ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
RUOLO DELLA PENA di Giorgio Spangher
1. Innescato da alcune vicende giudiziarie si è da tempo riacceso il confronto di opinioni sul ruolo della pena, nella contrapposizione tra una visione rieducativa della stessa ed una più dichiaratamente retributiva.
Sullo sfondo della insicurezza determinato dalla globalizzazione il dibattito ha finito per coinvolgere inevitabilmente tematiche diverse: determinazione di nuove fattispecie incriminatrici, inasprimento delle pene, regole procedurali, regime penitenziario. Del resto, la presenza di “fenomeni” criminali non consente risposte episodiche, nella misura in cui la metabolizzazione di un singolo episodio delittuoso, non è possibile a fronte d’una sua reiterazione che proprio per questo fatto ne amplifica e ne moltiplica le implicazioni.
In questo contesto si inserisce la legge che esclude l’accesso al rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo, con l’intento di evitare che alcuni reati – soprattutto l’omicidio aggravato – con il meccanismo delle attenuanti, combinato con l’effetto premiale del rito contratto possa condurre ad una pena ritenuta inadeguata alla gravità del reato.
Il riferimento all’omicidio aggravato non è casuale ove si considerino in materia la previsione di cui al comma 3 dell’art. 90 c.p.p. ove si prevede che in caso di morte della vittima del reato, i diritti della persona offesa siano esercitati – a sua tutela – dai prossimi congiunti e da persona legata da relazione affettiva o stabilmente convivente, che assumeranno su di sé anche la posizione di danneggiati dal reato, con ricadute significative sul loro atteggiamento processuale. La posizione a “tutela” dell’offeso, vittima di omicidio, finisce per investire questi soggetti di una funzione di “supplenza” sotto vari profili, non escluso quello sanzionatorio.
2. Il comma 1 bis dell’art. 438 c.p.p. inserito dalla riforma prevede, pertanto, che “non è ammesso il giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo”.
Si raccorda a questo dato anche l’abrogazione del secondo e del terzo periodo del comma 2 dell’art. 442 c.p.p. ove si prevedeva che alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta; ed alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nel caso di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo.
Invero, proprio la premialità del rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo consente al condannato di collocare la pena nelle soglie che consentono l’accesso ai benefici penitenziari.
La considerazione che nello sviluppo del procedimento l’ipotesi accusatoria formulata dal pubblico ministero con la richiesta di rinvio a giudizio possa modificarsi rendendo possibile l’accesso al rito abbreviato ha suggerito al legislatore che la difesa debba, a tal fine, formulare una richiesta, ancorché inammissibile ovvero da rigettare, nel corso dell’udienza preliminare. La stessa richiesta, se formulata nel corso dell’udienza preliminare, potrà essere reiterata entro i limiti di cui agli artt. 421 e 422 c.p.p.
Ovviamente questa richiesta – inammissibile – non finalizzata ad ottenere dal giudice la verifica delle condizioni di ammissibilità del rito, non determinerà l’operatività di quanto previsto dall’art. 438, comma 4, secondo periodo, c.p.p., in tema di produzione di indagini difensive, e dall’art. 438, comma 6 bis, c.p.p., in tema di sanatoria delle indicate patologie processuali.
Il legislatore non esclude che la formulazione dell’imputazione subisca variazioni lungo il corso del procedimento così da incidere sull’originaria inammissibilità ovvero sull’iniziale possibilità di disporre il giudizio abbreviato.
Si prevede, così, che qualora all’esito dell’udienza preliminare la qualificazione giuridica del fatto consenta il rito abbreviato, il giudice con il decreto che dispone il giudizio debba informare l’imputato che entro quindici giorni potrà chiedere il rito speciale.
Qualora, invece, richiesto e disposto il rito abbreviato il fatto dovesse essere contestato nei termini escludenti il rito, il giudice revocherà il provvedimento e procederà alla prosecuzione dell’udienza preliminare, ovvero disporrà che si proceda con l’udienza preliminare.
Qualora il giudice del dibattimento riconosca che il fatto come da lui qualificato avrebbe consentito il giudizio abbreviato, applicherà con la sentenza la riduzione della pena nei limiti previsti dall’art. 442, comma 2, c.p.p.
Non è chiaro se a questo fine è sufficiente la richiesta inammissibile formulata nell’udienza preliminare, ovvero se sia necessario ripetere la richiesta all’inizio del dibattimento ovvero se la richiesta del rito possa essere formulata per la prima volta nel momento di apertura del giudizio.
3. Il riconoscimento della premialità della pena dovrebbe valere anche per il giudizio d’appello e in cassazione ex art. 620, lett. 1, c.p.p., senza necessità che sia riproposta la domanda del rito abbreviato. Dovrebbe riconoscersi che un eventuale accoglimento dell’appello del p.m. in punto di qualificazione del fatto, ostativa il rito, determinerà l’esclusione della premialità precedentemente riconosciuta. Ci si dovrebbe interrogare se analoga conclusione possa operare per il giudizio di cassazione ovvero se sarà necessario procedere ad annullamento con rinvio.
Nel caso del giudizio immediato troverà applicazione l’art. 458 c.p.p.: l’imputato, per poter godere della premialità della pena all’esito del dibattimento dovrà formulare la richiesta del rito abbreviato ancorché inammissibile ed il giudice richiesto del rito disporrà il giudizio immediato.
