecero seguito una serie di arresti tutti in assoluta continuità, tra i quali merita di essere menzionata la fondamentale Cass., Sez. 1, 6 maggio 1992, n. 5358), pronunciando il seguente principio di diritto: «il decreto del Tribunale che dichiara esecutivo il piano di riparto parziale, pronunciato sul reclamo avente ad oggetto il provvedimento del giudice delegato, nella parte in cui decide la controversia concernente, da un lato, il diritto del creditore concorrente a partecipare al riparto dell'attivo fino a quel momento disponibile e, dall'altro, il diritto degli ulteriori interessati ad ottenere gli accantonamenti delle somme necessarie al soddisfacimento dei propri crediti, nei casi previsti dall'art. 113 l.fall, si connota per i caratteri della decisorietà e della definitività e, pertanto, avverso di esso, è ammissibile il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111, co. 7°, Cost.».
Quello che ci interessa approfondire in questa sede, invece, è il tema sollevato con una precedente ordinanza interlocutoria – la n. 31266 del 4 dicembre 2018 – delle medesime Sezioni Unite della Corte di Cassazione; con il cennato provvedimento il S.C. aveva espressamente richiesto all’Ufficio del Massimario del Ruolo della S.C. una “relazione di approfondimento” (ai sensi del § 71.2. delle vigenti tabelle di organizzazione della Cassazione), evidenziando l’esistenza di una questione processuale, mai sollevata da alcuna delle parti nel corso del procedimento né rilevata d’ufficio dai giudici, concernente la esatta individuazione di chi sia legittimato all'impugnativa di un piano di riparto e, conseguentemente, sui soggetti nei cui confronti vada sempre integrato in contraddittorio in sede di reclamo endofallimentare.
3. – Il contraddittorio nel procedimento di approvazione del piano di riparto
La problematica sollevata d’ufficio dalla cennata ordinanza interlocutoria delle Sezioni Unite, tra origine dal singolare iter processuale seguito dalle impugnazioni al piano di riparto sottoposto all’esame del Giudice di legittimità.
E invero, l’iniziale progetto di ripartizione in favore dei creditori in prededuzione e di ripartizione parziale in favore dei creditori pignoratizi, ipotecari e privilegiati generali fino al nono grado, già ammessi al concorso, presentato dal commissario straordinario al giudice delegato, venne comunicato, su ordine di quest’ultimo, a tutti i creditori concorrenti a mezzo PEC.
Nei quindici giorni successivi avverso il detto progetto di riparto parziale i Ministeri proposero reclamo ex art. 36 l.fall.; il giudice delegato, con decreto inaudita altera parte, dispose la sospensione dell’esecuzione del riparto delle somme, ordinando ai reclamanti di dare comunicazione del reclamo a mezzo PEC al commissario straordinario.
La società in amministrazione straordinaria depositò quindi una memoria difensiva, in seno alla quale chiedeva di respingere il reclamo; pure taluni tra i creditori ammessi al concorso con il privilegio generale mobiliare ex art. 2751-bis, n. 2), c.c. (tutti professionisti che avevano reso le proprie prestazioni in favore della società quando era ancora in bonis), intervennero volontariamente nel procedimento, concludendo senz’altro per il rigetto del reclamo.
Il giudice delegato, in primo luogo ritenne inammissibile l’intervento volontario in giudizio sia della società in amministrazione straordinaria che dei creditori non reclamanti – essendo, secondo il suo parere, unici contraddittori, nel reclamo ex art. 36 l.fall., il reclamante e il commissario della società in amministrazione straordinaria – e, invece, giudicò ammissibile il reclamo proposto dai creditori non ancora ammessi al concorso; accolse poi integralmente il reclamo, rigettando la richiesta di esecutività del progetto di ripartizione parziale avanzata dal commissario straordinario e disponendo nel decreto che le somme indicate nel piano di riparto restassero “accantonate”.
Uno soltanto tra i creditori concorrenti che erano intervenuti volontariamente nel reclamo, propose allora reclamo, ex art. 26 l.fall., avverso il detto decreto del giudice delegato. Fissata dal presidente della sezione fallimentare udienza per la comparizione delle parti, il reclamo venne notificato, a cura del medesimo reclamante, ai Ministeri – che si costituirono con memoria difensiva –, nonché alla società in amministrazione straordinaria e al suo commissario straordinario, che invece non spiegarono alcuna difesa.
