ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Solo nel 1965 le donne ebbero accesso alla magistratura, dopo un intervento della Corte Costituzionale che con sentenza del 1960 dichiarò l’illegittimitá costituzionale della discriminazione introdotta dalla legge sulla capacitá giuridica della donna risalente al 1919.
Oggi le donne sono il 54% del totale dei magistrati in servizio.
Alle prime otto vincitrici del concorso il Movimento per la giustizia e Magistratura democratica dedicarono un convegno nel 2005, per festeggiare il loro quarantesimo anniversario.
Raccontarono l’eccezionalità di un giorno di normale civiltà giuridica che venne amplificato da stampa e televisione, la curiositá dei colleghi e degli avvocati che si affollavano incuriositi nelle aule per vederle all’opera, ma anche le diffidenze e l’ostilitá di chi si era rivolto al presidente del tribunale per scongiurare il “rischio”: di avere una donna in collegio, minacciando altrimenti le dimissioni.
Giustizia insieme, in occasione dell’otto marzo, rievoca - attraverso un video che raccoglie una rassegna della stampa dell’epoca - come venne letto dai mezzi di comunicazione quello che venne giudicato un “evento”.
In un’Italia in bianco e nero, i volti sorridenti delle prime magistrate, con le loro pettinature démodé, i titoli ingenui e paradossali degli articoli dei quotidiani e dei tabloid, ci riportano indietro nel tempo, in un passato non troppo remoto, che ha segnato una svolta per il presente e il futuro della giurisdizione.
Nullità del decreto di archiviazione e novità per il giudice del processo.
di Stefania Donadeo
L’art. 410 bis c.p.p. prevede distinte ipotesi di nullità del decreto di archiviazione. Introduce tale articolo una novità in tema di nullità del decreto di archiviazione?
Invero la novità è legislativa ma non giurisprudenziale avendo detta riforma, come accade anche per altri istituti, recepito i principi di diritto espressi dalla Corte Costituzionale e dalla Suprema Corte a Sezioni unite.
Quindi assistiamo alla traduzione in norme giuridiche di principi di diritto espressi più e più volte.
La prima ipotesi di nullità codificata dalla riforma riguarda il decreto emesso in mancanza dell’avviso alla persona offesa di presentazione della richiesta di archiviazione (art. 408, commi 2 e 3 bis, c.p.p.), oppure dell’omologo avviso, dovuto – in materia di particolare tenuità del fatto (art. 411, c. 1 bis, c.p.p.) – sia alla persona sottoposta alle indagini sia alla persona offesa.
Il decreto è poi nullo, se emesso «prima che il termine di cui ai commi 3 e 3-bis del medesimo articolo 408 sia scaduto senza che sia stato presentato l’atto di opposizione».
L’intento è quello di lasciare alla persona offesa la possibilità di sfruttare tutto il tempo concessole dall’art. 408 c.p.p.; per questo motivo, viene stabilita l’invalidità del provvedimento di archiviazione emesso prima dell’esaurimento di tale periodo (venti o trenta giorni dalla ricezione dell’avviso, a seconda del reato perseguito), salvo naturalmente il caso in cui pure la vittima sia stata piuttosto celere e abbia presentato opposizione antecedentemente alla decisione.
Infine, è nullo il decreto qualora il giudice abbia deciso sulla richiesta di archiviazione, omettendo di pronunciarsi sull’ammissibilità dell’opposizione presentata, oppure – si legge – <abbia dichiarato l’opposizione inammissibile, salvi i casi di inosservanza dell’articolo 410, comma 1».
Viene dunque ribadita l’obbligatorietà di una pronuncia sull’ammissibilità dell’opposizione (può il giudice dichiararla inammissibile solo nei casi in cui non siano stati indicati l’oggetto dell’investigazione suppletiva ed i relativi elementi di prova), ma il giudice resta pur sempre libero – almeno sotto il profilo delle sanzioni processuali – di ignorarne il merito.
Come detto in premessa il legislatore ha tradotto in norme i principi chiaramente espressi dalla Suprema Corte e dalla Corte Costituzionale.
In particolare la Corte Costituzionale ha avuto modo di affermare il principio in base al quale “dalla disciplina unitaria dell’archiviazione, che va interpretata “secundum constitutionem”, la persona offesa è legittimata a proporre ricorso per Cassazione sia quando l’archiviazione sia stata pronunciata dal Gip in esito all’udienza in camera di consiglio senza che di tale udienza le sia stato dato avviso sia se essa parte offesa sia stata privata dell’avviso della richiesta di archiviazione formulata dal P.M., nonostante la sua espressa domanda di essere preavvisata” ( Corte Cost. 16.7.1991 n. 353).
la Corte di Cassazione a sezioni semplici aveva altresì precisato che tale nullità ricorre anche qualora il G.I.P. non abbia tenuto conto dell’opposizione ritualmente presentata ovvero ne abbia illegittimamente dichiarato l’inammissibilità [Cass., sez. un., 14 febbraio 1996, n. 2, Testa, in Cass. pen., 1996, p. 2168] e, infine, qualora il decreto sia stato emesso in pendenza del termine per proporre opposizione [Cass., sez. VI, 19 aprile 1995, n. 1450, in Cass. pen., 1996, p. 3342].
Anche sul punto della inammissibilità già si era espressa la Corte di Cassazione ed a Sezioni unite 14.2.’96 n.2 :“è impugnabile mediante ricorso per cassazione il decreto di archiviazione carente di motivazione in ordine all’inammissibilità dell’opposizione proposta dalla persona offesa dal reato ai sensi dell’art. 410 c.p.p..l’arbitraria ovvero illegittima declaratoria di inammissibilità sacrifica infatti il diritto al contraddittorio della parte offesa in termini equivalenti o maggiormente lesivi rispetto all’ipotesi di mancato avviso per l’udienza camerale, sicchè il predetto vizio del provvedimento è riconducibile alle ipotesi di impugnabilità contemplate dall’art. 409 co 6 c.p.p. ed ai casi di ricorso indicati dall’art. 606 l.c) c.p.p.
L’ultima ipotesi di nullità esaminata – caratterizzata da un testo di difficile lettura – sembra voler affermare che il giudicante possa dichiarare l’inammissibilità dell’opposizione solo nelle ipotesi ex art. 410, comma 1, c.p.p., vale a dire qualora non siano stati indicati «l’oggetto della investigazione suppletiva e i relativi elementi di prova».
