ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
sommario: 1. Domanda insidiosa, risposta articolata. - 2. Un passo indietro: cannabis e THC, l’equivoco di fondo. - 3. La scoperta dell’(in)offensività. – 4. La legge 2 dicembre 2016, n. 242, la scoperta del CBD e della “cannabis light” - 5. Cannabis light: due anni di incertezza. -6. La soluzione delle Sezioni Unite, Castignani. - 7. L’efficacia drogante e il principio di offensività: la difficile determinazione. - 8. Conclusioni
1. Domanda insidiosa, risposta articolata.
L’8 febbraio 2019, la Sezione Quarta della Suprema Corte[1] rimette alle Sezioni Unite la decisone sulla “questione controversa” che così esplicita: “Se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nell'art. 1, comma 2, della legge 2 dicembre 2016, n. 242, e, in particolare, la commercializzazione di cannabis sativa L, rientrino o meno, e se sì, in quali eventuali limiti, nell'ambito di applicabilità della predetta legge e siano, pertanto, penalmente irrilevanti ai sensi di tale normativa.”
E’ un quesito insidioso, perché si riferisce solo a un segmento della vicenda “cannabis / marijuana light”, che è molto più complessa.
Le SSUU, con sentenza del 30.5.2019, imp. Castignani, rendono nota una articolata informazione provvisoria, affermando che “ la commercializzazione di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, infiorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell'ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l'attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel Catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell'art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati; pertanto, integrano il reato di cui all'art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/1990, le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”.
La risposta è stata interpretata quasi unanimemente (soprattutto dai media) come l’introduzione di un divieto di commercializzare non solo la marijuana ma tutti i prodotti derivati da quella che giornalisticamente viene chiamata “cannabis light”. Questa interpretazione non è soddisfacente.
Va fatta una premessa importante: la posizione della cassazione dovrà essere chiarita alla luce della motivazione, perché l’informazione provvisoria fa trasparire (per la necessità di sintesi?) qualche imprecisione e una certa sfasatura rispetto alla questione posta. Quello che si può già dire però è che - se la motivazione non introdurrà elementi a oggi imprevedibili - la decisione presa lascia in larga parte la situazione nell’incertezza che le precedenti risposte, elusive, della Corte costituzionale e della Suprema Corte hanno creato.
La decisione, come la si può interpretare provvisoriamente, non vieta necessariamente la commercializzazione dei prodotti derivanti dalla filiera della canapa ex legge 2 dicembre 2016, n. 242; essa sembra ribadire anche per questa fattispecie una posizione giurisprudenziale consolidata, secondo la quale non è penalmente perseguibile la condotta priva di offensività, e lascia ancora al giudice di merito la decisione caso per caso, con ampio margine concreto.
2. Un passo indietro: cannabis e THC, l’equivoco di fondo
La “visione parziale” della fattispecie cui si accennava sopra ha radici lontane, e occorre avere la pazienza di partire dall’inizio se si vuol capire come ci si trovi ora in questa situazione incerta. Perché le leggi che ci interessano (il T.U. n. 309/1990 sugli stupefacenti; la legge 2 dicembre 2016, n. 242, sulla produzione di canapa agroindustriale; ma anche altre norme come quelle sulla canapa ad uso terapeutico e quelle eurounitarie) usano termini il cui significato è - normativamente o scientificamente - poco comprensibile, e che sovente vengono intesi in modo contraddittorio. Ad esempio, in Italia non esiste purtroppo un nome che diversifichi la canapa utilizzata per usi agroindustriali legali da quella utilizzata come droga[2], per cui molte volte definizioni e nomenclatura sono usate impropriamente. E’ perciò necessario ribadire qualche dato di base.
La cannabis è una pianta, di difficile classificazione botanica (e normativa) per la estrema diversità dei suoi componenti, causa a sua volta della estrema diversità degli effetti e, quindi, degli impieghi. Ma il risultato che può dirsi acquisito scientificamente è che il grande numero di varietà sinora conosciute (centinaia, se non migliaia) sono tutte derivanti e comprese nell’unica specie individuata già da Linneo, e denominata, proprio per essere stata da lui classificata, “Cannabis sativa L”[3].
Il THC invece è un principio attivo, proprio della Cannabis e contenuto, in percentuali estremamente variabili, in ogni varietà dell’unica specie (lo stesso avviene, lo si anticipa, per un altro degli oltre 50 metaboliti secondari, il CBD). Il THC venne inserito nella tabella delle “sostanze velenose che in piccole dosi hanno efficacia stupefacente” sin dal primo decreto ministeriale esecutivo della legge n. 396/1923. Lo stesso si ripetè con la legge e le tabelle del 1954. Questa è l’origine del problema, perché ogni varietà di Cannabis contiene THC e vietare - come fanno le due leggi - genericamente la coltivazione di piante da cui si possono estrarre i principi attivi “stupefacenti” significa implicitamente vietare anche ogni coltivazione di cannabis, compresa quella che tradizionalmente si coltiva in Italia da oltre due millenni e di cui il nostro paese, nel dopoguerra, è stato addirittura il secondo produttore del mondo.
L’equivoco è aggravato dalle leggi più recenti[4], che confondono ripetutamente il principio attivo e la pianta. Anche la legge vigente n. 79/2014 ingenera confusione, dato che inserisce il “Delta-9-trans-tetraidrocannabinolo (THC)” nella tabella I; ma nella tabella II non cita il principio attivo, prevedendo solo il nome comune Cannabis. [5]
In sintesi: tutte le leggi sugli stupefacenti sono costruite in modo tale da vietare ogni coltivazione di canapa, sviluppando questa progressione: il principio attivo stupefacente della cannabis, il THC, è vietato; ed è vietata la coltivazione di ogni pianta che lo contiene; e poiché ogni pianta di canapa - delle centinaia di varietà derivanti dall’unica specie Cannabis Sativa L - contiene THC, è vietata ogni coltivazione di canapa. Quindi, ogni piantina di canapa è potenzialmente un reato. Anche se il THC contenuto - perché comunque lo contiene - è infinitesimale, innocuo, in termine tecnico: non stupefacente.
3 . La scoperta dell’(in)offensività
Se, come vedremo, il buon senso e alcune circolari del Ministero dell’agricoltura hanno consentito (con difficoltà) la prosecuzione della produzione di canapa agroindustriale sino alla legge 2 dicembre 2016, n. 242, secondo la normativa sopra descritta qualsiasi coltivazione domestica o non autorizzata di canapa rientra nel T.U. n. 309/1990. Dopo il referendum del 1993, che aveva depenalizzato la detenzione per uso personale ma non aveva abrogato la punizione della coltivazione per uso personale, molti giudici di merito erano restii ad applicare le draconiane pene del T.U. n. 309/1990 a ragazzi che provavano a coltivare una pianta per fare uso personale della marijuana poi prodotta. Le decisioni che seguirono sono molto importanti, perché contengono affermazioni le cui non salutari conseguenze si riverberano tuttora.
Con la storica sentenza n. 360/1995 la Corte Costituzionale ritiene legittimo il sistema normativo dichiarando infondata la questione di legittimità costituzionale con riferimento al perdurante illiceità della coltivazione anche in assenza di coltivazione finalizzata allo spaccio.
Come affermato, però, il principio finirebbe con il punire, in modo insostenibile, anche condotte davvero risibili: la Corte esce da questo vicolo cieco evocando il concetto di offensività, senza però delimitarlo e quindi e “scaricando la palla” al giudice del caso singolo. Poiché ciò si ripete anche oggi, dopo SS.UU. 30.5.2019, è bene riflettere su questo passaggio. Il discrimine della punibilità, dice la Corte, non è costituito dalla destinazione a terzi ma dall’inesistenza della offensività. Pertanto quando dalle piante si estraggono “quantità non irrisorie” di sostanze stupefacente, il principio di offensività è soddisfatto e si applica la sanzione penale. Spetterà quindi al giudice sussumere la condotta concreta del coltivatore nell’alveo della “coltivazione” di cui all’art. 73 D.P.R. 309/90 – punibile penalmente - ovvero in una fase preliminare non punibile o nella detenzione per uso personale punibile solo in via amministrativa.
La soluzione però presenta diverse forzature logiche e molti limiti sul piano concreto (basti pensare al concetto di “quantità non irrisorie”). Non esiste una misurazione quantitativa della dose stupefacente di queste sostanze, e molto dipende dalle reazioni individuali, dalla concentrazione, dall’abbinamento con altre sostanze etc.: quindi il rinvio all’offensività non elimina i dubbi.
Tanto è vero che dopo la sentenza della Corte costituzionale s’erano affermate in giurisprudenza ben tre tesi, su come accertare questa offensività. A dirimere il contrasto sono intervenute le Sezioni Unite con le due pronunce "gemelle" di aprile-luglio 2008 (S.U., 24.4.2008, n. 28605 e S.U. 10.7.2008, 28606), in cui affermano - dopo aver richiamato e ribadito gli argomenti svolti dalla Corte costituzionale nella sentenza 360/95 - il principio secondo il quale costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale. Ma, in ossequio al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, le S.U. concludono sostenendo che spetta al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all'agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto risultando in concreto inoffensiva: “la "offensività" non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile”.
