ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Brevi considerazioni sul nuovo rito civile in Cassazione e sui suoi riflessi sull'organizzazione della Sezione Lavoro [1]
di Vincenzo Di Cerbo
La legge 25 ottobre 2016 n. 197, di conversione del decreto-legge 31 agosto 2016 n. 168, recante, in particolare, “misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di Cassazione” ha introdotto alcune norme che incidono profondamente non solo sul processo civile presso la Corte di legittimità ma anche sull’organizzazione della Corte.
Sommario: 1.Premessa.- 2. Ius constitutionis e ius litigatoris. - 3. Brevi cenni sugli effetti della riforma sull’attività delle sezioni civili della Corte di cassazione.- 4. Riflessi della riforma del 2016 sull’organizzazione della sezione lavoro.
1.Premessa. La legge 25 ottobre 2016 n. 197, di conversione del decreto-legge 31 agosto 2016 n. 168, recante, in particolare, “misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di Cassazione” ha introdotto alcune norme che incidono profondamente non solo sul processo civile presso la Corte di legittimità ma anche sull’organizzazione della Corte.
La principale novità introdotta dalla nuova legge consiste certamente nella distinzione tra giudizi aventi rilevanza nomofilattica, che sono destinati alla trattazione in pubblica udienza, e quelli che sono privi della suddetta rilevanza, che vengono trattati nella camera di consiglio non partecipata. Si è affermato in proposito (PUNZI[2]) che con la riforma del 2016 viene invertito il rapporto esistente nel codice del 1940 tra la trattazione in pubblica udienza, che trova la sua conclusione in una decisione in forma di sentenza, e la trattazione in camera di consiglio con decisione in forma di ordinanza. Con la nuova formulazione dell´art. 375 c.p.c. la trattazione in camera di consiglio e la decisione con ordinanza sono divenute la forma ordinaria laddove la trattazione in pubblica udienza costituisce la forma eccezionale di svolgimento del procedimento dinanzi alla Corte di cassazione (concorda con quest’ultima affermazione, in particolare, COSTANTINO [3]).
Le considerazioni che seguono riguardano, in particolare, gli effetti di questa novità sull’organizzazione della Sezione lavoro della Corte di cassazione.
2. Ius constitutionis e ius litigatoris. Appare utile premettere che, come è stato più volte sottolineato, non solo in dottrina, la nostra Costituzione (art. 111) attribuisce alla Corte di cassazione un duplice compito: quello di custode della nomofilachia per cui la Corte deve assicurare, come stabilito dall´art. 65 ordinamento giudiziario (R.D. 30 gennaio 1941, n. 12), “l’uniforme interpretazione della legge, l´unità del diritto oggettivo nazionale” e quello del giudice dello ius litigatoris, al quale è demandato di controllare la legalità del caso singolo. È stato esattamente sottolineato (LOMBARDO[4]) che si tratta di compiti affatto diversi: il controllo di legalità della sentenza riguarda il caso singolo e la sua soluzione giuridica non supera il recinto della fattispecie concreta e dell’interesse delle parti. La funzione nomofilattica ha un respiro molto più ampio: partendo dalla soluzione del caso concreto essa mira a dettare un principio di diritto idoneo a diventare precedente destinato ad indirizzare gli altri giudici nella soluzione di future, analoghe controversie.
La diversità delle suddette funzioni comporta altresì che mentre la prima (il controllo di legalità delle sentenze) comporta l’obbligo della Corte di pronunciarsi tutte le volte che venga richiesto il suo intervento, la funzione nomofilattica implica la necessità di una previa selezione, finalizzata ad individuare le questioni che, per il loro carattere paradigmatico, possono essere rilevanti come precedente per le future interpretazioni giurisprudenziali.
La riforma del 2016 nasce dalla consapevolezza del legislatore della necessità di prendere atto delle difficoltà in cui si trova la Corte di cassazione ad assolvere con lo stesso rito le due funzioni sopra indicate, difficoltà rese evidenti dal sempre crescente numero dei nuovi ricorsi proposti anno dopo anno nel settore civile [5] e dal crescente numero delle cause pendenti nonostante il netto miglioramento dell’efficienza della Corte nella decisione dei ricorsi[6]. Difficoltà che sono state risolte solo parzialmente dalla precedente riforma del 2009 (legge 18 giugno 2009 n. 69) che ha istituito l´” apposita sezione” (art. 47, comma 1, lett. b, che ha modificato l´art. 376, primo comma, cod. proc. civ.) col compito di decidere con rito camerale i ricorsi inammissibili, o “manifestamente infondati” o “manifestamente fondati”.
La nuova legge, pur mantenendo la speciale sezione prevista dall´art. 376 c.p.c., (la sesta sezione civile), della quale ha tuttavia parzialmente modificato il rito, ha imposto alle sezioni civili ordinarie l’adozione di un nuovo modello processuale e organizzativo.
Il fatto di aver previsto, con la nuova formulazione dell´art. 375 cod. proc. civ., che la trattazione in udienza pubblica riguarda solo quei ricorsi per i quali sussiste una “particolare rilevanza della questione di diritto” sulla quale la Corte è chiamata a pronunciare, implica, come si è in precedenza accennato, che la trattazione camerale diventa la modalità più comune e diffusa del processo civile di cassazione, modalità che si caratterizza, in particolare, per il fatto che il rito è più veloce e la decisione viene adottata con ordinanza.
Nel disegno del legislatore della novella del rito di legittimità, pertanto, l'udienza pubblica (art. 379 cod. proc. civ. come modificato dalla citata legge n. 197 del 2016) è il "luogo" dedicato all’esercizio della funzione nomofilattica, luogo cioè in cui si assume la decisione sulla “questione di diritto” di “particolare importanza”. Decisione destinata a costituire un precedente e ad incidere, pertanto sulla evoluzione della giurisprudenza successiva.
Coerentemente alla scelta della pubblica udienza, che consente, o meglio, implica la discussione orale della causa, preceduta dalle conclusioni del pubblico ministero, il legislatore ha stabilito che l’esito decisorio deve avere forma di sentenza, provvedimento che, anche se redatto in forma sintetica (così come, del resto, previsto dal combinato disposto degli artt. 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ.), consente il pieno dispiegarsi del percorso logico-giuridico che è posto alla base del principio di diritto espresso dalla decisione. Principio di diritto che, per le ragioni sopra indicate, esprime l’interesse generale alla funzione nomofilattica.
Ove la questione sottoposta all’esame della Corte abbia unicamente una valenza individuale, a tutela dello ius litigatoris, la relativa trattazione avviene in camera di consiglio senza l’intervento del pubblico ministero e delle parti. La nuova disciplina prevede che della fissazione dell’udienza in camera di consiglio viene data comunicazione agli avvocati delle parti e al Pubblico Ministero almeno quaranta giorni dalla data stabilita; il P.M. può depositare le sue conclusioni scritte non oltre venti giorni prima dell’adunanza in camera di consiglio e le parti possono depositare le loro memorie successivamente e, in particolare, nel termine di dieci giorni prima dell’adunanza stessa. Coerentemente è previsto per la decisione la forma dell’ordinanza che, come è stato condivisibilmente affermato in dottrina (LOMBARDO, op cit. 38) si distingue dalla sentenza soprattutto in relazione al contenuto della motivazione (rispettivamente, artt. 134 e 132, n. 4, cod. proc. civ.). La motivazione dell’ordinanza può ridursi a meri enunciati di risposta alle questioni sottoposte, potendo limitarsi a richiamare i precedenti già affermati dalla Corte di legittimità; la motivazione della sentenza esige un percorso argomentativo, ancorché sintetico, completo ed esaustivo che esamina tutti gli argomenti sottoposti all’esame del collegio decidente.
L’opzione per il rito camerale e la forma dell’ordinanza adottata dal legislatore per le relative decisioni puntano evidentemente alla velocizzazione del giudizio di cassazione e quindi all’aumento della capacità della Corte di esaurire i processi pendenti.
3. Brevi cenni sugli effetti della riforma sull’attività delle sezioni civili della Corte di cassazione. Con riferimento all’intero settore civile nel corso del 2018 le pervenienze (e cioè il numero dei nuovi processi iscritti a ruolo) ammontano (al 31 dicembre) a complessive 36.881 unità. Nello stesso periodo dell’anno precedente le pervenienze erano arrivate a complessive 30.298 unità. Dobbiamo registrare pertanto un incremento delle pervenienze di 6.583 unità. Incremento che ha riguardato sostanzialmente la prima sezione civile (+ 4.899 rispetto all’anno precedente) e la sezione tributaria (+ 1.114).
Negli stessi periodi sono stati eliminati con provvedimento definitivo pubblicato rispettivamente: a) nel 2018 n. 32.477 ricorsi, dei quali 21.511 nelle sezioni civili ordinarie (ivi comprese le Sezioni Unite) e 10.966 nella Sesta sezione civile. Deve pertanto registrarsi un saldo negativo di 4.404 ricorsi con conseguente ulteriore aggravio delle pendenze complessive pervenute alla cifra record di 111.275 ricorsi; b) nel 2017 n. 30.255, dei quali n. 18.013 nelle sezioni civili (ivi comprese le Sezioni Unite) e n. 12242 nella Sesta sezione civile.
Da questi dati emerge una prima osservazione, a mio avviso di notevole interesse: nel 2018 le sezioni civili hanno aumentato la loro produttività rispetto al corrispondente periodo (+ 2.222) e il saldo negativo è riconducibile pertanto esclusivamente agli incrementi delle pervenienze sopra descritti.
Ciò trova conferma nel fatto che l’indice di ricambio (eliminazioni/pervenienze) delle sezioni seconda, terza e quarta (su quest`ultima si rinvia al paragrafo successivo), e cioè di quelle sezioni che hanno avuto un numero di pervenienze sostanzialmente stabile è positivo, laddove quello delle sezioni prima e tributaria è negativo.
L’indice di ricambio di tutte le sezioni civili è pari a 0,88. (Se non si fosse registrato il suddetto incremento delle pervenienze e quindi immaginando invariato il numero delle stesse rispetto a quelle risultanti al 31 dicembre 2017, l’indice di ricambio di tutto il settore civile sarebbe positivo: 1,07).
A mio avviso tale risultato è stato reso possibile, oltre che dal costante impegno dei magistrati della Corte, anche, in qualche misura, dagli effetti dei miglioramenti organizzativi indotti in tutto il settore civile dalla riforma del 2016.
4. Riflessi della riforma del 2016 sull’organizzazione della sezione lavoro. La riforma in esame si inserisce in uno schema organizzativo già precedentemente adottato in sezione lavoro e che nel corso dell’anno 2017 aveva già cominciato a produrre lusinghieri risultati. Schema organizzativo basato sulla ripartizione dei Collegi in tre aree specialistiche (Area 1: impiego pubblico privatizzato, Area 2: previdenza e assistenza, Area 3: rapporto di lavoro privato).
Nella condivisa convinzione che il numero delle sopravvenienze annue ed il peso delle cause pendenti impongono l’adozione di misure efficaci per la gestione del contenzioso, e al fine di garantire, nei limiti del possibile, il rispetto dei principi del giusto processo da un lato e della ragionevole durata del processo dall’altro, la Sezione lavoro ha valorizzato, specialmente negli ultimi anni, l’attività dell’esame preliminare dei ricorsi (c.d. spoglio) consapevole che solo la previa conoscenza, sia pure schematica, del contenuto degli stessi e delle problematiche giuridiche che essi sottopongono alla valutazione della Corte di legittimità, consente una loro gestione ottimale.
E’ stata di recente all’uopo creata una nuova struttura (SCO), acronimo di Struttura di Coordinamento Organizzativo della quale fanno parte, oltre i componenti dell’Ufficio spoglio sezionale (3 consiglieri; 6 magistrati addetti al massimario), anche gli stagisti avviati al periodo di formazione teorico-pratica presso la Corte ai sensi dell’art. 73 del d.l. n. 69 del 2013 (convertito dalla l. n. 98 del 2013) e i tirocinanti di cui all’art. 37, commi 4 e 5, del d.l. n. 98 del 2011 (convertito in l. n. 111 del 2011), nonché un consigliere incaricato di collaborazione interna destinato al supporto del Presidente titolare nel coordinamento delle attività delegate alle singole aree ed ai Presidenti non titolari.