Il tribunale, sovvertendo integralmente la decisione del giudice delegato, ritenne ammissibile senz’altro l’intervento dei creditori concorrenti nel procedimento di impugnazione del piano di riparto; accolse pure il reclamo proposto dal professionista intervenuto volontariamente in prime cure, dichiarando esecutivo il progetto di ripartizione parziale in precedenza depositato dal commissario straordinario.
A questo punto i Ministeri proposero ricorso per cassazione avverso il decreto del tribunale fallimentare reso sul reclamo proposto dal professionista; ad esso resistettero con controricorso il creditore concorrente vittorioso in sede di reclamo, e, in unica difesa, la società in amministrazione straordinaria e il suo commissario straordinario.
Ora, per capire meglio il tema di indagine, è forse utile qui ricordare che il testo dell’art. 110, comma terzo, l.fall., come introdotto dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, prevedeva che il giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, ordinasse il deposito del progetto di ripartizione in cancelleria, disponendo che tutti i creditori, compresi quelli per i quali era in corso un giudizio di opposizione allo stato passivo, ne fossero avvisati mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento o altra modalità telematica.
I creditori, entro il termine perentorio di quindici giorni dalla ricezione della comunicazione di cui al secondo comma, potevano «proporre reclamo contro il progetto di riparto nelle forme di cui all’articolo 26».
Ai sensi del quarto comma dell’art. 110 l.fall., decorso il termine per proporre reclamo, il giudice delegato, su richiesta del curatore, dichiarava esecutivo il progetto di ripartizione.
Con il d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 (il c.d. “decreto correttivo”), si è stabilito invece che il giudice ordina il deposito del progetto di ripartizione in cancelleria, disponendo che tutti i creditori, compresi quelli per i quali è in corso uno dei giudizi di cui all’articolo 98 l.fall., ne abbiano conoscenza integrale a mezzo PEC; non è più previsto invece, dopo il decreto correttivo del 2007, che il giudice delegato debba acquisire il parere del comitato dei creditori.
I creditori, entro il termine perentorio di quindici giorni dalla ricezione della detta comunicazione, possono proporre reclamo al giudice delegato contro il progetto di riparto, ai sensi dell’art. 36 l.fall.
La riformulazione dell’art. 110, terzo comma, l.fall., che ha sostituito al reclamo ex art. 26 l.fall. quello ex art. 36 l.fall., è espressione della scelta della riforma di ridefinire le attribuzioni degli organi delle procedure fallimentari, residuando in capo al giudice delegato soltanto le funzioni di controllo per decidere le impugnative avverso un atto del curatore .
Ora, mentre l’art. 26 l.fall. stabilisce che «Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato, a cura del reclamante, al curatore ed ai controinteressati entro cinque giorni dalla comunicazione del decreto», non potendosi dubitare che nella categoria vi rientrino tutti i creditori che potrebbero subire modifiche nelle quote di riparto loro assegnate, il discorso appare diverso per l’art. 36 l.fall., norma che – essendo prevista in tema di impugnazione dei provvedimenti di amministrazione del curatore – si limita seccamente a disporre che sono legittimati al reclamo il fallito e ogni altro interessato, mentre sotto il profilo procedurale stabilisce che «Il giudice delegato, sentite le parti, decide con decreto motivato, omessa ogni formalità non indispensabile al contraddittorio».
Orbene, sulla legittimazione attiva a proporre reclamo avverso il progetto depositato dal curatore non sembrano sorgere soverchi dubbi, dovendo farsi coincidere i creditori interessati con i destinatari della comunicazione tramite PEC del progetto medesimo; forse più problematico, invece, riuscire a stabilire se il reclamo, da chiunque proposto, debba essere comunicato, oltre al curatore come espressamente presuppone la norma («sentito il curatore»), anche a tutti gli altri creditori concorrenti controinteressati.
