ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Niente più rito abbreviato per i reati che prevedono la pena dell’ergastolo. Con 168 voti favorevoli, 48 contrari e 43 astensioni, il Senato ha approvato in via definitiva il disegno di legge di riforma del rito abbreviato.
“Con l’approvazione di questa legge in Senato diamo un segnale fortissimo a tutti i cittadini di questo Paese – ha commentato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede -.
Il messaggio è che c’è la certezza della pena, non ci sono più gli sconti di pena a cui i criminali un po’ si sono abituati quando ci sono reati gravissimi”. Ma l’approvazione del provvedimento suscita anche forti perplessità.
Come quelle espresse da Glauco Giostra, ordinario di Procedura Penale all’università Sapienza di Roma, presidente della Commissione che lavorò a lungo, la scorsa legislatura, alla riforma dell’Ordinamento penitenziario e consulente ministeriale per numerose altre riforme del sistema penale.
Professore, cosa pensa della nuova legge?
Penso che ad un problema esistente si è risposto, come troppo spesso capita, con una soluzione che non lo risolve, anzi, che ne genera altri, ma che può essere utile dare in pasto all’opinione pubblica per raccogliere consensi.
C’è da dire che l’opinione pubblica resta spesso sconcertata di fronte a drastiche riduzioni di pena. Che necessità c’è di prevedere certi sconti sulla base della scelta del rito?
“Ogni ordinamento che, come il nostro, è incentrato sulla formazione della prova nel contraddittorio dibattimentale, fa ricorso, per la sopravvivenza del sistema, a riti speciali. Cioè a procedure semplificate nelle quali la rinuncia da parte dell’imputato alla garanzia del dibattimento e la relativa accettazione ad essere giudicato sulla base degli atti di indagine, è premiata dallo Stato con una riduzione di pena. Per il giudizio abbreviato la riduzione è di un terzo della pena temporanea inflitta, mentre l’ergastolo, sino all’approvazione di ieri, era sostituito con la reclusione a 30 anni, e in caso di ergastolo con isolamento diurno veniva eliminato l’isolamento”.
Non si può negare che, soprattutto quando la riduzione per la scelta del rito abbreviato si somma a quella per il concorso di circostanze attenuanti, si determinano abbattimenti di pena difficilmente accettabili dal comune senso di giustizia… “Certo. Per questo le dicevo che un problema esiste, soprattutto quando alla riduzione per la scelta del rito si cumula quella per il riconoscimento delle attenuanti generiche. Ma la legge non lo risolve, ignora le possibili soluzioni adeguate e crea serissimi problemi alla giustizia”.
Andiamo con ordine. Perché dice che non lo risolve?
“Prima lei ha fatto giustamente riferimento al senso comune di giustizia. Ebbene dopo l’approvazione della legge, chi a seguito di abbreviato viene condannato a trent’anni continuerà a vedere ridotta la pena a venti anni. Mi dica lei: è davvero più inaccettabile di questo sconto quello di cui poteva usufruire chi, avendo scelto il rito abbreviato, si vedeva applicata la pena dell’ergastolo invece della pena dell’ergastolo con isolamento diurno? Oppure trent’anni invece che l’ergastolo? La verità è che la riduzione di un terzo della pena per i reati più gravi è eccessiva. Lei pensi che un condannato per ottenere una riduzione di pena di dieci anni con la misura della liberazione anticipata dovrebbe tenere in carcere una condotta irreprensibile e impegnata per 40 anni. Inoltre si consideri che chi viene giudicato con l’abbreviato ha il solo merito di aver fatto risparmiare tempo e risorse. Il condannato in esecuzione di pena, invece, di aver dato prova di ravvedimento sociale”.
Come se ne esce, se il sistema ha bisogno di procedure semplificate e queste devono essere incentivate?
“Si sarebbe dovuto lavorare sull’incentivo. Ad esempio, prevedere che la riduzione è sì di un terzo, ma che non possa essere superiore ad un certo tetto: ad esempio cinque anni. Per l’ergastolo si poteva lasciare il regime di conversione attuale o renderlo anche più severo, anche intervenendo sulla cumulabilità con altre attenuanti, soprattutto con le cosiddette generiche, ma prevedendo sempre un vantaggio per chi accetta il rito abbreviato, sia per una giustizia comparativa nei confronti degli altri imputati, sia per evitare problemi gravissimi all’amministrazione della giustizia”.