Il tutto in conformità con le previsioni delle Tabelle di organizzazione dell’ufficio tuttora vigenti, che contengono anche indicazioni sulla elaborazione del “programma di spoglio/selezione degli affari pendenti” di competenza del Presidente titolare (Tabelle, § 31.bis 1), sulle direttive all’Ufficio spoglio del Presidente titolare (Tabelle, § 31. 3 e 31.bis 3), sul coordinamento delle attività di collaborazione dei Presidenti non titolari nelle attività funzionali sia all’esercizio della nomofilachia che all’organizzazione della sezione (Tabelle, § 10). L’apporto degli stagisti e dei tirocinanti, da affiancare altresì alla partecipazione alle udienze, è corrispondente alle previsioni dettate dal Regolamento di questa Corte per lo svolgimento dei tirocini formativi e dal bando 2017 per il relativo reclutamento, provvedimenti che prevedono una presenza in ufficio per almeno due giorni lavorativi a settimana.
Compito della nuova struttura è quello di procedere non solo all’esame preliminare dei ricorsi ma anche quello di individuare ed accorpare, con l’aiuto dello strumento informatico (e, più in particolare, sfruttando al massimo, la tecnologia del SIC) quei ricorsi che presentino problematiche analoghe. Ciò al fine di consentire una gestione del contenzioso che, anche in deroga al tradizionale criterio della trattazione dei processi secondo l’ordine cronologico stabilito dalla data di presentazione del ricorso, consenta l’agevole accorpamento delle cause sulla base dell’identità delle questioni giuridiche trattate, delle materie affrontate e delle relative problematiche. Ciò in coerenza, del resto, con le indicazioni contenute nelle Tabelle ove viene esplicitamente espresso un orientamento favorevole ad un modello organizzativo che privilegi, nell’ambito della singola sezione, oltre alle udienze seriali, anche le udienze monotematiche.
La sezione lavoro ha cercato di cogliere le potenzialità gestionali offerte dalla legge 26 ottobre 2016 n. 197, aumentando l’impegno relativo all’esame preliminare dei ricorsi garantito dall’Ufficio spoglio sezionale, in stretto coordinamento con quello sotto sezionale corrispondente presso la Sezione Sesta, e all’inserimento dei relativi risultati nel sistema informatico della Corte.
In particolare è stata ripensata l’attività di spoglio nel senso che questa, non è finalizzata unicamente a individuare le specifiche questioni da trattare, a indicare il numero dei motivi di ricorso (principale e/o incidentale) ed a provvedere a eventuali accorpamenti, ma deve fornire anche una indicazione per il presidente o per il magistrato delegato alla formazione dei ruoli di udienza circa la natura del singolo ricorso al fine di indirizzarlo all’udienza pubblica (ove lo stesso meriti una pronuncia rilevante dal punto di vista nomofilattico) o all’adunanza camerale (negli altri casi).
5. Effetti concreti delle misure organizzative adottate. L’evoluzione dei dati numerici concernenti la Sezione lavoro può, a mio avviso, essere considerata positiva e dimostra un costante miglioramento via via che le misure organizzative alle quali ho accennato hanno esplicato la loro efficacia.
Ed infatti, a fronte di complessivi n. 5.574 nuovi ricorsi iscritti nel corso dell’anno 2018, sono stati eliminati con provvedimento definitivo pubblicato n. 7.300 ricorsi, dei quali n. 5233 in sezione e 2.067 nella corrispondente sottosezione della Sesta sezione civile. Deve pertanto registrarsi un saldo positivo di 2067 ricorsi. L’indice di ricambio (che esprime il rapporto fra numero dei ricorsi eliminati e il numero delle sopravvenienze nel corso dell’anno) si attesta quindi a 1,31. I processi pendenti al 31 dicembre 2018 ammontano a complessivi 18.724, dei quali 12.942 in sezione, 2.803, presso la sottosezione lavoro della sesta sezione civile e 2.979 presso la cancelleria centrale civile.
Analogo risultato positivo deve registrarsi nel corso del 2017, primo anno di vigenza della riforma, nel corso del quale, a fronte di un numero di pervenienze sostanzialmente analogo (5.527 nuovi ricorsi iscritti a ruolo) sono stati eleminati nello stesso anno ben 7.282 ricorsi, con un indice di ricambio pari a 1,31. I processi pendenti al 31 dicembre 2017 ammontavano a complessivi 20.378.
Nel corso del 2016, e cioè nell’anno immediatamente precedente l’entrata in vigore della riforma (che di fatto ha cominciato a produrre i suoi effetti soltanto a partire dai primi mesi del 2017) le pervenienze sono state pari a 5.615 ricorsi; i ricorsi eliminati sono stati 6.877 (dei quali 4.575 in sezione e 2.302 nella sottosezione della Sesta sezione civile). L’indice di ricambio è stato pari a 1,22. I processi pendenti al 31 dicembre 2016 ammontavano a 22.226.
In sostanza nel corso di due anni, e cioè dal 31 dicembre 2016 al 31 dicembre 2018 i processi pendenti in Corte di cassazione concernenti la sezione lavoro sono calati di 3.502 unità.
Il progresso dei dati appare ancora più evidente ove vengano considerati esclusivamente il numero dei provvedimenti emessi in sezione (al netto cioè di quelli emessi dalla sottosezione della sesta sezione civile); come si è prima accennato, infatti, la riforma ha riguardato più direttamente l’organizzazione e il rito della sezione ordinaria. Si è passati da1 4.575 provvedimenti definitivi emessi nel corso del 2016, ai 4.758 emessi nel corso dell’anno 2017 e, infine, ai 5233 emessi nel corso del 2018.
Particolarmente significativo per la presente trattazione è il rilievo concernente le modalità con le quali la Sezione lavoro ha applicato la riforma del 2016 (al netto di quanto fatto in sede di sottosezione presso la Sesta sezione civile).
Nel corso del 2018 il numero dei ricorsi decisi con ordinanza (all’esito di adunanza camerale) è stato superiore a 2.600 e quindi ha nettamente superato quello dei ricorsi decisi con sentenza (meno di 2.500) all’esito di udienza pubblica. Nel corso dell’anno 2017 le ordinanze avevano superato di poco le 1.700 unità a fronte di quasi 3.000 sentenze. (Le differenze rispetto ai totali dei procedimenti decisi è data, quasi interamente, dai decreti emessi ai sensi dell´art. 391 cod. proc. civ. nei casi ivi previsti di rinuncia al ricorso).
Queste cifre inducono ad alcune considerazioni.
Il numero delle adunanze camerali (e conseguentemente il numero dei ricorsi decisi con ordinanza) è in progressiva crescita, ed è destinato ad aumentare considerevolmente nel corso del 2019; tale crescita è stata finora attuata (e lo sarà anche nel corso del 2019) in modo graduale. Il numero delle cause decise in sede camerale, dimostra la prudenza con la quale sono stati fissati i ruoli in sede di prima applicazione della legge. Prudenza suggerita dal fatto che occorre realizzare un mutamento culturale che riguarda in primo luogo i giudici della Corte di cassazione che devono adeguare la loro attività alle importanti novità processuali e organizzative introdotte dalla riforma; il mutamento culturale riguarda, in particolare, i giudici addetti allo “spoglio” ai quali viene affidato, come si è in precedenza accennato, anche il compito di selezionare, nella massa dei ricorsi, quelli che, avendo valore nomofilattico, devono essere decisi in pubblica udienza.
Tale gradualità appare inoltre opportuna per superare perplessità manifestate dal Foro, e che hanno trovato notevoli riscontri anche in dottrina, concernenti i più rilevanti aspetti della riforma. In estrema sintesi le perplessità riguardano: la mancanza di pubblicità che caratterizza l'adunanza camerale, e che impedisce la difesa orale; la forma dell'ordinanza che autorizza, secondo le tesi alle quali ho prima accennato, una motivazione sintetica. In sostanza la velocizzazione e semplificazione del giudizio affidate alla trattazione camerale inciderebbe direttamente sulla qualità delle decisioni della Suprema Corte e quindi sulla loro persuasività e autorevolezza. A mio avviso l’esperienza maturata nel corso di questa fase di prima applicazione della riforma legittima il superamento delle suddette perplessità. Da un lato il deposito delle memorie consente alle parti e al pubblico ministero di sviluppare pienamente le loro tesi; dall´altro la camera di consiglio dell´adunanza camerale non è qualitativamente meno approfondita e articolata di quella che segue l´udienza pubblica, le uniche differenze dipendendo dalla diversità dei ricorsi e delle problematiche giuridiche che devono essere affrontate per la decisione; di fatto ciascun ricorso viene esaminato e discusso con le stesse modalità adottate per la trattazione a seguito di udienza pubblica. Del resto la lettura delle ordinanze dimostra con assoluta evidenza il livello di approfondimento posto a base delle decisioni.
Sotto altro profilo è stato del resto più volte chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad esempio, Cass. n. 8869 del 2017) che il procedimento per la decisione in camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice, disciplinato dall´art. 380 bis.1 cod. proc. civ. è pienamente rispettoso sia del diritto di difesa delle parti, le quali, tempestivamente avvisate entro un termine adeguato del giorno fissato per l’adunanza, possono esporre compiutamente i propri assunti, sia del principio del contraddittorio, anche nei confronti del P.G., sulle cui conclusioni è sempre consentito svolgere osservazioni scritte.
Le cifre sopra indicate dimostrano inoltre che trova piena applicazione il principio secondo cui ogniqualvolta, nel corso dell’adunanza camerale, emerga il carattere di “particolare rilevanza” ai sensi dell´art. 375 cod. proc. civ. della questione sottoposta al collegio, la causa viene rinviata in pubblica udienza. Deve ricordarsi in proposito che, come affermato, da ultimo, da Cass. n. 19115 del 2017 e Cass. n. 5533 del 2017, ciò non è impedito dalla circostanza per cui il ricorso sia stato avviato alla trattazione in camera di consiglio, potendosi fare applicazione analogica dell'art. 380-bis, comma terzo, cod. proc. civ. e, comunque, non essendo il Collegio vincolato dalla valutazione sulla rilevanza della questione operata dal Presidente della sezione. La trattazione in pubblica udienza, oltre che disposta di ufficio, può essere richiesta inoltre anche dalle parti con le memorie previste dal citato art. 380 bis.1 o dal pubblico ministero in sede di conclusioni scritte ai sensi della norma da ultimo citata.
Un’ultima considerazione si impone.
L’ampliamento delle possibilità di gestione del contenzioso, già previsto dalle Tabelle e certamente potenziato dalla riforma del 2016, consente di operare ed attuare scelte suggerite dal diverso rilievo, oltre che nomofilattico, anche sociale delle tipologie del contenzioso.
Così, sotto un primo profilo, si è realizzato un canale di comunicazione con la corrispondente sottosezione della Sesta sezione civile chiamata a trasmettere in sezione immediatamente, segnalando l’opportunità di una sollecita decisione, tutti quei ricorsi che presentino interesse nomofilattico e la cui soluzione possa avere un interesse deflattivo anche per i giudici di merito.
Sotto altro profilo ha consentito di affrontare con priorità alcune materie di specifico impatto sociale. Ad esempio, in materia di licenziamento non solo sono state affrontate alcune importanti questioni attinenti all’interpretazione della legge Fornero (legge 28 giugno 2012, n. 92), fissando alcuni importanti principi di diritto, in particolare in tema di processo e soprattutto in materia di conseguenze derivanti dall’illegittimità del recesso, ma sono stati sostanzialmente eliminati tutti i ricorsi iscritti a ruolo negli anni 2015, 2016 e 2017. Ciò ci consente, in questi primi mesi del 2019, di decidere ricorsi in tema di licenziamento iscritti a ruolo nel corso dell’anno appena trascorso nel rispetto dei vincoli temporali imposti dalla legge Fornero, ma avendo previamente eliminato pressoché tutti i licenziamenti intimati prima dell´entrata in vigore della suddetta legge.
[1] Relazione riveduta e aggiornata tenuta all’incontro di studio del 30 ottobre 2018 dal titolo “Il nuovo rito civile e i riflessi sull’organizzazione degli uffici della Corte e della Procura Generale” organizzato dalla Formazione decentrata presso la Corte di cassazione.