In proposito, si profila un problema di coordinamento con le previsioni in materia di particolare tenuità del fatto, non essendo richiamata la causa di inammissibilità enunciata dal comma 1-bis dell’art. 411 c.p.p., che indica quale sola ipotesi di inammissibilità “la mancata indicazione delle ragioni del dissenso rispetto alla richiesta del P.M.”
Per quanto riguarda la nullità dell’ordinanza di archiviazione, il legislatore si è limitato a rimodellare l’abrogato art. 409, comma 6, c.p.p., stabilendo, al comma 2 del nuovo art. 410 bis, che «l’ordinanza di archiviazione è nulla solo nei casi previsti dall’articolo 127, comma 5», vale a dire nelle ipotesi di «mancato avviso dell’udienza; mancata indicazione dei destinatari dell’avviso se comparsi; mancato rinvio dell’udienza se l’imputato legittimamente impedito ha chiesto di essere sentito personalmente; mancato avviso all’interessato detenuto in altra sede che può essere sentito dal magistrato di sorveglianza del luogo nonchè mancata ottemperanza alla richiesta di essere sentito avanzata dall’interessato al magistrato di sorveglianza».
La vera novità è nel regime dell’impugnazione del provvedimento nullo ai sensi dei commi 1 e 2 dell’art. 410 bis c.p.p.
Al fine di far valere le illustrate nullità, è introdotto un nuovo procedimento che sostituisce il ricorso per Cassazione – come emerge dall’abrogazione dell’art. 409, comma 6 – all’evidente fine di decongestionare il Supremo collegio: l’interessato «entro quindici giorni dalla conoscenza del provvedimento» può presentare un «reclamo innanzi al tribunale in composizione monocratica». Il tribunale decide «con ordinanza non impugnabile, senza intervento delle parti interessate», le quali avranno la possibilità di «presentare memorie non oltre il quinto giorno precedente l’udienza».
Il soggetto legittimato a impugnare è qualificato semplicemente come «l’interessato»: si tratta della persona offesa, dell’indagato nel caso in cui sia stato omesso l’avviso della richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto, oppure anche del P.M. (come si evince dalla diversa terminologia riservata dal legislatore all’ipotesi in cui il Tribunale, respingendo il reclamo, condanni la sola “parte privata” che lo ha proposto al pagamento delle spese del procedimento).
Il Tribunale decide “senza l’intervento delle parti interessate”.
Questo inciso dovrebbe significare che il giudice decide de plano ovvero senza formalità procedurali ( come nei casi di cui all’art. 667 co 4 c.p.p., richiamato dall’art. 672 c.p.p.e 676 c.p.p.) con successiva comunicazione alle parti.
Ma così non è perché l’inciso successivo recita “ previo avviso, almeno dieci giorni prima, dell’udienza fissata per la decisione alle parti medesime, che possono presentare memorie non oltre il quinto giorno precedente l’udienza”.
Dunque il giudice deve fissare udienza, deve darne avviso 10 giorni precedenti la stessa, deve avvisare le parti che hanno facoltà di depositare memorie.
Possiamo ritenere, sulla base di un’interpretazione sistematica della disciplina delle archiviazioni, che per decisione da prendere “senza l’intervento delle parti” debba intendersi “decisione presa all’esito dell’udienza dopo l’eventuale deposito di memorie senza la necessaria partecipazione delle parti interessate.
A tale conclusione si giunge applicando le disposizioni previste dagli artt. 409 e 127 C.P.P. ( le parti sono sentite se compaiono”).”
E’ altresì possibile un’altra lettura della norma ed equiparare detto procedimento avverso il reclamo ex artt. 410 bis c.p.p. al procedimento dinanzi alla Corte di Cassazione disciplinato dall’art. 611 c.p.p. e relativo ai casi in cui la Suprema Corte decide in camera di consiglio “sui motivi, sulle richieste del procuratore generale, e sulle memorie delle altre parti, senza l’intervento dei difensori e del procuratore generale”.
Un’ argomentazione a favore di detta applicazione è certamente quella relativa alla funzione del Giudice del reclamo che è quella di legittimità e non di merito.
Tuttavia l’art. 611 c.p.p. precisa- a differenza dell’art. 410 bis c.p.p.- che detta procedura è “ in deroga a quanto previsto dall’art. 127 c.p.p.”
Inoltre l’art. 611 c.p.p. disciplina il procedimento della Suprema Corte in camera di consiglio (quando deve decidere su ricorsi contro provvedimenti non emessi in dibattimento), mentre l’art. 410 bis preve la fissazione “dell’ udienza” ai fini della decisione del reclamo.
Quanto alla decisione il Tribunale ha a disposizione tre diverse valutazioni:
a)può anzitutto dichiarare inammissibile il reclamo, ad esempio perché presentato fuori termini;
b) se invece la doglianza è fondata, procede all’annullamento, ordinando poi la restituzione degli atti al giudice per le indagini preliminari che ha emesso il provvedimento;
c) si limita a confermare il provvedimento rigettando il reclamo.
Attenzione: Nel caso rigetti il reclamo, il tribunale condanna la parte privata al pagamento delle spese del procedimento. Nel caso lo dichiari inammissibile, il tribunale condanna la parte privata, oltre alle spese del procedimento, anche al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende, nella misura stabilita dall’art. 616 c.p.p..
In proposito, l’art. 1 comma 64 della legge 23.6.’17 Decreto Orlando consente al giudice di aumentare fino al triplo l’ammontare, in considerazione della causa di inammissibilità. Anche questo intervento è previsto in chiave deflattiva.
In tutti i casi di eccepita nullità, resta preclusa al tribunale la possibilità di censurare il merito della decisione.
Nel caso in cui il reclamo ha ad oggetto il merito della decisione del gip il tribunale non dovrà rigettare il reclamo ma dichiararlo inammissibile. Potrà farlo de plano, come stabilisce l’art. 127 co 9 c.p.p. oppure deve in ogni caso fissare udienza?
Si comprende facilmente che la fissazione dell’udienza comporta l’instaurazione di una procedura complessa- con deposito di memorie di parte- in evidente contrasto con quel principio di ragionevolezza dei tempi del processo che ha ispirato la Riforma. Quindi se in parte, minima, è stato decongestionato il lavoro della Suprema Corte, dall’altro lato la procedura appare farraginosa e dispendiosa.