Quali problemi prevede per l’amministrazione della giustizia?
“La legge appena approvata appesantirà in maniera preoccupante una giustizia già ansimante, forse dandole il definitivo colpo di grazia. Innanzitutto, i procedimenti per reati puniti con l’ergastolo oggi definiti in abbreviato da un giudice monocratico dovranno ‘migrare’ verso la Corte di assise, andandone ad ingolfare i ruoli già ora gestiti con affanno. Ma poi, potendo l’imputazione variare nel corso del procedimento penale, si determineranno fatalmente ritorni, sbandamenti ed ingiustizie. Facciamo il caso di un’accusa per un reato punito con pena temporanea: l’imputato sceglie il rito abbreviato nel corso del quale, in seguito all’assunzione di prove, l’imputazione si aggrava e viene contestato un reato punito con l’ergastolo. Il processo deve tornare indietro e riprendere nelle forme ordinarie, vanificando quanto già fatto e non tenendo conto, di regola, delle prove assunte in abbreviato.
Ancora più imbarazzante la situazione opposta: si procede con il rito ordinario, perché il reato originariamente contestato era punito con l’ergastolo e quindi preclusivo del rito abbreviato. Dice la nuova legge che, se la richiesta di abbreviato era stata dichiarata inammissibile per tale ragione, quando il giudice alla fine del dibattimento ritiene invece di condannare per un reato punito con pena temporanea, deve applicare la riduzione di un terzo di pena.
A parte che in questo modo tutti gli imputati di crimini puniti con l’ergastolo saranno indotti a chiedere l’abbreviato per farselo dichiarare inammissibile (altro lavoro a vuoto per i giudici) ed ottenere lo sconto di pena dopo il giudizio ordinario qualora, come capita non di rado, venisse ‘derubricato’ il reato. Con il che avremmo il capolavoro ‘economico’ di un imputato che ha usufruito di tutte le maggiori opportunità del dibattimento e che poi lucrerà anche uno sconto di dieci anni di pena.
Per non parlare, a proposito di ‘economie’, dell’imputato che, rinviato a giudizio per più reati, uno dei quali punito con l’ergastolo, chiede l’abbreviato per gli altri: l’ordinamento deve far svolgere due procedimenti contro la stessa persona, con il rischio che, per le ragioni appena ricordate non si crei necessità di passaggio dall’uno all’altro. La novità legislativa costituisce, dunque, un grave fattore di appesantimento e di disordine per la giustizia, ma evidentemente era più importante esibire un’inutile muscolarità sanzionatoria”.
(a cura di Teresa Valiani, dalla rivista “Redattore sociale” del 3.4.2019)
CANCELLARE LA TENUITA’ PER ABOLIRE IL PRINCIPIO DI REALTA’ di Marco Imperato
In una stagione di politica criminale già caratterizzata dalla volontà di assecondare gli umori della base, si profila all’orizzonte l’ennesima proposta muscolare, ovvero quella di abolire l’ipotesi di particolare tenuità nel reato di detenzione e spaccio di stupefacenti[1].
Con questo disegno di legge si vorrebbe di fatto cancellare dall’ordinamento ciò che senza dubbio esiste nei fatti e nella realtà quotidiana. Più che la proposta di abolire un istituto giuridico, si prefigura la volontà di cancellare dalle norme la realtà dei fatti.
Chi ha avuto di occuparsi di questo tipo di reati nelle aule di tribunali sa perfettamente che nella disciplina dell’articolo 73 del DPR 309/1990 ricadono fatti molto diversificati, con caratteristiche e capacità di offesa assai eterogenee tra loro: dalla detenzione professionale e sistematica da parte di soggetti dediti al traffico di centinaia di grammi di cocaina (o anche di chilogrammi, non scattando così facilmente l’aggravante speciale dell’articolo 80), alla cessione anche a titolo gratuito di mezzo grammo di stupefacente.
Pericolosità del fenomeno, offensività in concreto, dolo del reo, capacità delinquenziale, rischi per la salute: tutti questi elementi dovrebbero essere ignorati e messi da parte in nome di una pena che diventerebbe così esemplare e non proporzionata al fatto concreto, ovvero una sanzione penale che non svolge più alcuna funzione rieducativa e nemmeno retributiva, ma che serve solo quale dimostrazione della forza punitiva dello Stato.
