ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Pensieri brevi a margine degli eventi di questi giorni di Alessandro Prontera
Il momento è come si dice in questi casi drammatico ma – oso pensare – forse provvidenziale perché – seppure brutalmente e nel modo più ingeneroso – offre l’occasione di rimeditarsi e fare critica di sé. Evidentemente non siamo stati in grado di farlo per tempo, sebbene di avvisaglie ve ne fossero.
Avvilisce, però, sentire prese di pozione che sembrano voler annacquare la discussione, allorché – pure in buona fede – non si riesca proprio a concepirsi fuori da una logica di ‘appartenenza’, persino faziosa, sino all’ultimo, irriducibile difesa di comportamenti che, davvero, nulla possono più pretendere di condividere con il ‘senso della giurisdizione’. Come se l’ostinazione dei fatti, in queste giornate, a fronte di strenue e logore difese, non bastasse a tacere appelli garantisti rispetto a condotte occasionate dalla ‘magistratura’ ma che nulla più partecipano di essa, nulla più partecipano della radice giurisdizionale, tristemente recisa, da tempo.
Penso che di quanto accaduto ci saremmo potuti avvedere se solo fossimo stati meno arroganti e attinge tutti, sino a toccare la coscienza di ciascuno di noi. Nessuno si scansi, perché davvero non è più questione di pochi, di un gruppo o di chi quella ‘corrente’ – mi verrebbe da dire – ha generato. Essa investe tutti. Ed è per questo che non comprendo – peccando evidentemente di ingenuità – come ci si smarchi a fatica da condotte che eticamente non possono trovare giustificazione, anzitutto, all’interno del gruppo di appartenenza degli autori. Non è o non è solo una questione ‘penale’ – che interessa in special modo i singoli coinvolti, bensì di essenza stessa della magistratura. Non si confonda il discorso penale, tecnico se si vuole, dei singoli con il problema culturale prepotentemente alla ribalta cui nessun può sottrarsi e rispetto al quale siamo chiamati ad assumere una posizione netta, fuori da ambiguità, eccentriche auto-sospensioni, equilibrismi di sorta, sino a sospensioni ‘indotte’.
Ed è per questo che avvilisce, soprattutto i più giovani, l’ipocrisia che sottende il proclama, del quale ancora resta eco, di attendere gli sviluppi delle indagini a Perugia o di ‘leggerne’ gli atti, perché la questione è – se possibile – ancor più esiziale, poiché attiene al nostro modo di pensarci come ‘magistrati’ e al modo di ‘stare insieme’. Mi verrebbe da dire: non è più un problema penale, per noi. I germi di questa crisi, anche allo sguardo ingenuo di chi da poco muove in magistratura, affioravano nella percezione di storture, di fatto legittimate, anche con quel comodo, tacito, consenso che si alimenta della ‘utilità’ personale di carriera sperata, ambita, pure laddove l’ambizione superi i meriti.
Ho sempre avuto la percezione di una corsa in atto, diffusa e spasmodica, all’affermazione di sé cogliendo a pretesto la giurisdizione, nei fatti discostandosene alla prima occasione, per inseguire una “medaglietta”. A pensarci bene, però, se rispondessero alla loro vocazione (ma non sarebbero, comicamente, ‘medagliette’) riposerebbero su valutazioni sostanziali e di merito, il che, in radice, depotenzierebbe la famigerata ‘corsa’ o ‘caccia’ alle medagliette.
In una ingenua e inesperta visione giovanile o dei più giovani tra i magistrati si staglia forte e spiacevole la percezione di carriere verticali pre-impostate, sin dall’accesso in magistratura, come dovesse scegliersi se esercitare la giurisdizione ovvero cogliere occasione della giurisdizione per esercitare proprie – magari anche legittime – aspettative di carriera: in altre parole costruirsi, quale vocazione qualificante – una carriere di incarichi, di semi-direttivi e, infine, direttivi, disancorati dalla collettività ove si operi e a servizio della quale si è chiamati. In tutto questo il senso e il peso della giurisdizione scolora drammaticamente.