Non si può non rilevare che anche in altra occasione la presente Riforma sembra voler instaurare il contraddittorio anche in relazione alla dichiarazione di inammissibilità: E’ l’ipotesi disciplinata dall’artt. 458 c.p.p. ovvero del giudizio abbreviato richiesto dopo l’emissione del decreto di giudizio immediato. Qui il legislatore ha eliminato l’inciso “se la richiesta è ammissibile” ed ha statuito “fissa l’udienza in camera di consiglio”.
Lo Stato contro Fritz Bauer
Il racconto della vicenda del magistrato le cui indagini portarono alla cattura di Adolf Eichmann, quale punto di vista sul difficile percorso della giustizia post olocausto.
di Filippo Ruggiero
Un magistrato è andato in televisione; questa volta la trasmissione non ha avuto per oggetto questioni di cronaca giudiziaria o riforme legisltative ad uso e consumo del dibattito politico, ma si è trattato di incontrare un gruppo di giovani e rispondere alle loro domande sulla generazione precedente: il magistrato in questione è Fritz Bauer, Procuratore Generale dell’Assia nel secondo dopoguerra, dal 1956 alla sua morte nel 1968.
Con un filmato di archivio che documenta questa apparizione televisiva si apre Lo Stato contro Fritz Bauer, film del regista Lars Kraume, produzione tedesca, vincitore del premio del pubblico al Festival di Locarno 2015.
La vicenda narrata si colloca alla fine degli anni ’50, quando Bauer era impegnato ad indagare su alcuni dei maggiori crimini di apparato compiuti durante il regime nazista, e si sviluppa, in particolare, seguendo le indagini che portarono, nel 1960, alla cattura in Argentina di Adolf Eichmann.
In questo contesto, Bauer è chiamato a confrontarsi con un clima freddo, tangibile oltre che nelle sfere della politica, tra gli stessi colleghi, nella polizia, nei servizi e comunque negli apparati chiamati a collaborare nelle indagini, dove in gran parte continuano ad operare le stesse persone che vi avevano operato durante il periodo totalitario. Emerge quindi un clima di aperta ostilità da parte di coloro che, come via di fuga dalle responsabilità storiche, prima ancora che giudiziarie, aspirano a mettere da parte un passato scomodo, come un argomento troppo grande con cui non è dato confrontarsi: l’incapacità di uno Stato di fermarsi a riflettere e fare i conti con il proprio passato.
Questa incapacità e questa ostilità si toccano nell’incontro televisivo che il Procuratore Bauer ha con il gruppo di giovani, quando lui viene apertamente accusato di avere trascinato, con le sue indagini, la Germania nel fango, gettando cattiva luce su quello che ormai è diventato uno stato democratico, mentre nell’ottica dei suoi interlocutori il periodo buio è ormai alle spalle, per sempre superato, con l’affermazione per cui ormai la Germania ha una Costituzione democratica, della quale può andare orgogliosa.
Qui si richiama quel costituzionalismo per cui la costituzione non è solo testo normativo fondamentale contenente l’insieme degli elementi qualificanti un dato sistema, ma è al contempo manifesto politico, che non si limita a descrivere l’essere di un’organizzazione, ma indica i principi verso cui tale organizzazione aspira. In tale ottica, quello che Bauer rappresenta è che non è sufficiente avere una costituzione democratica, ma è necessario fare pratica quotidiana dei principi e dei valori che essa esprime per mantenerla viva e svilupparla.
Nella narrazione, la figura di Bauer ad un certo punto si trova anche davanti all’eterna scelta tra leggi degli uomini e giustizia, quando osteggiato dalle forze di polizia tedesca non collaborative nelle indagini su Eichmann, valuta se tessere rapporti con i servizi israeliani, cosa che implicherebbe alto tradimento. Se le scelte di Bauer, quali esse siano, possono apparire condizionate da spinte di carattere personale derivate dalla sua militanza giovanile durante la Repubblica di Weimer nel partito socialdemocratico e il successivo esilio durante il periodo nazista, nella narrazione trova spazio la figura del giovane procuratore di Stato Angermann: nel momento in cui tutto spinge verso una chiusura nel privato, soggetto al ricatto perpetrato dalle forze di polizia nei suoi confronti (atti contrari al buon costume, ndr), Angermann incurante compie la scelta personalmente più difficile, ma che realizza quell’esercizio quotidiano dei principi di democrazia che la Costituzione richiede, avendo trovato in Bauer l’esempio.
L’attività di Bauer ha avuto un ruolo fondamentale nella realizzazione del Processo di Francoforte, tenutosi tra il 1963 ed il 1965 nei confronti di ventidue imputati accusati di crimini commessi nel campo di concentramento di Auschwitz.
Il nostro "romanzo civile" è scritto sopratutto dalle donne
di Andrea Apolloni
Nello straordinario film "Una giornata particolare", ambientato nel 1938, Marcello Mastroianni sfoglia l'album dei ritagli di giornale raccolti da una donna della piccola borghesia italiana, innamorata (lei assieme a tutta la borghesia del tempo) di Mussolini. Si imbatte quindi in una frase, che legge ad alta voce: "Inconciliabile con la fisiologia e la psicologia femminile, il Genio è soltanto maschio. M.". La sequenza successiva rimarrà nella storia del cinema: lui, Mastroianni, chiede alla splendida Sophia Loren, la borghese, fascistissima convinta, cosa ne pensasse, e lei, incredula e impacciata ma ricordandosi che era pur sempre una frase di Mussolini, risponde: "E certo che sono d'accordo".
L'8 marzo non solo vuole ricordarci che è davvero esistita quella mentalità primitiva - che se esistesse oggi dovrebbe qualificarsi pura demenza; e non vogliamo credere che esista -, ma anche invogliare a guardarci attorno, per prendere atto di una realtà in cui la componente più attiva, determinata, più credibile e carica di futuro è proprio quella femminile. I cui modelli, tuttavia, molto spesso non trovano risalto nella sfera pubblica, un po' perché ancora dobbiamo smaltire tutta la risulta di quella mentalità primitiva, un po' perché l'esempio, se è tale, è anche a sé bastevole: in fondo, non ha bisogno di proiezioni né di appendici.