Non verrebbe quindi violato solo il principio di ragionevolezza, ma ancor prima l’articolo 27, ovvero il principio di responsabilità penale personale.
Si potrebbe anche ricordare come la minaccia di pene severissime e sproporzionate non è solo di per sé ingiusto, ma non garantisce neanche l’obiettivo di dissuadere i comportamenti illeciti. La sociologia del diritto e ancor prima la storia insegnano che tale equazione è fallace, ma d’altronde che chi propone queste misure probabilmente non si illude di risolvere il problema, avendo come vero obiettivo strategico la strumentalizzazione del diritto penale per il recupero del consenso popolare.
Un legislatore razionale che conosca il fenomeno sociologico dell’abuso di stupefacenti e il connesso sistema criminale, partirebbe da una seria riflessione sul perché vi sia sempre una crescente domanda di droga, come dimostrano i report annuali della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga (organo peraltro del Ministero degli Interni…): il diffondersi degli stupefacenti non è scalfito dall’inasprimento delle sanzioni. Anzi, vi è chi sostiene il contrario, specie con riferimento alle droghe leggere, persino all’interno della maggioranza politica dell’attuale Governo[2].
Non possiamo giustificare l’abolizione della tenuità del fatto in materia di stupefacenti usando l’argomento che il fine (del contrasto al fenomeno criminale) giustificherebbe il mezzo (di una pena sproporzionata): un simile ragionamento è irricevibile nel nostro ordinamento perché l’imputato non può mai diventare il mezzo per qualche altra finalità pubblica, dovendogli essere garantito un giusto processo e un’eventuale sanzione commisurata solo al fatto concreto e alla sua personale responsabilità, non certo alle aspettative del Governo o agli umori della maggioranza.
Pare esservi un comune denominatore in tutte queste proposte e riforme recenti, ovvero la sfiducia verso il ruolo della Magistratura quale potere cui affidare l’interpretazione delle leggi e la loro applicazione in concreto.
Il dibattito pubblico, specialmente quello “social”, è assolutamente superficiale e prescinde dai fatti, diventando quindi spesso mera cassa di risonanza della propaganda che pretende di vedere rispettati nei processi i propri “desiderata”, senza alcun vero interesse ai fatti e alle prove del caso concreto. La percezione mediatica e il sentimento popolare vorrebbero prevalere su presunzione di non colpevolezza, giusto processo e responsabilità personale.
A fronte di questa degenerazione della discussione pubblica e politica e delle conseguenti proposte, occorre adoperare tutti gli strumenti che l’ordinamento ci consegna perché non vengano stravolti i principi costituzionali e i diritti fondamentali del nostro sistema processuale.
Che sia possibile arginare la deriva populista della politica criminale lo ha dimostrato anche la recente sentenza della Corte Costituzionale[3], la quale ha riconosciuto come sproporzionata la soglia minima di 8 anni per i fatti non tenui, certificando così al contempo la necessità di modulare la sanzione in modo congruo e ragionevole rispetto all’offesa del bene giuridico e alla responsabilità dell’autore.
È importante che tutto il mondo dei giuristi e degli operatori del processo penale si adoperi per spiegare anche al resto della cittadinanza che i principi sanciti dall’articolo 3 o dall’articolo 27 della Costituzione non sono orpelli formali o fastidiosi lacci a una spregiudicata azione di Governo, ma baluardi dello Stato di Diritto, beni preziosi da riaffermare come patrimonio comune che ci è stato consegnato dalla Carta del ’48.
[1] https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/03/04/droga-salvini-presenta-disegno-di-legge-raddoppio-delle-pene-per-chi-spaccia-e-basta-con-la-modica-quantita/5013103/
[2] https://www.tgcom24.mediaset.it/politica/il-ministro-della-salute-si-a-liberalizzare-le-droghe-leggere-_3165300-201802a.shtml
[3] https://www.penalecontemporaneo.it/d/6570-stupefacenti-la-corte-costituzionale-dichiara-sproporzionata-la-pena-minima-di-otto-anni-di-reclusi
Momenti di trascurabile felicità a cura di Dino Petralia
Tra l’ovvietà che non stupisce e la profondità del banale si collocano le trascurabili felicità di Paolo e Agata, coppia stereotipa in crisi di slanci e di parole.
Per un capriccioso errore di calcolo di velocità nello sfidare, alla guida del proprio scooter, un incrocio stradale nel centro di Palermo, Paolo muore in un fatale incidente.