Intanto abbiamo sacrificato qualcosa di noi per strada, tutti intenti a rincorrere prospettive di giudizio per così dire ‘moderne’, ma in realtà burocratiche. La ricerca spasmodica del ‘titolo’, poi, da spendere al momento giusto ha di fatto generato una separazione tra magistrati di giurisdizione e magistrati di carriera. Ciò ha anche snaturato il senso dell’associazionismo, delle c.d. ‘correnti’, sempre più esposte al rischio di atteggiarsi a imperdibili ‘ascensori’ sociali o di carriera, ovvero, nella migliori delle ipotesi, ‘protettorati’, quando mai si avesse bisogno, tant’è lo spauracchio del disciplinare e non solo. Corollario inevitabile uno sfrenato e vuoto proselitismo: non importa chi, basta recuperare numeri, come fosse un bacino elettorale da rimpinguare, in futuro spendibile. Capita sin dall’inizio dei primi momenti in magistratura di interrogarsi sul senso dell’associazionismo, non in astratto, ma come lo si vive oggi, una sorta di ‘costituzione’ materiale della magistratura. Se l’associazionismo non sia diventato una nomenclatura vuota così privo di una vocazione pratica alla giurisdizione e ai suoi problemi, di come essa possa interpretarsi e coltivarsi quotidianamente. Se di questo si tratta, è ormai ineludibile che i gruppi associativi reiterino medesime logiche – tanto vituperate – partitiche e purtroppo non politiche, nel senso ‘alto’, della locuzione, nel senso più ‘laico’, proprio rispetto a qualsivoglia pretesa lettura partitica o pregiudiziale ideologica. Gli stessi c.d. ‘giovani’, senza neppure aver avuto il tempo di maturare una coscienza critica – e mi preoccuperebbe il contrario – sono spesso preda degli appetiti delle correnti che in essi vedono nuovi adepti. Non importa che condividano o meno il senso di quel gruppo associativo, le premesse culturali, lo slancio ideale: se ancora ci fosse. Il tutto mascherato da una logora retorica dei ‘giovani’, di tutela, di coinvolgimento, di valorizzazione. Mi chiedo se, al contrario, non occorra intanto e silenziosamente offrire ‘testimonianze’ da parte dei più anziani, nella giurisdizione. A tempo debito si affronterà ogni discorso associazionistico e di gruppi associativi.
C’è chi, però, sceglie l’esercizio della giurisdizione, dando spazio all’attitudine spontanea dell’essere magistrato, non avendo intanto avuto cura di coltivare rapporti, relazioni, strategie: è forte il rischio d’essere un giorno pretermessi in favore di chi, invece, sin dall’inizio, intessendo rapporti, ha fatto incetta di ‘medagliette’ e di conoscenze. Costui avrà senz’altro sacrificato l’esercizio della giurisdizione sull’altare di una carriera brillante e di vertice. E avvilisce che la pre-costituzione di titoli e medagliette si riverberi contro lo stesso corpo di magistrati ordinari nel momento in cui si offre il fianco alla magistratura amministrativa di dover poi, magari formalisticamente, annullare decisioni del CSM proprio in ragione della omessa valutazione di ‘primazia’ che a quelle ‘medagliette’ burocraticamente consegue. In tal caso, il magistrato apprezzato, stimato, che ha sempre lavorato per l’ufficio e per il territorio, avrà magari l’affetto e la stima postuma di chi, sorprendendosi anche un po’ di maniera, assiste inerme a un ribaltamento del giudizio in favore del concorrente che quella stessa stima non ha, ma medagliette da esibire sì, al momento giusto. Oggi, più che mai, occorre avere il coraggio di non temere per la propria carriera; occorre avere il coraggio di recuperare la bellezza dell’esercizio della giurisdizione, con l’orgoglio di chi, sia pure faticosamente e senza clamori, è chiamato a farsi carico delle istanze di giustizia che si levano in una comunità di persone, assicurando, almeno, l’impegno di una risposta plausibile e umana di e tra noi magistrati. Occorre non temere per l’esercizio della giurisdizione e per i ‘rischi’ che essa fisiologicamente comporta. La filosofia della paura indebolisce, nutrendo degenerazioni correntizie.