Ho in mente due storie, per l'appunto poco - anzi affatto - citate: quelle di Giuliana Saladino e di Susanna Crispino. Due storie molto diverse, anzitutto per generazione (quando Giuliana moriva, nel 1999, a 74 anni, Susanna frequentava ancora la scuola elementare), ma accomunate da un luogo (Palermo) e da una stessa, travolgente e fattiva passione civile.
Giuliana, giornalista, è stata la voce più graffiante del quotidiano siciliano L'Ora, l'unico foglio che, senza infingimenti, ha avversato Cosa nostra, dileggiandola; e nonostante le minacce, le rappresaglie, la tragica fine del cronista Mauro de Mauro, e nonostante l'essere donna in Sicilia negli anni Settanta, ha scritto sulla mafia le pagine più dure e abrasive. Quasi nessuno sa che fu lei a guidare il "Comitato dei lenzuoli", quella rivoluzione gentile che dopo la morte di Giovanni Falcone voleva cambiare la città di Palermo e il suo modo di rassegnarsi, puntualmente, dopo ogni strage. Dicevamo che spesso i modelli femminili non sono autoreferenziali. Ebbene, l'anno dopo la sua morte uscì "Romanzo civile", la biografia di Lillo Roxas, suo amico fraterno, tenuta nel cassetto fino alla fine; e tra quelle pagine traspare che è stata lei ad aver scritto un romanzo civile, sì, ma con la sua stessa vita.
E in coda a questa storia, o piuttosto a proseguirla, sta Susanna Crispino, giovanissima giurista, attivista antimafia, tragicamente scomparsa un anno fa: il 4 marzo 2018. Da Caserta, sbarcata a Palermo per studiare giurisprudenza cavalcando un sogno che è anche un ideale, era entrata nelle associazioni antimafia siciliane più attive: seguiva i processi sulle stragi mafiose, rendeva testimonianza concreta del cambiamento, nel frattempo conseguiva la laurea con lode per proseguire il percorso: quel 4 marzo stava chiudendo un dottorato, e poi - ne sono certo - sarebbe entrata in magistratura, perché questo voleva. Il suo esempio - oggi si direbbe: lo spirito-guida - era Paolo Borsellino; e lei si è resa esempio, a sua volta.
Due donne - due tra tutte - che non ci sono più; ma si tratta soltanto di non poterle più riabbracciare, di non poterci più parlare. Esse sono, infatti, protagoniste assolute del nostro "romanzo civile", che ci raccoglie tutti, senza eccezione: perché se le mafie, siciliane e non, sono ridotte al lumicino, se oggi sappiamo - anzi, siamo certi - che la malapianta mafiosa può essere estirpata, per sempre e dovunque, se oggi ci riconosciamo in una collettività migliore, consapevole dei propri diritti, primo tra tutti quello di non lasciarsi intimorire né corrompere, lo dobbiamo anche a Giuliana e Susanna, e poi a tutti coloro che hanno seguito e seguono il loro esempio "civile".
Lo dobbiamo sopratutto alle donne. E a proposito: quando penso alla figura femminile, la mente torna sempre ad un quadro di Tintoretto, Susanna e i vecchioni, che racconta l'episodio biblico di Susanna, insidiata da due uomini anziani, che intendono approfittare di lei. Il pittore veneziano declina la scena a suo modo: i vecchioni vengono ridicolizzati, ritratti cioè in pose assurde, mentre la donna, per nulla impaurita (come invece la si ritraeva di solito in quest'episodio), occupa con la sua bellezza il centro del quadro. E' indifferente, ma non inconsapevole, indaffarata a prepararsi per qualcosa: e quel qualcosa, per la donna, è il futuro. Non per caso Susanna è anche una delle donne che ho voluto ricordare, poiché anche lei si stava preparando per il futuro; non ha potuto continuare a scrivere il suo "romanzo civile", ma ha lasciato dopo di sé indicazioni precise, e dietro di sé tracce luminose.
LA LEGGE N. 3 DEL 2019,c.d. “SPAZZACORROTTI”: COSA CAMBIA? di Graziella Viscomi
Con l. n. 3/2019 rubricata “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché' in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici” il Legislatore si è proposto di contrastare con maggiore efficacia la corruzione, freno allo sviluppo economico del Paese. Sulla scia della Riforma Orlando ha ulteriormente ampliato gli strumenti di investigazione parificando la normativa a quella dei reati di mafia. Vera novità dell’approccio al contrasto dei reati con maggiore disvalore fra quelli che offendono la p.a. è il sistema delle pene accessorie, nonché gli strumenti di “prevenzione”. Del tutto sui generis e meritevole di commento si appalesa la disciplina del “collaboratore di giustizia” di taluni reati contro la p.a., sebbene la su figura sia circondata da tanti e tali paletti da risultare di difficile attuazione un incentivo alla collaborazione. Il Legislatore ha inciso sul patteggiamento, mancando -tuttavia- di coordinare la figura con la ratio deflattiva che è alla base del rito alternativo. Il Legislatore appare più preoccupato di dare una parvenza di efficacia della normativa di contrasto, trascurando la sua efficienza. L’incidenza della novella sulla prescrizione è tutta da vedere poiché non entra in vigore immediatamente. Ancora alla prova della disciplina posta dalla Riforma Orlando, dunque, un altro correttivo cerca di arginare il rischio della scure del tempo sul processo, trascurando di considerare la portata di altri interventi che incidendo sulla macchina giudiziaria ne prevengano l’arrugginimento*
* testo della relazione all’incontro di studio organizzato dalla Formazione Decentrata del Distretto di Catanzaro tenutosi presso la Corte d’Appello di Catanzaro il 14 febbraio 2019.
SOMMARIO: 1. La causa di non punibilità di cui all’art. 323 ter c.p..-2.Le pene accessorie. L’art. 32 quater c.p., l’art. 317 bis c.p., le novità in tema di patteggiamento, gli effetti sulla sospensione condizionale della pena. Il regime di “prevenzione”.-3. Interventi sulla prescrizione.-4. Gli strumenti di investigazione.-5. Le modifiche. - 6. Conclusioni
1.La causa di non punibilità di cui all’art. 323 ter c.p. Spicca, indubbiamente, la nuova causa di non punibilità cristallizzata nell’art. 323 ter c.p. Testualmente essa recita:
“Non è punibile chi ha commesso taluno dei fatti previsti dagli artt. 318, 319, 319 ter, 319 quater, 320, 321, 322 bis, limitatamente ai delitti di corruzione ed induzione indebita ivi indicati, 353, 353 bis e 354 e ss, prima di avere notizia che nei suoi confronti sono svolte indagini in relazione a tali fatti e comunque entro quattro mesi dalla commissione del fatto, lo denuncia volontariamente e fornisce indicazioni utili e concrete per assicurare la prova del reato e per individuare gli altri responsabili.