Catapultando la scena in un Paradiso può attendere in salsa nostrana, il novello Warren Beatty in abiti di Pif fa così ingresso in un aldilà burocratico e disorganico, realizzando insieme a un Caronte in luccicante divisa postelegrafonica (un poliedrico ed efficace Renato Carpentieri) la commissione di un errato computo cronologico del trapasso, con conseguente momentaneo rientro sulla ribalta della vita.
Il rimborso di un’ora e trentadue minuti di sopravvivenza innesca dunque il tragicomico interrogativo sul come trascorrere lo scampolo di impiego esistenziale, affidando ad un protagonismo maschile monocorde e uggioso - un Paolo motteggiante di anemiche scontatezze che a ben vedere poco o nulla ripropongono del divertente catalogo (del libro) di Francesco Piccolo - l’ingrato compito di far riflettere sorridendo; compito rapidamente evaporato nel naufragio senza soccorso di sequenze banalmente improntate al genere del vivere d’oggi - i piccoli tradimenti di lui e lei, il compensativo eccesso di passione calcistica dei compagni di tifo, i conflitti familiari dei figli e il divario digitale dei loro saperi rispetto agli adulti - in cui il ripromesso messaggio della brillantezza di una normalità vitale e vincente s’infrange in un’incostanza scenica che, sottraendo dinamismo e vivacità al racconto, lo converte in una semplice somma di riprese indipendenti e slegate.
A conclusione del modico supplemento di vita, l’affido condiviso tra destinante e destinato, traghettatore e traghettando, della riedizione dell’incidente, questa volta nella prospettiva di un esito definitivamente infausto che invece non si compie per via di una (forse) raggiunta maturità d’affetti di Paolo, ravviva per un istante le vibrazioni di un film che nel complesso non sollecita né commuove e che, pur regalando - o tentando di regalare - allo spettatore l’effimero gusto di un destino fallibile, non si sottrae ad un verdetto di grigia mediocrità.
A sollevarne le sorti soccorre tuttavia la bellezza energica, vitale e struggente di una Palermo che, nello sfondo della narrazione, nobilmente sopravvive nei momenti tutt’altro che trascurabili dei popolani ghetti e delle mirabili sue sontuosità.
Legittima difesa, illegittima convinzione (Bowling a Columbine 2002). Di Andrea Apollonio
In questa temperie storica e culturale, formulare una riflessione su leggi che implementano la legittima difesa senza cadere sulle più banali formule quali "farsi giustizia da sé", "la legge del più forte" - formule primitive che pure, di tanto in tanto, il legislatore si procura di vitalizzare - è quasi impossibile. Ma dato che oggi il Parlamento approva in via definitiva la legge che amplia il perimetro della liceità è doverso dire qualcosa - ancora qualcosa, a margine di un qualsiasi commento tecnico-giuridico quale quello, esauriente, di Giuseppe Amara (apparso su questa Rivista il 15 marzo).
Ed appunto per evitare di incorrere impunemente in banalità, è bene servirsi della metafora cinematografica per raccontare un tema che solo a valle diventa un problema giuridico, perché a monte nasce come fenomeno sociale che involge paure collettive, ed il più antico - proprio primitivo - dei sentimenti: l'insicurezza. Gli strumenti per meglio comprendere ce li fornisce il documentarista Michael Moore, con il suo "Bowling a Columbine" (2002), che riguarda la strage di studenti e insegnanti perpetrata nella Columbine High School da due adolescenti armati fino ai denti: correva l'anno 1999.
Moore, telecamera in spalla, documenta anzitutto la claustrofobica normalità in cui è immersa Columbine, come la maggior parte delle contee statunitensi; ed è sempre incredibilmente normale, a Columbine come in tutti gli Stati Uniti, l' accesso semplificato all'acquisto di armi, senza un effettivo controllo.