Abbiamo ora o mai più l’occasione di riappropriarci del senso della giurisdizione e con ciò del senso dell’associazionismo, in tutta la ricchezza delle sue declinazioni, sino a immaginare i gruppi associativi ritornare a essere ‘comunità’ di pensiero, nel senso più nobile, non circoli chiusi, vittime di pregiudizi e diffidenza nei confronti di ciò che è altro da sé. Da ciò passa, inevitabilmente, il ripensamento di noi stessi. Ricorderemo come fummo, tutti, almeno una volta, tra code e lunghe attese, a Roma, con indosso il peso di codici, spaventati da un futuro incerto, ma con indosso anche la levità di sogni, speranze e idealità che quel peso alleggerivano sino a non più sentirlo. E attingendo con un po’ di fanciullesca freschezza a “il mondo come lo vedo io” di Enstein del 1931, mi verrebbe da dire che “chi supera la crisi supera sé stesso senza essere ‘superato’”. Ecco, questo credo possa essere un realistico auspicio e insieme un impegno serio.
Sir – Cenerentola a Mumbai recensione di Franco Caroleo
Una difficile storia d’amore nell’India delle caste. Una critica sussurrata all’ipocrisia di un sistema sociale, nella contraddizione tra progresso e tradizione.
In questi giorni in sala c’è un film genuinamente indiano. Ma se state pensando a Bollywood siete fuori strada.
Sir - Cenerentola a Mumbai (titolo originale Sir, ma i titolisti italiani, invece di lasciarlo semplicemente così, non hanno perso la ghiotta occasione di giustapporre questa discutibile evocazione fiabesca), opera prima di Rohena Gera, tratteggia la difficile storia d’amore tra un ricco benestante di città (Ashwin) e la sua domestica (Ratna) che viene dai villaggi.
Ma, attenzione, niente strizzatine d’occhio alla commedia romantica improntata all’omnia vincit amor. No, qui la differenza di ceto tra i due protagonisti non cerca riparo nei sentimenti.
La Mumbai descritta da Gera è caotica, frenetica, piena di colori, di luci e di odori.
Così dinamica, eppure disvela all’interno il contraddittorio immobilismo della sua società, visceralmente conformata alla divisione in caste.
Ecco allora che proprio la divisione diventa il prepotente perno del racconto.
Le convenzioni sociali dividono plasticamente Ashwin e Ratna, come le sottili pareti dell’appartamento dividono l’elegante camera da letto del padrone (ateo ma religiosamente assorto nel suo Mac) dalla misera stanzetta (contornata di altarini votivi) della donna di servizio.
Divide l’abbigliamento: lui, vestito all’occidentale, con capi ricercati; lei, sempre e solo avvolta nel tradizionale sari.
Divide il cibo: lui a gustare invitanti pietanze comodamente seduto a tavola e lei tenuta a mangiare per terra con le mani (e questa dei domestici resta comunque una categoria “privilegiata” rispetto ad altre, perché non contrattualizzata ma regolarmente retribuita).
C’è un chiaro riferimento a In the Mood for Love di Wong Kar-wai, in questa impossibilità di vivere pienamente un sentimento, seppure nello spazio minimo di un corridoio che divide e, al contempo, unisce.
La piccola rivoluzione di Sir (che è l’appellativo con cui Ratna si rivolge ossequiosa al suo datore di lavoro) sta tutta qui. Nel sussurrare, senza enfasi o romanticismi, una riflessione su un tabù dell’India di oggi.
Nell’agiato appartamento di uno sfavillante grattacielo si apre una parentesi di sguardi, di silenzi, di non detti, di gesti semplici tra due persone che appartengono a due classi diverse. E sembra poter affiorare un amore dolce, fragile, che ispira la fiducia di darsi all’altro.
Vibra quel bacio (l’unico) strappato nella confusione emotiva. È un attimo. Ma dura giusto il tempo di rendersi conto che la barriera castale è insormontabile, che l’umiliazione per la donna è dietro l’angolo, che per la ribellione ai costumi millenari non bastano un sorriso e delle belle parole.
La magia, il sogno: è tutta roba da favole (tanto care ai titolisti italiani), buone per illudersi?
Una famiglia alto-borghese indiana non potrebbe mai accettare che il figlio convoli a nozze con una domestica, ma anche la famiglia di lei verrebbe ricoperta dal disonore.