4. Memore della decisione Corte Edu sul caso Scoppola, dovendosi escludere, trattandosi di materia attinente alla pena, l’operatività del principio tempus regiti actum, il legislatore ha previsto che la riforma si applichi solo ai reati commessi successivamente all’entrata in vigore della legge.
5. Sotto il profilo sistematico, la riforma determinerà un appesantimento del carico di lavoro delle Corti di assise, senza alleggerire quello dei gip/gup.
Si creeranno problemi per le collaborazioni nei processi di criminalità organizzata, in quanto queste erano spesso incentivate dalla premialità del rito abbreviato.
Si devono escludere, a prima lettura, profili di illegittimità costituzionale, trattandosi di scelta che riguarda tutti i reati, puniti con la pena massima. Va tuttavia fatto notare che la scelta legislativa sacrifica la logica dell’economia processuale che aveva connotato il rito e in parte lo caratterizza ancora per gli altri reati, a fronte dell’esigenza d’una pena maggiormente afflittiva che a giudizio del legislatore appare motivazione prevalente.
1. Il caso “Dj Fabo”, quando la vita arriva prima del diritto: il processo a carico di Marco Cappato. - 2 La sentenza della Corte Costituzionale del 24 ottobre 2018: l’innovazione è nel metodo. - 3. Uno sguardo comparatistico. La regolamentazione del fine vita oltre confine.
1. Il caso “Dj Fabo”, quando la vita arriva prima del diritto: il processo a carico di Marco Cappato.
Negli ultimi anni, il panorama del fine vita, conteso tra disponibilità e indisponibilità del bene vita, ha visto dirottata l’attenzione verso un caso dalla forte pregnanza mediatica e dai notevoli risvolti giuridico-penalistici. Si tratta della vicenda umana, ancora in via di definizione processuale, di Fabiano Antoniani (noto come Dj Fabo) dove si sono intrecciati temi tanto diversi quanto inscindibilmente connessi: il problema del fine vita, l’urgenza di una legge sul testamento biologico, il concetto di eutanasia e quello di morte dignitosa, fino ad arrivare a mettere in discussione la legittimità costituzionale e l’attualità dell’art. 580 c.p. sull’istigazione o aiuto al suicidio. Il tutto, in virtù di una vita che si esige essere dignitosa e libera di essere vissuta o, soprattutto, non vissuta.
E’ noto come, all’esito del processo instaurato a Milano contro Marco Cappato per il reato di cui all’art. 580 c.p., la Corte d’ Assise, mentre ha assolto l’imputato per la parte di istigazione al suicidio perché il fatto non sussiste, abbia sospeso il giudizio per il restante capo di imputazione, rimettendo la questione alla Consulta.
La sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. colpisce la parte in cui lo stesso incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o rafforzamento del proposito di suicidio (per ritenuto contrasto con gli artt. 3 e 13 comma 1 della Costituzione). Il risultato è che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul processo deliberativo dell’aspirante suicida, appaiono sanzionabili con la pena della reclusione da cinque a dodici anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione.
Di evidente percezione il rilevato contrasto con innumerevoli norme costituzionali, si pensi all’art. 3 relativo al principio di uguaglianza, all’art. 13, baluardo della libertà personale, nonché all’art. 25 comma 2, sul principio di legalità e irretroattività penale, e, in ultimo, all’art. 27 terzo comma che sancisce la funzione rieducativa della pena per il reo.
Ad una più attenta analisi delle motivazioni addotte, i giudici milanesi hanno ritenuto che il suicidio costituisca esercizio di una libertà dell’individuo. Pertanto, azioni idonee a pregiudicare l’autodeterminazione dello stesso costituirebbero offesa al bene giuridico tutelato dalla norma in esame, e solo queste risulterebbero meritevoli di sanzione penale. Alla luce di tali considerazioni, dove si colloca l’apporto fornito da Marco Cappato? L’aiuto del leader radicale non risulterebbe idoneo a ledere alcun bene giuridico, giacché il proposito suicida di Antoniani si era già cristallizzato da tempo e il contributo dell’imputato si è concretizzato nel mero trasporto dello stesso in Svizzera.
I giudici hanno osservato, in primo luogo, che alla base delle norme sull’istigazione e aiuto al suicidio, introdotte dal legislatore nel regime fascista del 1930, vi fosse la considerazione del suicidio come un disvalore: solo per preminenti ragioni di politica criminale era stato ritenuto inutile e dannoso punirne il tentativo. La sanzione prevista dalla norma era pensata a tutela del “diritto alla vita”, come valore in sé, indipendentemente dalle deliberazioni del titolare, essendo chiaramente sancita la prevalenza dello Stato sulla libertà dell’individuo.
Ebbene, leggendo oggi la medesima norma alla luce dei principi costituzionali, appare evidente e urgente la necessità di innovare quei concetti pre-costituzionali. Dalla lettura complessiva della Costituzione emerge una nuova e diversa considerazione del diritto alla vita, che si pone come presupposto degli altri diritti riconosciuti all’individuo e proprio attraverso questi si definisce.
Senza dimenticare che, con l’introduzione del rivoluzionario principio personalistico enunciato all’art. 2 e dell’inviolabilità della libertà individuale di cui all’art. 13, la Carta costituzionale ha sancito un vero cambiamento di rotta. Non si torna indietro: è l’uomo, e non più lo Stato, al centro dell’attenzione. E la vita umana non può essere concepita senza il riferimento all’autodeterminazione.