L’opinione della dottrina sul punto, peraltro, è unanime nel ritenere che il contraddittorio vada esteso anche ai controinteressati, da intendere qui quali creditori in qualche modo potenzialmente pregiudicati dalla diversa ripartizione auspicata dal reclamante, poiché la relativa quota di riparto potrebbe subire una variazione, ovviamente in peius.
Tuttavia, si pone il problema di affidare al curatore – il cui atto è esattamente quello oggetto del reclamo – la scelta dell’individuazione dei creditori concorrenti controinteressati; sembra allora più opportuno sottrarre una tale valutazione al medesimo reclamato, onerando il curatore di dare avviso del reclamo, ovvero in caso di più gravami, dei reclami proposti, a tutti i creditori concorrenti già destinatari del progetto di ripartizione, mettendoli così in condizione di valutare se intervenire nel procedimento per sostenere o contrastare le ragioni del reclamante.
Va rimarcato, poi, come nella giurisprudenza della S.C., già nel vigore della precedente disciplina introdotta dalla legge del ’42, non erano sorti soverchi dubbi sulla necessità di integrare il contraddittorio, nel caso di reclamo ex art. 26 l.fall. – l’unico allora disciplinato dalla legge fallimentare – avverso il provvedimento del giudice delegato che stabiliva l’esatto contenuto del piano di riparto parziale rendendolo esecutivo.
In un primo tempo, anzi, la S.C. (Cass., Sez. 1, 14 marzo 1985, n. 1983) aveva affermato che poiché la sentenza n. 42 del 1981 della Corte Costituzionale (la quale dichiarò illegittimo l’originario art. 26 l.fall. nella parte in cui assoggettava a reclamo, disciplinato nel modo ivi previsto, i provvedimenti decisori emessi dal giudice delegato in materia di piani di riparto dell'attivo), aveva caducato gli aspetti della disciplina positiva dell’istituto in contrasto con la tutela costituzionale del diritto di difesa (dovendo essere colmata la lacuna discendente dalla pronuncia di incostituzionalità, con le regole generali disciplinanti il procedimento in camera di consiglio), il tribunale, in sede di reclamo contro il provvedimento del giudice delegato che stabiliva e rendeva esecutivo il piano di riparto, fosse tenuto (a pena di nullità rilevabile d’ufficio in sede di impugnazione) all’osservanza del principio del contraddittorio e, quindi, a sentire oltre al reclamante, anche il fallito, il comitato dei creditori, il curatore ed eventualmente anche tutti gli altri controinteressati che ne avessero fatto richiesta.
Successivamente, peraltro, la medesima Corte di legittimità (Cass., Sez. 1, 1 ottobre 1997, n. 9580) aveva chiarito che in sede di reclamo al tribunale fallimentare, contro i provvedimenti resi dal giudice delegato in tema di vendita dei beni acquisiti all’attivo, ai sensi dell'art. 26 l.fall., l’osservanza del principio del contraddittorio richiedeva che il reclamo ed il provvedimento che ordinava la comparizione delle parti per la decisione in camera di consiglio, fossero notificati – spontaneamente dal reclamante o, in difetto, su ordine del tribunale, ed a pena di inammissibilità del rimedio – al curatore fallimentare ed ai soggetti che, con riferimento alla specifica materia che costituisce oggetto del giudizio, erano destinatari degli effetti della decisione; non anche al comitato dei creditori, il quale non aveva, sub Julio, nessun potere di gestione attiva o di rappresentanza del fallimento, ma solo una funzione interna, consultiva e di controllo.
4. – Le conseguenze della violazione del contraddittorio.
Per giurisprudenza costante della S.C., (Cass., Sez. 6-3, 16 marzo 2018, n. 6644; Cass., Sez. 1, 26 luglio 2013, n. 18127; Cass, Sez. 3, 13 aprile 2007, n. 8825; Cass., Sez. 3, 26 febbraio 2004, n. 3866), quando risulta integrata la violazione delle norme sul litisconsorzio necessario, non rilevata né dal giudice di primo grado, che non abbia disposto l’integrazione del contraddittorio, né da quello di appello, che non abbia provveduto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354, primo comma, c.p.c., resta viziato l’intero processo e s’impone, in sede di giudizio di cassazione, l'annullamento, anche d’ufficio, delle pronunce emesse ed il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure, a norma dell’art. 383, terzo comma, c.p.c.