Chi è sotto, resta sotto. Ed è bene così. Forse.
L’invasione degli zombie secondo Jim Jarmusch. Un divertissement cinefilo, aspettando (pur tra qualche sana risata) il colpo d’ala che non arriva.
Diciamolo da subito: non è il miglior film di Jim Jarmusch. E siamo lontani da quella perla horror vampirista che era stata Solo gli amanti sopravvivono.
I morti non muoiono (film di apertura del Festival di Cannes 2019) racconta della vita di un tranquillo paesino statunitense (Centerville, “davvero un bel posto” recita il cartello all’ingresso), stravolta dall’invasione degli zombie, che riemergono dalle tombe a causa della deviazione dell’asse terrestre (provocata da una spietata multinazionale).
In questa zombie comedy (perché qualche risata, e pure di gusto, la si fa) ritroviamo tutti gli stilemi tipici del cinema di Jarmusch.
Ecco così il cast stellare e feticcio con Bill Murray (l’imperturbabile sceriffo del paese), Adam Driver (il giovane e razionale poliziotto), Steve Buscemi (uno scorbutico redneck di campagna), lo zombie Iggy Pop, il saggio eremita Tom Waits e una strepitosa Tilda Swinton (nelle assurde vesti della responsabile dell’agenzia di pompe funebri, con un etereo accento scozzese e una katana à la Kill Bill).
Ecco anche la vena ironica e surreale che lambisce i dialoghi (Driver, dopo aver ribadito per l’ennesima volta che la storia finirà male, spiega candido: “Lo so perché Jim mi ha mostrato la sceneggiatura”), il citazionismo di livello (alcuni turisti di passaggio guidano una Pontiac del 1968, anno dell’uscita della Notte dei Morti Viventi di George Romero), la cinefilia ammiccante (su tutti, il gestore della pompa di benzina: un nerd con la maglia di Nosferatu che sa perfettamente come comportarsi con gli zombie) e il ricorso divertito all’intertestualità (il personaggio di Driver si chiama Peterson, con una sola vocale diversa dal precedente Paterson, e sfoggia un portachiavi di Star Wars...).
Eppure, è nel sottotesto politico che il regista pare decisamente svogliato: la polemica ambientalista assume toni piuttosto fiacchi (si parla di fracking dei poli ma il tema sembra gettato lì quasi per caso) e la critica al consumismo (gli zombie, più che desiderosi dei cervelli dei viventi, invocano insaziabilmente alcolici, dolciumi, caffè e wi-fi) rasenta il didascalismo.
No, dimenticatevi le metafore dei morti viventi di Romero.
I non-morti di Jarmusch (oltre a ispirare l’eponima canzone country di Sturgill Simpson che accompagna affettuosamente tutti i personaggi) fanno più che altro da sfondo ad un divertissement che, pur tra qualche notevole trovata autoriale e alcune battute azzeccate, langue sul piano contenutistico e ci lascia più di un rimpianto.
Spoiler per gli appassionati di splatter: le teste degli zombie non esplodono, come nella migliore tradizione, ma esalano fumo nero.
Al mondo, il 3% dei detenuti sono ergastolani, 300.000 su 10 milioni. Uguale in Italia: 1.700 su 60.000, il 2,8%. Ma esiste una differenza gigantesca. Dei 300.00 ergastolani, in 230.000 hanno la possibilità di ottenere la liberazione condizionale, da parte di un giudice o di un organo quasi-giurisdizionale (il parole board). Significa che, per l’80%, si potrà valutare se la rieducazione ha fatto il suo corso o se permane la pericolosità. In Italia, invece, dei 1.700 ergastolani, 1.200 sono ostativi, per i quali la liberazione condizionale è valutabile solo se hanno utilmente collaborato con la giustizia.
Traduciamo: per il 75% degli ergastolani italiani la liberazione condizionale è un istituto che rimane “sulla carta”, sanno che esiste, ma non la otterranno mai. Questo perché – per l’art. 4bis, I c., ord. pen. – tutti i benefici penitenziari, per le persone condannate per uno dei reati ricompresi nello stesso articolo, possono essere concessi solo a fronte di una utile collaborazione con la giustizia.