Infine, i giudici milanesi hanno rilevato che una tale sanzione, sproporzionata rispetto all’offesa arrecata, impedirebbe alla pena stessa di ottemperare alla funzione sua propria, costituzionalmente riconosciuta dall’art. 27 co. 3, volta alla rieducazione del reo.
Il dado era tratto. La dottrina pronunciatasi sul punto aveva prospettato diverse possibili soluzioni per la Corte, sulla base di variegate tecniche decisorie: l’accoglimento parziale, ovvero il rigetto; il rigetto semplice o quello con interpretazione; la vera e propria sentenza “interpretativa di rigetto”, sino all’inammissibilità in senso stretto. Nessuna strada era inaccessibile, preclusa o impercorribile. L’unica opzione che, tuttavia, forse non meritava di essere considerata, per un caso così complesso, delicato ed atteso, era quella del non liquet.
Bisognerebbe chiedersi, forse, se sia da considerarsi ancora suicidio il “congedo dalla vita” scelto, dolorosamente nonché drammaticamente, da chi vive una situazione in cui il corpo si è ormai congedato dalla persona, vale a dire la ricerca della quiete operata da un individuo che non riconosce più alcuna immagine di sé e si limita a porre fine ad una condizione di perenne sofferenza.
In ogni caso, con la rimessione alla Consulta, la stessa è stata investita di un compito di storica ed impareggiabile importanza, non tanto per il processo Cappato quanto per l’autodeterminazione in generale: definire, una volta per tutte, se il reato di aiuto al suicidio, nato in un contesto stato-centrico, sia ancora conforme alla Costituzione italiana e ai suoi valori.
2. La sentenza della Corte Costituzionale del 24 ottobre 2018: l’innovazione è nel metodo.
Ci si aspettava l’annuncio di una sentenza sulla costituzionalità o incostituzionalità dell’art. 580 c.p., ed invece la Corte ha disposto il rinvio del processo al prossimo settembre 2019, per consentire al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina.
Precisamente, la Corte costituzionale ha rilevato che l'attuale assetto normativo concernente il fine vita lasci prive di adeguata protezione determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di tutela, da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti.
La Corte Costituzionale ha così consapevolmente inaugurato una strada nuova e coraggiosa, innovando il proprio catalogo di tecniche decisorie e riconoscendo, pur senza dichiararla, la “parziale” illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.
Ciò che si è sorprendentemente verificato è che la Corte costituzionale ha finalmente rilevato l’assenza di una «adeguata tutela» nell’assetto normativo che riguarda il fine vita, concedendo al Parlamento un anno per colmare la lacuna, intervenendo medio tempore con un’appropriata disciplina.
Che significato ha una presa di non-posizione di questo stampo? È la presa d’atto di un vuoto normativo, di una mancanza di tutela nei riguardi di situazioni dall’evidente particolarità e dalla notevole frequenza, che spiana la strada al Parlamento per la trattazione di un tema da sempre visto con diffidenza e paura, soprattutto in considerazione dell’iniziativa popolare di legge sull’eutanasia, fino a ieri mai tradottasi in discussione. Non si tratta in sostanza di un semplice monito al legislatore, ma dell’assegnazione di un “termine ultimo”, una data entro cui legiferare.
A destare stupore è il metodo, la via seguita dalla Corte stessa, senza precedenti in Italia; i giudici costituzionali hanno riconosciuto che l’attuale normativa, che punisce ogni forma di agevolazione al suicidio, non realizza un ragionevole bilanciamento dei molti interessi coinvolti, ma fanno un passo di lato - non indietro - investendo il Parlamento del compito di trovare un corretto equilibrio.
L’originale tecnica decisoria adottata trae ispirazione da precedenti della Corte Suprema del Canada nel 2015 e della Corte Suprema del Regno Unito nel 2014 e consiste nel disporre il rinvio del giudizio in corso, con contestuale fissazione della data di discussione delle questioni in ballo. Si determina, fatalmente, la messa in mora del Parlamento. Ma perché questa scelta? La Corte ha agito con una prudenza di non poco conto, evitando una secca declaratoria di incostituzionalità che, in assenza di regolamentazione normativa, avrebbe esposto soggetti deboli e vulnerabili ad abusi e strumentalizzazioni altresì patrimoniali. Ha scongiurato il rischio che la somministrazione di farmaci in grado di procurare la morte in un breve lasso di tempo potesse degenerare in vera e propria “alternativa” ad esigenze organizzative o supplire all’incapacità delle strutture di fornire adeguata assistenza con percorsi di cure palliative. E non è tutto: la Corte ha voluto impedire che una dichiarazione di inammissibilità della questione, con monito al legislatore, determinasse inevitabilmente la condanna di Cappato.
La Corte non si nasconde dietro le Camere, semplicemente abbandona la strada vecchia per la nuova. Avrebbe potuto dichiarare l’inammissibilità della questione sollevata e dare un consueto monito al legislatore affinché rimuovesse il ravvisato vulnus. E invece ha differito la propria valutazione, auspicando la sopravvenienza di una legge che regoli la materia in base alle non più taciute esigenze di tutela.