La non punibilità del denunciante è subordinata alla messa a disposizione dell’utilità dallo stesso percepita o in caso di impossibilità, di una somma di denaro di valore equivalente, ovvero alla indicazione di elementi utili e concreti per individuarne il beneficiario effettivo, entro il medesimo termine di cui al primo comma.
La causa di non punibilità non si applica quando la denuncia di cui al primo comma è preordinata rispetto alla commissione del reato denunciato. La causa di non punibilità non si applica in favore dell’agente sotto copertura che ha agito in violazione delle disposizioni dell’art. 9 della Legge 16 marzo 2006, n. 146”.
La disposizione surriportata pone immediati problemi di sistema ed interpretativi. Sotto un primo profilo, infatti, essa appare istituire una disciplina ad hoc del “collaboratore di giustizia da reato di pubblica amministrazione” decisamente meno favorevole rispetto a quella del collaboratore di giustizia del reato mafioso. Spiccano, difatti, le stringenti condizioni che debbono ricorrere affinchè la causa di non punibilità risulti realizzata. La considerazione si riallaccia ai problemi interpretativi cui si è fatto cenno.
In primo luogo, il limite temporale: la disposizione individua un termine entro il quale il reo deve “pentirsi” per poter beneficiare, se realizzate anche le altre condizioni, della condizione in commento. Tale termine è rappresentato dalla anteriorità della conoscenza “che nei suoi confronti sono svolte indagini”. Primo problema: si tratta di un termine di diritto o di fatto? Nel primo caso, infatti, vi sarebbe un dato certo ed oggettivo idoneo ad ancorare la verificazione del limite temporale corrispondente al primo atto dell’a.g. con il quale l’indagato ha contezza del procedimento (es. esito di una certificazione ex art. 335 c.p.p., notificazione di un atto garantito o dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, notificazione di una richiesta di proroga indagini). Epperò tale oggettività potrebbe non soddisfare l’intento del legislatore di favorire il pentimento “spontaneo” (espressione che effettivamente viene utilizzata nelle righe successive della disposizione) a discapito di quello determinato dalla paura per le conseguenze del reato. E’ ben possibile, infatti, che il reo abbia contezza dell’indagine per il compimento di atti di discovery che ancora non riguardano espressamente la sua persona (si pensi all’acquisizione di atti presso la p.a. in cui lo stesso opera e che include provvedimenti a sua firma) oppure all’evenienza in cui il nominativo dell’interessato sorga in fase avanzata ad atti di indagine che hanno riguardato i correi (iscrizione a seguito di interrogatorio di un indagato), nonché al caso patologico della fuga di notizie. Il termine di conoscenza, dunque, risalirebbe ad un momento anteriore a quello dell’atto dell’a.g. che sfiori la persona del “collaboratore”, risulta maggiormente aleatorio, ma anche più conforme allo spirito della legge.
Il Legislatore ha, comunque, individuato un termine diverso (“e comunque”) entro il quale la collaborazione ha effetto premiale, stabilito in 4 mesi dalla commissione del fatto. Il termine fissato risulta del tutto arbitrario e privo di un ancoraggio concreto. Anche perché trascura di considerare che nell’esperienza giudiziaria, è raro che la notitia criminis che afferisce ad un reato di p.a. fra quelli indicati, giunga nel predetto termine. Inoltre, la semantica “e comunque” potrebbe far pensare che si tratti di un termine “massimo”, prevalente su quello fissato in precedenza e che lascerebbe, al contrario, supporre un tempo di ravvidamento più lungo (si pensi solo al fatto che il primo atto di conoscenza può essere rappresentato dalla proroga indagini, dunque, un termine minimo di sei mesi dalla iscrizione della notizia di reato “a noti”, ma ben più lungo se il procedimento nasca “ad ignoti”).
E’ necessario, inoltre, per giovarsi della causa di non punibilità della collaborazione, la “volontarietà” della denuncia (ma tale concetto non risulta di facile definizione, dovendo scontrarsi evidentemente con la “minaccia” a declamare i fatti), la utilità e concretezza delle indicazioni fornite sia per raccogliere le prove del reato che (ricorre la congiunzione “e”) per individuare gli altri responsabili (interrogativi: tutti? O quelli effettivamente conosciuti e conoscibili?). Trattasi di nozioni che implicano una buona dose di discrezionalità del Giudice e che, certamente, si prestano anche a critiche in tal senso. Il mondo forense contesterà, verosimilmente, tale valutazione discrezionale che condurrà, infatti, alla possibilità di fare del “collaboratore” un testimone “puro” piuttosto che un coimputato (si consideri la possibilità, che pare implicita nella individuazione di una causa di non punibilità in luogo di una attenuante premiale, che il giudizio sul collaboratore si definisca prima del giudizio principale, verosimilmente, in fase di indagine).
Il secondo comma della disposizione in commento subordina la non punibilità del denunciante alla possibilità riparatoria da realizzarsi mediante “messa a disposizione” dell’utilità percepita dal medesimo (espressione che richiama l’offerta reale di civilistica vocazione), ovvero di una somma equipollente ovvero ancora di indicazioni che ne consentano il recupero aliunde (il tutto entro il termine indicato al comma I).
Appare, in definitiva, che le condizioni previste dall’art. 323 i c.p. siano tali e tante da far apparire svantaggiosa la collaborazione, piuttosto che un reale incentivo, necessario nell’ottica di contrasto al fenomeno corruttivo che la legge si propone. Oltre ad apparire, come osservato già da taluno, impraticabili per reati mono-soggettivi con ingiustificata preclusione.
2. Le pene accessorie. L’art. 32 quater c.p., l’art. 317 bis c.p., le novità in tema di patteggiamento, gli effetti sulla sospensione condizionale della pena. Il regime di “prevenzione”.