Moore, continuamente ammiccando al suo pubblico, sfoglia allora i cataloghi di fucili e munizioni davanti alla faccia gentile e pulita di un'addetta alla vendita; acquista e spara maldestramente, dando subito a vedere di essere il solo a non saper maneggiare un'arma. Perché per gli intervistati - uomini e donne, giovani e anziani, middle e upper class: l'approccio al tema della difesa personale è ugualmente trasversale - "avere un'arma vuol dire essere persone più responsabili"; senza, infatti, si lascerebbero i propri beni e la propria famiglia alla mercé di chiunque. Non essere armati vuol dire lasciare le chiavi di casa attaccate alla porta, né più né meno. E' una convinzione ridicola, resa non a caso con un registro filmico parossistico e grottesco (il vero marchio di fabbrica dei documentari di Moore), che pure, osservata nel caleidoscopio costituzionale degli Stati Uniti, trova un suo fondamento storico, ed una sua (diremmo così) legittimità: tutti conosciamo il secondo emendamento, che dal 1791 afferma in Costituzione, indisturbato, "il diritto dei cittadini di detenere e portare armi".
Coltivare una tale idea, in Italia, non avrebbe invece alcuna reale (giuridica, o meta-giuridica) giustificazione, giacché i nostri Padri Costituenti, appena conclusa una sanguinosa guerra civile, mai si sarebbero neppure sognati di inserire la parola "armi" nella Costituzione. E allora, cosa c'entra "Bowling a Columbine", cosa c'entrano gli Stati Uniti, con l'approvazione della "nuova" legittima difesa in Italia? Dopo tutto, da queste parti non cambiano i requisiti (neanche troppo stringenti) per l'acquisto di un'arma, né la legislazione (più severa, questa) che punisce l'illegale detenzione.
A dimostrare che le convinzioni d'oltreoceano sono a noi prossime più di quanto si immagini - e le idee delle persone scaturiscono anche dalle leggi, siccome di Antigoni in giro se ne vedono pochi - soccorre un video che spopola sul web: comuni cittadini partecipanti ad una convention politica sulla legittima difesa, che intervistati, dicono senza freni inibitori cosa farebbero se trovassero qualcuno in casa, entrato "senza essere invitato". L'ironia caustica di Moore, al confronto, si tramuta in una barzelletta da educande che non fa ridere nessuno.
Ma se proprio volessimo procedere in parallelo, ebbene: non c'è alcuna differenza tra l'immagine di una donna in bikini leopardato che, sorridente, spara a sagome nere poste a rappresentare minacciosi intrusi (nel docu-film di Moore) e quella del cartello esposto fuori le private abitazioni, che sembra andare di moda sopratutto nel nord-est: "Questa casa è protetta da Dio e da un'arma. Se vuoi incontrare entrambi basta entrare senza permesso" (è spesso pubblicato anche sulle pagine social, e non si esimono dal farlo politici e personaggi pubblici): le immagini si aggrinciano assieme perché entrambe trash, anche nel senso di essere ancorate ad una convinzione profondamente irrazionale.
Le idee scaturiscono anche dalle leggi, come il caso degli Stati Uniti (campione e capo-fila della civiltà occidentale) insegna - e come il nostro legislatore dovrebbe sempre tenere presente. Per questo Moore, col suo registro canzonatorio, rischia di raccontare oramai anche la società italiana, sempre più piegata sotto il peso di indicibili, irragionevoli paure, e da oggi finalmente più "tutelata". La storia della Columbine High School raccontata da Moore è una metafora, certo, e per di più risalente a vent'anni fa: ma se questa metafora è irradiata da un film dalla verità oggettiva e incontrovertibile, che poteva essere illustrata solo in modo grottesco per quanto essa stessa appare grottesca, allora questo messaggio d'allarme non può che allargare il suo spettro con l'allargarsi del tempo.
AUTORICICLAGGIO E BANCAROTTA (nota a Cass. pen., sez. V, 1 febbraio 2019, n. 8851) di Nicola Pisani
Con la pronuncia in commento, la Corte di cassazione ha affermato il principio di diritto secondo cui «in tema di autoriciclaggio di somme oggetto di distrazione fallimentare, la condotta sanzionata ex art. 648 – ter cod. pen. non può consistere nel mero trasferimento di dette somme a favore di imprese operative, ma occorre un quid pluris che denoti l’attitudine dissimulatoria della condotta rispetto alla provenienza delittuosa del bene».
Prima di analizzare gli aspetti salienti della motivazione della pronuncia, appare opportuno delineare i passaggi fattuali che ne costituiscono il fondamento.
Il giudizio de quo muove da una vicenda cautelare che ha come protagonista un soggetto indagato per i reati di bancarotta fraudolenta ed autoriciclaggio, a fronte di un quadro indiziario incentrato sulla presunta ricezione di somme di danaro provenienti da una società (poi ammessa al concordato preventivo) che successivamente venivano investite dall’indagato nell’ambito delle proprie attività commerciali.