Si è detto che la Corte fa una passo di lato, non indietro, non abdicando affatto alla propria funzione, ma affidando al Parlamento il compito di regolare ed illuminare una materia per troppo tempo lasciata al buio; né lascia l’imputato in balia dell’arbitrio del legislatore stesso, riservandosi l’ultima parola e preannunciando il suo intervento il 24 settembre 2019, in caso di inerzia legislativa. È una Consulta che si rivela rivoluzionaria nel metodo, ma profondamente ancorata ai propri principi costituzionali; il suo messaggio è netto, difficile da ignorare per la politica.
Paradossalmente, nel “decidere di non decidere”, la Corte dà uno scossone di portata storica alle Camere.
È la grande occasione per il legislatore di redigere una legge, necessaria e pretesa dall’opinione pubblica, sul fine vita e l’occasione di discutere su un’eutanasia legale, in grado di rompere il silenzio su un tema che non è più possibile ignorare, in considerazione, altresì, dei tanti casi in cui si è manifestata la perentorietà di un intervento.
Ciò che si auspica è che finalmente venga riconosciuto, nelle situazioni come quella di Fabo, uno “spazio libero dal diritto penale”. Se così non fosse, il risultato sarebbe costringere, chi versi in quella drammatica situazione di sofferenza, ad affrontare una scelta crudele e disumana. Costui potrebbe “accettare” la propria prigionia materiale e spirituale, in presenza di condizioni che rendono la vita insopportabile, sacrificando il proprio diritto di autodeterminarsi liberamente e subendo un’irragionevole disparità di trattamento rispetto a chi può provvedere da solo a por fine alla propria vita non più dignitosa. In alternativa dovrebbe optare, necessariamente, per un percorso di fine vita tramite sospensione dei sostegni vitali, una scelta che lo esporrebbe ad una agonia del corpo difficile da accettare. L’ultima opzione possibile, paradossalmente, si tradurrebbe nella scelta di una richiesta di solidarietà - come ha fatto Fabiano - consapevole che ciò esporrebbe chi accoglie quella richiesta di aiuto ad un gravissima censura, ad una pena intransigente.
Siamo dinanzi ad un passaggio di testimone, si chiede alle Camere ciò che si è già chiesto alla Corte, di non abbassare lo sguardo, di accogliere un “diritto penale del rispetto”; del rispetto sia per chi abbia deciso per la vita ad ogni costo, sopportando con coraggio o solo per rassegnazione la prigionia del proprio vivere, sia, soprattutto, per chi autonomamente e consapevolmente decide per la dignità di vivere o morire; sia, infine, per chi in queste condizioni si limita ad invocare un “aiuto nel morire”, una solidarietà che l’ordinamento giuridico non dovrebbe censurare con tanta assolutezza e intransigenza.
È il tema del fine vita, della voglia di far valere una vita di qualità ed una morte dignitosa e meno sofferente possibile, servendosi della concreta ed effettiva possibilità di scegliere come e quando vivere e morire.
Dando uno sguardo alla situazione attuale e ai primi mesi trascorsi dalla pronuncia, quali le prospettive? La Corte ha cercato un dialogo col Parlamento, ha espresso una richiesta di aiuto. La strada è lunga e tutta in salita, anche se lo scorso gennaio è stata depositata alla Camera una proposta di legge di iniziativa popolare, già avanzata nel “lontano” 2013.
Ma la proposta di iniziativa popolare è solo la prima di quelle (almeno altre 2) che saranno esaminate, e il Parlamento dovrebbe accelerare il passo per ottemperare al suo compito e rispettare la fatale scadenza (non certo remota) del 24 settembre 2019 stabilita dalla Consulta. Se così non fosse, allora la parola tornerebbe ai giudici costituzionali, decretando una triste sconfitta della politica.
Un dato è certo: l’innovazione metodologica della Corte denota una profonda sensibilità nei confronti dei diritti individuali, delle prerogative costituzionali, nonché del dialogo imprescindibile tra i poteri dello Stato. E questa sensibilità si è tradotta in una sentenza di incostituzionalità “differita”, rimandata ad un futuro prossimo e, per ciò solo, più sicura e consapevole.
Cosa accadrà il 24 settembre 2019? Presumibilmente, la Corte manterrà la stessa composizione, lasciando presagire che i già rilevati profili di incompatibilità costituzionale, nell’ipotesi di inerzia o incapacità legislativa, condurranno ad una definitiva dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 580 e di un’eventuale normativa insoddisfacente. La partita è tutta da giocare, ma in campo scenderanno gli stessi giocatori?
3. Uno sguardo comparatistico. La regolamentazione del fine vita oltre confine.
Il tassello finale è quello comparatistico. Uno sguardo fuori Italia può davvero disvelare scenari interessanti e disparati, ed essere fonte di ispirazione per le scelte decisive a cui è chiamato il Parlamento.
FRANCIA
In Francia l’eutanasia attiva ed il suicidio assistito non sono ammessi, mentre è parzialmente ammessa l’eutanasia passiva. Nel 2016 il Parlamento francese ha approvato un disegno di legge che consente ai medici di sedare i pazienti fino alla morte, senza cadere, però, negli spazi del suicidio assistito e dell’eutanasia volontaria. La nuova legge sul fine vita supera la precedente “loi Leonetti”. Viene introdotta «un’eutanasia mascherata» dietro il sipario della sedazione terminale. Il testo parla di un «diritto alla sedazione profonda e continua» fino al decesso per i malati in fase terminale. Allorquando un paziente è «affetto da una malattia grave e incurabile», e la sua «sofferenza è refrattaria alle cure» e si è davanti a una «prospettiva di vita» molto breve, allora può essere addormentato e tutti i sostegni vitali, come alimentazione e idratazione, possono essere interrotti.