I primi commenti alla riforma hanno evidenziato come la vera novità della disciplina stia nel regime delle pene accessorie, sebbene -altrettanto all’unanimità- si sia da più parti constatato che la riforma si presti sul punto a possibili rilievi di costituzionalità per le ragioni di seguito indicate.
Nel previgente sistema, l’art. 317 bis c.p. istituiva una sanzione di interdizione perpetua dai pubblici uffici conseguente alla condanna per i reati di cui agli artt. 314, 317, 319 e 319 ter c.p., riducendo a temporanea la sanzione per l’ipotesi di condanna alla reclusione per un tempo inferiore ai tre anni.
Il novellato art. 317 bis c.p. risulta oggetto di un pesante restyling. Sono, in primo luogo, ampliati i titoli di reato cui consegue la sanzione accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici (ricomprendendosi ora anche i delitti portati dai seguenti artt.: 318, 319 bis, 319 quater c. I, 320, 321, 322, 322 bis e 346 bis c.p.) e la sanzione è individuata nella interdizione dai pubblici uffici e dalla impossibilità di contrarre con la p.a. (salvo che per accedere ai servizi pubblici). Si rileva in questa sede che la novella legislativa ha inciso anche sull’art. 32 quater c.p. che ha inserito gli artt. 319 ter, 346 bis c.p. e 452 quaterdecies fra i reati alla cui condanna consegue l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione.
In secondo luogo, per l’ipotesi di condanna per uno dei detti titoli di reato alla reclusione non superiore ad anni 2 (dunque, risulta conseguentemente ampliato il “paniere” delle interdizioni perpetue) ovvero nell’ipotesi di riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 323 bis c. I c.p. (fatti particolare tenuità), la sanzione accessoria di cui al nuovo art. 317 bis c.p. viene predeterminata in un tempo compreso fra 5 e 7 anni, mentre per il riconoscimento dell’attenuante di cui al comma II dell’art. 323 bis c.p. (ravvedimento operoso) la stessa oscilla in un tempo compreso fra uno e cinque anni: in altre parole, la pena accessoria può protrarsi anche considerevolmente oltre quella principale.
Si tratta di un regime evidentemente incisivo e teso a recidere definitivamente i legami fra il condannato e la pubblica amministrazione.
Le dette disposizioni si legano ineluttabilmente alla disciplina della sospensione della pena di cui all’art. 166 c.p. il cui regime abbracciava sia la pena principale che quelle accessorie. Con la novella, infatti, è concessa la facoltà al giudice (“il giudice può”) di disporre che la sospensione non estenda i propri effetti alle pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici e dell’incapacità di contrattare con la p.a.
Conclude l’incisività della disciplina la previsione inserita all’ultimo comma dell’art. 179 c.p. secondo cui la riabilitazione concessa non produce effetti sulle pene accessorie perpetue e si estingue decorso un termine di 7 anni dalla riabilitazione, ma solo se il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta. Ratio della disciplina, dunque, è contrastare in maniera profonda la possibilità che il condannato per taluno dei reati di p.a. possa nuovamente operare nella pubblica amministrazione, abbattendo il rischio di recidivanza.
Dal punto di vista procedurale, la competenza per decidere sulla estinzione della pena accessoria perpetua è incardinata in capo al Tribunale di Sorveglianza.
Sulla stessa linea le disposizioni dettate in tema di “patteggiamento”. All’art. 444 c.p.p. è stato aggiunto il comma 3 bis il quale stabilisce che nei delitti previsti dagli artt. 324, primo comma, 317, 318, 319, 319 ter, 319 quater primo comma, 320, 321, 322, 322 bis e 346 bis c.p., la parte possa subordinare la richiesta all’esenzione dalle pene accessorie previste dall’art. 317 bis ovvero all’estensione degli effetti della sospensione condizionale anche a tali pene accessorie. Laddove il giudice ritenesse di non accogliere la richiesta in punto di pene accessorie, la stessa richiesta di patteggiamento sarebbe rigettata (“il giudice se ritiene di applicare le pene accessorie o ritiene che l’estensione della sospensione condizionale non possa essere concessa, rigetta la richiesta”).
All’art. 445 c.p.p. è stata introdotta la previsione (comma 1 ter) per cui con la sentenza di applicazione della pena il giudice possa (“può”) comunque applicare le sanzioni accessorie di cui all’art. 317 bis c.p.
Si tratta di novità profonde perché si consente l’ingresso della pattuizione anche sulla pena secondaria, lasciando ampio margine di valutazione al giudice.
Il rischio insito in tale contesto, tuttavia, è quello che l’imputato non consideri con favore il ricorso all’istituto. Appare, in altre parole, che il Legislatore, preoccupato di individuare fonti di contrasto a taluni reati che offendono la p.a., abbia mancato di coordinarsi con la ratio deflattiva sottesa al rito alternativo che potrebbe risultare, infatti, non appetibile. Con la conseguenza che proprio laddove vi è un’alta esigenza di definizione celere del procedimento, si preferisca accedere al rito ordinario, con aggravio dei tempi del processo e, specularmente, di ritardo nella recisione del contatto fra il p.u. che ha delinquito e l’amministrazione offesa.
Parimenti, inoltre, ha escluso le pene accessorie perpetue dall’estinzione degli effetti penali della condanna conseguenti all’espiazione di misura alternativa alla detenzione. La disposizione creerà verosimili problemi di costituzionalità poiché si rischia un contrasto alla finalità rieducativa della pena che pare essere stato dimenticato dal Legislatore della Riforma.
Assume carattere di novità quanto alla forma di contrasto ai più gravi reati contro la p.a. il regime dell’accesso e preclusione dei benefici penitenziari.
Il Legislatore, infatti, anche in tal caso avvicinando la disciplina a quella dei delitti di mafia. Se da un lato ha inteso premiare la collaborazione in relazione al riconoscimento dell’art. 323 bis c.p., dall’altro ha inserito nell’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario alcuni delitto contro la p.a. (314 c. I, 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319 quater c. I, 320, 321, 322, 322 bis c.p.) quali reati ostativi alla all’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione, salvi i casi di collaborazione con la giustizia. Peraltro, la mancata previsione di una disciplina intertemporale determina la diretta applicazione delle disposizioni in commento, che incideranno -dunque- pesantemente anche sui procedimenti in itinere determinando effetti pregiudizievoli non predeterminabili.