[2] PUNZI, La nuova stagione della Corte di cassazione e il tramonto della pubblica udienza, Riv. Dir. Proc., 2017, 4 ss.
[3] COSTANTINO, Note sulle misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, Foro it., 2017, V, 9.
[4] LOMBARDO, La nomofilachia nel giudizio di cassazione riformato, Giust. Civ., 2017, 1, pagg. 1 ss.
[5] Il numero complessivo dei ricorsi depositati nell’anno 2016 nell’intero settore civile ammontava a 29.693; nel 2017 il numero è salito a 30298; nel 2018 sono stati depositati complessivamente 36.881 ricorsi (dati ricavati dal Sistema informativo della Corte di cassazione - SIC).
[6] Le pendenze relative al settore civile, che, al 31 dicembre 2016 ammontavano a 106.885, sono arrivate alla cifra record di 111.275 al 31 dicembre 2018, nonostante il costante progresso, in termini numerici, del numero dei processi esauriti con provvedimento definitivo (nel 2016: 27.382; nel 2017: 30.255; nel 2018: 32.477; dati tratti dal SIC).
GREEN BOOK
Una recensione di Dino Petralia
L’alternanza degli opposti allerta l’attenzione e la converte nella sintesi della sfida.
Questo lo slogan che intesta il verde libro di un Farrelly al cospetto di una storia (vera) di poco e molto, di brutalità e delicatezza, di bianco e nero.
Tony Lip e Don Shirley, crudo buttafuori il primo, raffinato pianista di colore il secondo, per l’imponderabile della vita s’imbattono l’un l’altro in un limbo metropolitano di esigenze antitetiche ma convergenti: Tony, a corto di soldi e senza più lavoro, accetta malvolentieri il ruolo di autista tuttofare per il facoltoso musicista; questi, attratto dalla sfida per l’ideale libertario dei neri d’America, spinge il suo tour fino agli Stati meridionali intrisi di pregiudizio razziale e di rischi personali. La rudezza risolutrice di Lip soddisfa il bisogno di sicurezza del pianista; l’affidabile munificenza di Shirley risolve l’ansia di sopravvivenza familiare del neo autista. Inizia così, agli albori degli anni sessanta, un percorso al maschile di un “Thelma e Luise” trasfigurato nei volti e negli eventi ma allineato nell’analogo compito di liberazione esistenziale.
Un compito che illumina il tramite rendendolo gradevole e condivisibile agli occhi dello spettatore.
Un compito che, nel contrappunto di storie e stili umani dei due dialoganti, sfuma a sfondo nobile ma non per questo meno evidente, incorniciando il viaggio in un’armonia di ambiguità e contrasti destinati a risolversi nell’unisono umano di un pranzo di Natale dal sapore, però, un pò troppo favolistico e sdolcinato.
Ma l’uguaglianza tra bianco e nero inizia a consumarsi già prima dentro il percorso, con l’effetto di una comune catarsi dagli scrupoli dell’anima e del corpo, un’emenda dalle proiezioni pulsanti di un preconcetto razziale e culturale abilmente dipinto con la delicata ruvidità di Lip e l’insolente eleganza di Shirley.
Il tocco pittorico dei due profili li fa essere già predisposti all’armistizio sociale.
A ben vedere, infatti, Tony non avverte un razzismo culturale limitandosi a replicare l’uso di termini e simboli beceri (eloquente il cogliere con due dita i bicchieri di due operai di colore giunti a casa sua per delle riparazioni, gettandoli nell’immondizia); dalla sua il pianista di colore, intriso di manierismo borghese, disilluso sulla potenza di una tolleranza vincente che non riesce a superare, si affida al buttafuori per esaudire la sua sfida.
Gli opposti di colore, cultura, gusto e contegno tendono così ad una sintesi liberatoria che nelle sequenze filmiche transita per un continuo e grazioso interscambio tra autista e passeggero: il primo impone con successo al secondo un inedito (per lui) pollo fritto mangiato con le mani e lo converte al popolare sound di Little Richard fino a convincerlo a suonare un improbabile pianoforte in un localino di periferia, suscitando vibrazioni corali di assenso; il colto Shirley, a sua volta, addestra Tony a sottrarsi alla banalità dei suoi scritti alla moglie, introducendolo ad uno stile più vero del cuore, ma soprattutto emancipandolo dal solo rozzo linguaggio del corpo e avviandolo ad una lenta cosmesi di un’anima che c’è, primitiva e inabissata dal bisogno e tuttavia dolcemente levigata di un’umanità vincente.
Consumata così la conversione tra reciproche censure e contrattuali difese in una tenera e solidale comunanza umana tra Tony e Shirley, il progetto etico si compie accarezzando con la storica voce di Robert Plant un’ideale fusione cromatica del bianco e del nero, e pure dei verdi del book e delle luccicanti Cadillac, nelle mille tinte incolori dell’anima.
DIMINUISCE IL RISARCIMENTO PER GLI INVALIDI SUL LAVORO
(una storia già vista) di Roberto Riverso
La riforma del TU 1124/65 in materia di danni differenziali per i lavoratori e di azione di regresso dell’INAIL si pone nel solco della riduzione dei diritti del lavoratore e dell’ampliamento delle prerogative delle imprese, secondo un modello che è ormai dominante nelle scelte di politica del lavoro degli ultimi trent’anni; tra la tutela del diritto alla salute e all’assistenza adeguata dei lavoratori invalidi e gli interessi imprenditoriali ad una riduzione del costo del lavoro, la legge di bilancio 2019 opta per garantire i secondi (ed in maniera indiscriminata). Ancora una volta.
Sommario: 1. Premessa. - 2. Danni differenziali - 3. Comparazione delle poste - 4. Danni complementari 5. Da quando si applicala nuova normativa. 6. Conclusione
1.Premessa
La legge di bilancio n. 145 del 2018 è intervenuta novellando il testo degli artt. 10 e 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965 in materia di danno differenziale e di azione di regresso dell’INAIL, nonché il testo dell’art. 142 del codice delle assicurazioni in tema di azione di surroga dell’INAIL nei confronti dell’impresa di assicurazione.
Lo scopo e l’oggetto dell’intervento è stato quello di rapportare il raffronto tra l’entità dell’importo del danno differenziale spettante al lavoratore e quello dell’azione di regresso e surroga spettanti all’INAIL ad un calcolo per voci complessive ovvero per sommatoria, rispetto al sistema di calcolo precedentemente in vigore che, secondo l’interpretazione della giurisprudenza prevalente, andava operato invece per voci distinte (Cass. n. 1322 del 2015; n. 17407 del 2016; n. 3296 e n. 21961 del 2018)
L’operazione di novellazione è avvenuta attraverso la ripetuta interposizione all’interno dei testi di legge dell’avverbio “complessivamente” (e dell’aggettivo “complessivo”) sia con riferimento al risarcimento dovuto al lavoratore che per la rendita da rapportare ai fini del calcolo; sia per l’azione di regresso che per quella surroga.
Non c’è dunque alcun dubbio su quale sia la portata e l’esito dell’intervento riformatore.
Il legislatore ha voluto ricondurre le operazioni di risarcimento del danno del lavoratore e di recupero dell’indennizzo da parte dell’INAIL (anche nei confronti del terzo responsabile e del suo istituto assicuratore grazie al contemporaneo intervento di novellazione sull‘art. 142 del codice delle assicurazioni) ad una logica puramente matematica, determinata entro il tetto civilistico: posto che, appunto, secondo la regola base risultante dal testo del comma sesto dell’art 10 che è oggi in vigore “ Non si fa luogo al risarcimento qualora il giudice riconosca che questo complessivamente calcolato per i pregiudizi oggetto di indennizzo non ascende a somma maggiore delle indennità che a qualsiasi titolo ed indistintamente, per effetto del presente decreto è liquidata all’infortunato o i suoi aventi diritto.”
Occorrerà chiedersi anzitutto quale sia la cifra politica di tale sorprendente riforma e se essa presenti aspetti di illegittimità costituzionale; soprattutto perché diminuisce certamente la tutela riparatoria del lavoratore il quale all’interno di un sistema composito di tutele, siccome ricostruito dalla giurisprudenza fin qui in vigore, poteva puntare ad ottenere una riparazione diversificata e più vantaggiosa in caso di infortunio o malattia professionale in quanto rapportata ad un computo dei danni per voci distinte.
2. Danni differenziali
Va rimarcato però che tutto ciò vale ancora solo ed esclusivamente per le voci di danno strettamente “differenziali”, posto che lo stesso intervento di riforma delimita il diffalco - appunto in senso complessivo - ai soli “pregiudizi oggetto di indennizzo” e quindi soltanto ai pregiudizi ricompresi nell’ambito della tutela riservata dal testo unico al lavoratore infortunato o affetto da malattia professionale.
Occorrerà dunque vigilare, ben più di prima, che non si determini alcuna confusione tra danno differenziale e danno complementare e si mantenga invece una netta distinzione tra voci di danno che molti invece ancora non distinguono, né in dottrina né in giurisprudenza; non fosse altro per il rispetto dei principi stabiliti dalla Corte cost., col doppio intervento del 1991, di cui alle sentenze n. 356 in tema di surroga e n. 485 in tema di regresso, con le quali in riferimento a danno differenziale e regresso, si è definitivamente chiarito che l’esonero datoriale e dunque il principio del danno differenziale operano solo e soltanto all’interno e nell’ambito dell’oggetto dell’assicurazione così come delimitata nell’ambito dei suoi presupposti oggettivi e soggettivi, con l’effetto che, non operando l’esonero, il danno, pur trovando origine dalla prestazione di lavoro, è disciplinato dal codice civile, senza i limiti posti dall’art. 10 (“mancando l’assicurazione, cade l’esonero”).
L’esonero riguarda perciò oggi soltanto il danno patrimoniale per invalidità temporanea, il biologico permanente dal 6%, il patrimoniale dal 16%, la rendita ai superstiti. Per converso esso non riguarda il danno che esula ab origine dalla copertura assicurativa INAIL (c.d. danno complementare, definito pure differenziale qualitativo) come il biologico temporaneo, il biologico in franchigia (fino al 5%,) il patrimoniale in franchigia (fino al 15%), il morale ed i pregiudizi esistenziali, il danno tanatologico o terminale o catastrofale; né il danno alla perdita parentale ( e quindi il danno da morte iure proprio e iure successionis), la personalizzazione (o ricadute soggettive del danno biologico); per ottenere i quali il lavoratore o suoi eredi possono agire nei confronti del datore secondo il diritto civile, azionando anche una domanda per responsabilità contrattuale (oltre che extracontrattuale), avvalendosi quindi se del caso dell’inversione dell’onere della prova della colpa, nella logica oramai assodata della responsabilità contrattuale ex artt. 2087 e 1218 c.c., senza neppure poter essere assoggettati ad alcun diffalco da parte dell’INAIL.
3. Comparazione delle poste.
Sapere quali pregiudizi mirano ad indennizzare le prestazioni INAIL è divenuto quindi di fondamentale importanza ai fini del problema della comparazione degli importi nei casi in cui al lavoratore venga liquidata dall’INAIL la rendita.
Nella liquidazione dei danni accertati come prodotti in conseguenza di un infortunio o malattia professionali con ricadute sulla capacità lavorativa del soggetto, occorre appunto detrarre l’indennizzo che il lavoratore ha ottenuto o avrebbe dovuto ottenere dall’INAIL e non dal datore per la stessa lesione. Come è noto l’INAIL indennizza oltre al danno biologico anche il danno alla capacità lavorativa generica in caso di invalidità permanente superiore al 15% attraverso una quota di rendita che si aggiunge a quella dovuta per danno biologico.
Il problema che si pone, in questi casi di rendita INAIL con duplice liquidazione (biologico patrimoniale) è come effettuare il calcolo del differenziale; andrà fatto su poste separate ed omogenee o va tenuto conto del complessivo importo erogato dall’INAIL? Il lavoratore deve pretendere come danno differenziale solo l’eventuale residuo rispetto all’importo complessivo delle erogazioni o può agire sulle singole poste? Si tratta di una questione che ha riflessi anche sull’oggetto della rivalsa INAIL la quale non può che operare entro i limiti complessivi del danno civilistico sulle stesse voci di danno oggetto di copertura e non potrà riguardare il danno complementare.
