Elezioni per il CSM, ovvero dei vincenti e (sopratutto) dei vinti
di Andrea Apollonio
La campagna elettorale per le elezioni riguardanti i due posti vacanti al Consiglio Superiore della Magistratura - campagna archiviata con esiti elettorali ormai certi - mi ha ricordato molto da vicino quella delle politiche del 2008.
Qualcuno forse ricorda ancora la campagna elettorale ovattata e gentile, che vedeva contrapposti, essenzialmente, Silvio Berlusconi e Walter Weltroni. Io ricordo distintamente quest'ultimo aprire la sua campagna in Umbria, assiso su un colle verdeggiante, con sullo sfondo un centro storico pittoresco: il suo linguaggio era garbato, non pronunciava mai il nome di Berlusconi, non era aggressivo e snocciolava temi progressisti concreti. Peccato che gli esiti di quelle elezioni erano segnati fin da subito, con i partiti di centro-destra compatti in un solo schieramento e - dall'altra parte - il terzo blocco della Sinistra Arcobaleno. Da questa parte, infatti, era mancata l'aggregazione delle forze in un unico progetto politico, con inevitabile dispersione dei voti. Silvio Berlusconi avrebbe ottenuto una vittoria netta, conseguendo schiaccianti maggioranze parlamentari. Il resto (della legislatura, intendo, con il finale targato Mario Monti), è Storia.
Stiamo divagando, o forse no. Perchè il dato più rilevante della "nostra" campagna elettorale è stata la scelta - idealmente ineccepibile, elettoralmente fallimentare - della componente progressista, cioè di Area democratica per la Giustizia, di non presentare una candidatura unica o al massimo duplice, di non indicare insomma, ai suoi iscritti una direzione di voto, previe le dovute consultazioni interne - come sempre è accaduto in questo spicchio di magistratura. Le altre "correnti" (a me questo termine neppure dispiace, e su questo torno tra un attimo), in maniera più pragmatica, hanno perlopiù puntato tutte le loro fiches su uno o due candidati al massimo.
Puntualizziamo: in questa tornata elettorale, che doveva servire a riacquistare una verginità morale dopo i noti scandali e le logiche spartitorie emerse, tutti i candidati erano indipendenti e tutti, al contempo, chiaramente individuabili nel campo dell'associazionismo. Salvo i "veri" indipendenti (quattro o cinque al massimo), tutti erano legati a quella o a quell'altra "corrente", com'era giusto che fosse: perché gli associati non possono rinnegare l'associazionismo, e l'associazionismo non può rinnegare se stesso: ci si dissocia dalla mafia, non da gruppi di magistrati che, mettendosi assieme, aspirano a migliorare le cose nel complessivo ambito dell'esercizio della giustizia.
A dire il vero, coloro che andavano individuati in Area hanno pugnacemente rivendicato una tale appartenenza; ma i candidati erano troppi, e tutti di spessore, e così non è stato altrove (mi riferisco al numero, non allo spessore, indubbio): perché i voti sono numeri, e i numeri vanno sommati. Sommando i numeri di questi candidati, alla luce delle performance dei primi due arrivati al traguardo, si ottiene - si sarebbe ottenuto - un dato vincente: è algebra. Certo, la decisione recava con sé un valido contenuto ideale (occorreva sancire il pluralismo democratico in un momento in cui la magistratura è tacciata di "poltronismo", al pari della peggiore politica), un messaggio di netta rottura col passato "correntizio" (ma le "correnti", lo ribadisco, sono un fatto non eludibile); eppure se gli altri gruppi avevano dei capo-fila, per non dire dei candidati "unici", di notevole caratura professionale, intellettuale ed anche mediatica, quella decisione andava rivista, perché figure di pari rango, in Area, ce ne sono e ce ne saranno; e la competizione sarebbe stata così ad armi pari. Il paradosso orwelliano che si era venuto a creare ("tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri") poteva e doveva essere superato per tempo.