In virtù di siffatte contestazioni, il predetto indagato veniva attinto da ordinanza cautelare applicativa degli arresti domiciliari, emessa dal Tribunale del riesame a conferma del provvedimento cautelare genetico del G.I.P.
Da qui la proposizione del ricorso per Cassazione avverso l’anzidetta ordinanza, impugnata dal ricorrente per tre motivi, dei quali, ai fini del presente contributo, interessa quello con cui si «lamenta violazione di legge nonché carenza di motivazione circa il giudizio di gravità indiziaria relativo al delitto di autoriciclaggio […], assumendo che le condotte integratrici di quest’ultimo sarebbero le stesse contestate quanto alla bancarotta e che non vi sarebbe stata attività dissimulatoria ulteriore, sicché andava ritenuta la causa di non punibilità di cui all’art. 648 – ter, comma 4, cod. pen.»
La questione, rimessa in questi termini al vaglio della Corte, dimostra ancora una volta come la comprensione del momento sostanziale della fattispecie penalistica – sub specie dei requisiti strutturali della fattispecie di autoriciclaggio[1] – sia elemento destinato ad involgere quel sommario giudizio di colpevolezza che è proprio dell’incidente cautelare, giacché è nell’ottica della sussistenza dei «gravi indizi» che all’interprete viene chiesto di cogliere il discrimen tra il predetto reato e quello di bancarotta[2].
In via preliminare, giova evidenziare come la Corte di cassazione abbia ritenuto opportuno delineare i connotati caratterizzanti la condotta di autoriciclaggio, ritenendo che possa considerarsi tale solamente quella con cui il soggetto abbia posto in essere delle attività volte ad ostacolare concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni. Ciò, infatti, è quanto emerge da un’attenta analisi dello stesso dettato normativo, la cui lettura induce a ritenere che l’autoriciclaggio configuri una «fattispecie di pericolo concreto»[3].
Tale inquadramento dogmatico rappresenta solo la base teorica da cui muove la Corte per affrontare il merito di una questione interpretativa più complessa, la cui risoluzione impone la scelta tra due posizioni antitetiche.
Vista da un primo angolo visuale, ove si ritenesse che ai fini dell’ autoriciclaggio sia sufficiente accertare che il denaro proveniente dalla società fallita sia «confluito in realtà imprenditoriali caratterizzate da normale operatività», la vicenda in commento indurrebbe a ritenere sussistente il presupposto cautelare dei gravi indizi in capo al ricorrente, le cui doglianze di legittimità verrebbero inevitabilmente a cadere.
Tuttavia non è questa la soluzione interpretativa della Corte, che invece ha ravvisato nella condotta di autoriciclaggio un eloquente quid pluris: la «particolare idoneità dissimulatoria rispetto all’origine del denaro».
In altri termini, attraverso la lente del giudizio di gravità indiziaria, la Cassazione indaga la natura della fattispecie di cui all’art. 648-ter.1 c.p. e ne tratteggia gli elementi essenziali, sottolineando proprio la necessità, ai fini della configurabilità del reato, di una condotta caratterizzata dalla specifica idoneità a dissimulare la provenienza del denaro.
Tale asserto, in particolare, costituisce l’esito di un percorso interpretativo che sottende la congiunta valutazione di un argomento letterale e sistematico.
Sotto il primo profilo, la Corte ha sottolineato come il requisito della particolare idoneità dissimulatoria, rispetto alla provenienza del denaro, emerga dalla stessa formulazione dell’art. 648 ter.1 c.p., le cui disposizioni palesano un chiaro intento del legislatore di rimarcare la concretezza dell’idoneità in tal senso della condotta, a voler con ciò pretendere che la stessa vada «oltre la mera ricezione della somma proveniente dal reato».
Più interessante appare il secondo argomento utilizzato dalla Corte, nella misura in cui viene valorizzato il rapporto di specialità tra il reato di autoriciclaggio e quello di bancarotta.
In tale prospettiva, si afferma che «ritenere punibile come autoriciclaggio il mero trasferimento delle somme distratte delle imprese […] finirebbe per sanzionare penalmente due volte la stessa condotta quando le somme sottratte alla garanzia patrimoniale dei creditori sociali siano dirette verso imprenditori, generando, rispetto a tale situazione specifica, un’ingiustificata sovrapposizione punitiva tra la norma sulla bancarotta e quella ex art. 648 ter.1 cod. pen.», comportando, in prospettiva, una violazione del ne bis in idem[4].