Sei un ergastolano? Collabora, il gioco è fatto. Vero, ma anche no. Esiste la libertà morale di non barattare la propria libertà personale con quella altrui, magari un fratello. Esiste il diritto al silenzio, un diritto inviolabile della persona, che non può evaporare solo perché il processo di cognizione è finito. Esiste la paura, vale a dire il rischio per la vita e la incolumità di chi collabora e dei propri famigliari, iniziando dai figli. E va detto che esiste anche uno Stato, il nostro, che non prende sul serio il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia. A detta del Procuratore Nazionale Antimafia, è da ripensare completamente: scarse risorse finanziarie e di personale, cambio di identità concesso di rado, abbandono del collaboratore e dei famigliari, scarsa vigilanza e controllo. Del resto, una domanda ragionevole, che germoglia dalla comune esperienza: cosa può garantire che una persona che ha collaborato, in realtà, non lo abbia fatto per tornare a delinquere, per vendicarsi, per mero calcolo processuale?
In questo scenario, non certo inaspettata, è giunta, il 13 giugno 2019, la sentenza Viola v. Italia n. 2 della Corte europea dei diritti umani. Due, tra i tanti, gli aspetti da evidenziare. Uno di merito, uno di metodo.
Il merito. La disciplina italiana dell’ergastolo ostativo, per la Corte, viola l’art. 3 della Convenzione, poiché non permette al giudice di valutare altro rispetto alla non collaborazione con la giustizia. Se la persona ha intrapreso, nel corso della detenzione, un percorso positivo – anche grazie ai direttori di carcere, alla polizia penitenziaria, agli educatori, alla famiglia – il giudice non ne può tenere conto, poiché ciò che conta è solo che, potendolo fare, non ha collaborato. Il giudice negherà sempre e comunque ogni beneficio penitenziario: è questo che, per la Corte, costituisce una chiarissima violazione dell’art. 3, che protegge la dignità umana, cardine del sistema convenzionale, che deve essere sempre garantita, indipendentemente dai reati. Qualunque cosa positiva faccia il detenuto, è come se fosse fatta per niente, perché, se non ha collaborato, il suo comportamento non può essere valutato.
La Corte si incanala nella sua giurisprudenza, inaugurata nel 2013. Ad oggi, i 10 Stati del Consiglio d’Europa che prevedono l’ergastolo senza liberazione condizionale sono stati tutti giudicati dalla Corte, tranne Svezia e Malta. A parte il Regno Unito, tutti gli Stati hanno subito la medesima sorte: violazione dell’art. 3, la pena è inumana e degradante.
Nel metodo. La sentenza Viola non è pilota, poiché non sono depositati alla Corte un grande numero di ricorsi simili a quello di Viola (in Torreggiani erano più di 3.000). E’ una sentenza quasi-pilota: dato che nelle condizioni di Viola si contano 1.200 ergastolani, la Corte, che potrebbe ricevere ricorsi da tutte queste persone, decide di indicare allo Stato le misure generali da prendere. Il problema è strutturale, si deve intervenire verso tutti, preferibilmente con una riforma legislativa, dice, giustamente, la Corte. Ma, ovvio, non è l’unica possibilità, tanto è vero che la Corte stessa richiama la questione di costituzionalità pendente alla Consulta, in attesa di essere discussa il 22 ottobre 2019. Quello che importa è che la preclusione legislativa da assoluta diventi relativa, decida lo Stato italiano come, di preferenza con una riforma legislativa (che ridisegni il regime ostativo), ma anche con un intervento del giudice costituzionale.
Due ulteriori notazioni. La sentenza Viola diverrà definitiva il 13 settembre 2019, fino allora il Governo può chiedere il rinvio alla Grande Camera. Dubito che, se chiesto, sarà accettato, il percorso giurisprudenziale della Corte, su questa importante questione, è lineare. Cosa intende fare, il Governo, insistere con la storia della grazia e del differimento della pena per motivi di salute? Libero di farlo, ma il rischio è una seria figuraccia a livello internazionale.
