La Cassazione calca la mano: forgia la regola dell' aut aut e dà vita all'autoriciclaggio
di Andrea Apollonio
commento a Cass., sez. II, sentenza n. 13795 del 7 marzo 2019 (dep. 29 marzo 2019)
Sommario: 1. Lo strano destino dell'autoriciclaggio (un passo indietro) - 2. Gli opposti orientamenti giurisprudenziali nel caso de quo - 3. La leva dell'interpretazione estensiva (in materia penale) - 4. L'importanza sistematica della sentenza in commento.
1. Lo strano destino dell'autoriciclaggio (un passo indietro).
Quello dell'autoriciclaggio è uno strano destino: per più di un ventennio - a partire dal 1993, anno del consolidamento della fattispecie di riciclaggio nell'ordinamento italiano - l'istituto è stato oggetto di un vivo e mai interrotto dibattito dottrinale, a fronte del silenzio della giurisprudenza, che ossequiava un dato normativo eloquente nei suoi aspetti applicativi (e, sopratutto, disapplicativi); quasi d'improvviso, nel dicembre del 2014, l'autoriciclaggio è apparso sotto le spoglie dell'art. 648-ter.1 del codice penale, chiudendo un dibattito ed aprendone un altro, imperniato su questioni vertiginose, anche più complesse di quelle d'origine. Perché se prima ci si scontrava con l' innegabile deficit di effettività dell' art. 648- bis - laddove per effettività debba intendersi quel passaggio tra diritto e fatto, tra norma e realtà empirica ad essa sottesa -, la legge n. 186/2014 e la contestuale introduzione del delitto di autoriciclaggio ha dischiuso un inedito orizzonte problematico, nella misura in cui può arrivarsi a fagocitare ogni possibile condotta riciclatoria posta in essere da quel soggetto che abbia in precedenza commesso, o concorso a commettere, il delitto da cui derivino le utilità oggetto delle attività di ripulitura.
Per meglio dire: la norma fece il suo ingresso nell'ordinamento intessuta di formule del tutto generiche, semanticamente amplissime, tanto che fin da subito gli interpreti si sono chiesti quale ne sarebbe stata la sorte giudiziale[1]: sarebbe potuta rimanere (guardando anche alla pena straordinariamente elevata, dai 4 ai 12 anni di reclusione, e agli effetti processuali che questa produce[2]) del tutto disapplicata, a voler stringere le maglie dell'ermeneutica; sarebbe invece potuta appigliarsi a numerosissime tipologie di condotta post delictum - tutte le volte cioè che si maneggino il denaro o i beni provenienti da delitto -, ma ciò sarebbe potuto accadere solo grazie a decise spinte propulsive dei giudici di legittimità, a vere e proprie operazioni ermeneutiche "a lungo termine".
Una duplice impostazione plasticamente rappresentata dal contrasto ermeneutico tra il Tribunale della Libertà di Milano e la Cassazione, i cui giudici hanno assunto posizioni simmetricamente antitetiche.
2. Gli opposti orientamenti giurisprudenziali nel caso de quo.
Il primo organo giudicante si era trovato a vagliare il caso di un soggetto che aveva conseguito un profitto di circa 260.000 euro grazie ad una serie di truffe per poi impiegare parte di quei proventi (oltre 100.000 euro) in giochi (slot machines, poker ecc.) e scommesse sportive on-line. Secondo i giudici milanesi, in questo caso non può parlarsi di autoriciclaggio: anzitutto perchè le "arrività speculative" sono - recuperando anche la dizione fornita dalla Treccani - investimenti da cui si traggono utili per mezzo di attività commerciali o finanziarie, mentre i giochi e le scommesse sono caratterizzati (come insegna il codice civile) da un'alea ingovernabile, e rappresentano una mera spendita di denaro in attività che possono portare anche a nessun rientro economico - un conto quindi è la speculazione, altro è il gioco; ma poi, secondo il Tribunale della Libertà, a tutto voler concedere rimarrebbe da spendere la clausola di non punibilità di cui al comma quarto dell'art. 648-ter.1, secondo cui «Fuori dei casi di cui ai commi precedenti, non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale», tale dovendosi considerare anche la condotta di chi spende denaro al gioco o alle scommesse, per soddisfare un impulso personale, spesso di carattere patologico. L'indagato, insomma, non avrebbe compiuto alcuna delle attività previste dalla fattispecie che punisce l'autoriciclaggio; cosicché, per carenza di limiti edittali in relazione alla sola truffa, il Tribunale annullava l'ordinanza genetica di applicazione di misure cautelari, decisione cui faceva seguito il ricorso per Cassazione della Procura meneghina.