Dunque, senza dare indicazioni ulteriori su come si accerta l’“efficacia drogante”, si rimette ancora la decisione al singolo giudice. Ovvio perciò che le sentenze non plachino la giurisprudenza di merito, tanto da ricorrere di nuovo alla Corte costituzionale. Che, con la sentenza 109 del 2016, ribadisce i principi della sentenza 360/1995; e quindi di nuovo delega la decisione al giudice del merito.
Il giudice di merito si trova dunque di fronte a questa interpretazione della legge da parte delle Corti: la coltivazione della cannabis è sempre vietata, purchè non sia inoffensiva; ma come si determini l’offensività, non è detto e non è chiaro.
E di nuovo, nel vuoto legislativo e nella mancanza di indicazioni concrete delle Corti, si affermano orientamenti diversi. Per una giurisprudenza più restrittiva, l'offensività in concreto della condotta può essere esclusa soltanto quando la sostanza ricavabile risulti priva della concreta attitudine ad esercitare, anche in misura minima, l'effetto psicotropo; ad essa si contrappone un orientamento per il quale il raggiungimento della semplice efficacia drogante non è sufficiente: l’offensività in concreto viene da alcune sentenza misurata con riferimento ai valori soglia della legge del 2006 (che ricordo erano 25 mg per la dose media singola e 500 mg per il qmd); ma a volte si ritiene inoffensivo in concreto anche un valore sopra soglia.
Ma nel frattempo è stata approvata una nuova legge, che è quella sottoposta all’esame di SS.UU. 30.5.2019: una legge per la coltivazione di canapa agroindustriale.
4 La legge 2 dicembre 2016, n. 242, la scoperta del CBD e della “cannabis light”
Per salvaguardare la coltivazione di canapa non destinata alla produzione di sostanze stupefacenti, è stata emessa la legge 2 dicembre 2016, n. 242. La legge afferma innanzitutto che le varietà ammesse, che sono quelle iscritte nel Catalogo europeo delle varietà delle specie di piante agricole (quindi 62 varietà di quella che il Catalogo denomina “Cannabis sativa L"), non rientrano nell'ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti. La legge stabilisce che la coltivazione delle varietà di canapa di cui sopra, che devono contenere secondo la legislazione eurounitaria[6] una percentuale di THC inferiore allo 0,2%, è consentita senza necessità di autorizzazione. Gli unici obblighi per il coltivatore sono quelli di conservare i cartellini della semente e le fatture di acquisto[7].
Una volta che questa canapa è prodotta, a cosa può essere destinata? La legge elenca gli utilizzi (di tipo agroindustriale) per i quali si salvaguarda la coltura della canapa[8].
Ma il “mercato” riserva la canapa solo a questo?
No, perché alcune delle varietà di cannabis consentite dall’Unione europea, quindi con una percentuale di THC inferiore allo 0.2%, contengono però una percentuale rilevante di CBD.
Il CBD o cannabidiolo è il secondo cannabinoide attivo maggiormente presente nella Cannabis dopo il THC. Non è un principio psicoattivo, anzi si ritiene che riesca a contenere e calibrare gli effetti psicoattivi del THC. In medicina il CBD viene utilizzato per curare i disturbi legati al dolore cronico, emicranie, infiammazioni e artriti, spasmi ed epilessia, schizofrenia. Chi usa la cannabis a scopo terapeutico e i paesi del mondo che ne consentono la vendita lo fanno per la presenza di questo cannabinoide che normalmente era presente con la percentuale dell’1% circa.
La cannabis sativa L con queste caratteristiche è la cosiddetta Cannabis light: contiene poco THC e molto CBD. Anch’essa comprende una moltitudine di varietà di cannabis assai diverse tra loro, arrivando ad un CBD che supera il 5%[9]. Ora, questa cannabis light viene usata non solo per produrre alimenti e cosmetici (espressamente consentiti dalla legge n. 242); ma anche nelle stesse modalità di utilizzo della canapa per stupefacenti; e cioè trinciando le infiorescenze, facendone oli e resine etc.: è quella che viene chiamata marijuana light.
Dunque: la legge 2 dicembre 2016, n. 242, nata per salvaguardare la canapa agroindustriale, consente la coltivazione di una cannabis con un THC inferiore allo 0,2% ma con elevata presenza di CBD, la c.d. cannabis light; da cui vengono tratti prodotti alimentari e cosmetici ma anche altri commercializzati nelle forme della droga pur non contenendo elevato THC: la c.d. marijuana light. Ed è la commercializzazione di questi prodotti a dividere la giurisprudenza.
5. Cannabis light: due anni di incertezza.
Nei due anni successivi vi sono molti negozi che aprono per commercializzare prodotti della cannabis light; produttori che coltivano le qualità che sanno essere destinate ad un uso “non industriale”; consumatori che comprano e altri che cominciano a coltivare in casa le qualità “legali”; vi sono invece poliziotti che arrestano, sequestrano, denunciano[10]; e la magistratura che deve intervenire.
Si arriva in breve al delinearsi di un nuovo contrasto interpretativo all’interno della giurisprudenza di legittimità che non riguarda la coltivazione (pacificamente consentita alle condizioni dette) bensì la commercializzazione delle sostanze derivanti da tale coltivazione.
Per il primo orientamento, la legge n. 242 non consente la commercializzazione dei derivati della coltivazione della canapa (hashish e marijuana); la normativa disciplina esclusivamente la coltivazione della canapa, consentendola, alle condizioni ivi indicate, soltanto per i fini commerciali elencati dall'art. 1, comma 3, tra i quali non rientra la commercializzazione al dettaglio dei prodotti costituiti dalle infiorescenze e dalla resina. Quindi la detenzione e commercializzazione di questi derivati rimangono sottoposte alla disciplina di cui al d.P.R. n. 309 del 1990 (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 27 novembre 2018, n. 56737, imp. Ricci; Cass. pen., Sez. VI, 10 ottobre 2018, n. 52003, imp. Moramarco; Cass. pen., Sez. IV, 13 giugno 2018, n. 34332, imp. Durante).
Per il secondo orientamento, dalla liceità della coltivazione della canapa, alla stregua della legge n. 242 del 2016, discende la liceità della commercializzazione dei prodotti che ne derivano, contenenti un principio attivo inferiore allo 0,6%; è nella natura dell'attività economica che i prodotti della ‘filiera agroindustriale della canapa’, che la legge espressamente mira a promuovere, siano commercializzati. Tali prodotti quindi non possono più essere considerati, in virtù di tale normativa, sostanze stupefacenti soggette alla disciplina del d.P.R. n. 309 del 1990. La l. n. 242 del 2016 si dirige ai produttori e alle aziende di trasformazione e non cita le attività successive semplicemente perché non vi è nulla da disciplinare riguardo ad esse.
Questo orientamento sviluppa un ragionamento che occorre ricordare, perché identifica una efficacia drogante “giuridica”: si afferma che la fissazione del limite dello 0,6% di THC rappresenta, nell'ottica del legislatore, un ragionevole punto di equilibrio fra le esigenze precauzionali relative alla tutela della salute e dell'ordine pubblico e quelle inerenti alla commercializzazione dei prodotti delle coltivazioni. La percentuale dello 0,6% di THC costituisce, infatti, il limite minimo al di sotto del quale i possibili effetti della cannabis non possono essere considerati, sotto il profilo giuridico, psicotropi o stupefacenti (Cass. Pen 4.12.2018 n.14017/2019, ric. P.G.; Cass. pen., Sez. VI, 29 novembre 2018, n. 4920, ric. Castignani).
6. La soluzione delle Sezioni Unite, Castignani.
Consapevoli che le lacune normative e le conseguenti divergenze interpretative nella giurisprudenza non rendono possibile una risposta totalmente appagante, forse sarebbe stato prudente non togliere le castagne dal fuoco al legislatore e lasciare che intervenisse come è suo compito. Invece si è fatto ricorso alle Sezioni Unite, le quali non si sono trovate in posizione agevole[11].
Nei limiti della mancanza di una motivazione che certo aiuterà in modo determinante l’interpretazione, è possibile analizzare i diversi passaggi dell’informazione provvisoria.
Il primo passaggio è che “l'ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016 … qualifica come lecita unicamente l'attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel Catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell'art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002” .
Affermazione pacifica per quanto espone, ma (almeno per ora, vedremo la motivazione) non esaustiva sotto altri possibili profili in fatto: in particolare, non è detto se la coltivazione costituisca illecito penale o solo amministrativo in relazione alla semina di varietà di canapa non certificate, ma con contenuto di THC al massimo dello 0,2% (quindi conforme al regolamento CE), o derivanti da sementi ‘domestiche’ di piante certificate, o a piante riprodotte in via agamica[12].
Secondo passaggio è che la legge 2 dicembre 2016, n. 242 “ elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati”.
Il dubbio che rimane è analogo a quello di prima: la legge dice che “dalla canapa coltivata ai sensi del comma 1 (con sementi certificate cioè) e' possibile ottenere” una serie di prodotti, tra cui alimenti e cosmetici per uso umano. Ma se da quella canapa si commercializzano prodotti diversi, o si fa un uso diverso (si pensi all’uso come foraggio animale, o per alimenti non previsti dal decreto), ciò è reato? E qual è, in tal caso, l’offensività, in mancanza di un principio attivo THC rilevante?