E’ chiaro che se il datore è tenuto ad indennizzare all’ INAIL il danno voce per voce, l’Istituto - a differenza del lavoratore - potrebbe essere pregiudicato rispetto al diverso ammontare delle prestazioni singolarmente erogate; operando la scomposizione delle singole voci indennizzate dall’INAIL in definitiva aumenta l’importo del danno differenziale riconosciuto al danneggiato e, conseguentemente, diminuisce l’importo riconosciuto all’INAIL in accoglimento della domanda di rivalsa (o di surroga).
Tutto questo dipende dal fatto che esistono differenze profonde tra sistema indennitario e sistema civilistico che conducono in base all’applicazione delle regole in vigore a risultati discordanti: il limite del danno civilistico vale rispetto al datore di lavoro; nei confronti dell’INAIL vale la liquidazione dell’indennizzo operata in conformità del T.U.; e se il lavoratore percepisce per le diverse poste ( patrimoniale e biologico ) quanto gli è dovuto in base al sistema civilistico ed assicurativo, non si può dire che abbia locupletato alcunché.
Vero è che aumentando il differenziale per il lavoratore sulle diverse poste, si restringeva l’oggetto delle rivalsa per l’INAIL; ma anche questo va visto come un risultato conforme al sistema dovendo l’INAIL sopportare il maggior costo dell’importo civilistico rispetto alla singola posta di danno piuttosto che il lavoratore percepire un indennizzo inferiore a quanto previsto dal sistema di protezione sociale.
D’altra parte l’INAIL non potrà mai intaccare il diritto del lavoratore di percepire l’integrale risarcimento del danno posta per posta, non essendo ammissibile, soprattutto in un sistema bipolare del danno, alcuna fungibilità tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale. Non si dovrebbe perciò confondere il danno patrimoniale con quello non patrimoniale.
In altri termini, tanto la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. (che consente il completo ristoro del danno, necessariamente personalizzato conseguente alla lesione del bene salute), quanto la ricostruita netta bipolarità del sistema del danno alla persona (che impone la reductio ad unum del danno non patrimoniale, ma impedisce ogni fungibilità tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale), escludono che il diritto del lavoratore all’integrale risarcimento del danno non patrimoniale (differenziale) possa essere in qualche modo compresso dalle ragioni creditorie dell’ente assicuratore relative al costo sopportato per le conseguenze patrimoniali del sinistro.
Da ultimo la giurisprudenza si era assestata proprio su queste tesi, ( ex multis, Cass. civ., sez. III, 26.6.2015, n. 13222; n. 22862 del 09/11/2016) riconoscendo che il calcolo del c.d. danno differenziale deve avvenire sottraendo dal credito risarcitorio l'importo dell'indennizzo versato alla vittima dall'INAIL quando l'uno e l'altro abbiano ad oggetto il ristoro del medesimo pregiudizio.
4. Danni complementari.
Se dunque dopo questa riforma sarà possibile detrarre dal complessivo risarcimento civilistico spettante al lavoratore a titolo di danno biologico (permanente) e di danno patrimoniale quanto erogato dall’INAIL nell’ambito dell’assicurazione per le stesse voci di danno, e se per converso l’INAIL potrà aggredire in via di rivalsa e di regresso il complesso delle somme dovute al lavoratore per gli stessi titoli di danno biologico (permanente) e di danno patrimoniale, non sarà certamente possibile che il danno del lavoratore spettante a titolo di danno complementare possa subire decurtazione di sorta.
Il raffronto dei calcoli deve essere circolare e la circolarità deve tendere a garantire (almeno) l’integralità del risarcimento civilistico, secondo i noti principi affermati dalla Corte costituzionale nelle sentenze prima citate.
E’ vero però che il lavoratore non potrà più cumulare quanto gli spetta a titolo di danno biologico civilistico con “il di più” ricevuto dall’INAIL per danno patrimoniale da invalidità permanente (che riguardando un danno presunto non ha corrispondenza nella liquidazione civilistica), perché secondo la nuova norma essendo entrambi i “pregiudizi oggetto di indennizzo” il differenziale va delimitato per sommatoria dei due danni che vanno sottratti dal computo “complessivamente”.
La distinzione tra danno differenziale e complementare, sia ai fini del risarcimento del danno che delle azioni di regresso e di surroga INAIL è già acquisita alla giurisprudenza di legittimità; ad es., per stare alla giurisprudenza più recente, Cass. n. 9166 del 10 aprile 2017, non solo distingue il danno differenziale da risarcire in presenza degli “estremi di un reato perseguibile di ufficio” dal danno complementare da risarcire secondo le comuni regole della responsabilità civile, ma chiarisce bene che soltanto dall’ammontare del primo occorre “detrarre quanto indennizzabile dall'Inail” in base ai parametri legali ed in relazione alle medesime componenti del danno, distinguendo, altresì, tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale.
Tale ovvia affermazione risulta ribadita anche nella giurisprudenza successiva ed è affermata dalla sentenza n. 4972 del 2 marzo 2018 e dall’ordinanza n. 20392 del 1° agosto 2018 le quali evidenziano come l'indennizzo erogato dall' INAIL ai sensi dell'art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000 non copre il danno biologico da inabilità temporanea, atteso che sulla base di tale norma, in combinato disposto con l'art. 66, comma 1, n. 2, del d.P.R. n. 1124 del 1965, il danno biologico risarcibile è solo quello relativo all'inabilità permanente e che pertanto non si può porre in relazione alla stessa voce di danno alcun problema di danno differenziale né alcuna aggressione da parte dell’Inail in sede di rivalsa; così come alcun problema di raffronto o calcolo per poste o per sommatoria.
Ed il discorso fatto per il danno biologico temporaneo vale ovviamente per la c.d. personalizzazione, per il danno morale, per il danno esistenziale e , in caso di morte del lavoratore, per il danno terminale e per quello parentale, oltre che per qualsiasi altro danno correlato alla persona del lavoratore diverso da quello indennizzato dall’INAIL.
5. Da quando si applica la nuova normativa.
Occorre chiarire infine la questione dell’applicazione delle nuove regole sotto il profilo temporale.
La nuova legge si occupa di regolare il diritto al risarcimento del danno differenziale spettante al lavoratore assicurato in base al T.U. n. 1124 del 1965 ed il diritto dell’INAIL che agisca in regresso o con azione di rivalsa per il recupero delle somme erogate al lavoratore o agli eredi.
La regola introdotta per entrambi i diritti rapporta le stesse pretese a criteri di calcolo omogenei e circolari; essi devono perciò essere soggetti ad una medesima normativa e non possono conoscere alcuna sfasatura regolamentare sotto il profilo temporale, attesa la circolarità delle regole che vengono in applicazione (quello che è dell’INAIL non è del lavoratore e viceversa).
In materia di regolazione della legge nel tempo, com’è noto, l’art. 11 delle preleggi stabilisce il principio secondo cui la legge provvede per l’avvenire e non ha effetto retroattivo, salvo diversa previsione. In mancanza all’interno della medesima legge in questione di una previsione di natura retroattiva, rimane quindi il principio generale da cui discende che, secondo quanto avviene normalmente, la nuova normativa si applichi soltanto ai diritti del lavoratore ed ai diritti dell’INAIL maturati successivamente alla sua entrata in vigore; essa non può regolare quindi i diritti sorti (ed i relativi fatti generatori posti in essere) prima della sua entrata in vigore.
Come detto, le nuove norme costituiscono disposizioni di natura sostanziale che riguardano il risarcimento del danno e l’oggetto del regresso e della surroga esercitabili dall’INAIL; esse delimitano l’oggetto ed il quantum dei diritti in discorso nei due ambiti, ovvero la comparazione delle poste che è questione differente dai criteri di valutazione delle poste che i giudici devono applicare al momento della liquidazione e sul cui contenuto le modifiche in discorso non incidono punto. Se il totale delle poste di danno ammontava nei due ambiti a 100 prima della riforma continua ad ammontare a 100 dopo la riforma.
Non attenendo al potere valutativo o equitativo del giudice in materia di determinazione dei danni, non si possono applicare ad esse i principi stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità (ad es. da Cass. n. 7272 del 2012 e n. 25485 del 2016), secondo cui se i criteri di valutazione del danno ovvero le "tabelle" applicate per la liquidazione del danno non patrimoniale cambino nelle more tra l'introduzione del giudizio e la sua decisione, il giudice ha l'obbligo di utilizzare i parametri vigenti al momento della decisione ( atteso che, in questi casi, la liquidazione effettuata sulla base di tabelle non più attuali si risolve in una non corretta applicazione del criterio equitativo previsto dall’art. 1226 c.c.).
Né può rilevare in alcun modo il rilievo secondo cui la legge in questione non si occupi del fatto costitutivo (l’infortunio e la malattia) ma solo del risarcimento del danno delimitandone l’entità; poiché il risarcimento (ma anche l’azione di recupero dell’INAIL) è l’effetto del “fatto generatore” (l’infortunio , la malattia) che viene prima. Ed una legge che pretendesse di regolare gli effetti ancora in corso di un fatto verificatosi sotto l’imperio di una legge precedente non sarebbe meno retroattiva di una che intendesse regolare diversamente un fatto già esaurito. L’applicazione del criterio di comparazione delle poste attualmente in vigore agli infortuni verificatesi prima verrebbe a modificare gli effetti ovvero l’entità del risarcimento del danno spettante per un fatto del passato, finendo per disconoscere gli effetti di un fatto che si sono pure essi verificati (in tutto o in parte) nel passato, senza neppure costituire una situazione che possa essere presa in considerazione in sé stessa prescindendo dal collegamento con il fatto che l’ha generato.
Nella vicenda normativa che si esamina il diritto al risarcimento del danno differenziale nasce al momento dell’infortunio sul lavoro o della malattia professionale verificatesi appunto nel passato; si tratta di un effetto in corso di un fatto generatosi nel passato.
Del resto, l’applicazione di una nuova regola destinata ad applicarsi a cause in corso deve essere sempre interpretata con estremo rigore dal momento che rischia di essere in qualche misura compromesso lo stesso diritto di agire e difendersi in giudizio, che presuppone la possibilità per la parte di operare una ragionevole previsione sull’esito della sua iniziativa giudiziaria, fondata sull’aspettativa che quell’esito dipenderà dall’applicazione delle regole di diritto esistenti e conosciute nel momento in cui l’iniziativa giudiziaria è stata assunta.
Una lettura diversa da quella proposta potrebbe quindi esporre a rischi di incostituzionalità la normativa sotto il profilo della irragionevolezza e della violazione del principio del giusto processo; ed inoltre a rilievi da parte della Corte di Strasburgo assai severa nei confronti delle norme retroattive ( in base all’art. 6 CEDU, che sancisce il diritto ad un equo processo e, quale suo corollario, il principio di parità delle armi).
Non si tratta poi di disposizioni che abbiano natura meramente interpretativa posto che nella normativa emanata non vi è alcuna espressione diretta ad affermare che l’oggetto della intervento legislativo sia stato il chiarimento di una disposizione precedentemente in vigore. Ciò è testimoniato anche dalla tecnica normativa adoperata dal legislatore con l’interpolazione all’interno delle vecchia normativa di nuove espressioni sintattiche, attraverso uno strumento, quindi, dichiaratamente modificativo e non ricognitivo di una supposta regola precedentemente in vigore.
Le nuove regole troveranno pertanto applicazione unicamente ai fatti che hanno determinato un danno risarcibile e che risultano commessi dopo l’entrata in vigore della normativa, per il principio generale di irretroattività della legge di cui all’art. 11 preleggi c.c..
Per di più va considerato che la riforma in discorso altro non è che uno strumento attuativo della manovra finanziaria stabilita nella legge ed è stata dettata esclusivamente dalla necessità di garantire l'equilibrio economico-finanziario dell’INAIL in conseguenza della diminuzione degli oneri dovuti all’Istituto da parte delle imprese. La stessa legge (art. 1, comma 1126), infatti, espressamente prevede che le modifiche fin qui viste valgano con decorrenza dal 1° gennaio 2019 in relazione alla revisione delle tariffe. Pertanto anche da questo punto di vista, in mancanza di qualsiasi revisione delle tariffe per il passato, applicare i nuovi criteri anche per il periodo precedente al 1° gennaio 2019 costituisca una chiara violazione delle stessa legge.