Ancora a urne aperte leggevo alcuni commenti, al riguardo, tutti di questo tenore: ci siamo presentati in tanti per una giusta causa; saremo sconfitti, ma per una giusta causa. E allora mi chiedo, e me lo chiedo come farebbe un osservatore esterno della vicenda elettorale: è altrettanto giusto rinunciare scientemente - e, direi quasi: preventivamente - alle proprie istanze riformiste e progressiste, se è vero che queste passano fatalmente da un dato di rappresentanza? Non è ricercando scientemente la la disfatta dei numeri che si cambiano le cose.
Sia chiaro: i due pm eletti al Consiglio (Antonio D'Amato e Antonino Di Matteo) sono magistrati di grande valore, la cui storia professionale parla da sé: sapranno senz'altro mantenere alto il prestigio della funzione consiliare, contribuendo al superamento del momento di profonda crisi che la Magistratura tutta sta attraversando. Ma non è sui vincitori che occorre soffermarsi. Perché queste righe di commento vogliono essere una rapida analisi del voto che, in quanto tale, deve mostrarsi obiettiva: quindi implacabile con gli sconfitti. E noi possiamo girarci attorno ed utilizzare formule più o meno diplomatiche, più o meno edulcorate: ma la vera sconfitta è - come nel 2008 Veltroni, per gli stessi motivi, con una campagna elettorale molto simile: bella, partecipata, piena di contenuti, ma perdente in partenza perché scissa dai numeri e dai conteggi - Area; la quale non ha attivato i meccanismi di selezione interni (leggi: primarie), che avrebbero garantito una resa democratica ed una immagine incorrotta prima, di unità poi: così, avendo voluto perdere sapendo che avrebbe potuto vincere (i numeri, questo hanno detto), avendolo fatto per una ragione di principio, se non altro si è guadagnata un patrimonio di coerenza da spendere per il futuro.
Note per il futuro, quindi.
Non indicare ai propri iscritti, sostenitori o simpatizzanti un'unica direzione di voto, avendo permesso, sia pure per nobili ragioni di principio, la presentazione di tante candidature (tutte, giocoforza, necessariamente perdenti), avendolo permesso anche dopo aver accertato che i vicini di casa si stavano organizzando diversamente, con candidature forti (e come dare loro torto), perché così funziona nelle competizioni elettorali democratiche: vince chi prende più voti, non averlo fatto è stato non solo un errore che ha portato alla sconfitta, ma anche una negazione del principale ruolo delle "correnti": fare sintesi e mostrarsi concretamente propositivi. Questo è un dato che va acquisito: in Area, e più in generale nel corpo molle dell'associazionismo.
Perché l'associazionismo interno alla magistratura nega se stesso quando abdica al proprio ruolo di sintesi, giacché un filtro selettivo - selettivo di idee, di istanze, e anche di persone - tra la base e il vertice (che sia l'ANM, che sia il Consiglio Superiore, che sia altro, poco importa) è necessario; è nell'ordine delle cose. Dirò di più, in quest'ottica non mi dispiace neppure il termine "correnti": perché se non vi fossero queste, idee, istanze e persone stagnerebbero indistintamente su di una superficie immobile, o appena increspata.
Pare che tra un paio di mesi vi saranno nuove elezioni, per l'ultimo posto vacante al Consiglio. Un solo posto, democraticamente conteso tra tutti. E, inconsciamente, mi sovviene un altro collegamento, con un altro personaggio di sinistra: non Veltroni, ancora, ma Nanni Moretti. Si tratta della scena memorabile del film "Ecce Bombo", nella quale il protagonista partecipa ad una riunione tra amici tutti molto idealisti, in cui, sopratutto, si espongono gli errori commessi; errori anche di calcolo, come non aver correttamente calcolato le latitudini di un'alba. E c'è chi dice: "Per me quel sole, che noi abbiamo aspettato tanto tempo, a Ostia, e che poi spuntava dalla parte opposta, per me è stato un segno, un invito a capire". Altra nota per il futuro: rivedere ogni tanto i film cervellotici e impietosi di Nanni Moretti.