SVIZZERA
La Svizzera prevede sia l’eutanasia attiva indiretta (assunzione di sostanze i cui effetti secondari possono ridurre la durata della vita), sia quella passiva (interruzioni dei dispositivi di cura e di mantenimento in vita), sia il suicidio assistito; l'Art.115 del codice penale svizzero entrato in vigore nel 1942 (ma scritto già nel 1918) considera un reato aiutare una persona a suicidarsi solo se il motivo segue fini d'interesse personale.
L’iter da seguire è in ogni caso lungo e complesso. Una commissione controlla minuziosamente tutta la documentazione del malato, poi acconsente al trasferimento. Successivamente subentra un medico con l’unico compito di dissuadere il malato dalla sua intenzione. Nel caso in cui persista una volontà ferrea e cristallizzata, si procede con il ricovero. Il malato viene condotto nella struttura e, quando comincia il processo vero e proprio, viene somministrato il pentobarbital di sodio. Dopo pochi minuti giunge il coma profondo e viene paralizzata la respirazione. Si pone così fine alla vita; una “dolce morte” difficile da immaginarsi.
GERMANIA
In ambito tedesco, La Corte di giustizia si è espressa nel 2010 a favore dell'eutanasia passiva. Pur non essendovi una legge specifica, anche l'eutanasia attiva è ammessa se è chiara la volontà del paziente. Invero, Il Parlamento tedesco il 6 novembre 2015 ha espressamente vietato la “sistematica assistenza al suicidio in forma commerciale” come invece ammesso nella vicina Svizzera, sanzionandola nei casi più gravi con la reclusione fino a 3 anni. A ben vedere, la legge non è diretta a colpire medici che in una situazione difficile agiscano secondo coscienza, quanto piuttosto la ripetuta promozione commerciale del suicidio.
OLANDA
Nel 1993 in Olanda, in materia di eutanasia, una regolazione provvisoria fu accettata sia dal Parlamento, che dal Senato. Nel 2002 la Legge sull’eutanasia entrò in vigore. Tale legge non implica una legalizzazione dell’eutanasia o del suicidio assistito, atti che rimangono proibiti, ma non punibili, se eseguiti da un medico che ha osservato i criteri di accuratezza, espressamente elencati all’articolo 2 della Legge sull’eutanasia. Il medico deve convincersi che la sofferenza del paziente sia senza prospettive e insopportabile, ossia che non ci sia più possibilità di curare la malattia del paziente, di migliorare la sua condizione, di eliminare o rendere sopportabile la sua sofferenza. Si tratterebbe di un criterio medico, munito di oggettività.
BELGIO
Il Belgio, secondo dopo l’Olanda nell’apertura al fine vita, nel settembre del 2002 e dopo un acceso dibattito, ha autorizzato il suicidio assistito, incredibilmente esteso nel 2014 anche ai minori. Da allora, stando ai dati della Società reale di medicina olandese, circa 4.000 persone l’anno sono state aiutate a morire. Trattasi, in particolare, di malati terminali di tumore, ma altresì di pazienti colpiti da Alzheimer in stadio avanzato.
SPAGNA
In ambito spagnolo, sia il suicidio assistito che l’eutanasia passiva sono stati depenalizzati a partire dal 1995. Dopotutto, fatta eccezione per qualche isolato documento di condanna da parte della chiesa e per l’opposizione parlamentare dei popolari, non si rinviene in Spagna un effettivo contrasto alla cultura della morte. Si tratta di un paese che fino a ieri veniva considerato una trincea del cattolicesimo e che oggi cede, quasi senza fare resistenza, alle prepotenti invasioni del laicismo.
Diversi i disegni di legge in discussione. Il testo predisposto dal Partito Socialista spagnolo oltre a depenalizzare l’aiuto al suicidio prevede che siano le strutture sanitarie pubbliche a praticarla come una cura normale e, per così dire, “all’ordine del giorno”. I casi in cui è consentita sono i più disparati ampi e sono aperti, oltre alle malattie gravi e incurabili con ridotta aspettativa di vita, anche la disabilità irreversibile quando è causa sofferenze psico-fisiche. D’altra parte, i moderati hanno presentato un parallelo disegno di legge sulle cure palliative, similmente all’Italia, subordinando l’appoggio o l’astensione sulla proposta socialista all’approvazione del loro testo, che non viene pertanto considerato alternativo all’altro.
PORTOGALLO
In Portogallo, l’eutanasia passiva è solo parzialmente accettata e limitatamente a trattamenti particolarmente aggressivi, non essendo consentita la sospensione di alimentazione e idratazione artificiale. Nel maggio 2018 sono stati bocciati quattro progetti di legge miranti a legalizzare l’eutanasia e il suicidio assistito. Un risultato che lascia sorpresi dinanzi alle predette aperture di numerosi paesi, e che nel panorama portoghese è stato interpretato come una vittoria schiacciante della vita, della democrazia e della medicina. La vittoria del No è stata ottenuta peraltro in Parlamento solo di misura, un risultato di non poco conto in un Paese che solo fino a pochi anni fa era considerato una roccaforte incrollabile del cattolicesimo.
Riferimenti bibliografici.