Per quanto riguarda il caso all’attenzione della Consulta, non resta che attendere, speranzosi. Riguarda il permesso premio e non la liberazione condizionale, tuttavia la sentenza Viola potrà aiutare (non poco) i giudici costituzionali nell’estendere la (eventuale) incostituzionalità, ricomprendendo il permesso premio, la semilibertà e la liberazione condizionale. Non è forse un obbligo costituzionale il rispetto degli obblighi internazionali? D’altro canto, a cosa serve, un permesso, se non per la semilibertà e la liberazione condizionale? Vi è poco da fare: oltre alla Convenzione, l’ergastolo ostativo viola la Costituzione, che si fonda sul progresso verso la rieducazione, detto altrimenti sul senso di umanità.
La Costituzione, appunto. L’impegno affinché rappresenti uno scudo per i diritti dei detenuti non si arresta mai. Si pensi alla decadenza dalla responsabilità genitoriale per gli ergastolani, alla eliminazione anche nel penale del ricorso personale in Cassazione, alla quadruplicazione dei reati contenuti nel regime ostativo, ora applicabile anche ai minori. Sono esempi. Che vanno affrontati seguendo l’insegnamento di Umberto Veronesi, per il quale “il dolore non ha senso, e non può in nessun caso costituire un valore”. Aveva “un’intima speranza che poi è un sogno: sogno un uomo e una società che abbiano dei dubbi (…) ma che non abbiano paura. Paura di dialogare, di ragionare, di cambiare”. E’ come fosse ieri quando diceva che “la forza della democrazia è non avere paura”. Qualsiasi perpetuità e qualsiasi automatismo altro non sono che una sconfitta del coraggio e della speranza. Di tutti: giudici, pubblici ministeri, avvocati, professori universitari, operatori, politici, persone, private o meno della libertà
*Scritto destinato a Ristretti Orizzonti e a Giustizia Insieme. Una versione ridotta apparirà nella rubrica Fuoriluogo de il manifesto del 19 giugno 2019
La rapina sconclusionata di quattro studenti universitari, in un film che cerca la verità nella finzione.
Lexington, Kentucky: dei libri molto preziosi, una biblioteca con blandi sistemi di sicurezza, la noia dei pomeriggi universitari.
Ci sono tutti gli elementi per un colpo facile facile, anche alla portata di quattro collegiali scapestrati.
Questa la trama di American animals, il nuovo film di Bart Layton (presentato l’anno scorso alla Festa del Cinema di Roma); ma anche la vera storia di Spencer Rheinhard, studente di storia dell’arte, che nel 2003 aveva radunato una banda di amici per mettere a segno il furto di due rari volumi (le edizioni di Birds of America di James Audubon e L’Evoluzione della Specie di Charles Darwin) dalla biblioteca dell'università.
In American animals Layton ripropone il trucco metanarrativo che già aveva adottato in The Imposter (osannata pellicola indie, fra documentario e cinema di genere, che esplorava la mitomania del ladro d’identità Frederic Bourdin). E così mescola le interviste dei protagonisti reali alla finzione di un heist movie, tanto preciso nella regia quanto assurdo nei connotati (niente armi sofisticate o diavolerie informatiche, un taser basta e avanza; nessun clan rivale né spietati avversari da eliminare, c’è solo una bibliotecaria sessantenne da immobilizzare).
Il colpo, lo si intuisce fin dall’inizio, è un fallimento totale. Ma non è quello il cuore del film.
Mentre sorridiamo seguendo l’ideazione del piano (compreso lo spassoso ammiccamento a Le iene) e ascoltiamo la vera voce degli improvvisati Ocean’s Four, si affaccia il vuoto di orizzonte che li pervade: quattro giovani bianchi americani, più o meno di buona famiglia, che intravedono finalmente l'occasione di vivere qualcosa eccezionale, l'identità che cercano, per rispondere al disperato bisogno di sentirsi speciali.
E poi, tra le righe, c’è il tema dell’instabilità della memoria, dell’impossibilità di offrire un’unica versione dei fatti nemmeno sulla base dei racconti di chi c’era, quando possono farsi più labili le linee di demarcazione tra verità e finzione (e già sentiamo gongolare i teorici della “docu-fiction”).
La realtà si scolora, via via i ragazzi appaiono meno convincenti degli attori, il documentario abborda la messinscena.
All'inizio del film compare una scritta: "This is not based on a true story. This is a true story". Un monito, una dedica, un'insolenza: ma qual è la vera storia?
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