Terzo passaggio: “la commercializzazione di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, infiorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell'ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016”.
L’affermazione suscita qualche perplessità, forse per eccesso di sintesi: la cannabis sativa L è proprio l’oggetto della legge 242![13] Se come si ipotizza il passaggio si riferisce solo alla marijuana prodotta dalla cannabis light, sorge il dubbio di come distinguere, in fase di commercializzazione, i derivati così descritti (foglie, infiorescenze, olio, resina) dai prodotti comunque ottenibili con essi: ad esempio, un alimento ottenuto con la macinazione di quelle parti di piante e che rispetti i limiti di THC previsti dalla legge può essere commercializzato o è vietato? Quale è, in tal caso, la ragionevolezza della punizione?
Quarto passaggio: “integrano il reato di cui all'art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/1990, le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”. E’ il passaggio chiave. Che merita molta attenzione.
7. L’efficacia drogante e il principio di offensività: la difficile determinazione.
Letteralmente, secondo la sentenza Castignani è reato la commercializzazione dei prodotti derivati dalla cannabis sativa L. Non pare possibile. Dato che sono proprio i prodotti derivati dalla coltivazione della Cannabis sativa L a essere consentiti dalla legge 2 dicembre 2016, n. 242, si deve ritenere che la sentenza si riferisca solo ai prodotti che sono diversi da quelli autorizzati: ebbene, dice la sentenza, la loro commercializzazione è vietata, ma il divieto viene meno se tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante.
Se questa è l’interpretazione giusta (in attesa delle motivazioni), il punto è ancora cosa è e come si misura l’efficacia drogante, e come essa si rapporti con il principio di offensività. Leggendo le sentenze che se ne sono occupate, i due concetti sono stati usati a volte come sovrapponibili, altre volte in contrapposizione[14]. Ci si trova quindi ancora nell’impasse creata dalla Corte costituzionale e dalla SS.UU. Di Salvia, perché se i prodotti non hanno efficacia drogante la commercializzazione è possibile.
Facile rilevare che: a) nessun commerciante indagato ha affermato di vendere prodotti con efficacia drogante: anzi si pubblicizza proprio il fatto che non si tratta di droga; b) il concetto di efficacia drogante è come si è detto nebuloso e genera ulteriore incertezza: nella sua individuazione infatti ci si appella a volte alla quantità in assoluto di principio attivo, altre volte alla sua concentrazione percentuale.
Un primo filone interpretativo applica per individuare la soglia drogante un criterio quantitativo ponderale. Le SU nella sentenza n. 47472/2007 hanno enunciato nella motivazione che “la dose media singola (va) intesa come la quantità di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente e psicotropo”, rifacendosi ai criteri del Decreto del Ministero della Salute 11.4.2006. Per il THC la dose media singola, così valutata, è stata individuata in 25 mg., in quanto tale quantità - secondo la sentenza - è senza dubbio idonea a produrre un effetto stupefacente e psicotropo in soggetto aduso costantemente al consumo di quel tipo di droga. Anche altre sentenze hanno fatto riferimento all’efficacia drogante, alla soglia drogante etc come misura ponderale, ravvisandola o meno nella fattispecie esaminata.
Successivamente la stessa Cassazione, nella sentenza 8393/13 ha però rilevato che manca ogni riferimento parametrico per legge o per decreto, e “che sulla questione della rilevanza del concreto effetto drogante permane un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, anche successivamente alla decisione delle Sezioni unite n. 9973 del 1998”.
Un secondo filone interpretativo fa riferimento invece a un’efficacia drogante misurata in percentuale di principio attivo rispetto alla massa della sostanza.
Alcuni dei provvedimenti di merito oggetto delle sentenza di cassazione che hanno portato alle SSUU hanno indicato lo 0,2% come soglia drogante, altre lo 0,6%. In particolare si afferma che la percentuale dello 0,6% di THC indicata dalla legge 2 dicembre 2016, n. 242 costituisce il limite minimo al di sotto del quale i possibili effetti della cannabis non possono essere considerati, sotto il profilo giuridico, psicotropi o stupefacenti (Cass. Pen 4.12.2018 n.14017/2019, ric. P.G.,; Cass. pen., Sez. VI, 29 novembre 2018, n. 4920, ric. Castignani).
Tuttavia trasporre nel concetto di offensività o di efficacia drogante i parametri della legge 2 dicembre 2016, n. 242 è un’operazione ardita, perché quelle soglie sono state individuate, una per la fruibilità di aiuti comunitari, e la seconda per escludere il sequestro penale; si tratta di valori il cui accertamento avviene con modalità (analisi a pieno campo, con campionatura etc[15]) molto diverse da quelle che portano all’accertamento della fattispecie di cui all’art. 73, che sono quelle delle tradizionali analisi dei laboratori sulla droga così come sequestrata.
Va ricordata anche in questo secondo filone la circolare emessa dal Ministero dell’Interno, firmata il 31.7.2018, interpretativa della legge 242/2016. Nel dispositivo emanato dal Viminale, si afferma che le infiorescenze della canapa con concentrazione superiore allo 0,5% rientrano tra le sostanze stupefacenti. L’attendibilità della valutazione però è incerta: in mancanza di parametri normativi per determinare la soglia drogante, il Ministero dell’interno (non quello della salute…) la determina infatti sulla base di un parere tossicologico e due articoli di dottrina[16].
Non sembra possibile neppure fare ricorso a un criterio scientifico, poichè neppure in medicina si è elaborato tale parametro, vuoi per la assoluta imprevedibilità della reazione soggettiva, vuoi perché il solo THC “è responsabile degli effetti psicoattivi della cannabis”, ma la sua azione è legata alla combinazione di fitocannabinoidi presenti nella pianta[17]; in particolare il CBD esercita azione di contrasto all’azione del THC.
In definitiva, la percentuale di THC è indizio, ma non prova dell’effetto stupefacente in concreto, soprattutto se la cannabis esaminata ha (come avviene nella quasi totalità dei sequestri esaminati) alti tenori di CBD.
8. Conclusioni.
In conclusione: la sentenza 30.5.2019 sembra essere stata interpretata come più restrittiva di quanto in effetti risulti essere ad un esame dell’informazione provvisoria.
Letta in negativo, la sentenza afferma che NON integrano il reato di cui all'art. 73, commi 1 e 4, D.P.R. n. 309/1990, le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., che siano in concreto privi di efficacia drogante.
Dunque, si possono commercializzare tutti i prodotti derivanti dalla canapa (la specie Cannabis Sativa L comprende tutte le varietà della pianta) che non abbiano efficacia drogante: un concetto quest’ultimo di non facile accertamento in concreto e sul quale la giurisprudenza - in mancanza di parametri normativi o regolamentari - non ha individuato criteri di valutazione appropriati.
Dei vari limiti percentuali di principio attivo ipotizzati, il limite dello 0,2% riguarda la fruibilità degli aiuti comunitari; il limite dello 0,6% fa riferimento a un margine di errore nella semina di piante autorizzate che fa perdere il finanziamento comunitario ma esclude dalla sanzione penale; entrambi questi limiti si misurano sulla produzione in pieno campo e hanno tutt’altri metodi di accertamento rispetto al reato dell’art. 73. Il limite dello 0,5%, invece, è un limite indicato dall’autorità amministrativa con disposizione subregolamentare, non vincolante e senza attendibilità scientifica.
Non esiste neppure una soglia quantitativa di efficacia del principio attivo. La soglia di 25 mg di THC era suggerita da un decreto ministeriale oggi abrogato mentre un limite scientifico andrebbe comunque determinato caso per caso a seconda della varietà di cannabis e di altre variabili.
La situazione è quindi la stessa in cui ci si trova da molti anni, dal 1995 dopo la sentenza della Corte costituzionale: spetta al giudice del singolo caso accertare la offensività in concreto della sostanza sequestrata dalla polizia giudiziaria.
E poiché coloro che subiscono i sequestri si difendono proprio dicendo che i loro prodotti non sono ‘droga’, diventerà un problema di prova, come è stato sinora. E si rinnoverà il contrasto fra coloro che ritengono che spetti all’imputato dimostrare che la sostanza non ha efficacia drogante e coloro che, più condivisibilmente, riterranno che spetti al pubblico ministero fornire la prova del reato (con sequestro e consulenza), peraltro senza neppure sapere bene cosa si deve provare…
La cassazione ha deciso, ma non molto sembra cambiato.
[1] L’ordinanza est. Di Salvo) rimette alle Sezioni Unite il ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ancona avverso l'ordinanza del Tribunale della Libertà che ha revocato il sequestro disposto dal G.i.p. di marijuana rinvenuta in un negozio, limitatamente ai reperti che, all'esito delle analisi espletate, sono risultati contenere una percentuale di principio attivo non superiore allo 0,6%.