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SCLAFANI, F.- BALBI, G.- GIRAUD, O., Istigazione o aiuto al suicidio: profili giuridici, criminologici e psicopatologici, Napoli, 1997;
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Sitografia.
https://www.associazionelucacoscioni.it
https://www.glistatigenerali.com
Sommario: 1. Breve premessa. 2. La ratio decidendi. 3. Rapido excursus sulla nozione di profitto confiscabile secondo i dicta delle Sezioni Unite Penali. 4. L’attuale stato dell’arte nella giurisprudenza di legittimità. 5. Futuri scenari e conclusioni.
1. Breve premessa.
L’ordinanza del Tribunale del riesame di Siracusa – per la lucidità dell’analisi[1] articolata su un tema che registra, nonostante reiterati interventi delle Sezioni Unite, posizioni contrastanti in seno alla giurisprudenza di merito e di legittimità – offre lo spunto per svolgere alcune brevi riflessioni sulla misura cautelare del sequestro finalizzato alla confisca diretta o per equivalente nei reati tributari nel caso in cui l’oggetto dell’ablazione sia costituito dal denaro.
2. La ratio decidendi.
Il caso scrutinato dal Tribunale di Siracusa è, in sintesi, il seguente.
Il legale rappresentante di una società di capitali non aveva versato all’erario, entro il termine previsto per la dichiarazione annuale di sostituto di imposta, le ritenute (di importo pari ad euro 428.951,96) operate sulla base della stessa dichiarazione. Ritenuto integrato il fumus boni iuris del reato di cui all’art. 10-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il giudice per le indagini preliminari, su richiesta del pubblico ministero, emetteva un decreto di sequestro preventivo ordinando il vincolo, in via diretta, delle somme di denaro non versate a titolo di imposta se accreditate sui conti correnti intestati alla società e contestualmente disponeva il sequestro preventivo, per equivalente, ai sensi dell’art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000, fino all’importo corrispondente al totale delle imposte non versate, sui beni mobili, immobili registrati o altre utilità facenti parte del patrimonio personale dell’indagata. Eseguito il decreto di sequestro, venivano apprese presso la società somme di denaro pari ad euro 215.785,27. Tuttavia, le somme giacenti presso i conti correnti intestati alla predetta società sino al 31 ottobre 2017, data nella quale il versamento delle ritenute doveva essere eseguito, risultavano essere, come da documentazione bancaria prodotta dalla difesa, pari a complessivi euro 339,50. In sede di riesame del provvedimento, veniva pertanto eccepita l’illegittimità del sequestro preventivo disposto in via diretta delle somme eccedenti i saldi attivi esistenti sui conti correnti intestati alla società alla scadenza del termine per il versamento del tributo, sul rilievo che, consistendo il profitto del reato in un risparmio di spesa, non potevano essere oggetto di ablazione le disponibilità liquide maturate successivamente alla scadenza del termine previsto per il versamento (ossia al 31 ottobre 2017), perché tali disponibilità, derivando da rimesse fatte da terzi successive alla data di consumazione del reato, non potevano essere considerate come un “risparmio di spesa” quale conseguenza del mancato versamento delle imposte e quindi non potevano essere sottoposte a sequestro difettando in esse la caratteristica di profitto; in caso diverso, ammettendosi il sequestro anche delle somme maturate successivamente al 31 ottobre 2017, si sarebbe legittimata l’operatività di un sequestro per equivalente nei confronti della società, come tale illegittimo, salvo il caso in cui fosse stato dimostrato che la persona giuridica costituisse uno schermo fittizio, utilizzato dal reo per commettere reati, situazione, nella specie, non ravvisata.
Il Tribunale del riesame, dopo aver ampiamente riportato e commentato gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, ha respinto l’eccezione affermando, con estrema chiarezza, il principio secondo il quale, in tema di reati tributari, il profitto consiste in un qualsivoglia vantaggio patrimoniale e può risultare anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, risparmio che prescinde dalla data di consumazione del reato, cosicché, nel caso di sequestro del denaro, non rileva la materiale destinazione di esso che ne rappresenta la diretta estrinsecazione, né rileva il momento, successivo alla consumazione del reato, nel quale vengono percepite ulteriori somme, quantunque avulse da un diretto rapporto di pertinenzialità con il reato contestato. “Se infatti il denaro, quale bene fungibile, viene a perdere la propria autonomia e il legame pertinenziale con il reato contestato, ciò che rileva agli effetti della confisca, è l’esistenza del valore nominale comunque accresciuto di consistenza a rappresentare (…) l’oggetto da confiscare, senza che assumano rilevanza alcuna gli eventuali movimenti che possa aver subito quel determinato conto bancario anche successivamente la data di consumazione”. Logica conseguenza di tale impostazione è che, prescindendo il risparmio di spesa dal momento consumativo del reato tributario, la fattispecie della confisca diretta deve ritenersi integrata, secondo il ragionamento del Tribunale, in presenza dell’ablazione di un bene fungibile, dovendo quest’ultimo ritenersi svincolato dal requisito della pertinenzialità, con la conseguenza che si viene a creare una confusione nel patrimonio dell’obbligato, perché il profitto permane sino a quando sussiste l’obbligazione tributaria, consistente appunto in un risparmio di spesa, risparmio che perciò resta tale a prescindere dalla scadenza temporale del versamento, atteso che il profitto del reato perdura fino a quando sia totalmente assolto l’onere tributario. In difetto di ciò, la somma sarà sempre assoggettabile a sequestro preventivo finalizzato a confisca diretta in quanto indirettamente connessa, come profitto del reato, all’attività criminosa in virtù della quale si è accresciuta virtualmente la consistenza bancaria del conto intestato alla società beneficiaria del risparmio di spesa.