6. Conclusione.
La nuova normativa diminuisce l’entità complessiva della riparazione monetaria che il lavoratore può ricevere a seguito di un infortunio o di una malattia professionale rispetto ai sistemi indennitario e civilistico precedentemente in vigore. Rimane ferma l’integralità del credito determinato in base al tetto civilistico rispetto al quale il lavoratore non può subire la decurtazione neppure di un centesimo. Così come rimane fermo l’indennizzo ricevuto dall’INAIL ove per ipotesi di importo superiore a quello maturato e determinato con criteri civilistici.
La tesi secondo cui anche il risarcimento civilistico dei danni del lavoratore (diversi da quelli indennizzati dall’INAIL) sarebbe stato intaccato dalla riforma non solo non risponde al tenore letterale della normativa, ma conduce la stessa normativa ad una aperta violazione della Costituzione, per cui, quand’anche avesse un qualche fondamento esegetico, sarebbe comunque da respingere in virtù del fondamentale criterio per cui, se fra più significati normativi possibili uno solo è conforme ai principi costituzionali, è a questo che l’interprete deve sempre dare preferenza.
Contenuti gli effetti della riforma nell’ambito del danno differenziale, come impone sia il dato letterale che una interpretazione costituzionalmente orientata della novella, l’oggetto della valutazione critica va spostato dall’ambito costituzionale al piano della politica del diritto e della discrezionalità legislativa. Ebbene, vista da questa diversa angolazione, la valutazione del cambiamento apportato dall’intervento legislativo in oggetto non può che suscitare forti critiche; non soltanto per il risultato oggettivamente realizzato con la riduzione del quantum spettante al lavoratore invalido sul lavoro, ma anche, e soprattutto, se si pensa che tale risultato è stato perseguito all’interno di una manovra finanziaria volta alla riduzione dei costi per le imprese e di pareggio di bilancio per l’INAIL siccome prevista dall’art.1. 1, comma 1126, della l. n. 145 del 2018 per i prossimi tre anni con la revisione delle tariffe, dei premi e contributi per l’assicurazione INAIL comportanti minori entrate (per circa un miliardo e 500 milioni di euro). Per far fronte a tali minori entrate la legge dispone, poi, la riduzione per ciascuno dei tre anni (2019, 2020 e 2021) delle risorse strutturali destinate dall'INAIL per il finanziamento dei progetti di investimento e formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro, delle risorse destinate allo sconto per prevenzione, ed, infine, appunto, da una parte la diminuzione del risarcimento per i lavoratori e dall’altro l’aumento delle somme aggredibili dall’INAIL in sede di regresso e di surroga.
In questa partita di giro, quindi, quello sottratto dall’INAIL ai lavoratori, in termini di riparazione indennitaria e di maggiore spesa per la loro sicurezza, corrisponde a quanto viene risparmiato dai datori di lavoro che si pongono all’origine del danno di cui si è inteso ridurre il risarcimento.
La riforma si pone nel solco della riduzione dei diritti del lavoratore e dell’ampliamento delle prerogative delle imprese, secondo un modello che è ormai dominante nelle scelte di politica del lavoro degli ultimi trent’anni; tra la tutela del diritto alla salute e all’assistenza adeguata in caso infortunio o malattia professionale dei lavoratori e gli interessi imprenditoriali ad una riduzione del costo del lavoro, la legge di bilancio 2019 opta per garantire i secondi (ed in maniera indiscriminata). Ancora un volta.
Ulteriore approfondimento delle osservazioni sullo stato della fase dibattimentale di primo grado dei Tribunali Ordinari* di Massimo Terzi
* Sequel dell’articolo “Osservazioni sullo stato della fase dibattimentale di primo grado dei Tribunali Ordinari” pubblicato su questa rivista in data 13.2.2019.
Sommario: 1. Analisi ponderale dei flussi dibattimentali; 2. Incidenza della valutazione ponderale sull’analisi dello stato del dibattimento penale dei Tribunali; 3. Valutazioni conseguenti all’analisi ponderale; 4. Abolizione del giudice collegiale; effetti statistici; 5. Conclusione.
1. Analisi ponderale dei flussi dibattimentali
La risoluzione della problematica endemica della durata del processo penale nel primo grado di giudizio necessita di alcuni approfondimenti specifici in ordine alla utilizzazione delle risorse (in primis Magistrati): necessita cioè non solo di una mera analisi numerica, ma anche di un’analisi ponderale dei numeri che consenta di meglio verificare la incidenza sull’assorbimento delle risorse delle tipologie dei procedimenti che pervengono sul settore dibattimentale.
Il peculiare, anzi unico, assetto organizzativo del Tribunale di Torino, che rappresenta comunque un cluster significativo, fornisce in via immediata ed intuitiva il dato più rilevante a questi fini.
Sul Tribunale di Torino, infatti, al fine di razionalizzare e gestire correttamente i criteri di priorità, al contrario di tutti gli altri Tribunale è differenziata la organizzazione in termini di Sezioni dibattimentali tra procedimenti a citazione diretta e procedimenti provenienti da udienza preliminare.
Per gestire questi ultimi in modo “accettabile” è prevista la destinazione esclusiva di n.27 Magistrati togati a fronte di n.10 destinati in via esclusiva alla citazione diretta. In buona sostanza il rapporto ponderale di risorse dedicate è 65% per i procedimenti da udienza preliminare rispetto a 35% sulle citazioni dirette.
Com’ è noto dall’udienza preliminare pervengono, oltre a tutti i procedimenti collegiali anche procedimenti monocratici. Da un punto di vista meramente numerico il rapporto medio di sopravvenienze è del 20% circa di collegiali e dell’80% di monocratici. Nonostante tale sbilanciamento, con percentuale grandemente maggioritaria dei monocratici da preliminare rispetto ai collegiali, l’analisi dell’impegno delle risorse, in questi due anni di peculiare assetto del settore dibattimentale del Tribunale di Torino, evidenzia in modo chiaro risultati significativi di cui è indispensabile tenere conto.
In buona sostanza il 20% rappresentato dai procedimenti collegiali ha comportato l’assorbimento di oltre 2/3 delle risorse dedicate ai procedimenti provenienti da udienza preliminare pari pertanto a 18/19 Magistrati full equivalent time.
Da ciò discende in modo inequivocabile che dei complessivi 37 Magistrati dedicati al settore dibattimentale sul Tribunale di Torino (27+10) esattamente la metà 18,5 in termini di Magistrati full equivalent time sono necessari per la celebrazione dei soli processi collegiali.
2. Incidenza della valutazione ponderale sull’analisi dello stato del dibattimento penale dei Tribunali
Il dato sopra enucleato conferma la drammaticità della situazione a livello nazionale. I numeri delle pendenze richiamati nel precedente elaborato – si rammenta tratti dal sito internet del Ministero di Giustizia- sono di pendenze al 30 giugno 2018 di n.592.902 monocratici e n. 27.749 collegiali.
Per i monocratici, proiettando i dati torinesi, possiamo destinare al più il 50% delle forze lavoro nazionale e cioè circa 750 Magistrati togati (50% dei totali circa 1500 destinati sul territorio nazionale). Anche a volerne considerare n.1000 full equivalent time con l’ausilio della Magistratura onoraria, sulla base di uno standard di produttività di n.1 sentenza a giorno lavorativo, per azzerare le pendenze ci vorrebbero tre anni. Specularmente ciò vuol dire che, se li trattassimo tutti in mero ordine cronologico, la data di fissazione per le sopravvenienze sarebbe a quattro anni cioè già oltre il termine legale di ragionevole durata del processo e mediamente almeno a cinque anni dalla commissione dell’ipotetico reato.
Per i collegiali che, evidentemente sono i reati più gravi, nonostante le apparenze numeriche, la situazione è sostanzialmente omogenea. I 750 Magistrati full time che ci residuano da destinare al collegiale equivalgono a 250 collegi/Giudici. Anche a voler ipotizzare uno standard elevatissimo di 1 sentenza collegiale a settimana lavorativa ci vorrebbero sempre almeno tre anni per smaltire all’arretrato.
3. Valutazioni conseguenti all’analisi ponderale
Quanto sopra rappresentato evidenzia chiaramente che, al di là dei dati assoluti numerici, in termini di assorbimento di risorse del Tribunale e conseguenzialmente di complessiva durata del processo, l’oculato esercizio dell’azione penale e la completezza delle indagini sui processi collegiali, sui quali ovunque vi è una diretta e personale incidenza dei PM titolari delle indagini, può consentire enormi risparmi di sistema in quanto incide in misura paritaria sulle risorse del Tribunale.
Pertanto il tema da me sviluppato nelle osservazioni non può e non deve limitarsi ad una analisi della citazione diretta, ma deve assolutamente essere ben focalizzato anche sulla tipologia dei processi più gravi ove di norma l’Accusa ha elementi incontrovertibili su taluni imputati ed imputazioni, ma con pari frequenza elementi più labili su talune imputazioni e o taluni imputati la cui presenza in sede dibattimentale e quindi nel thema decidendum ha comunque evidenti gravi ripercussioni sulla durata del dibattimento.
4. Abolizione del giudice collegiale; effetti statistici
In sede di analisi si deve avere la oggettività di verificare tutte le ipotesi di riforme organizzative che incidano sulla efficienza del sistema.
Sulla base di quanto sopra rappresentato è evidente che, ove i reati ad oggi di competenza collegiale al dibattimento sui Tribunali Ordinari fossero stati monocratici, per tutte le ipotesi di reato più gravi previste dal nostro ordinamento (escluse quelli di competenza della Corte di Assise) i tempi di smaltimento oggi computati sarebbero stati ipso facto ridotti di 2/3 passando ad 1 anno anziché i tre anni sopra determinati.
Su queste premesse mi ero fatto promotore di una proposta che trasformasse la composizione del Giudice nei Tribunali in monocratici almeno con riferimento alla rilevante parte di tipologie di reato oggi decise dal Tribunale collegiale che, al di là della gravità, non presentassero peculiari difficoltà da un punto di vista tecnico. La proposta ha suscitato molte obiezioni esclusivamente di natura direi culturale/valoriale essendo ovviamente indiscutibili le argomentazioni “numerico/temporali”.
L’esito del dibattito sviluppatosi con la presentazione delle mie “osservazioni sullo stato del Dibattimento nei Tribunali Ordinari” mi induce a rilanciare questa ipotesi anche in modo più draconiano e proporre che sia abolita tout court la collegialità.
Le obiezioni di natura culturale/valoriale non possono, per natura, essere prese in considerazione in modo autonomo perché implicano sempre una comparazione con i valori concorrenti. Il ragionamento che io propongo è volutamente elementare (così prevengo immediatamente tale tipo di obiezioni); non sempre le complessità aiutano ad assumere decisioni corrette. Da un punto di vista tecnico giuridico è indubbio che la ragionevole durata del processo è un valore costituzionalizzato mentre la collegialità del Giudice di primo grado non lo è . E’ altresì indubbio che, allo stato, pur in mancanza di costituzionalizzazione, nessuno, ed io per primo, mette in discussione il giudizio di Appello che è pronunziato da un Giudice collegiale. E’ altresi indubbio che la dinamica processuale deve essere valutata in un unicum e che solo valutando l’unicum possono valutarsi il complesso delle garanzie per le parti. E’ infine indubbio che in termini di effettività giuridica l’impatto di una sentenza di primo grado è limitato solo a quelli per i quali vi sono imputati sottoposti a misura cautelare.
In concreto i valori da comparare da parte della politica e quindi del legislatore, che comunque non dovrebbe poter tralasciare il dato costituzionale da me rappresentato, può così sintetizzarsi nei termini da me posti: è più importante risolvere illico et immediato il problema della ragionevole durata dei processi più gravi o mantenere la collegialità del primo grado (pur mantenendo la collegialità in sede di appello) ovvero garantire la collegialità in primo grado per questi reati?
Tradotto dal punto di vista delle parti processuali (pubblica e privata);preferiscono avere una aspettativa di esito di primo grado nel giro di un anno o di tre/ quattro anni? che ove , come auspico , si abolisse l’udienza preliminare significherebbe due anni dai fatti contro ,mantenendo l’’udienza preliminare e tutto il sistema, gli attuali cinque, sei, sette?
Ed ancora: funziona meglio un processo a dibattimento orale nei tempi da me indicati o in quelli attuali?
Domanda evidentemente retorica.