Tuttavia, occorre chiarire meglio i presupposti dai quali muove la Corte per concludere nei termini dinanzi esposti con riguardo all’onere di motivazione in caso di contestazione del reato di autoriciclaggio.
In particolare, come anticipato, il Collegio sembrerebbe descrivere il rapporto tra i due reati contestati in termini di specialità, richiamando a supporto di tale ricostruzione anche una recente pronuncia della stessa Corte che ha esaltato un’esegesi della norma che valorizzi la necessaria presenza di una condotta ulteriore che “si aggiunga” alla condotta del reato presupposto[5].
È in virtù della suddetta divergenza che il Giudice, chiamato a decidere in merito alla condotta di autoriciclaggio, è gravato dell’onere di rendere adeguata motivazione in cui far emergere la sussistenza del quid pluris richiesto dalla fattispecie, dimostrando in tale sede di aver fatto corretta gestione dei principi di diritto racchiusi nella massima di diritto richiamata in premessa del presente contributo.
Sono questi, in definitiva, i motivi che hanno indotto la Corte a ritenere fondato il secondo motivo di ricorso concernente i gravi indizi di colpevolezza, ritenendo a tale scopo «necessario l’annullamento […] dell’ordinanza impugnata affinché il Giudice di rinvio tenga conto del principio di diritto enunciato».
Risulta a questo punto agevole comprendere come, secondo la ricostruzione della Corte, le caratteristiche strutturali del reato di autoriciclaggio facciano gravare sul giudice, chiamato a pronunciarsi sulla sussistenza dei «gravi indizi» di colpevolezza, un onere di specifica motivazione in ordine alla sussistenza del carattere dissimulatorio della condotta, vale a dire quel «quid pluris» che serve a distinguere la condotta dell’autoriciclaggio da quella della bancarotta.
Tuttavia, giova chiarire come tali considerazioni abbiano un peso solo e nella misura in cui servano al giudice quale metro di paragone per cogliere il quantum indiziario richiesto ai fini dell’applicazione del provvedimento cautelare.
Avendo a mente tali coordinate, non ravvisare il carattere dissimulatorio della condotta equivale, in una certa misura, a sottrarre la stessa dalla scure dell’autoriciclaggio. Tale fattispecie, infatti, interviene solo in una fase successiva alla distrazione delle somme di denaro, richiedendo a tal proposito la necessità di una nuova ed ulteriore condotta ascrivibile all’indiziato.
Sicché, ritenere che manchi la gravità indiziaria sotto il profilo della dissimulatorietà della condotta equivale astrattamente ad ammettere che le attività dell’indiziato si siano fermate in una fase antecedente, ovverosia alla commissione del reato presupposto[6].
[1] In argomento, v. P. Bronzo, Introdotto il reato di “autoriciclaggio”, in Cass. Pen., 2015, p. 26; A. Ciraulo, voce Autoriciclaggio, in Digesto disc. pen., IX agg., Utet, 2016, p. 122 ss.; F. Mucciarelli, Qualche nota sul delitto di autoriciclaggio, in Dir. pen. cont., 2015, p. 108 ss.; E. Basile, Autoriciclaggio, “mera utilizzazione” e “godimento personale”: soluzione di un enigma solo apparente, in Giur. It., 2018, 12, 2741; A. M. Dell’Osso, Il reato di autoriciclaggio: la politica criminale cede il passo a esigenze mediatiche e investigative, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, p. 796 ss.; D. Brunelli, Autoriciclaggio e divieto di retroattività: brevi note a margine del dibattito sulla nuova incriminazione, in Dir. pen. cont, 2015, p. 86 ss.; S. Cavallini- L. Troyer, Apocalittici o integrati? Il nuovo reato di autoriciclaggio: ragionevoli sentieri ermeneutici all’ombra del “vicino ingombrante”, in Dir. pen. cont., 2015, p. 95 ss.; A. Apollonio, Autoriciclaggio e diritto comparato, in Dir. Pen. Cont., 2017, p. 183 ss.; A.M. Dell’Osso, Riciclaggio di proventi illeciti e sistema penale, Giappichelli, 2018, p. 174 ss.; E. Basile, L’autoriciclaggio nel sistema penalistico di contrasto al money laundering