3. Rapido excursus sulla nozione di profitto confiscabile secondo i dicta delle Sezioni Unite Penali.
Più volte le Sezioni unite della Corte di cassazione si sono soffermate sulla nozione di “profitto confiscabile”, scrutinando la nozione sia sotto l’aspetto dell’individuazione delle componenti strutturali del profitto del reato e sia sotto l’aspetto attinente al nesso di derivazione causale del profitto dal reato[2]. In una prima pronuncia, affermarono, con specifico riferimento alla nozione di profitto declinata dall’art. 240 cod. pen., che il “profitto” consiste in qualsiasi “vantaggio economico” costituente un “beneficio aggiunto di tipo patrimoniale” che abbia una “diretta derivazione causale” dalla commissione del reato[3]. In continuità con l’orientamento di identificare il profitto nel “vantaggio di natura economica” o nel “beneficio aggiunto di tipo patrimoniale”, le Sezioni unite successivamente indicarono la necessità di una stretta derivazione causale del profitto dal reato[4] e, in una coeva decisione, affrontando nuovamente la questione della definizione del profitto confiscabile, affermarono che, nella formulazione dell’art. 240, comma 1, cod. pen., il “prodotto del reato” si identifica in quei beni che costituiscono il risultato empirico della condotta esecutiva criminosa quali immediate conseguenze materiali di essa; per “profitto del reato”, invece, si deve intendere il vantaggio di natura economica che deriva dall’illecito, precisando che per vantaggio economico non deve intendersi “utile netto” né “reddito” ma un beneficio aggiunto di tipo patrimoniale, che non deve essere necessariamente conseguito da colui che ha posto in essere l’attività delittuosa. Nel pervenire a tali conclusioni, le Sezioni unite tuttavia ammonirono come dovesse, in ogni caso, mantenersi ferma - per evitare un’estensione indiscriminata ed una dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, indiretto o mediato, che possa scaturire da un reato - l’esigenza di una diretta derivazione causale dall’attività del reo, intesa quale stretta relazione con la condotta illecita[5]. In un immediato e successivo arresto le Sezioni unite affermarono, senza ulteriori specificazioni in proposito, che, mentre il profitto corrisponde all’utile ottenuto in seguito alla commissione del reato, il prodotto corrisponde al risultato, cioè al frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita[6].
Una rielaborazione, in senso estensivo, del principio della diretta derivazione causale del profitto dal reato scaturì da una successiva pronuncia delle Sezioni unite che, in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dall’art. 322-ter cod. pen., affermarono come costituisse “profitto” del reato anche il bene immobile acquistato con somme di danaro illecitamente conseguite, quando l’impiego del denaro fosse, come nel caso di specie, causalmente collegabile al reato stesso e fosse soggettivamente attribuibile all’autore di quest'ultimo[7], chiarendosi che, nel concetto di profitto o provento di reato, vanno compresi non soltanto i beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità, che lo stesso realizza come effetto anche mediato ed indiretto della sua attività criminosa. Le Sezioni unite fecero conseguire da ciò l’affermazione secondo cui qualsiasi trasformazione che il danaro illecitamente conseguito subisca per effetto di investimento dello stesso deve essere considerata profitto allorquando sia collegabile causalmente al reato stesso ed al profitto immediato (il danaro) di esso che sia stato conseguito e sia soggettivamente attribuibile all’autore del reato, che quella trasformazione abbia voluto[8]. La successiva evoluzione della giurisprudenza di legittimità, nella sua più autorevole espressione, ha fatto registrare, come si vedrà, una flessione della concezione causale[9] del profitto temperata, se non in alcuni casi surrogata, da una concezione di tipo strutturale, i cui confini non sembrano definitivamente tracciati e i cui contenuti, se non supportati da riforme normative dell’istituto, sembrano destinati ad essere posti in forte discussione dalla stessa giurisprudenza di legittimità, nei limiti che si riterranno consentiti dall’ordinamento, come sarà più chiaro in seguito[10]. Per il momento, va segnalato come, in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, le Sezioni unite – in sostanziale continuità con i precedenti orientamenti ma con approccio metodologico tale da privilegiare nella nozione di profitto del reato non già e non solo il profilo causale, quanto, piuttosto, i profili strutturali del medesimo, in quanto collegato ad attività economica imprenditoriale[11] – affermarono che il profitto del reato oggetto della confisca di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 231 del 2001 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, precisando tuttavia che, nel caso in cui questo venga consumato nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere considerato tale anche l’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell’esecuzione da parte dell’ente delle prestazioni che il contratto gli impone, questo perché, secondo le Sezioni unite, nella ricostruzione della nozione di profitto oggetto di confisca, non può farsi ricorso a parametri valutativi di tipo aziendalistico - quali ad esempio quelli del “profitto lordo” e del “profitto netto” ma che, al contempo, tale nozione non può essere dilatata fino a determinare un’irragionevole e sostanziale duplicazione della sanzione nelle ipotesi in cui l’ente, adempiendo al contratto, che pure aveva trovato la sua genesi nell’illecito, abbia posto in essere un’attività i cui risultati economici non possono essere messi in collegamento diretto ed immediato con il reato[12]. In quest’ottica le Sezioni unite ritennero che, in tema di responsabilità degli enti, qualora debbano imputarsi al profitto del reato presupposto dei crediti, non può procedersi alla loro confisca nella forma per equivalente, ma solo in quella diretta, atteso che altrimenti l’espropriazione priverebbe il destinatario di un bene già nella sua disponibilità in ragione di una utilità invece non ancora concretamente realizzata dal medesimo[13].