5. Conclusione
Ritengo che il Governo in primis ed il legislatore in via definiva nel momento in cui decidano di intervenire, com’è indispensabile, sul processo debbano tenere in considerazione non tanto le mie proposte quanto gli elementi di analisi su cui le ho fondate al fine di determinare comunque scelte che rimuovano quelle che, per usare alla fine un termine politically correct, sono le vere criticità del processo.
TRATTAMENTI SANITARI SU MINORI TRA SCIENZA, ETICA E DIRITTO
- A margine di un recente caso sui Testimoni di Geova - di Marco Dell’Utri
Sommario: 1. Il caso – 2. I termini di una questione bioetica – 3. Responsabilità genitoriale, comunità familiare e pluralismo – 4. Potere e sapere: la comunità scientifica tra autorità e servizio – 5. Il giudice e l’autonomia delle culture.
1. Il caso – A seguito del rifiuto opposto dai genitori testimoni di Geova alla trasfusione di sangue ritenuta indispensabile per la tutela della salute della figlia minorenne, su sollecitazione della locale procura, il Tribunale di Catanzaro ha disposto l’apertura di un procedimento per l’accertamento della condizione di abbandono e del conseguente stato di adottabilità della minore.
In seguito, pur avendo escluso il ricorso di un effettivo stato di abbandono della ragazza, il tribunale ha ritenuto di prescrivere l’esecuzione di un monitoraggio sulla vita della famiglia, affinché fosse sottoposto a sorveglianza il rispetto, da parte dei genitori, di un piano predisposto dall’amministrazione sanitaria per il controllo della salute della minore, oltre all’attuazione di un programma del consultorio familiare per il sostegno alla genitorialità e quello psicologico della ragazza.
Chiamata a pronunciarsi sull’impugnazione dei genitori, la Corte d’appello di Catanzaro ha deciso per l’eliminazione di tutte le indicazioni raccomandate dal tribunale.
Muovendo dall’accertata adeguatezza dei genitori - dei quali era emersa, sul piano istruttorio, l’accurata sollecitudine per il benessere della figlia, la piena capacità di occuparsene con dedizione, oltre alla massima collaborazione prestata all’impegno dei sanitari consultati (salvo sulla questione delle emotrasfusioni) – la corte ha sottolineato come la minore avesse riferito di aver sempre avuto un ottimo rapporto con i genitori e gli altri familiari, precisando di non aver condiviso l’operato dei medici che, a suo dire, “avrebbero potuto aspettare” prima di procedere con le emotrasfusioni.
La corte ha evidenziato come il solo rifiuto delle emotrasfusioni per ragioni religiose non potesse giustificare, di per sé, una continua ingerenza dei servizi sociali nella vita della minore e del suo nucleo familiare, non potendo legittimarsi, in difetto di altri elementi di criticità, l’imposizione di un simile trattamento, di fatto gravemente discriminatorio nei confronti delle famiglie dei testimoni di Geova.
I giudici d’appello hanno quindi richiamato l’orientamento della Corte di cassazione che, seppure in un caso diverso da quello in esame, aveva rilevato come la prescrizione ai genitori di sottoporsi a un percorso psicoterapeutico o di sostegno alla genitorialità fosse concretamente lesiva della libertà personale, costituzionalmente garantita, oltre che in contrasto con il principio che vieta l’imposizione di trattamenti sanitari fuori dai casi previsti dalla legge.
Il discorso della corte d’appello si è poi esteso alla considerazione del principio che impone il rispetto della persona nel contesto complessivo dei valori costituzionali, ivi compreso quello riguardante la libertà di coscienza e la libertà di fede garantito dall’art. 19 Cost., nonché del principio che riconosce ai genitori, sul terreno dell’educazione religiosa, la facoltà di avviare i propri figli alle pratiche e alle credenze del culto che non siano di fatto incompatibili con i doveri inerenti alla responsabilità genitoriale. Un discorso confermato dal riconoscimento del diritto del minore di crescere nella propria famiglia naturale, così come sancito dall’art. 1 della legge n. 184/83, oltre che dall’importanza del legame di sangue e della crescita all’interno della comunità familiare di appartenenza, senza ingerenze esterne, come valori non sacrificabili se non nei casi di carenza di cure materiali e morali gravemente pregiudizievoli per lo sviluppo e l’equilibrio psicofisico del minore.
Infine, attraverso il richiamo ai principali documenti del diritto internazionale rilevanti in tema (come la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge n. 77/2003, l’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e l’art. 8 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo) la corte d’appello ha sottolineato la radicale illegittimità di un monitoraggio giustificato dalla sola circostanza del rifiuto a un trattamento sanitario per motivi religiosi, tale intervento incidendo sugli equilibri e le dinamiche relazionali di un nucleo familiare di fatto mai coinvolto in problematiche di alcun genere, potendo detto monitoraggio, al contrario, rivelarsi in concreto pregiudizievole per la crescita e il benessere psicofisico della minore e dei suoi rapporti con i genitori.
2. I termini di una questione bioetica – I trattamenti sanitari sui minori individuano un punto critico di particolare rilievo tra le questioni etiche in ambito biomedico. L’insistenza sui temi della volontà e sull’autodeterminazione dell’incapace – là dove il discorso indugia e approfondisce la sorte degli incapaci per contingenti motivi di salute – incontra, nella figura del minore, la vicenda e il destino dell’incapace per ‘antonomasia’, se al termine ancora voglia legarsi la scelta, generalizzata e astratta, del legislatore, tradizionalmente incline a dettare in termini assoluti la sottrazione della capacità di agire alle persone che non abbiano raggiunta l’età dei ‘maggiori’.
Con riguardo ai minorenni, la distinzione che suole proporsi, tra incapaci ‘a volontà ricostruibile’ e incapaci ‘a volontà non ricostruibile’, finisce col tradursi nella più sottile ed evanescente dicotomia tra incapaci a volontà considerabile o meno, dove la considerazione della volontà del minore si impone nei termini di un doveroso impegno di rispetto e di ossequio.
Il disegno dell’autonomia del minore consegnatoci da una lunga e antica tradizione si riduce ed esaurisce, nella materia delle scelte sulla salute o sulle terapie da adottare, allo schema della ‘sostituzione’ genitoriale, ossia nella richiesta al genitore (o, in sua mancanza, alla persona che del minore assume le funzioni della tutela) di esprimere in luogo del minore (proprio in ragione della sua presupposta incapacità) la volontà destinata a incontrarsi o a ‘combinarsi’ con le indicazioni del medico.
In tal caso, là dove la decisione genitoriale apparisse al medico in contrasto con le finalità di preservazione dell’integrità fisica (o, più in generale, con l’interesse) del minore, spetterebbe al giudice il compito di sciogliere il dissidio, di regola assumendo l’obiettivo della conservazione della salute di quello (e quindi assecondando la determinazione suggerita dal medico) fino ad arrivare all’adozione di provvedimenti di sospensione, o financo di ablazione della responsabilità genitoriale, nei casi di più ostinata resistenza, con la nomina di un tutore a sua volta chiamato ad esprimere il consenso ai trattamenti segnalati dal medico.
Il lettore vorrà perdonare la semplificazione (o la banalità) di un ragionamento affidato all’esame critico di uno schema; e tuttavia, il richiamo al modello accennato (che l’esperienza concreta delle Corti e il resoconto che ne forniscono le nostre più diffuse riviste di giurisprudenza tendono ad avvalorare) aiuta a sottolineare – accanto alla pregiudiziale sfiducia per le facoltà di autodeterminazione dell’incapace legale (ove già, o ancora, esprimibili) – la sicura preferenza assicurata dalla nostra cultura giuridica tradizionale per l’obiettivo della salvezza dell’integrità e della salute fisica del corpo, in occasione e al cospetto di vicende come quelle legate al conflitto che si insinua e deflagra attorno alle scelte da assumere circa i trattamenti medici da assicurare al minore, e quindi il privilegio accordato alle opzioni offerte dal dibattito scientifico rispetto al rilievo di ogni altra differente considerazione.
Quanto questo modello rispondesse (o ancora risponda) ad un radicato costrutto di indole ideologica, è considerazione che può essere rinviata al successivo discorso; basterà qui intanto rilevare, nell’allontanamento da quello schema, la progressiva acquisizione di un diverso ruolo assunto dalla ‘gestione’ – nei termini dell’uso o dell’impiego - del corpo e della sua stessa integrità sui diversi piani dell’identità e della dignità della persona.
Il discorso che accosta l’esame degli atti di disposizione del corpo ai temi dell’identità o della dignità si avvale di esempi o di esperienze della pratica che trascorrono, dalle più banali esigenze del taglio o del colore dei capelli o dalla lunghezza e la finitura cromatica delle unghie, alle meno futili iniziative legate alle varie forme di piercing o alla pratica dei tatuaggi più o meno estesi ad alcune parti o all’intera superficie del corpo; all’uso stesso della chirurgia, da quella limitata ad interventi di esclusivo rilievo estetico, fino a quella che incontra l’occorrenza di fenomeni che si accostano o si risolvono in autentici atti di autolesionismo come strumento di fedeltà ad un’appartenenza confessionale, di affermazione di un’identità o di un soggettivo sentimento della dignità personale, al punto di rinunciare alla terapia (con l’accettazione della morte) pur di non subire il ridimensionamento del corpo integro.
Può pensarsi, al riguardo, agli esempi delle mutilazioni genitali femminili (poste ad oggetto di una severa disciplina legislativa nel nostro paese) o allo stesso rifiuto delle trasfusioni da parte dei testimoni di Geova; ai casi – che rilevano sul piano del sentimento della dignità o del rispetto di un’identità collettiva – del rifiuto dell’amputazione di una gamba, come estrema forma di salvataggio della vita, o al caso, occorso alcuni anni or sono, dei genitori nigeriani contrari all’asportazione del tumore al bulbo oculare del figlio di pochi anni per il presumibile timore (verosimilmente dettato da ancestrali convinzioni) della maledizione del corpo mutilato.
Pure destano una comprensibile sensazione – e ha suscitato una viva impressione la vicenda occorsa in Italia ad un ospedale siciliano – i casi estremi dei c.d. B.I.I.D. (Body Integrity Identity Disorder), ossia delle persone, perfettamente sane ed integre, che rivendicano la rimozione di una parte sana del corpo (un braccio, piuttosto che entrambe le gambe), e quindi la sua trasformazione materiale, al fine di adattarlo alla propria interiore visione di sé e all’immagine vissuta come ideale dimensione fisica della propria identità personale.
L’evoluzione del modello tradizionale, legato all’esclusiva o prevalente finalità di assicurare l’integrità fisica del minore, è oggi rilevabile (nell’esame delle più recenti pronunce rese nella materia dei trattamenti sanitari sui minori) proprio assumendo, quella descritta trasformazione d’indole culturale attorno all’uso del corpo, dal piano delle valutazioni della comunità statale (tradizionalmente sensibile alle sollecitazioni del dibattito e delle soluzioni della comunità scientifica inclini alla cura e alla preservazione della sanità fisica del corpo), al punto di vista della singola persona, viceversa orientata ad informare il destino del proprio corpo ad un principio di coerenza con ciò che vale a strutturare i caratteri della propria identità o con la definizione delle condizioni del sentimento personale della dignità.
La domanda, se si vuole istintiva o ingenua, fermata alla ricerca del soggetto chiamato a sostituirsi al minore (‘chi decide?’) è destinata a perdere gran parte del suo significato, se dalla pregiudiziale autorità del medico (titolare di una tradizionale ‘potestà scientifica’ sui corpi) voglia giungersi all’affermazione di un modello procedimentale che sappia tener conto di variabili lato sensu etiche o culturali, destinate a interagire con il dato scientifico ‘nudo’ della guarigione clinica del corpo.
In breve, piuttosto che muovere alla ricerca di ‘chi’ decide, varrà spostare l’accento sui modi e le forme che concorrono a ‘costruire’ una decisione, singolare o irripetibile, ispirata ai principi del dialogo e del bilanciamento tra le diverse posizioni, gli argomenti o i valori che cercano realizzazione attraverso l’esperienza della malattia e della sofferenza.