Merita di essere evidenziato in questa sede che il provvedimento cautelare del divieto temporaneo di contrattare con la p.a. è stato introdotto con l’art. 289 bis c.p.p. e consiste nell’interdizione temporanea dell’imputato a stipulare contratti con la p.a. , salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio. La previsione specifica che, in caso di delitto contro la p.a., la misura possa essere disposta al di fuori dei limiti di pena di cui all’art. 287 c.p.p.
3. Interventi sulla prescrizione.
Con un ritorno al passato il comma I dell’art. 158 c.p. ha reintrodotto quale termine di decorrenza della prescrizione per il delitto continuato il giorno in cui è cessata la continuazione.
Non consentendo di sperimentare le previsioni della Riforma Orlando, nell’art. 159 c.p. è stata prevista una “sospensione” del corso della prescrizione per un periodo compreso fra la pronuncia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna.
Specularmente è stata abrogato il primo comma dell’art. 160 c.p. che prevedeva l’interruzione del corso della prescrizione dalla sentenza di condanna o dal decreto di condanna.
La scelta legislativa si presta ad una critica esegetica, nel momento in cui pone fra le cause di sospensione una ragione che è evidentemente interruttiva (per come confermato proprio dalla successiva abrogazione del comma I dell’art. 160 c.p.) e ad una critica di sistema nel momento in cui non distingue fra sentenze di condanna e statuizioni assolutorie e non si preoccupa della possibilità che l’assenza di un limite temporale, non stimolando la celerità del processo, esponga a giudizi interminabili gli imputati. Trattasi di previsioni la cui entrata in vigore è differita al 01.01.2020.
4. Gli strumenti di investigazione.
Come già accennato, la c.d. “spazzacorrotti” ha sostanzialmente equiparato la disciplina delle intercettazioni in materia di reati dei pubblici ufficiali contro la p.a. puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni, a quella in tema di criminalità organizzata. La novella, dunque, si pone sul solco dell’art. 6 d. lgs. n. 216/2017 che aveva già inciso su un avvicinamento delle due discipline, sebbene sostanzialmente limitato al solo regime temporale, consentendo ora l’uso a tutto campo dello spyware, venendo meno il limite del luogo di svolgimento dell’attività criminosa quale presupposto per l’attivazione nei luoghi di privata dimora. L’intervento avviene direttamente sugli artt. 266 e 267 c.p.p. Sul punto la riforma consegna un importante strumento di ricerca della prova, sebbene residuino esigenze di coordinamento con la previgente disciplina soprattutto in termini di acquisizione delle captazioni autorizzate aliunde. Nessuna modifica è stata, infatti, apportata all’art. 270 c.p.p., le cui condizioni escludono un buon numero di reati contro la p.a., in uno con la previsione (che non appare superata) del limite di utilizzabilità delle intercettazioni acquisite mediante captatore informatico per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, salva l’indispensabilità per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza.
Il Legislatore ha, inoltre, ipotizzato che possa rendersi utile ai fini del contrasto a determinati delitti contro la p.a., il ricorso agli agenti sotto copertura. Si tratta di una previsione che si espone a perplessità stante la delicatezza ed il tecnicismo del contesto di p.a. nel cui ambito va ricercata la prova.
5. Le modifiche.
Articoli 9 e 10 c.p. Il Legislatore della riforma all’art. 9 c.p. u.c. ha escluso la necessità della condizione di procedibilità (nella forma della richiesta del Ministro della Giustizia o dell’istanza o della querela della p.o.) per l’ipotesi di delitto comune commesso dal cittadino all’estero in relazione ai reati di cui agli artt. 320, 321 e 346 bis c.p. Parimenti ha disposto con l’ultimo comma dell’art. 10 in relazione ai reati di cui agli artt. 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322 e 322-bis c.p.
Art. 165 c.p. Il parametro risarcitorio cui è condizionata la previsione della subordinazione della sospensione condizionale della pena è mutata dal pagamento di una somma equivalente al profitto del reato ovvero all’ammontare di quanto indebitamente percepito dal p.u. o dall’incaricato di p.s., al pagamento della somma determinata a titolo di riparazione pecuniaria ai sensi dell’art. 322 quater c.p.
Art. 316 ter c.p. Il Legislatore ha istituito una aggravante per l’ipotesi che il fatto sia commesso da un pubblico ufficiale od incaricato di pubblico servizio con abuso di qualità o poteri.
Art. 318 c.p. Tra le righe della riforma può cogliersi un maggiore disvalore per il reato di corruzione per un atto dell’ufficio (c.d. corruzione impropria) poiché a parte l’aumento di pena (da tre ad otto anni, in luogo di uno a sei), esso viene incluso fra i delitti soggetti al regime delle pene accessorie di cui si è detto.
Art. 322 bis c.p. Con l’obiettivo di ampliare il contrasto ai più allarmanti reati contro la p.a. anche nel contesto internazionale, il Legislatore ha equiparato le previsioni di cui agli artt. 314, 316, da 317 a 320 e 322 cc. III e IV, anche alle persone che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio nell'ambito di organizzazioni pubbliche internazionali, nonché ai membri delle assemblee parlamentari internazionali o di un'organizzazione internazionale o sovranazionale e ai giudici e funzionari delle corti internazionali.
Art. 322 ter c.p. Istituisce una innovativa figura di custodia dei beni sequestrati in relazione ai delitti di cui all’art. 322 ter c.p., diversi dal denaro e dalle disponibilità finanziarie, consentendone l’affidamento agli organi di p.g. che ne facciano richiesta per le proprie esigenze operative. La previsione, interessante poiché consentirebbe l’uso in favore dello Stato di tali beni, con diminuzione corrispondente delle spese di custodia, necessita -a parere di chi scrive- di interventi che meglio e più specificamente regolamentino la concreta attuazione della previsione.
Art. 322 quater c.p. La riparazione pecuniaria per il caso di condanna per i reati previsti dagli artt. 314, 317, 318, 319 ter, 319 quater, 320, 321 (previsione assente nella precedente formulazione) e 322 bis è parametrata non più a quanto indebitamente percepito, ma al prezzo o profitto del reato (si ipotizza evidentemente trattarsi di una somma di importo diverso) da corrispondersi in favore dell’amministrazione resa dalla condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio (scompare il riferimento all’amministrazione di provenienza).