[2] Ad esempio nei paesi anglosassoni si utilizzano i nomi hemp e marijuana: “Hemp is Cannabis sativa with a THC content that does not exceed 0.3% by dry weight, while marijuana is Cannabis sativa with a THC content greater than 0.3%”(dal sito dell’Università della Florida, https://programs.ifas.ufl.edu/hemp/faqs/#hemp-marijuana)
[3] Dallo stesso sito e link precedenti: “Hemp and marijuana are the same plant species, Cannabis sativa…”
[4] La legge n. 685 del 1975 proibisce la “cannabis indica”, cioè inserisce una pianta (tale è come si è detto la cannabis) tra i principi attivi! La legge n. 162/1990 peggiora le cose inserendo nella tabella II una descrizione merceologica della sostanza vietata (“cannabis indica, foglie e infiorescenze… hashish…altre preparazioni contenenti THC…”.). La legge n. 49/2006, che unifica le droghe “leggere” e “pesanti”, inserisce la “cannabis indica e i prodotti da essa ottenuti” direttamente fra le sostanze stupefacenti; ma nella tabella unica è inclusa la sostanza “Delta9 THC”, con la sua denominazione chimica, e non la cannabis…
[5] La situazione attuale si basa sul decreto legge 20 marzo 2014 n. 36, che segue la dichiarazione di incostituzionalità della legge n. 49/2006 dichiarata con la sentenza n. 32/2014; nella legge di conversione n. 79/2014 si modifica l’art. 26 del T.U. n. 309/1990 inserendo dopo il tralaticio divieto di coltivazione delle piante l’eccezione “della canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli di cui all'articolo 27, consentiti dalla normativa dell'Unione europea”. La legge inserisce il “Delta-9-trans- tetraidrocannabinolo (THC)” nella tabella I; ma nella tabella II non cita il principio attivo, sopprime la parola “indica” dopo cannabis, toglie ogni denominazione chimica, lasciando solo il nome comune.
[6] E’ quanto disposto dall’articolo 5 bis del regolamento (CE) n. 1251/99 del 17 maggio 1999: il pagamento per superficie è subordinato all’utilizzazione di varietà di canapa aventi tenore in THC non superiore allo 0,2%.
[7] Art. 3. Obblighi del coltivatore 1. Il coltivatore ha l'obbligo della conservazione dei cartellini della semente acquistata per un periodo non inferiore a dodici mesi. Ha altresi' l'obbligo di conservare le fatture di acquisto della semente per il periodo previsto dalla normativa vigente.
[8] Secondo la legge 242 la coltura della canapa deve essere finalizzata:
a) alla coltivazione e alla trasformazione; b) all'incentivazione dell'impiego e del consumo finale di semilavorati di canapa provenienti da filiere prioritariamente locali; c) allo sviluppo di filiere territoriali integrate che valorizzino i risultati della ricerca e perseguano l'integrazione locale e la reale sostenibilita' economica e ambientale; d) alla produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori; e) alla realizzazione di opere di bioingegneria, bonifica dei terreni, attivita' didattiche e di ricerca.
[9] La c.d. cannabis light è dunque botanicamente diversa dalla canapa per marijuana; è diversa dalla canapa per filiera agroindustriale; è diversa anche dalla canapa per uso medico terapeutico.
[10] Diversi i reati ipotizzati. Molte volte si contesta il “classico” art. 73, con riferimento al comma 4. Altre volte si ravvisa il reato p.p. dall’art 348 c.p., ritenendo applicabile la normativa in materia di farmaci (art.147 DL 219/06). In altri casi viene contestata la fattispecie di frode in commercio (art. 515 c.p.) per aver commercializzato “per uso tecnico” prodotti effettivamente destinati a finalità combustive e di consumo alimentare. In altri casi ancora si contesta il reato di immissione in commercio di prodotti pericolosi (art. 112 D.Lgs 206/2005), per aver posto in commercio i derivati della cannabis light in violazione delle prescrizioni dettate dal parere emesso dal Consiglio Superiore di Sanità in data 10 aprile 2018.
[11] Il quesito era il seguente: “Se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nell'art. 1, comma 2, della legge 2 dicembre 2016, n. 242, e, in particolare, la commercializzazione di cannabis sativa L, rientrino o meno, e se sì, in quali eventuali limiti, nell'ambito di applicabilità della predetta legge e siano, pertanto, penalmente irrilevanti ai sensi di tale normativa.”
Alla luce di quanto descritto, il quesito appare impreciso sia rispetto alla realtà botanica che a quella commerciale: le varietà di canapa di cui al catalogo europeo sono una parte della specie Cannabis sativa L, che comprende tutte le specie: quelle con alto THC, quelle con alto CBD, quelle con basso THC e basso CBD. Quindi se da un lato è pacifico che la coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nell'art. 1, comma 2, della legge 2 dicembre 2016, n. 242, è legittima, la nozione di “commercializzazione di cannabis sativa L” è troppo generica.
[12] Tale tipo di riproduzione è vietata solo da una circolare (Ministero politiche agricole, circolare 23.05.2018: regole del florovivaismo).
[13] Art. 1 comma 1 legge 2 dicembre 2016, n. 242: “1. La presente legge reca norme per il sostegno e la promozione della coltivazione e della filiera della canapa (Cannabis sativa L.)…” Nel catalogo europeo comune delle varieta' delle specie di piante agricole, la specie n. 63 è denominata precisamente: “63. Cannabis sativa L. - Hemp”.
[14] Le SU nella sentenza , n. 47472 del 29/11/2007 hanno fatto riferimento alla efficacia drogante come quantità di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre un effetto stupefacente Molte sentenze successive però hanno ritenuto che l’efficacia drogante non sia il parametro principe, che è invece quello della offensività in concreto (cfr. Sez. 6, n. 5254 del 10/11/2015 e la giurisprudenza in essa richiamata). Nelle SS.UU. n. 28605 del 2008 invece l’efficacia drogante è la misura dell’offensività.
[15] Vedi art. 4 legge 2 dicembre 2016, n. 242,, per il quale “Gli esami per il controllo del contenuto di THC delle coltivazioni devono sempre riferirsi a medie tra campioni di piante, prelevati, conservati, preparati e analizzati secondo il metodo prescritto dalla vigente normativa dell'Unione europea e nazionale di recepimento.
[16] Circolare 31.7.2018, Ministero dell’interno, pp. 7-8.
[17] Si rimanda all’ “allegato tecnico per la produzione nazionale di sostanze e preparazioni di origine vegetale a base di cannabis del decreto 9 novembre 2015”.
L’ANGELO DEL CRIMINE recensione di Franco Caroleo
La storia del più famoso serial killer argentino: i delitti surreali di un candido biondino in un film sospeso tra sensibilità e insensatezza.
Carlitos è un puttino di bellezza preraffaelita, riccioli d’oro e labbra tumide. Carlitos è il più famoso serial killer che ha sconvolto l’Argentina negli anni ‘70.
Dopo Ted Bundy, esce nelle sala italiane un altro film chiamato a scardinare le logiche lombrosiane: con “L’angelo del crimine” (titolo originale “El Angel”, prodotto da Pedro Almodóvar e presentato a Cannes 2018 nella Sezione Un certain regard), Luis Ortega ci regala il ritratto di un giovanissimo criminale dal volto angelico e dalla distaccata spietatezza.
È la vera storia del diciassettenne Carlos Robledo Puch, conosciuto come “l’angelo della morte” o “l’angelo nero”, che tra il 1971 e il 1972 a Buenos Aires ha compiuto 42 rapine e 11 omicidi.
Ma scordatevi gli heist movie. Non ci sono piani architettati accuratamente e non ci sono colpi grossi.
Il nostro angelo non sembra molto interessato ad uccidere e a rubare: balla, esplora, si mira e si rimira agli specchi delle case di lusso, teatro delle sue scorribande.
Carlitos ondeggia tra la psicopatia e la normalità, mentre ammicca suadente a Ramon, suo compagno di avventure, dal quale vorrebbe essere amato nel segno di un’omosessualità dolce e pudica.
E nel suo ondeggiare ci confonde, come ci confondono le sue decisioni criminali e le sue emozioni, sempre al limite tra sensibilità e insensatezza, tra indifferenza e rimorso.
L’Argentina post-peronista, i pantaloni a zampa, il rock ferroso (c’è pure spazio per una frizzante versione spagnola di House of the rising sun) e le luci calde fanno da sfondo a questi delitti sospesi in un’atmosfera surreale di lieve follia: fughe rallentate, sparatorie insicure, intervalli di lucida crudeltà.
Qualcuno rimprovera al regista di essersi innamorato della sua ricostruzione estetica e di aver rivolto troppa attenzione alla superficie esterna della vicenda, depurandola dal contesto storico e sociale.
Obiezione per certi versi condivisibile.
Ma forse questa superficialità è la stessa che predomina in quell’Argentina del terrorismo nero, in cui dilagava la disinformazione e mai si sarebbe potuto immaginare che potesse essere una minaccia un biondino dai modi gentili.
E poi, il magnetismo dell’angelo (nella magistrale interpretazione dell’esordiente Lorenzo Ferro), l’eleganza della fotografia e il finale delirante stanno lí a ricordarci che il cinema è, prima di tutto, visione.
Sommario: 1. La democrazia diretta. 2 La democrazia e la protezione dei diritti individuali. 3. La c.d. e-democracy. - 4. La partecipazione estesa dei deliberanti. - 5. La democrazia e il senso civico.
1. La democrazia diretta.
La democrazia diretta è tradizionalmente distinta da quella indiretta o rappresentativa. In quanto rappresentativa, la democrazia moderna sembrerebbe a livello semantico essere la negazione della sua radice etimologica: ‘potere del popolo’ è espressione bizzarramente fuorviante. In base al principio ‘democratico’ di rappresentanza, nessuna decisione politica è in sé ‘democratica’: democratiche (in senso rappresentativo) sono semmai le condizioni.