L’abbandono del modello della ‘rappresentanza’ della volontà del minore - un modello che, nel decidere ‘al posto’ dell’incapace, già manifesta la ferma convinzione della dimensione oggettiva e predeterminabile del best interest del minore – si apre così all’accoglimento del più agile e adattabile schema della co-decisione (come desumibile anche dal recente art. 3 della legge n. 219/17 sulla disciplina del consenso informato e delle disposizioni anticipate di trattamento), dove l’esito del dialogo è l’apporto di più voci che si accostano e si aggiungono a quella del minore (ove questo sia, beninteso, già in grado di esprimerla) sul presupposto del carattere irriducibilmente soggettivo e relativo del suo miglior interesse.
L’idea della ‘co-decisione’ con l’incapace (con quello che l’incapace è in grado di offrire, direttamente o attraverso i segni o gli elementi, talora fragili o dispersi, della sua autonomia) richiama alla memoria le pagine (finemente elaborate da Alberto Giusti, uno dei nostri migliori magistrati civilisti) della sentenza resa dalla Suprema Corte sulla tragica vicenda di Eluana Englaro.
In quel discorso della Corte, il richiamo al carattere ‘personalissimo’ del diritto alla salute dell’incapace valse a giustificare la conclusione secondo cui il riferimento all’istituto della rappresentanza legale non attribuisce al tutore la titolarità di un potere incondizionato di disposizione della salute dell’incapace. Nel consentire al trattamento medico, o nel dissentire dalla sua prosecuzione, la rappresentanza del tutore deve ritenersi sottoposta al duplice vincolo, del perseguimento dell’esclusivo interesse dell’incapace, e, nella ricerca del best interest, della definizione di una decisione che sia non al posto, né per l’incapace, ma con l’incapace stesso.
Da qui l’esigenza della ricostruzione della presunta volontà del paziente incosciente, che tenga conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, o che inferisca quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche.
Anche con riguardo alla persona del minore – così come, in generale, di chi, per effetto di un’infermità o di una menomazione fisica o psichica, si trovi nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi – s’impone l’assolvimento di un impegno di ricerca che muova alla valutazione degli stessi ‘elementi di autonomia’, anche minimi, labili, frammentari o parziali, che la persona è in grado di esprimere o di offrire, affinché su di essi abbia a costruirsi – come nel disegno di una ‘proiezione’ – il senso di scelte e di decisioni che, alla persona dell’autore, pur sempre conviene che appartengano, se al valore dell’autonomia ascriviamo il contrassegno della dignità della persona.
Proprio con riguardo alla vicenda di Eluana Englaro, del resto, un esame non frettoloso del provvedimento della Corte d’appello milanese successivo alla richiamata pronuncia della Corte di cassazione, evidenzia come la ricostruzione del c.d. ‘tratto personologico’ della donna sia stato in larghissima misura ispirata e composta in forza delle valutazioni e dei sentimenti propriamente espressi da una minorenne, essendo Eluana Englaro definitivamente caduta in stato di incoscienza poco tempo dopo il compimento dei suoi 21 anni di età.
Tutto questo è valido nei casi in cui il minore abbia raggiunto, attraverso i primissimi percorsi dell’età, un grado almeno significativo di sviluppo, suscettibile di predicarne una qualche rilevante attitudine o inclinazione che possa dirsi, sia pure tendenzialmente, espressiva di una sua (embrionale) personalità.
Ma quid iuris a fronte di minori di pochissime mesi o anni? Che cosa rileva al cospetto di minori la cui volontà deve riconoscersi obiettivamente o assolutamente ‘non ricostruibile’? Come si riarticolano i discorsi del diritto che cercano di dotare di senso il valore della dignità della persona (di qualunque persona) senza abdicare alle ambizioni assolutistiche di questo o di quel modello filosofico o religioso?
Il modello co-decisionale sollecitato dalla vicenda dei trattamenti sanitari sui minori – un modello che vale a concretizzare in termini del tutto peculiari il significato solitamente attribuito all’espressione che allude all’alleanza terapeutica – individua, tra i suoi protagonisti, i genitori (o il tutore), il medico (o l’eventuale équipe coinvolta) e l’autorità giudiziaria chiamata a intervenire in caso di contrasto.
Ciascuno dei soggetti indicati può certamente ritenersi portatore di una differente ‘visione’ o di un’alternativa ‘lettura’ dell’interesse del minore, pur nella comune ricerca della ‘migliore’ soluzione prospettabile; e ciascuno di essi introduce, nel vivo del comune dialogo, il rilievo di temi di più ampio spessore che solo esteriormente possono apparire, o esser giudicati, lontani dalla più sofferta sostanza del discorso che si conduce.
Si pensi al rapporto che intercorre tra la dimensione obbligatoria della responsabilità genitoriale e alle prerogative della libertà educativa o dell’autonomia della famiglia intesa come comunità vivente di valori e di interessi condivisi.
All’orizzonte del discorso appartiene l’esame dei confini della proposta scientifica, rispetto alla cogenza dei valori spirituali o esistenziali che valgono a sostanziare i processi identitari di singoli e di gruppi, ed infine lo studio dei rapporti che lo Stato (reso vivo e presente dall’intervento dell’autorità giudiziaria) è chiamato a istituire con ciascuno dei soggetti sin qui considerati, e quindi con l’autonomia delle più ristrette comunità sociali di appartenenza del minore (quella familiare e quella confessionale in primo luogo) e con la stessa comunità scientifica.
Il filo conduttore che unisce e insieme conferisce senso al complesso intricato di tali questioni deve rinvenirsi nel nodo comune rappresentato dalla determinazione del miglior interesse (the best interest) del minore come risultante concreta (vorrebbe dirsi ‘a valle’) dell’interazione tra i differenti piani (scientifico, spirituale, esistenziale, etc.) su cui quell’interesse del minore si trova ad essere declinato in una sorta di circolare risonanza tra i principi e i valori variamente ascrivibili ai protagonisti del dialogo e le particolari occorrenze del fatto concreto.
Per sottrarre il discorso critico sin qui condotto a qualsivoglia rimprovero di astrattezza varrà richiamare le questioni pratiche insorte con riguardo alle richieste o al rifiuto di trattamenti medici solo apparentemente legati al rilievo di motivazioni tecnico-scientifiche: si pensi alle vicende che hanno riguardato l’invocazione delle autorizzazioni all’impiego della c.d. ‘multiterapia Di Bella’ per la cura di tumori di fanciulli o di pre-adolescenti, a fronte della violenza invasiva e della stessa incertezza prognostica della chemioterapia tradizionale.
Sul rifiuto della terapia tradizionale un peso certamente non trascurabile aveva avuto la valutazione condotta nei termini della qualità della vita residua o del futuro sperato o della personale percezione dello stesso minore, come accaduto in occasione del rifiuto della (verosimilmente salvifica) amputazione della gamba a fronte dell’indefinita sorte del decorso post-operatorio.
Alle valutazioni che attengono alla qualità della vita – e che in qualche misura toccano o investono il rapporto con il senso della dignità della persona come percepita o vissuta – neppure devono ritenersi estranee le ragioni indicate a sostegno del rifiuto di terapie o trattamenti medici legato a motivazioni di ordine ideologico-religioso o espressive di una particolare sensibilità della coscienza personale. In questo contesto si inserisce il caso, per molti aspetti drammatico, del rifiuto delle emotrasfusioni da parte dei testimoni di Geova, così come la diversa vicenda occorsa in territorio veneziano del bimbo nigeriano colpito da tumore al bulbo oculare, ma anche quello che muove al rifiuto della protrazione degli ‘stati di minima coscienza’ (Minimum Conscious State) – secondo la nozione preferibile agli equivoci riferimenti al carattere ‘persistente’ o ‘permanente’ dello stato vegetativo -, che, come esemplarmente testimoniato dalla vicenda Englaro, appare intimamente legato alle personali visioni della dignità, della libertà o del senso stesso dell’esistenza umana.
Anche il tema dell’identità personale trova posto tra le questioni destinate a investire il discorso sui trattamenti medici sui minorenni, se si pensa – per non dire dell’estremo caso del disturbo dell’identità legato all’integrità del corpo – alla vicenda della rettificazione e dell’adeguamento dei caratteri sessuali come richiesta che insorge con impellenza nell’età della formazione o anche al caso dell’aborto della minorenne.
Lo sfondo su cui occorre collocare le vicende sin qui richiamate – è agevole evidenziarlo – è costituito dalla questione, ineludibile, del consenso ai trattamenti medici proposti o decisi. Più che alla dimensione interiore o intellettuale dell’adesione, rileva qui propriamente la disponibilità fisica del minore a sottoporsi materialmente al trattamento medico, e quindi l’individuazione del limite inaccessibile o comunque insuperabile della coercibilità materiale.
L’irriducibilità del rifiuto del minore opposto all’attuazione dei trattamenti medici coattivi ha costituito materia grave di riflessione, per gli studiosi e per la giurisprudenza pratica, in relazione al tema delle vaccinazioni rese obbligatorie per legge, dove – per richiamare i motivi del testo dell’art. 32 della Costituzione – al ‘diritto’ alla salute del minore è valso, e in larga misura ancora vale a contrapporsi, il generale ‘interesse’ dell’intera comunità.
L’impossibilità della coattiva esecuzione materiale del trattamento obbligatorio (un riconoscimento che deve apprezzarsi e che pure ha trovato, nella disciplina delle vaccinazioni obbligatorie, un fugace riscontro legislativo nel testo di due decreti-legge successivamente non più convertiti dal Parlamento) trova proprio nella regola dell’art. 32 della Costituzione la sua conferma più autorevole, se voglia intendersi con pensosa sollecitudine il limite - che neppure al legislatore è dato (“in nessun caso”) di trascurare - del ‘rispetto della persona umana’ nella sua ultimativa dimensione normativa d’indole morale.
Si addice, alla cogenza dei trattamenti sanitari, la virtù della persuasione e della fiducia ricercata e acquisita, specie a fronte della fragile opposizione, o della strutturale debolezza, dei soggetti destinati a subirli.
Nel caso di minori di cui non è oggettivamente possibile, non solo ricostruire alcuna sia pur minima forma o elemento di autonomia, ma neppure prospettare l’idea del consenso o della fiducia da ricercare o acquisire, il discorso tende a trasferirsi sul piano dei rapporti tra le diverse comunità di vita (la famiglia, la chiesa, lo stato) in cui il minore viene a trovarsi, già da subito, nell’incontro con l’esperienza dell’essere e dell’esistere. Di tali comunità il minore vive e si alimenta, in termini materiali quanto spirituali; ma a tali comunità esso non appartiene, come a nessuno appartiene la persona, esigendosi che essa «appartenga soltanto a sé stessa», contro ogni configurazione che valga a trasformarla in una res societatis, o in una res familiae o ecclesiae.
3. Responsabilità genitoriale, comunità familiare e pluralismo - Si è detto come la partecipazione dei genitori al dialogo, o alla ‘co-decisione’, circa i trattamenti sanitari destinati a investire la persona del minore, può arrivare ad assumere significati che non necessariamente si riducono (come, verosimilmente, accade nell’ordinarietà dei casi) alla prestazione di un’adesione o alla manifestazione del consenso ai trattamenti suggeriti dal medico per il benessere fisico del figlio.
Nelle ipotesi di contrasto ‘interno’ o, in forme verosimilmente più aspre, nel dissenso che si manifesta all’‘esterno’ della comunità familiare – e quindi nel caso del conflitto che deflagra tra le decisioni genitoriali circa il minore e la struttura sanitaria curante – il tema della responsabilità genitoriale, e quindi la dimensione di ‘doverosità’ che vi è intimamente connessa, rivela, in forme anche tragicamente dolorose, i suoi tratti più apertamente contraddittori, impliciti nella tensione riconducibile alla sostanza di ‘potere’ che pure informa di sé i termini della prerogativa genitoriale.
Occorre non dimenticare come la garanzia del rispetto dei diritti e delle prerogative di esplicazione sancita dall’art. 2 della Costituzione, non riguardi il solo riconoscimento dei diritti inviolabili dei singoli individui, dovendo viceversa estendersi alla stessa costituzione e alla vita, in breve all’intera vicenda delle formazioni sociali intermedie tra il singolo e lo stato, titolari di attribuzioni e di forme irrinunciabili di autonomia, nel quadro della struttura pluralistica dell’ordinamento generale.