Nella sentenza in commento, la Cassazione - dopo i primi anni, a partire dalla legge n. 186/2014, segnati da incertezze e da talune pronunce invero poco inclini a conferire effettività alla norma[3] - mostra di voler proseguire nel solco del percorso tracciato dall'importante sentenza dell'anno precedente[4] che delimita in termini generali la clausola di non punibilità di cui al quarto comma; mostra insomma di volere "dare vita" al reato di autoriciclaggio, e rende pertanto palese l'intenzione dei giudici di legittimità di espandere, fin dove è possibile, i confini della norma, procedendo con una delle più importanti operazioni di politica ermeneutica degli ultimi anni, almeno in materia penale.
3. La leva dell'interpretazione estensiva (in materia penale).
Non avrebbe senso, altrimenti, il richiamo iniziale a principi generalissimi: la Cassazione afferma infatti nell'abbrivio che «non possono dimenticarsi i risalenti ed incontrastati insegnamenti di questa Corte, secondo i quali anche le norme penali sono suscettibili di una interpretazione estensiva [e questo] quando sia palese che lo stesso legislatore minus dixit quam voluit». E' un cambio di passo, un diverso registro assiologico dello stesso modo di pensare al reato di autoriciclaggio (che in dottrina aveva attratto invece, fin da subito, numerose interpolazioni restrittive[5]), resosi necessario «al fine di evitare conclusioni sostanzialmente abrogative della previsione in parola»; di talché, vengono attinti da censure entrambi i motivi che avevano portato i giudici milanesi a non ravvisare l'art. 648-ter.1.
Il primo punto riguardava, come detto, la taratura applicativa della locuzione "attività speculativa". Per il vero, l'accenno contenuto nella norma alle «attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative», agli interpreti è apparso fin da subito, tra i numerosi elementi della norma, quello meno controverso; anzi, pareva (e tutt'ora pare) piuttosto una superfetazione che nulla aggiunge al fatto di riciclaggio ricompreso nell'art. 648-bis, che è da sempre inteso come un delitto che può esplicarsi soltanto nella realtà economico-finanziaria. L' esistenza della locuzione si giustifica soltanto in quanto formale "tributo" al finitimo art. 648-ter, che fonda la sua punibilità in attività economiche o finanziare. Rispetto a quest'ultimo delitto, poi, l'aggiunta delle attività imprenditoriali o speculative non comporta un effettivo allargamento del recinto della punibilità, dal momento che, com'è stato opportunamente osservato, nell'attività economica si fa ricomprendere tutto ciò che è attinente allo scambio di beni e servizi nell'ambito di un'attività imprenditoriale, mentre le attività speculative (al netto dell'estrema genericità della formula), laddove non dovessero ricadere in quelle più propriamente imprenditoriali, sarebbero comunque da riporre all'interno di attività "finanziarie"[6].
Ecco perché la Cassazione si premura di palesare subito, e senza incertezze di sorta, la propria posizione su questo punto, giacché - anche alla luce del lungo e travagliato percorso che ha condotto il Parlamento a varare la legge n. 186/2014, e dell'intentio legis che se ne può ricavare - «del tutto logicamente deve ritenersi che [si sia] inteso perseguire, mediante l'utilizzo delle ampie locuzioni citate (attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative), qualsiasi forma di re-immissione delle disponibilità di provenienza delittuosa all'interno del circuito economico legale», ivi compresa, naturalmente, la scommessa o il gioco d'azzardo, che non sono certo avulsi dal perseguimento di significative finalità economiche.
Più densa di significato è la preclusione all'attivazione della clausola di non punibilità di cui al quarto comma nel caso di specie. Il Collegio condivide e richiama l'accurata ricostruzione ermeneutica già operata - come poc'anzi accennato - nella sentenza n. 30399 del 2018, secondo la quale la norma va interpretata in base al significato proprio delle locuzioni utilizzate, e cioè nel senso che la suddetta clausola non si applica a tutte le condotte descritte nei commi precedenti: l'espressione iniziale "fuori dei casi", su cui si regge, «a livello semantico, null'altro significa che la fattispecie in essa considerata è diversa ed autonoma rispetto a quelle previste nei commi precedenti. Con la conseguenza che, una volta che la fattispecie criminosa di cui al comma 1 dell'art. 648 ter.1 cp. sia integrata intutti i suoi requisiti, l'agente è sanzionabile penalmente, restando del tutto indifferente che, alla fine delle operazioni di autoriciclaggio, egli abbia "meramente" utilizzato o goduto personalmente dei suddetti beni a titolo personale».