Si dice democrazia diretta quella che consente ai cittadini di esprimersi, tramite il voto, su questioni pubbliche. È ciò che in alcuni paesi accade con il referendum (parola di origine latina in uso nelle principali lingue europee, lingue slave comprese, tranne che per il greco moderno, Δημοψήφισμα, ‘risoluzione popolare’, per le lingue nordiche – norvegese folkeavstemning, svedese folkomröstning, danese folkeafstemning – l’olandese volksraadpleging, il finnico määritelmät) che però è procedura eccezionale e non ordinaria di partecipazione dei cittadini al voto.
In Italia è così e per almeno tre motivi: a) da un lato si intende il referendum come il momento in cui è auspicabile chiamare al voto i cittadini data la rilevante importanza del punto, ma è altresì escluso in alcune materie, quali le leggi tributarie, di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali; b) la proposta soggetta a referendum è soggetta ad approvazione a condizione che venga richiesta da cinquecentomila elettori o da cinque Consigli regionali; c) la proposta è infine approvata solo se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto (art. 75 della Costituzione italiana).
Certamente, una forma di democrazia diretta è quella che consente agli elettori di votare il Capo dello Stato, come accade in alcuni paesi ma non in Italia, dove il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri (art. 83 della Costituzione italiana).
V’è da dire che le c.d. ‘elezioni primarie’, quelle che consentono agli iscritti a un movimento politico di esprimere una preferenza su candidati interni a esso o di una coalizione, in Italia non rappresentano un tipo di democrazia diretta in senso stretto. In primo luogo, perché non sono disciplinate da una legge nazionale (vi sono due leggi regionali, una in Toscana e una in Calabria) ma dai singoli partiti. In secondo luogo, perché a causa di questa regolamentazione non generale e astratta tale procedura non ha natura sistematica né universale.
La Svizzera è molto probabilmente il paese nel quale è vigente al più esteso livello un sistema basato sulla democrazia diretta: nazionale, cantonale e comunale. Ed è anche il paese in cui si ha la prova del fatto che è ammissibile in via ordinaria e non straordinaria la richiesta dei cittadini a votare su questioni pubbliche, mentre altrove questo viene fatto da parlamenti e governi. Per referendum in Svizzera si intende soprattutto una qualunque procedura di abrogazione di una legge vigente su proposta di sole cinquantamila firme in cento giorni, anche in materia di trattati internazionali (caso escluso in Italia).
2 La democrazia e la protezione dei diritti individuali.
Legittimare la democrazia in base a un elemento motivazionale di tipo etico ispirato alla protezione dei diritti individuali non è un atto richiesto della procedura democratica, e nemmeno necessario: la sua contingenza attiene alle possibilità di qualunque forma di governo (anche non ‘democratico’).
Dal punto di vista formale, in primo luogo, un governo autocratico potrebbe garantire persino meglio espressioni di eguali libertà individuali quali diritti o capacità.
Dal punto di vista della prassi politica, in secondo luogo, i soggetti della democrazia rappresentativa, a differenza della democrazia diretta, non sono (più) gli individui, ma gruppi coalizzati attorno a interessi. In tal senso, la democrazia è irrimediabilmente senza diritti. Non ne è il presupposto logico, né lo strumento etico.
Questo fatto è, peraltro, perfettamente spiegabile attraverso alcuni modelli di teoria della giustizia liberali. Un utilitarista potrebbe dire che la massimizzazione della libertà passa attraverso la massimizzazione di ciò che è utile, e quindi di ciò che interessa a prescindere dalle reali ed effettive spettanze dei singoli individui (e quindi dei loro diritti di libertà). Un libertario alla Nozick potrebbe dire che la libertà di tutti non può essere messa ai voti e non può essere oggetto di delibere democratiche, dato che il singolo viene tutelato dalle proprie libertà negative e non democraticamente dagli interessi della maggioranza. Persino un liberale rawlsiano potrebbe giungere ad ammettere che, in nome del principio di differenza, ciò che democraticamente conta non è la libertà del singolo ma la distribuzione di risorse a partire dai soggetti meno avvantaggiati (quindi l’interesse di gruppi sociali).
3. La c.d. e-democracy
Controverso è se la c.d. e-democracy, o democrazia elettronica (o digitale) sia in senso stretto una forma di democrazia diretta o in senso lato una qualche forma di democrazia. Quello della democrazia elettronica è un concetto significativo di dimensioni ampie e differenti.
La e-democracy potrebbe essere considerata una sorta di democrazia in grado di coinvolgere direttamente (senza rappresentanza) i partecipanti, avvalendosi di tecnologie informatiche. È quel che normalmente si intende per ‘democrazia digitale’. Nell’Encyclopedia Britannica, il politologo Andrew Chadwick definisce ad vocem la e-democracy come “l’uso delle tecnologie di informazione e di comunicazione capaci di migliorare e in alcuni casi di sostituire la democrazia rappresentativa” (https://www.britannica.com/topic/e-democracy).
4. La partecipazione estesa dei deliberanti
Il fatto che la democrazia non implichi in senso stretto la tutela dei diritti, vale tanto per la democrazia diretta quanto per quella rappresentativa. Domandiamoci perché quindi essa è comunemente annoverata come la forma di governo che li tutela.
La risposta è probabilmente contenuta nel fatto che lo strumento democratico implica una partecipazione estesa dei deliberanti, e che i deliberanti hanno un interesse a tutelare una forma di vita accettabile. Questo è sicuramente vero: escludendo l’ipotesi improbabile di una maggioranza di convinti masochisti, chi delibera dichiara un interesse alla promozione di una qualche forma di vita buona. Il punto, però, è che non sempre chi delibera rappresenta gli interessi dei rappresentati, e non sempre le decisioni della maggioranza sono universali. E questo vale anche nel caso della democrazia diretta (è il problema dei potenziali interessati).
Nelle maggioranze parlamentari moderne, le aspettative democratiche sono basate sul consenso. Il consenso non è una manifestazione resipiscente di volontà, ma è tecnicamente un voto. Un voto non è altro che una delle possibilità contenute nella necessità di una logica binaria: sì o no.
Anche nell’ipotesi della democrazia non rappresentativa, tuttavia, è lecito pensare che si potrebbe deliberare un assetto che comporti il sacrificio di qualche diritto.
La questione dell’estensione o meno del consenso è legato a quella della c.d. ‘qualità della democrazia’. La misurazione della qualità della democrazia contiene a mio avviso un paradosso che non è risolvibile. Da un lato, l’aspirazione a essere di qualità implicitamente incorpora l’idea che la democrazia sia la migliore forma di governo – per motivi quantitativi, però: estensione del diritto di voto, potere di eleggere chi avrà il potere di governare. Da un altro, però, asserire che il dato della qualità della democrazia sia frutto di più o meno cospicua estensione, non dimostra che ‘estensione’ significhi ‘governo dei migliori’. Pertanto, ogni misurazione della qualità, in quanto misurazione di indicatori, finisce per essere sempre una operazione quantitativa.
In tal senso, la distinzione tra le due forme di democrazia ha più una rilevanza formale che sostanziale.
5. La democrazia e il senso civico.
Probabilmente, alla base di tutto sta il fatto che la qualità della democrazia dipenda dalla qualità dei cittadini e quindi dal livello di sviluppo del ‘senso civico’. Il problema pertanto non è misurare la qualità della democrazia o valutare se la democrazia sia o meno la migliore forma di governo o il governo dei migliori. La domanda filosofica è: come costruire il senso civico? È una domanda che implica un’altra domanda: se esistono virtù morali propedeutiche a quelle politiche, come vanno individuate? Si può rinunciare alla tradizione morale di un popolo a vantaggio di una integrazione culturale?
Questo è a mio avviso un problema importante per la filosofia politica. Per ‘costruzione del senso civico’ non intendo qualche vaga forma di pedagogia moralistica, ma correttezza, equità e buone pratiche. Gli individui possono avere fiducia nelle istituzioni se queste ultime sono in grado di assicurare speditezza nelle decisioni, trasparenza amministrativa, verificabilità del gradimento dei servizi negli utenti, coinvolgimento attivo degli individui (categorie professionali, cittadini, lavoratori) alla partecipazione civica e politica. Se la democrazia è il frutto del liberalismo, occorre prendersi la responsabilità di adottare atteggiamenti politici coerenti con le teorie liberali: rispetto dei diritti costituzionali; priorità e neutralità del diritto positivo di fronte a norme culturali; ostacolare la malafede, il sentito dire, il perbenismo sociale, l’opinionismo; promuovere il criticismo pubblico, il rispetto delle regole, l’avventura della ricerca scientifica e il benessere individuale, tanto nel lavoro quanto nel tempo libero. In fin dei conti, abbiamo bisogno di cose semplici e non di tecnicismi. Operazione semplice ma non facile.