Art. 346 bis c.p.Viene abrogato il delitto di millantato credito per essere ricompreso nell’unica figura del “traffico di influenze illecite” (nel primo comma del novellato art. 346 bis c.p. si fa, infatti, riferimento alla “vanteria” della relazione “esistente od asserita” con il p.u. o l’incaricato di p.s.). Si rivela interessante il riferimento alla “utilità” quale vantaggio conseguito come provento del reato, poiché (sul solco di giurisprudenza ormai consolidata anche nei reati di p.a.) si esclude che la natura della remunerazione debba avere carattere patrimoniale o, comunque, economicamente valutabile.
Artt. 646 c.p. - 649 bis c.p. Il Legislatore ha inasprito le pene in relazione al reato di appropriazione indebita di cui all’art. 646 c.p., ora punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 1.000,00 a 3.000,00, con la conseguenza che viene a mutarsi lo strumento di esercizio dell’azione penale che sarà la richiesta di rinvio a giudizio in luogo della citazione diretta. In realtà si pone un problema di coordinamento dell’effetto sostanziale della disposizione con l’effetto processuale. Trattandosi di disposizione di maggior sfavore, infatti, la sua applicazione non potrà concernere fatti accaduti prima della sua entrata in vigore. Necessariamente questo implica che il discrimen debba essere rappresentato dalla data di commissione del fatto, unico momento di coordinamento dei due effetti penale e sostanziale. Il regime di procedibilità d’ufficio disciplinato dall’art. 649 bis c.p. si estende alle ipotesi in cui la persona offesa sia incapace per età o per infermità ovvero se sia cagionato alla p.o. un danno di rilevante gravità.
Art. 578 bis c.p.p. Il Legislatore della riforma ha, inoltre, introdotto la previsione della confisca di cui all’art. 322 ter c.p. fra le ipotesi nelle quali il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o amnistia, debbano comunque decidere sulla confisca accertando la responsabilità dell’imputato. Trattasi di una estensione che pone seri dubbi di compatibilità con l’orientamento consolidato della Corte europea dei diritti dell'Uomo che individua una violazione del principio di legalità sancito dall'art. 7 Cedu nelle pronunce che dispongano la confisca a fronte di un proscioglimento per prescrizione (cfr. sentenza Varvara contro Italia del 29 ottobre 2013, sebbene -sempre in tema di lottizzazione abusiva la Gran Camera, con decisione del 28 giugno 2018 nel caso GIEM e altri c. Italia, abbia parzialmente rivisto le sue posizioni).
6. Conclusioni.
I diversi interventi legislativi sulle norme di contrasto al fenomeno corruttivo trovano radici nelle spinte internazionali che vi ravvisano un pesante freno allo sviluppo che incidendo sul Paese, si riflettono preponderantemente anche sull’UE e sui rapporti internazionali. Ad esempio, con la Decisione della Commissione Europea del 06.06.2011 si è detto che: “Nonostante negli ultimi decenni l'Unione europea abbia significativamente contribuito all'apertura e alla trasparenza dell'Europa, vi è ancora, naturalmente, molto da fare. È inaccettabile che ogni anno un importo stimato di 120 miliardi di euro, pari all'1% del PIL dell'UE, vada perso a causa della corruzione. Non è certo un problema nuovo per l'UE e non sarà possibile sradicare completamente la corruzione dalle nostre società, ma è eloquente il fatto che il punteggio medio dell'UE-27 secondo l'Indice sulla percezione della corruzione di Transparency International sia aumentato solo di poco negli ultimi dieci anni. Benchè la natura e l'entità della corruzione varino, il fenomeno nuoce a tutti gli Stati membri dell'UE e all'UE nel suo insieme”, assumendo -inoltre- l’impegno per cui: “Continuerà a elaborare norme aggiornate in materia di appalti, principi contabili e revisioni contabili per le società dell'UE, e nel 2011 adotterà inoltre una strategia per combattere le frodi che ledono gli interessi finanziari dell'UE. Parallelamente, si concentrerà maggiormente sulla lotta contro la corruzione nell'ambito del processo d'allargamento dell'Unione e – insieme all'Alto Rappresentante – nell'ambito della politica europea di vicinato, e ricorrerà più spesso al principio di condizionalità nelle politiche di cooperazione e sviluppo”.
Tanto discende, con ogni evidenza, in ragione del peso specifico effettivo che la corruzione, così come le frodi in senso stretto, hanno sui bilanci nazionali e comunitari (secondo i dati del 2013, la corruzione costa all’Unione Europea 600 mln di euro all’anno).
Sebbene sia da salutare con favore l’ampliamento degli strumenti di investigazione sul fronte intercettivo ed anche il nuovo approccio su strumenti che tendano a recidere il vincolo fra il reo e la pubblica amministrazione, l’intervento appare parziale ed insufficiente, oltre ad esporsi a problemi di costituzionalità.
L’inasprimento delle pene accessorie e la maggiore difficoltà di accesso ai benefici premiali rischia di contrastare, ad esempio, con la natura rieducativa della pena, principio cardine del nostro ordinamento penale - costituzionale. Su tale versante, inoltre, poco si è fatto per la rieducazione del condannato, anche in una ottica che non veda nella detenzione il meccanismo deterrente (o lo “spauracchio” come appare essere), ma si ispiri alla conciliazione.
D’altro canto, il Legislatore punta tutto sul sistema repressivo, laddove sarebbe forse necessario ed urgente prevenire meccanismi che conducano al mercimonio della cosa pubblica a partire dallo snellimento della macchina burocratica ed una responsabilizzazione del dipendente pubblico.
Non di meno, ancora una volta non si è agito sul “processo” e la riforma risulta lontana dal garantire una celerità di definizione dei giudizi, certo non ravvisabile nelle modifiche del regime di prescrizione. Riforme a costo zero, prima fra tutte il meccanismo di rinnovazione istruttoria, avrebbero probabilmente avuto un effetto più incisivo e prevenuto il rischio di far apparire la struttura della prescrizione come uno strumento che “tenga appeso” l’imputato al processo, in una ottica di abdicazione dello Stato ad offrire strumenti che agiscano sulla speditezza del rito: si agisce sulla cura e non sul malato.
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