In altri termini, se è vero che il cuore della fattispecie di autoriciclaggio è nel compiere una qualsiasi operazione in grado di "ostacolare concretamente l'identificazione della provenienza delittuosa" del provento illecito[7], una volta realizzato, sul piano della condotta, un siffatto modulo descrittivo, non ha alcun senso recuperare la clausola di non punibilità, avendo questa natura residuale; o forse, neppure.
4. L'importanza sistematica della sentenza in commento.
Si consideri - ed è in ciò che va colta l'importanza, diremmo sistematica, della sentenza in commento, anche per come si raccorda a quella del 2018 - che all'epoca gli interpreti più autorevoli, al cospetto del novum, avevano conferito una valenza ben diversa a questa clausola.
Nella formulazione dell'art. 648-ter.1, come noto, il legislatore si era imposto il compito di sopprimere il c.d. "privilegio dell'autoriciclaggio", congegnato nella formula "fuori dei casi di concorso nel reato" innestata nell'art. 648-bis. Sappiamo, però, che non si è operato su questo delitto mediante la "semplice" resezione della clausola di riserva, ma si è preferito profilare, nonostante le problematicità connesse, un nuovo reato (l'art. 648-ter.1, per l'appunto), e che quella clausola, intonsa, governa ancora il delitto di riciclaggio.
Ma proprio per evitare la creazione di una fattispecie dall'incalcolabile perimetro applicativo, il legislatore avrebbe consegnato all'interprete strumenti volti a "normalizzare" un delitto teoricamente onnipresente nelle indagini e nei processi, che sul piano empirico rischiava (e rischia) di trasformarsi, per ogni reato capace di generare un profitto apprezzabile, in un quid pluris: in una contestazione ulteriore, spesso più grave di quella afferente il reato da cui derivano i proventi illeciti. Cosicché il quarto comma dell'art. 648-ter.1, sempre secondo le prime tesi avanzate[8], vorrebbe porsi come limite alla tipicità e funzionare come clausola di interpretazione autentica del primo comma, che contiene il nucleo tipico della condotta: il legislatore avrebbe voluto dire - utilizzando un costrutto sintattico ambiguo se non proprio erroneo[9] - che l'utilizzo o il godimento personale è fuori dalla tipicità della norma, e le relative condotte risultano pertanto non punibili. Non saremmo dunque di fronte ad una causa di non punibilità ma, come più correttamente è stato rilevato, ad una clausola di delimitazione del tipo: essa «segna un limite negativo del tipo, in quanto descrive una modalità della condotta espressamente esclusa dalla rilevanza penale»[10].
A distanza di quattro anni, la Cassazione rigetta adesso con forza questa tesi "mitigatrice" e - benché sul piano dogmatico non può certo negarsi che una causa di non punibilità si innesta pur sempre su «di un "completo" disvalore oggettivo e soggettivo del fatto»[11], creando all’interno del quadro tipico sacche di impunità per ragioni di mera opportunità pratica - nega al quarto comma ogni funzione delimitativa della tipicità del reato, secondo una regola che potremmo definire dell'aut aut: o si configura il reato come descritto nei primi tre commi, oppure, non configurandosi - e solo in questo caso - può essere attivata la clausola di non punibilità di cui al quarto comma; che viene così relegata in un angolo di sostanziale irrilevanza; né può più, tale formula, neppure porsi in termini di sussidiarietà con il reato compiutamente descritto nei primi tre commi, se è vero che essa regola l' ipotesi - cristallizzata nel principio di diritto espresso nella sentenza del 2018 - in cui l'agente «utilizzi o goda dei beni provento del delitto presupposto in modo diretto e senza che compia su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa»: insomma, nulla deve indiziare nella sua condotta alcun intento riciclatorio, se si vuol utilizzare la clausola di non punibilità.
I giudici di legittimità finiscono così per dare vita al reato di autoriciclaggio per mezzo di un'interpretazione estensiva dei suoi elementi costitutivi principali, destinando all'aborto quei tentativi compiuti dai giudici territoriali di passare dalla clausola di non punibilità del quarto comma per mitigare[12] gli effetti dirompenti (quoad poenam, ma non solo) che l'art. 648-ter.1 cp. produce: tentativo appunto non riuscito al Tribunale della Libertà di Milano, che si vedrà ritrasmessi gli atti affinché provveda alla luce dei canoni interpretativi forniti.