* Professore ordinario di Filosofia politica, Dipartimento di Scienze politiche e sociali, Università degli studi di Catania. Email: fsciacca@unict.it
Un interessante sguardo all’interesse, individualmente considerato, del procreato post mortem di uno dei genitori; una tutela che prescinde dalla collocazione di tale diritto all’interno della famiglia bigenitoriale e dalle limitazioni della disciplina nazionale in materia di procreazione medicalmente assistita. Ancora una volta, così come nei casi di filiazione da parte di coppie omosessuali e di adozione in casi particolari, la Cassazione appare giustamente anteporre i diritti costituzionalmente protetti del bambino alle scelte etico-politiche del legislatore ordinario.
1. La procreazione post mortem: il caso oggetto di causa
Il caso oggetto della pronuncia in commento, che altro non costituisce se non una delle numerose ipotesi innovative di concepimento e procreazione rese possibili dalle (ormai non più) recenti tecniche di inseminazione e fecondazione, è quello di una donna che, utilizzando il seme del marito deceduto e con il preventivo assenso di quest’ultimo, ha dato alla luce una figlia in Italia.
La madre ha dunque chiesto la formazione in Italia (sebbene la fecondazione fosse avvenuta in Spagna) dell’atto di nascita della medesima con indicazione della paternità del suo, ormai ex, marito di cui aveva crioconservato il seme. A fronte del rifiuto dell’Ufficiale dello Stato Civile di iscrivere la paternità della minore, la stessa ha adito il Tribunale chiedendo la rettifica dell’atto di nascita ai sensi dell’art. 95 d.p.r. n. 396/2000.
Il Tribunale, tuttavia, sulla base della considerazione per cui oggetto del giudizio era la mera legittimità del rifiuto opposto, ha rigettato la domanda, evidenziando che all’ufficiale dello stato civile fossero precluse indagini ed accertamenti in ordine alle dichiarazioni ed alla paternità, spettanti, invece, esclusivamente all’autorità giudiziaria. Dunque, la madre avrebbe dovuto proporre un giudizio per l’accertamento della paternità, nell’ambito del quale non vi erano limiti probatori ai sensi dell’art. 241 c.c.. Dunque, il rifiuto dell’iscrizione della paternità da parte del pubblico ufficiale non avrebbe leso i diritti della minore, perché l’atto di nascita era comunque stato formato e la madre avrebbe potuto utilizzare gli altri rimedi processuali diretti a far constatare la paternità. In conclusione il giudice di prima istanza ha ritenuto che tale rifiuto non fosse contrastante né con la giurisprudenza, anche comunitaria afferente l’attribuzione dello status come strumento di tutela della identità dell’individuo e del diritto al rispetto della vita familiare ex art. 8 della CEDU, né con la l. n. 40/2004, art. 8, regolante lo status dei figli nati con le tecniche di procreazione medicalmente assistita.
Anche la Corte d’Appello, adita in sede di reclamo, ha seguito tale impostazione ermeneutica, ritenendo nel caso di specie applicabili comunque le disposizioni generali dettate dal codice civile, richiamate dal Tribunale, che prevedono la presunzione di paternità solo se la nascita non avviene oltre i trecento giorni dallo scioglimento del matrimonio (e nel caso di specie dalla morte del padre), non derogate dall’art. 8, l. 40/2004. Ha altresì condiviso che il riconoscimento del rapporto di filiazione, in ogni caso, in quanto implicante una valutazione in ordine alla validità ed efficacia di alcuni documenti ed alla loro rilevanza probatoria ai fini dell’accertamento dello status, non poteva essere effettuato dall’ufficiale di stato civile, il quale, pertanto, legittimamente aveva applicato le regole generali del codice civile. Parimenti, infine, ha considerato tutelati l’interesse ed i diritti della minore sia mediante l’atto di nascita, comunque formato, sia tramite gli altri strumenti processuali, forniti dall’ordinamento, che permettono di far constatare la paternità e di ottenere l’attribuzione del cognome paterno.
Contro tale decisione la madre della minore ha proposto ricorso in Cassazione deciso con il provvedimento in commento.
2. Inquadramento normativo della fattispecie
Sul punto, occorre preliminarmente evidenziare come la normativa nazionale non sia, così come in altri campi di recente evoluzione, sincronizzata con le crescenti esigenze che provengono dalla prassi. Infatti, in sostanza l’unica norma che si occupa, peraltro indirettamente, del cosiddetto fenomeno della P.A.R. (postmortem assisted reproduction) è l’art. 5 della l. n. 40 del 2004, il quale dispone che «Fermo restando quanto stabilito dall’articolo 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi». La normativa nazionale, dunque, appare chiara nel vietare nel nostro paese l’effettuazione di interventi di fecondazione medicalmente assistita nel caso in cui i due genitori non siano entrambi viventi in tale momento[1]. Merita tuttavia menzione il fatto che in una delle proposte di legge di una passata legislatura, era prevista l’inseminazione post mortem, condizionata al «manifestato espresso consenso alla utilizzazione (del seme) dopo la morte», e disponendo che venisse praticata, al più tardi, entro il quinto anno dal decesso ([2]).
Parimenti rilevanti, come si vedrà nel corso della trattazione, risultano i successivi articoli del medesimo testo legislativo; in particolare, l’art. 8, il quale dispone che «I nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli legittimi o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’articolo 6» e l’art. 9, il quale prevede ai primi due commi che «Qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3, il coniuge o il convivente il cui consenso è ricavabile da atti concludenti non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità nei casi previsti dall’articolo 235, primo comma, numeri 1) e 2), del codice civile, né l’impugnazione di cui all’articolo 263 dello stesso codice. La madre del nato a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita non può dichiarare la volontà di non essere nominata, ai sensi dell’articolo 30, comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396».
3. Il percorso argomentativo della Suprema Corte: l’ambito del giudizio ex art. 95, d.p.r. 396/2000
In primo luogo, prima ancora dell’analisi del merito della questione oggetto di contrasto, principalmente dottrinario, la Cassazione si è trovata a dover puntualizzare quale fosse l’ambito del giudizio demandato all’autorità giudiziaria nel caso del ricorso ex art. 95 d.p.r. cit., dato che entrambi i giudici territoriali erano giunti al rigetto dell’istanza anche in ragione del fatto che, pur volendo ritenere sussistente un rapporto di paternità biologica fra figlia e padre, comunque tale valutazione non sarebbe potuta essere oggetto del sindacato dell’Ufficiale dello Stato Civile.
A ben vedere, tuttavia, l’azione di rettificazione in esame non investe, in sé, il fatto contemplato nell’atto dello stato civile, ma la corrispondenza fra la realtà del fatto e la sua riproduzione nell’atto suddetto, cioè tra il fatto, quale è nella realtà (o quale dovrebbe essere nell’esatta applicazione della legge) e quale risulta dall’atto dello stato civile. Pertanto, tale difformità potrebbe dipendere non solo da un mero errore materiale dell’Ufficiale, ma anche da un qualsiasi altro vizio che alteri il procedimento di formazione dell’atto ([3]).
Ciò posto, tuttavia, la Corte ha condivisibilmente puntualizzato quale fosse l’erronea prospettazione da cui era stata affrontato il tema in questione: una volta sancito che il procedimento in esame è volto ad eliminare una difformità tra la situazione di fatto, quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione di legge, e come, invece, risulta dall’atto dello stato civile, ciò che effettivamente era rilevante nella controversia in esame non era la tipologia di sindacato spettante all’ufficiale dello stato civile, ma quale fosse l’ambito della cognizione del giudice che «in un panorama complesso quale quello attuale della genitorialità, sempre più percorso dalla scomposizione del processo generativo per effetto delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, si trovi ad affrontare il ricorso contro il diniego di rettificazione opposto dall’ufficiale predetto».
Ed in effetti appare giusta la prospettiva della Cassazione, in quanto l’autorità giudiziaria non è investita di un potere di mero controllo formale dell’operato dell’ufficiale di stato civile secondo la funzioni allo stesso affidate, bensì, come detto, di un controllo della corrispondenza fra atto dello stato civile e realtà sostanziale, a prescindere dall’originaria possibilità per il soggetto formatore dell’atto di rendersi conto o meno di tale difformità. Il giudice, pertanto, dispone di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa e di discendenza genetica e biologica di quest’ultimo; non si giustificherebbe, altrimenti, nemmeno la possibilità prevista dall’art. 96 d.p.r. 396/00, di «...assumere informazioni, acquisire documenti e disporre l’audizione dell’ufficiale dello stato civile... ».
Quindi, se con riferimento alla dichiarazione di nascita in quanto tale l’ufficiale dello stato civile non ha discrezionalità, viceversa con riferimento alla dichiarazione della madre in merito alla paternità (seppur suffragata dalla documentazione che attestava la relazione biologica e il consenso del padre), ingenerando essa stessa effetti giuridici riguardo allo status della persona cui era riferita, l’ufficiale ha il potere/dovere di rifiutare di riceverla ove – come poi effettivamente avvenuto – la ritenga in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico (cfr. D.P.R. n. 396 del 2000, art. 7), e tale sindacato può e deve essere censurabile dal giudice.