Questo principio ha trovato in passato applicazione anche nell’ambito dei procedimenti in camera di consiglio, esattamente in tema di impugnazione del piano di riparto dell’attivo.
E invero già la S.C. (Cass., Sez. L, 9 luglio 1991, n. 7555) ebbe modo espressamente di affermare la nullità per violazione del principio del contraddittorio – rilevabile di ufficio anche in sede di legittimità – del provvedimento del tribunale che decida sul reclamo avverso il decreto, col quale il giudice delegato aveva dichiarato l'esecutività del piano di ripartizione dell’attivo, allorché tale decisione era stata adottata senza che il reclamo sia stato notificato ai creditori non reclamanti o, comunque, senza che gli stessi siano stati posti in condizione di conoscere l’esistenza del relativo procedimento e di comparirvi, spiegandovi le proprie difese, al fine di non vedere modificata in peius la loro collocazione o compromessa la possibilità di soddisfacimento totale o parziale del loro credito, non rilevando in contrario né che l’esito di detto procedimento fosse stato, in concreto, favorevole a tali creditori, né che questi non avessero proposto, nella fase anteriore di accertamento del passivo, ritualmente la domanda di ammissione.
Di recente, sempre nell’ambito di procedimenti camerale endofallimentari e precisamente in tema di esdebitazione del fallito, la S.C. (Cass., Sez. 1, 9 giugno 2014, n. 12950; Cass., Sez. 1, 25 ottobre 2010, n. 21864) ha cassato, con rinvio al tribunale, il decreto della corte d’appello confermativo del rigetto dell'istanza volta a ottenere il beneficio richiesto dal fallito, perché la domanda con cui il debitore chiedeva di essere ammesso all’esdebitazione non era stata notificata a tutti i creditori concorrenti non integralmente soddisfatti (in applicazione di Corte Cost. 30 maggio 2008, n. 181), ritenendo che la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di tali creditori determini l’inesistenza della pronuncia e la necessità di rimettere la controversia al primo giudice ex art. 354 c.p.c..
E ancora in tema di procedimento camerale di esdebitazione, la medesima S.C. (Cass., Sez. 1, 13 novembre 2015, n. 23303) ha ribadito che i creditori non integralmente soddisfatti, in quanto litisconsorti necessari, non possono essere pretermessi neppure nella fase di reclamo, dovendosi escludere, a pena di nullità rilevabile d'ufficio della decisione assunta, che il contraddittorio possa essere circoscritto a coloro che si siano costituiti innanzi al primo giudice, sicché, in tal caso, la decisione va cassata con rinvio al giudice del reclamo per l’integrazione del contraddittorio.
5. – La decisione delle Sezioni Unite del 2019.
Orbene, nella vicenda all’esame delle Sezioni Unite, come abbiamo visto in precedenza, è risultato incontroverso che il reclamo proposto dai Ministeri avverso il progetto di riparto parziale del commissario straordinario, non venne comunicato da quest’ultimo a nessuno tra i creditori concorrenti, né venne loro notificato su iniziativa dei medesimi reclamanti. E ciò nonostante in seno al reclamo le amministrazioni chiedessero, in sostanza, di accantonare integralmente tutte le somme destinate dal piano di riparto impugnato ai creditori ammessi al riparto, così pregiudicando concretamente il soddisfacimento delle loro ragioni di credito.
Peraltro, lo si è già ricordato sopra, taluni tra i creditori controinteressati ammessi al progetto di riparto parziale, depositarono un atto di intervento volontario – addirittura giudicato inammissibile dal giudice delegato –, mentre si è visto che tutti gli altri creditori concorrenti, pure destinatari delle somme previste nel riparto in base al progetto reclamato e, quindi, certamente controinteressati rispetto ai Ministeri, non spiegarono difese di sorta (è il caso dei creditori in prededuzione, di quelli ipotecari e pignoratizi, dei creditori muniti di privilegio generale ex art. 2751-bis n. 1) e 2) c.c. e degli altri creditori privilegiati generali, tutti ammessi al riparto parziale impugnato).