[1] Il primo a porsi queste domande è stato, autorevolmente, F. Sgubbi, Il nuovo delitto di "autoriciclaggio": una fonte inesauribile di "effetti perversi" dell'azione legislativa, in Dir. pen. cont. (web), 10 dicembre 2014; ma già molti anni prima si ragionava su questi profili, a partire dai numerosi progetti di riforma: vd, ad esempio, S. Seminara, I soggetti attivi del reato di riciclaggio tra diritto vigente e proposte di riforma, in Dir. pen. proc., 2005, p. 239 ss.
[2] Basti pensare alla possibilità di applicare le più incisive misure cautelari mercé l'ampiezza della cornice edittale: così F. Sgubbi, Il nuovo delitto di "autoriciclaggio", cit., p. 4.
[3] Ci si riferisce, per esempio, a Cass., sez. II, sentenza n. 33074 del 14.7.2016, in C.E.D. n. 267459, secondo cui non integra il reato di autoriciclaggio il versamento del profitto di furto su conto corrente o su carta di credito prepagata, intestati allo stesso autore del delitto presupposto, perché non costituisce attività idonea ad occultare la provenienza delittuosa del denaro. Una sentenza che però andrà presto letta in combinato disposto con Cass., Sez. V, sent. 11.12.2018 (dep. 5.2.2019), n. 5719, in Dir. pen. cont. (web) del 28.3.2019, con nota di M. Barcellona, In tema di autoriciclaggio e "paper trail", nella misura in cui i giudici di legittimità affermano che «il mero trasferimento di denaro di provenienza delittuosa da un conto corrente bancario ad un altro, diversamente intestato e acceso presso un altro istituto di credito, integra il delitto di autoriciclaggio ex art. 648-ter.1 c.p.».
[4] Si tratta di Cass. sez. II, sentenza n. 30399 del 5.7.2018, in C.E.D. n. 19674.
[5] Tra queste, sotto vari profili, ricordiamo le tesi avanzate da F. Consulich, La norma penale doppia. Ne bis in idem sostanziale e politiche di prevenzione generale: il banco di prova dell'autoriciclaggio, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2015, p. 55 ss.; D. Brunelli, Autoriciclaggio e divieto di retroattività: brevi note a margine del dibattito sulla nuova incriminazione, in Dir. pen. cont., 1, 2015, p. 86 ss.; I. Caraccioli, Incerta definizione del reato di autoriciclaggio, in Il Fisco, 2015, p. 355 ss.
[6] Quand'anche, alla fine dei conti, la triplice aggettivazione non si consideri, pur diversamente declinata, come species del genus delle attività economiche. In questo senso, Troyer-Cavallini, Apocalittici o integrati? Il nuovo reato di autoriciclaggio: ragionevoli sentieri ermeneutici all'ombra del "vicino ingombrante", in Dir. pen. cont. (web), 23 gennaio 2015. p. 9.
[7] E, come è stato detto da ultimo: è «pressoché scontato che tale forma di ostacolo si concretizzerà ogni qualvolta non venga espressamente indicata la provenienza delittuosa del bene sul quale ricade l'azione» (Insolera-Guerini, Diritto penale e criminalità organizzata, Torino, 2019, p. 184).
[8] Cfr. A. M. Dell'Osso, Il reato di autoriciclaggio: la politica criminale cede il passo a esigenze mediatiche e investigative, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, p. 806.
[9] Netto è, in questo senso, A. M. Dell'Osso, Il reato di autoriciclaggio, cit., p. 806, secondo cui il legislatore è incorso in «un errore di italiano tanto banale quanto biasimevole, scrivendo "fuori dei casi" invece di "nei casi"»; ci si troverebbe allora, sempre secondo lo stesso autore, di fronte ad una «ipotesi di sciatteria legislativa da antologia, foriera, peraltro, di criticità applicative di non poco conto».
[10] F. Mucciarelli, Qualche nota sul delitto di autoriciclaggio, in Dir. pen. cont. (web), 24 dicembre 2014. p. 19.
[11] M. Romano, Cause di giustificazione, cause scusanti, cause di non punibilità, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, p. 65, a detta del quale, peraltro, la non punibilità sarebbe fondata su situazioni e accadimenti esterni alla meritevolezza della pena ed è collegata, di consueto, ad un singolo soggetto (p. 69).
[12] Nondimeno, essi possono ancora essere mitigati tramite il giudizio di pericolo concreto che - già sotto il profilo lessicale - importa l'avverbio "concretamente", non per caso inserito nella chiusa del primo comma («in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa»): al riguardo, sia permesso il rinvio a A. Apollonio, Condotta dell'autoriciclatore e interazioni con gli arti. 416-bis e 648-bis c.p.: problemi concorsuali e soluzioni esegetiche, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1-2, 2016, p. 8.