4. Segue: lo status del procreato “post mortem” e il rapporto con la disciplina normativa nazionale
Come si è detto in precedenza, non risulta rilevante per la soluzione del caso concreto in esame, il tema della liceità, o meno, secondo la legislazione italiana (cfr. l. n. 40 del 2004), della tecnica di P.M.A. predetta (fecondazione omologa post mortem); unico punto decisivo è la corrispondenza fra la realtà del fatto come complessivamente dichiarato dalla madre all’ufficiale dello stato civile e la sua riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo concretamente redatto. Il vero quesito che si pone, dunque, nei casi in questione, in cui le parti aggirano i divieti nazionali ponendo in essere operazione di P.M.A. all’estero, è quello di qualificare non l’operazione in sé ma il rapporto di paternità relativo al procreato. E più nello specifico, se debbano trovare esclusiva applicazione i meccanismi presuntivi previsti dagli artt. 231 e 233 c.c. in relazione alla prova della paternità o se, invece, sia necessario anche tener conto della disciplina della L. n. 40 del 2004 circa il rilievo determinante del consenso al processo generativo mediante P.M.A.
Ciò posto, il caso della procreazione con seme crioconservato proveniente da soggetto defunto, pone questioni differenti rispetto alle altre tematiche di attualità di recente interesse giurisprudenziale quali la trascrizione di atti formati all’estero e relativi a figli di coppie omosessuali. Tuttavia, l’analisi del caso in esame non può comunque prescindere, come sottolineato anche dalla pronuncia in commento, dalla considerazione dei nuovi bisogni emergenti (un tempo ignoti, non prevedibili ed ancora non – o parzialmente – regolamentati dal legislatore, nazionale o sovranazionale) e dalla formazione dialogica e condivisa dei diritti fondamentali della persona attraverso l’opera di definizione delle Corti Europee. Assolutamente interessante, e punto focale del tema in esame, pare essere la considerazione per cui la genitorialità, proprio in virtù di tali spinte comunitarie ed europee, non sia più da considerarsi solamente nell’ambito familiare o, ancor meglio, dell’unità matrimoniale. In altri termini, la Corte di Cassazione prende atto della necessità, nell’interpretare la normativa nazionale e rispondere al quesito posto nel presente paragrafo, di tenere in considerazione come ormai la scienza medica e l’emersione di una dimensione della genitorialità, di per sé considerabile e meritevole di tutela in prospettiva del procreato, influiscano anche nella scelta interpretativa in esame.
Ciò posto, con riferimento alla normativa nazionale, l’art. 232 c.c. dispone che si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando non siano trascorsi trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio; dunque se si ritenesse applicabile tale disciplina, vi sarebbe nel caso di specie corrispondenza fra la realtà del fatto come complessivamente dichiarato all’ufficiale di anagrafe e la sua riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo concretamente redatto, non operando la presunzione di legge e non potendosi considerare automaticamente la minore come “figlia” del padre. Parimenti, il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio ai sensi del vigente art. 250 c.c. richiede le formalità di cui all’art. 254 c.c.; di tal ché, il mancato rispetto delle stesse imporrebbe all’ufficiale dello stato civile di non iscrivere nel registro la paternità del soggetto premorto, in quanto tale adempimento sarebbe difforme dalla situazione quale è secondo la previsione del codice civile.
Viceversa, come visto in premessa, la disciplina in materia di filiazione di cui alla L. n. 40 del 2004, prevede all’art. 8 una clausola di parificazione dei figli nati da P.M.A. e all’art. 9 l’impossibilità per il padre di disconoscere la paternità del figlio in caso di consenso prestato a P.M.A. di tipo eterologo.
Ebbene il punto nodale della questione interpretativa, su cui anche la Procura Generale appare aver preso una posizione differente rispetto a quella della Cassazione, è se tale disposto normativo abbia codificato un’alternativa disciplina di attribuzione dello status.
La prima Sezione della Cassazione dà risposta positiva a tale quesito, secondo un percorso argomentativo che sembra meditato e ben argomentato alla luce dei riferimenti (legislativi e non) tenuti in considerazione.
In primo luogo, infatti, occorre evidenziare che non costituisce un’interpretazione “irrazionale” della l.. 40/2004 quella per cui seppur alcune tecniche di P.M.A. siano in Italia vietate ciò non significa che non si debba considerare la paternità del procreato secondo il disposto di cui all’art. 8 l. cit.. Ed infatti, le norme di cui agli artt. 4, 5 e 6 investono più specificamente le fasi dell’accesso alle tecniche di P.M.A. e la loro applicazione, e sono contenute in altro capo del testo normativo in esame. Né il legislatore ha limitato espressamente l’applicabilità della norma in esame alle sole ipotesi di procreazione medicalmente assistita “lecita”; anzi, l’aver espressamente contemplato la sua applicabilità alla ipotesi di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo ([4]), e l’aver previsto in relazione alla stessa l’impossibilità di esercitare l’azione di disconoscimento della paternità e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, presuppongono che, anche in simili casi, il consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita sia sufficiente per l’attribuzione dello status di figlio. Addirittura, per quanto concerne il nato da P.M.A. di tipo eterologo, la L. n. 40 del 2004, art. 9, comma 1, stabilisce che tale consenso sia liberamente manifestabile anche mediante “atti concludenti”, da cui dovrebbe desumersi il consenso alla tecnica della procreazione eterologa; a maggior ragione tali “atti concludenti” sarebbero da ritenersi idonei a dimostrare il consenso alle pratiche di procreazione assistita omologa.
In secondo luogo, valorizzando appunto la tutela del procreato e il suo interesse alla bigenitorialità (o, con riferimento al caso di specie, alla certezza del suo rapporto genitoriale) l’eventuale illiceità/illegittimità, in Italia, della tecnica di P.M.A. non potrebbe certamente riflettersi, in negativo, sul nato e sull’intero complesso dei diritti a lui riconoscibili. L’art. 8 in questione dunque necessita di essere interpretato, come ogni norma dell’ordinamento in effetti, alla luce dei principi costituzionali e sovranazionali. Di fatti una tale interpretazione risulta conforme sia ai primi, in particolare quelli di cui agli artt. 2 e 30 Cost., da cui deriva che il nato ha diritto, oltre che di crescere nella propria famiglia, di avere certezza della propria provenienza biologica, rivelandosi questa come uno degli aspetti in cui si manifesta la sua identità personale[5], sia a quelli di provenienza sovranazionale[6].
Infine, si rimarca il carattere centrale della discendenza biologica, non in dubbio nel caso di specie e che prescinde, pertanto, da ogni considerazione del tempo in cui sono avvenuti il concepimento e la nascita; dato che le tecniche in questione rendono possibile il differimento della nascita, senza per questo incidere sulla certezza della paternità biologica, si rivelano inapplicabili in materia, in quanto dettati a diverso fine, quei principi codicistici basati su un sistema di presunzioni tramite le quali si cerca di stabilire quella certezza (di cui agli artt. 232 e 234 c.c.). Peraltro, il c.d. “diritto alla bigenitorialità” non risulta violato nel caso di specie, in quanto comunque il procreato, a prescindere dal riconoscimento della sua relazione genitoriale con il premorto, sarebbe nato con una sola figura genitoriale. Dunque, unico interesse del nato da tutelare nel caso in esame è quello di acquisire rapidamente la certezza della propria discendenza bigenitoriale, elemento di primaria rilevanza nella costruzione della propria identità. Peraltro, in proposito, la Cassazione effettua un interessante richiamo ad un altro tema attuale e sempre di natura bio-etica, ossia alla sussistenza del “diritto a non nascere”; confermando implicitamente l’orientamento già assunto dalla S.C. in altre pronunce in materia risarcitoria[7], anche nel caso di specie il diritto del procreato a venire al mondo in una famiglia monogenitoriale andrebbe confrontato non con la nascita in una famiglia bigenitoriale, bensì con l’alternativa di non nascere affatto, dato che tale tecnica di procreazione era l’unica che garantiva la nascita della bambina[8]. Peraltro, non esiste neppure una garanzia di inserimento in un contesto familiare bigenitoriale di rilevanza costituzionale, come confermato dalla Consulta in tema di adozione[9].
Pertanto, appare condivisibile che la disciplina di attribuzione dello status nella procreazione medicalmente assistita di cui all’art. 8 l. cit. configuri un sistema del tutto alternativo rispetto a quello codicistico; lo status di figlio del nato da P.M.A. deriverebbe direttamente dalla legge e, inscindibilmente, nei confronti della coppia che abbia espresso la volontà di accedere alle tecniche di P.M.A. Dunque, il consenso dato dal coniuge o convivente alla fecondazione artificiale avrebbe un significato diverso ed ulteriore rispetto a quello ascrivibile alla nozione di “consenso informato” al trattamento medico e governerebbe lo status identificando la maternità e la paternità del nato nella forma più ampia e certa, senza bisogno di ulteriori manifestazioni di volontà. Nel caso di specie, peraltro, non sarebbe stato sufficiente il mero consenso alla fecondazione artificiale o alla crioconservazione del seme, ma occorreva, come in effetti è stato fatto, un espresso consenso riferito proprio all’utilizzo del seme anche successivamente alla morte del padre donante.
5. Brevi conclusioni
Il passo che la Cassazione compie, rispetto alla posizione interpretativa “tradizionale” suffragata anche dalla Procura Generale nelle sue conclusioni, è appunto quello di scindere completamente la valutazione della tecnica di procreazione in sé dalla tutela degli interessi del procreato. E tale scelta non può che essere condivisibile, nella misura in cui non appare opportuno condizionare la tutela di diritti fondamentali della persona al rispetto di una disciplina che, pur contenuta nel medesimo testo legislativo, riguarda un momento antecedente alla nascita e contiene scelte di natura etico-politica che, però, non possono in alcun caso limitare diritti fondamentali della persona.