Quanto al secondo reclamo, quello proposto avanti al tribunale da uno solo tra i professionisti intervenuti nel primo reclamo celebrato davanti al giudice delegato, è sicuro che il ricorso venne notificato – a cura del medesimo reclamante – soltanto ai Ministeri, nonché alla società in amministrazione straordinaria e al suo commissario straordinario; nessuno degli altri creditori concorrenti, compresi quelli già intervenuti spontaneamente nel giudizio di prime cure, ricevettero notizia dell’impugnazione proposta da un loro sodale innanzi al collegio.
Né il tribunale, pure ritenuto ammissibile l’intervento volontario nel giudizio spiegato dal professionista, come quindi dagli altri creditori concorrenti intervenuti solo in prime cure, ritenne di disporre alcuna integrazione del contraddittorio, né nei confronti di questi ultimi, comunque parti processuali in prime cure – e però neppure destinatari della notifica del reclamo da parte del loro originale sodale –, né tantomeno nei confronti degli altri creditori controinteressati rimasti all’oscuro dell’intero procedimento, sia nella fase celebrata innanzi al giudice delegato che in quella davanti al collegio.
Le Sezioni Unite, allora, non possono che prendere atto delle plurime violazioni del contraddittorio che si erano consumate – nel singolare silenzio serbato da tutti i partecipanti al procedimento – nel corso dell’intero giudizio; e la S.C, in continuità con i suoi precedenti arresti, afferma il seguente principio di diritto: «In tema di riparto fallimentare, ai sensi dell'art. 110 l.fall. (nel testo applicabile ratione temporis come modificato dal d.lgs. n. 169 del 2007), sia il reclamo ex art. 36 l.fall. avverso il progetto – predisposto dal curatore - di riparto, anche parziale, delle somme disponibili, sia quello ex art. 26 l.fall. contro il decreto del giudice delegato che abbia deciso il primo reclamo, possono essere proposti da qualunque controinteressato, inteso quale creditore che, in qualche modo, sarebbe potenzialmente pregiudicato dalla diversa ripartizione auspicata dal reclamante, ed in entrambe le impugnazioni il ricorso va notificato a tutti i restanti creditori ammessi al riparto anche parziale».
In sostanza, quale che sia il tipo di impugnazione promosso dalla parte interessata, cioè sia che si tratti di reclamo davanti al giudice delegato, ex art. 36 l.fall., avverso il progetto presentato dal curatore (ovvero dal commissario straordinario), sia che si discuta di quello innanzi al collegio, ex art. 26 l.fall., contro il decreto del giudice delegato, è sempre necessario integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i controinteressati, id est i creditori concorrenti che siano risultati ammessi al riparto anche parziale e che, dall’accoglimento del reclamo, potrebbero subire un concreto pregiudizio discendente dalla diversa ripartizione dell’attivo auspicata dalla parte che abbia promosso il reclamo.
E nella vicenda processuale all’esame della Suprema Corte, plateale si mostra la violazione delle norme sul contraddittorio, non rilevata né dal giudice delegato, il quale non aveva infatti disposto la notifica dell’originario reclamo nei confronti di tutti i creditori ammessi a partecipare al riparto, né dal giudice del reclamo, visto che il tribunale non aveva rimesso la causa al primo giudice, ai sensi dell'art. 354, primo comma, c.p.c., né comunque disposto la necessaria integrazione; l’unica conclusione possibile, allora, è che risulta viziato l'intero procedimento camerale fin dalla sua prima fase celebrata innanzi al giudice delegato.
E infatti, la decisione in commento, a conclusione – ahimè ancora soltanto parziale – di un procedimento teso all’approvazione di un piano di riparto dell’attivo fallimentare, che si era già articolato attraverso ben tre distinte tappe processuali (davanti al giudice delegato, al tribunale fallimentare e ad una sezione semplice della Corte di Cassazione), decidono di cassare d’ufficio il provvedimento impugnato, riportando tutto l’iter direttamente innanzi al primo giudice, id est quel giudice delegato alla procedura concorsuale, che avrebbe dovuto disporre l’integrazione del contradditorio nei confronti di tutti i creditori ammessi al piano di riparto parziale e, quindi, controinteressati rispetto agli originari reclamanti.
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