Proprio l’idea del ‘riconoscimento’ (e non già dell’‘attribuzione’ o della ‘costituzione’) dei diritti delle comunità intermedie tra l’individuo e lo stato, del resto, così come il complesso delle garanzie di libertà assicurate agli statuti della famiglia, delle confessioni religiose, dei sindacati o dei partiti politici (per menzionare solo alcune delle formazioni sociali ‘tipiche’, espressamente contemplate dalla Carta nella prospettiva del compimento della persona), inducevano ad apprezzare, delle scelte assunte dall’Assemblea costituente (così come la successiva evoluzione della cultura e del costume della società italiana della seconda metà del Novecento avrebbe in larga misura confermato), proprio la convinzione della sostanziale originarietà, rispetto all’ordinamento dello stato, di quelle esperienze comunitarie. Ed insieme la persuasione dell’appartenenza, al territorio del diritto privato, dell’organizzazione giuridica dei rapporti interni ad esse, in considerazione del carattere ‘collettivo’, ma pur sempre ‘particolare’, degli interessi immediatamente riferiti all’iniziativa delle comunità intermedie.
Con riguardo alla disciplina della famiglia, d’altro canto, proprio la norma dell’art. 30 della Costituzione ammonisce a non trascurare quel principio di tensione tra le dimensioni della libertà e della doverosità implicite nell’esercizio della responsabilità genitoriale, se si pensa al riconoscimento del ‘dovere’, ma insieme anche del ‘diritto’ dei genitori di mantenere, istruire ed educare la prole, e della previsione dell’assolvimento di tali compiti con mezzi alternativi, da parte della legge, nei soli casi di ‘incapacità dei genitori’.
Il ‘diritto’ dei genitori, così come i ‘diritti della famiglia’ che compaiono nelle ricordate previsioni costituzionali, devono intendersi, in primo luogo, come pretese che la comunità familiare esercita nei confronti dello stato come garanzia di immunità certamente declinabile anche in termini di libertà educativa d’indole culturale, morale o religiosa.
D’altro canto, se è vero che l’interesse del minore costituisce il limite, per così dire, ‘naturale’ dell’autonomia familiare, è anche vero che quest’ultima (nelle sue proiezioni formative di carattere etico, spirituale o religioso, in breve, culturale) esercita un’incidenza spesso determinante nella coltivazione o nella formazione delle principali scelte esistenziali del minore.
La vicenda legislativa dell’adozione dei minori, del resto (un capitolo e un documento determinante nel processo di comprensione delle idee e delle ideologie che si sono andate avvicendando sul senso dell’esperienza familiare), rende una significativa testimonianza dell’intimo legame che intercorre tra l’identità individuale e la singolarità dell’appartenenza alla propria comunità familiare, se si voglia intendere in termini non banali o sbrigativi il testo della norma che introduce la disciplina organica dell’adozione minorile.
Il diritto del minore di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia, così come, nei casi di impossibilità, di vivere, crescere ed essere educato nell’ambito di una famiglia senza distinzione di sesso, di etnia, di età, di lingua, di religione e, soprattutto, nel rispetto della propria identità culturale, vale a significare propriamente che il riguardo per l’identità personale del minore non può prescindere dalla conservazione dei suoi originari legami comunitari, o comunque dalla sua collocazione nel quadro di rapporti che ne richiamino le tradizioni e i segni della cultura di provenienza.
Da questa prospettiva ha senso interrogarsi sull’effettiva legittimità, o financo sulla stessa possibilità, per lo Stato, di stabilire in forza di principi e criteri propri un modello qualitativo assoluto di famiglia, o anche solo l’interesse concreto ‘migliore’ del minore senza riferirsi alla irripetibile storicità della sua vita personale e familiare.
Sul punto varrà richiamare - sia pure in relazione ad un frammento umile o marginale dell’esperienza - le pronunce rese dalle nostre Corti nella materia delle vaccinazioni obbligatorie; pronunce inclini a superare l’antico dogmatismo paternalistico, allineato alle rigorose prescrizioni sanitarie, per aprirsi alla costruzione di uno spazio di ascolto e di dialogo ragionato, in cui l’obiezione genitoriale viene opportunamente recuperata al quadro del dibattito scientifico.
Deve certamente convenirsi sulla inaccettabilità di posizioni o pretese che aspirano a inserirsi nel dialogo condotto sulle scelte relativi ai trattamenti destinati ai minori, quando siano minate da pregiudiziali dogmatismi, impostazioni pseudo-scientifiche o, peggio ancora, quando riposino su forme di verosimile superstizione, come testimoniato dal caso dell’ancestrale rifiuto o della maledizione del bimbo nigeriano mutilato.
E tuttavia, occorre guardare senza impazienze a casi come quello dei genitori cui non fu impedito, ma anzi positivamente autorizzato, il ricorso alla c.d. cura Di Bella (una terapia cui le più recenti sperimentazioni hanno decisamente negato ogni obiettiva valenza scientifica) al posto di una devastante chemioterapia dall’esito del tutto incerto (o per lo più infausto).
Al tema, del resto - nella misura in cui è ancora la famiglia a costituire l’espressione o la fonte di un tessuto educativo e culturale condizionante, rispetto alla formazione del minore -, appartiene anche la questione del rifiuto delle emotrasfusioni da parte dei Testimoni di Geova, là dove a fronte del condivisibile rifiuto di esporre il minore alle conseguenze letali della scelta (un rifiuto che risponde propriamente all’esigenza di preservarne la futura autonomia, piuttosto che tradirla o ferirla), non può negarsi la rilevanza delle manifestazioni di volontà dei ‘grandi minori’ (di cui siano accertate e sperimentabili le facoltà di piena autodeterminazione), specie se il rifiuto abbia a manifestarsi in forme fisicamente insuperabili.
4. Potere e sapere: la comunità scientifica tra autorità e servizio - Il discorso critico che indugia sulla condivisibilità delle scelte o delle prescrizioni che provengono dalla comunità scientifica aiuta a comprendere le ragioni che ascrivono, a prevalenti considerazioni d’indole ideologica, il tradizionale modello di decisione terapeutica che impone la necessaria salvezza dell’integrità fisica del minore, secondo il dettato dell’autorità medica.
L’alleanza tra il potere politico e il sapere scientifico, del resto, ha ascendenze antiche che risalgono alle origini dello Stato moderno ed alla progressiva stabilizzazione dell’‘arte di governo’ delle prime monarchie europee, come testimoniano le raffinate e preziose pagine degli studi condotti da Michel Foucault.
L’idea del ‘disciplinamento’ e del ‘controllo’ sociale (un tema caro e centrale nella riflessione del filosofo francese) prende forma, alle origini della costruzione moderna del potere statale, proprio attraverso l’istituzione di figure di potere sociale strutturate attorno alla coltivazione di ‘saperi’ tecnici.
Nel momento in cui lo stato assume il compito di provvedere alla cura della salute pubblica (per cui nessun rilievo potrà rivestire l’eventuale dissenso della persona interessata), il relativo munus verrà assolto mediante il ricorso al sapere della medicina scientifica e attraverso il contestuale trasferimento del potere statale sui corpi alla classe medica, nell’occasione trasformata in ‘autorità sanitaria’.
La persistenza di una simile ideologia fino alle più recenti esperienze degli statalismi del XX secolo, del resto, trova una traccia nello stesso codice italiano dei rapporti privati approvato negli anni del regime, e in particolare nel testo dell’art. 5, per cui il limite del potere del singolo nel compimento degli atti di disposizione del proprio corpo è misurato sulla conservazione della sua materiale integrità (implicitamente intesa nella sua dimensione di interesse generale), e in ogni caso nel rispetto dei criteri generali della liceità (le norme imperative, l’ordine pubblico e il buon costume) che, nel sistema dell’autonomia privata, segnano il limite delle prerogative individuali rispetto alle ragioni dell’ordinamento nel suo complesso.
Il sovvertimento di quell’impostazione ideologica, si è detto, deve farsi coincidere, sul piano delle testimonianze documentali, con l’approvazione delle carte costituzionali europee (quella tedesca e quella italiana in primo luogo) e dei testi del diritto internazionale (dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, alla convenzione europea del 1953, ai più recenti testi della Convenzione di Oviedo e della Carta di Nizza) costruiti, tutti, sul carattere ‘sacro’ e ‘inviolabile’ della persona e dei contrassegni della sua dignità, alla quale in primo luogo ripugna il fatto stesso dell’uso del corpo altrui o della sua strumentalizzazione per finalità che largamente lo trascendono.
L’idea che occorre ricavare dai testi così sommariamente ricordati – per la costruzione di un possibile ‘statuto’ del corpo, nella prospettiva della sua disponibilità giuridica – può riassumersi nella riaffermazione del principio della ‘libertà’ e dell’‘autodeterminazione’, come valori da perseguire e da realizzare, e quindi nel compimento di quella sorta di ‘rivoluzione copernicana’ (nel trascorrere dalla centralità dello stato alla preminente considerazione della persona) nella strumentalizzazione del sapere scientifico.
Il potere della medicina deve intendersi in tal senso subordinato alla sovranità delle scelte che ciascuno esercita in relazione all’uso e al destino del proprio corpo; ed a scelte che possono anche trascendere la ridotta finalità della conservazione dell’integrità fisica, per giungere alla realizzazione di interessi di differente natura (di volta in volta, estetica, sportiva, sessuale, etc.), fino al possibile sacrificio della pienezza dell’integrità per finalità che riposano su considerazioni d’indole religiosa, spirituale o, più genericamente, culturale.
Tra le ricadute di maggior rilievo, che si legano ad una simile rivisitazione dei rapporti tra lo stato, la persona e il potere della medicina sui corpi, occorre non trascurare l’esame dei limiti oltre i quali deve giudicarsi irragionevole o incongrua la pretesa di esigere, dal singolo medico, l’esecuzione di condotte da questi financo ripugnate: una considerazione che prelude alla verifica della consistenza o dei confini che segnano i limiti dell’obiezione di coscienza nei suoi difficili rapporti con i diritti e le libertà dei singoli.
Anche il tema dell’informazione sanitaria, cui l’espressione del consenso al trattamento medico immediatamente si lega, deve ritenersi comune al discorso sulla diffusione del sapere della medicina e sui modi che inducono ad affrontarne una discussione critica; da questo punto di vista, all’informazione (e alla sua strumentalità rispetto al consenso) occorre ascrivere la finalità di sottrarre la persona ad una specifica forma di ‘incapacità’, conducendola ad un accettabile livello di consapevolezza circa il significato, le modalità e le finalità del trattamento proposto.
Con riguardo ai minori, il tema si traduce nell’individuazione delle modalità di comunicazione più adatte a scongiurare i rischi di una sovraesposizione emotiva, nel decidere tra la limitazione dell’informazione dei soli genitori, del ricorso a questi ultimi quali ‘mediatori’ dei contenuti informativi, o delle forme più congeniali ad un rapporto immediato e diretto tra il minore e l’operatore sanitario.
5. Il giudice e l’autonomia delle culture - Volendo rapidamente raccogliere il senso delle considerazioni sin qui complessivamente accennate, converrà ribadire come, nel quadro costituzionale definito dai principi della Carta del ‘48 e dei documenti di provenienza internazionale che la completano, il discorso del giurista sul tema dei trattamenti sanitari relativi ai minori - tra le spinte progressive della scienza e i richiami austeri dell’etica – è ancora chiamato a muoversi sui territori che definiscono (o ridefiniscono) gli spazi dell’autonomia.
Il superamento della tradizione paternalistica – che dalle teorizzazioni politiche della modernità talora ancora giunge alle più riposte propaggini della cultura medica e scientifica contemporanea – deve indurci ad arricchire il senso della complessità che articola e struttura l’essenza delle autonomie: di quella rivendicata dal sapere della scienza e di quella che, viceversa, è propria delle comunità intermedie in cui la vita del minore prende alimento e si realizza attraverso i percorsi culturali delle autodeterminazioni ancora incompiute o in formazione.
Nell’ambito di tale impegno, è compito dello stato - e quindi del giudice, nel momento in cui è chiamato ad assumerne l’espressione - saper ritrovare, proprio nel dialogo o nel confronto tra il sapere della scienza e i saperi che costituiscono il patrimonio delle persone e delle loro comunità, la radice o la legittimità democratica o, infine, la giustificazione stessa che conferisce un senso autenticamente ‘umano’ all’esercizio del suo potere.
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