e il nodo gordiano del concorso di persone, in Cass. Pen., 2017, 1277 ss.; . F. Sgubbi, Il nuovo delitto di “Autoriciclaggio”: una fonte inesauribile di “effetti perversi” dell’azione legislativa, in Dir. pen. cont., 2015, p. 137 ss.; G.L. Gatta, Introdotto il delitto di autoriciclaggio (unitamente ad una procedura di collaborazione volontaria all ’emersione di capitali all’estero, assistita da una causa di non punibilità per i reati tributari e di riciclaggio), in Dir. pen. cont., 2014; S. Cavallini, Riciclaggio e autoriciclaggio – la “quadratura” impossibile: l’opzione minimal della Cassazione sul concorso di persone nel (l’auto -) riciclaggio, in Giur. It., 2018, 11, 2475; A. Apollonio, L’introduzione dell’art. 648-ter.1 c.p. e il superamento del criterio della specialità nel rapporto tra la ricettazione e i delitti di riciclaggio, in Cass. Pen., 2015, p. 2890; G.F. Perilongo, Autoriciclaggio – Movimentazione di denaro sporco e autoriciclaggio: una prima indicazione giurisprudenziale, in Giur. It., 2017, 1, 187; A. Gullo, Autoriciclaggio (voce per “Il libro dell’anno del diritto Treccani 2016”), in Dir. pen cont., 21 dicembre 2015.
[2] Per un approfondimento sui reati di bancarotta e, più in generale, sul diritto penale fallimentare, sia consentito rinviare a N. Pisani, Crisi di impresa e diritto penale, Il Mulino, 2018.
[3] È pacifico, anche nell’elaborazione dottrinaria, che il reato di autoriciclaggio costituisca una fattispecie di pericolo concreto. Sul punto, ex multis, v. E. Basile, Autoriciclaggio, “mera utilizzazione” e “godimento personale”: soluzione di un enigma solo apparente, cit., p. 2741.
[4] Sul rapporto tra autoriciclaggio e ne bis in idem, v. A. Apollonio, Autoriciclaggio e diritto comparato, cit., p. 188, il quale evidenzia come si sia «a lungo ritenuto che punire l' autore del reato presupposto anche per aver dissimulato l'illecita origine di quei beni equivale a sanzionare un comportamento ex se conseguente ad (e giuridicamente inscindibile da) un fatto già punito, determinando quindi la lesione del principio di ne bis in idem, volto ad evitare ingiustificati aggravi sanzionatori qualora due vicende, apparentemente distinte, siano legate da una sostanziale unità di disvalore, oggettivo e soggettivo. Prima facie, l'autoriciclatore verrebbe "sostanzialmente" punito due volte per lo stesso fatto: almeno a considerare l'intrinseca natura accessoria della condotta riciclatoria, che sempre interviene post factum». L’Autore sottolinea inoltre come tali considerazioni, prima della riforma del 2014, abbiano costituito uno dei principali motivi di diffidenza nutriti dalla dottrina in merito all’introduzione della fattispecie di autoriciclaggio.
[5] Cfr. Cass. pen., Sez. II, 7 giugno 2018, n. 30401, Rv. 272970.
[6] Con riferimento a tali aspetti, la dottrina ha denunciato il rischio che il reato di autoriciclaggio possa trasformarsi in «un formidabile strumento di duplicazione sanzionatoria». Sicchè, nel compiere un’esegesi dell’art. 648-ter.1 c.p., la ratio dell’intervento del legislatore è stata ravvisata nella scelta «di identificare condotte che, a suo giudizio, sono espressive di un disvalore aggiuntivo rispetto al delitto presupposto: non si è così proceduto nella direzione di una “grezza” eliminazione della clausola di riserva di cui all’art. 648-bis c.p., ma si è deciso di lavorare sulla condotta di reimpiego, ritenendo però di dover apportare dei correttivi una volta riferita all’autore o concorrente nel delitto presupposto. L’altra opzione tecnica di fondo è stata quella di non intervenire, come invece suggerito dai lavori e dalle soluzioni elaborate dalle più recenti commissioni di studio17, sul corpo dell’art. 648-bis ma di prevedere una nuova ipotesi delittuosa». In questi termini A. Gullo, Autoriciclaggio (voce per “Il libro dell’anno del diritto Treccani 2016”), cit., p. 6.
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