Né una differente interpretazione potrebbe essere suffragabile sulla base di una logica preventiva; l’eventuale prassi di recarsi all’estero per la realizzazione di tali operazioni non consentite in Italia, come sta avvenendo per la fecondazione eterologa in coppie omosessuali che poi chiedono la trascrizione in Italia del certificato straniero in cui sono indicati entrambi i genitori, in ogni caso non giustificherebbe la compressione di una libertà del minore. Lo stessa normativa di settore, infatti, pone delle sanzioni a carico dei genitori che nel nostro paese pongono in essere tali pratiche illecite; è per primo il legislatore, dunque, che ha individuato su chi dovranno cadere le eventuali responsabilità per la violazione dei limiti delle P.M.A.. In alcun modo, comunque le stesse potranno addossarsi ai figli.
[1] Sul punto anche una pronuncia del T. Bologna, Sez. I Sent. 31 maggio 2012, FI, 2012, 12, 1, p. 3349.
[2] Il progetto di legge, d'iniziativa del deputato Teodori, fu presentato alla Camera il 13.3.1985, come ricorda Dogliotti, Inseminazione artificiale e rapporto di filiazione, in Giur. it., 1992, 1 ss, spec. nt. 14.
[3] Cfr Cass. Sez. I 16 dicembre 1986, n. 7530, FI, 1987, I, p. 1097.
[4] Nella formulazione conseguente all’intervento di C. Cost., 10 giugno 2014, n. 162, Pres. Silvestri, Rel. Tesauro
[5] cfr. Cass. Sez. I, 20 marzo 2018, n. 6963, Nuova Giur. Civ., 2018, 9, p. 1223; Cass., S.U. 25 gennaio 2017 n. 1946, Famiglia e Diritto, 2017, 8-9, p. 740; Cass. Sez. I 21 luglio 2016, n. 15024, Famiglia e Diritto, 2017, 1, p. 15; Cass. Sez. I, 30 settembre 2016, Giur. It., 2017, 11, p. 2365. Nel medesimo senso anche C. Cost. fin dalla sentenza 22 settembre 1998, n. 347, che già sottolineò la necessità di distinguere tra la disciplina di accesso alle tecniche di P.M.A. e la doverosa, e preminente, tutela giuridica del nato, significativamente collegata alla dignità
Cass. n. 14878 del 2017.
[6] Cfr. le sentenze “gemelle” della C. edu, Mennesson c. Francia (26 giugno 2014, ric. n. 65192/11) e Labassee c. Francia (26 giugno 2014, ric. n. 65941/11.
[7] Sul punto Cass., S.U. 22 dicembre 2015, n. 25767, CG, 2016, 1, p. 41.
[8] Si veda, in dottrina Procreazione assistita. I diritti del soggetto procreato post mortem, Andrea Natale, Fam. Pers. Succ., 2009, 6; sul punto anche T. Palermo, 29 dicembre 1998, Famiglia e dir. 1999, p. 52, nel quale già era stato affrontato, seppur in maniera non compiuta, il tema dello status del nato.
[9] C. Cost., 16 maggio 1994, n. 183, GI, 1995, I, c. 540.
1. Lo schema di disegno di legge recentemente elaborato dal Governo contiene alcune modifiche al decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116 denominato “Riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace, nonché disciplina transitoria relativa ai magistrati onorari in servizio, a norma della legge 28 aprile 2016, n. 57” lascia irrisolte le questioni relative al regime della magistratura onoraria nel sistema giudiziario italiano.
L’assunto di base è che senza la magistratura onoraria l’amministrazione della Giustizia non può funzionare (molti uffici non potrebbero reggere) e se le risorse umane (le persone) che la compongono sono utilizzate in modo inadeguato si producono effetti negativi per tutti.
Lo schema del disegno di legge va studiato in rapporto al decreto legislativo che si propone di migliorare e, per sua natura, resta aperto alle modifiche. Allora, è bene che Giustiziainsieme ritorni a occuparsi di questa materia la cui regolazione è ancora suscettibile di evoluzioni e che incide in modo rilevante sulla azione giudiziaria ordinaria.
I nodi problematici principali non sciolti dal decreto legislativo del luglio 2017 e dallo schema di disegno di legge riguardano:
a) la condizione di prolungata precarietà dei magistrati onorari per decenni rinnovati nelle loro funzioni (quelli in servizio alla data del 15/08/2017);
b) il senso funzionale complessivo della magistratura onoraria nel sistema giudiziario.
Valgono, in prima battuta e fatta salva l’opportunità di ulteriori approfondimenti, le seguenti considerazioni.
2. Ai magistrati onorari per decenni rinnovati nelle loro funzioni è ora consentita la permanenza illimitata in servizio fino a 68 anni, ma la disciplina delle possibilità del loro impiego depotenzia la valenza della modifica perché risulta insoddisfacente per le giuste aspettative economiche e non valorizza compiutamente risorse umane che hanno consolidato esperienze e capacità idonee a fronteggiare gravi difficoltà (soprattutto negli uffici più piccoli e esposti alle scoperture di organico dei magistrati togati). Il mancato ricorso allo schema legislativo usato nel 1974 per i vicepretori spreca l’occasione per un intelligente e pragmatico intervento legislativo (più economico, peraltro, dell’aumento dell’organico dei togati).
La funzione di supporto di questa categoria - prevedendosi ancora un regime a tempo parziale - risulta compressa, anche tenendo conto della riespansione delle competenze dei giudici onorari di pace e dei viceprocuratori onorari a quelle anteriori alle modifiche introdotte con il decreto legislativo n. 116/2017. Un rapporto a tempo pieno eliminerebbe in radice le possibilità di incompatibilità ambientale e professionale, incentivando la qualità e la quantità degli apporti.
In ogni caso, la lievitazione della indennità lorda complessiva annuale (art. 31) e la rimodulazione delle indennità giornaliere ancora non rispettano i parametri ritenuti adeguati dal Comitato europeo dei diritti sociali (retribuzione equiparata, pro rata temporis, al magistrato di ruolo all'inizio della carriera), producono risultati solo ipotetici e protraggono una negativa anomalia nel panorama europeo. Nonostante l’incremento di fondi per la Giustizia, si prevedono saldi invariati solo per la magistratura onoraria: è un approccio miope rispetto alle possibilità di sviluppare una efficace azione per ridurre l’arretrato e alle giuste aspettative (anche di previdenza, di ferie, congedo di maternità, indennità di fine-rapporto) dei lavoratori impegnati nel settore, ancora collocati in un limbo nonostante le precise censure espresse dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia (caso Eu Pilot 7779/15/EMPL).
Qualche miglioramento deriva dalla restrizione delle incompatibilità ai casi di rapporti di parentela, affinità e coniugio tra il magistrato e il “familiare” esercente la professione forense e dalla parziale estensione ai magistrati onorari della possibilità di assegnazione a altra sede per assistere un familiare disabile (art. 33 legge n. 104/1992, n. 104), permane l’assenza di previsioni per i trasferimenti connessi a esigenze familiari.
3. Relativamente alla attribuzione delle competenze, è evidente che le idee ispiratrici non sono ancora chiare e coerenti. Soprattutto, sono carenti rispetto alla soluzione dei problemi concreti.
Lo schema governativo amplia a tutti i casi di citazione diretta in giudizio la competenza del vice procuratore onorario delegato a assumere le determinazioni relative all'applicazione della pena su richiesta. Sarebbe utile razionalizzazione (anche per esigenze organizzative, oltre che di coerenza) estendere all’insieme dei processi trattati dal vice procuratore in udienza la possibilità di esprimere il consenso, scelta, del resto, sulla quale il giudice esercita comunque la sua valutazione finale. In generale, risultano tendenzialmente disfunzionali le scelte che comportino l’alternarsi in udienza del vice procuratore e del sostituto procuratore togato.
La riforma segue l’idea di evitare la costituzione di ruoli autonomi dei giudici onorari, se non nei casi previsti dall’art. 11 d.lgs. 116/2017 (quando il Tribunale si trova in situazione di grave sofferenza, sulla base di indici rigorosamente stabiliti).
Tuttavia, l’impatto dell’applicazione di questa idea alla realtà giudiziaria attuale può produrre esiti preoccupanti. Già art. 10, commi 11 e 12 d.lgs. 116/2017 prevede l’istituto della subdelega per i procedimenti civili, renderlo applicabile anche ai procedimenti penali, consentirebbe di delegare al giudice onorario (secondo criteri da prefissare tabellarmente) alcuni dei processi penali meno impegnativi. In sede di approvazione del decreto correttivo (previsto dalla legge delega) una variazione in questa direzione sarebbe possibile.
Lo sviluppo del cosiddetto ‘ufficio del processo richiede anni di evoluzioni culturali.
Nel frattempo, ingrottare troppe risorse al suo interno può forse gratificare astratte (e confuse) prefigurazioni di situazioni future ma potrebbe rivelarsi un ennesimo girare a vuoto, una dissipazione di risorse disfunzionale alla efficace e rapida amministrazione della Giustizia.
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