Ciò che occorre ricordare, anche per quanto si dirà in seguito circa l’apporto fornito dai reati tributari alla nozione di profitto confiscabile, è che le Sezioni unite non hanno mai mancato di sottolineare l’importanza del nesso di pertinenzialità tra condotta illecita e conseguimento del profitto. In sintonia con i precedenti indirizzi, è stato infatti affermato, anche dopo la sentenza Fisiaimpianti[14] ed in linea con i suoi enunciati, come il profitto del reato presupponga l’accertamento della sua diretta derivazione causale dalla condotta dell’agente, con la conseguenza che il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta l’effettivo criterio selettivo di ciò che può essere confiscato a tale titolo. E’ stato perciò ribadito come fosse necessaria una correlazione diretta del profitto con il reato ed una stretta affinità con l’oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità, dall’illecito[15]. A questo proposito le Sezioni unite Caruso non hanno mancato di sottolineare come tale criterio di selezione non fosse scalfito da precedenti arresti[16] che, con riferimento alla confisca “diretta” (c.d. di proprietà) del profitto della concussione, aveva ricompreso nella nozione di profitto anche il bene acquistato con il denaro illecitamente conseguito attraverso il reato, avendo la pronuncia precisato che tale reimpiego doveva comunque essere “casualmente” ricollegabile al reato e al profitto “immediato” dello stesso.
Nondimeno è stato l’impatto della confisca con i reati tributari[17] che ha determinato una svolta particolarmente significativa nell’evoluzione giurisprudenziale del concetto di profitto. In questo tipo di incriminazioni, infatti, il vantaggio illecito conseguito dall’autore del reato consiste nella sottrazione a tassazione della ricchezza prodotta, cosicché, di regola, il profitto del reato si consegue attraverso l’inadempimento dell’obbligazione tributaria, inadempimento che solitamente si realizza con l’omesso versamento, in tutto o in parte, dell’imposta dovuta e, quindi, mediante un risparmio di spesa che non si risolve in un aumento della consistenza patrimoniale del soggetto (persona fisica o giuridica) tenuto al versamento dell’imposta ma si traduce in una mancata contrazione patrimoniale nel senso che, se l’obbligazione tributaria fosse stata assolta, sarebbe diminuita la consistenza patrimoniale dell’obbligato. In considerazione di questa particolare connotazione del profitto, ossia del mancato decremento del patrimonio e non già del conseguimento di un vantaggio in termini positivi di incremento dello stesso, le Sezioni unite[18] affermarono il principio secondo cui, in tema di reati tributari[19], il profitto confiscabile, anche nella forma per equivalente, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione del reato e può dunque consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario[20].
Sempre in tema di reati tributari, le Sezioni unite, nell’esaminare la questione circa la possibilità o meno di disporre il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta o per equivalente nei confronti di beni di una persona giuridica per le violazioni tributarie commesse dal legale rappresentante o da altro organo della stessa, scrutinarono anche la diversa e collegata questione sulla qualificazione come confisca diretta o per equivalente dell’ablazione di somme di denaro o beni fungibili, stabilendo il principio che la confisca del profitto, quando si tratti di denaro o di beni fungibili, non è confisca per equivalente, ma confisca diretta[21]. Questa secca conclusione è stata supportata dalle Sezioni unite con il richiamo a diversi precedenti delle Sezioni semplici[22] nonché con il riferimento all’arresto delle Sezioni unite Miragliotta[23] segnalandosi che, in tutte le ipotesi richiamate, non si era in presenza di confisca per equivalente ma di confisca diretta del profitto di reato, possibile ai sensi dell’art. 240 cod. pen. ed imposta dall’art. 322-ter cod. pen., secondo le cadenze descritte in tale ultima fattispecie. In questo modo, le Sezioni unite sono giunte non soltanto a qualificare estensivamente la nozione di profitto confiscabile, in quanto comprensivo di ogni utilità realizzata dal reo come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa, ma hanno fornito un indirizzo diretto a qualificare pro semper il sequestro del denaro come sequestro in forma specifica rendendo superfluo, in tal caso, il legame (cd. nesso di pertinenzialità) che deve sussistere tra la commissione del reato e il profitto.
Il percorso esegetico compiuto dalla sentenza Gubert è stato infine completato dalle Sezioni unite Lucci, che, nel ribadire che il profitto del reato si identifica con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito[24], ha affermato che, qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato[25].
4. L’attuale “stato dell’arte” nella giurisprudenza di legittimità.
Dopo la sentenza Gubert e prima della sentenza Lucci, la giurisprudenza di legittimità aveva osservato che, a proposito del sequestro in forma specifica del profitto per reati tributari commessi dal legale rappresentante nell’interesse della persona giuridica, il vincolo poteva essere disposto quando il profitto o i beni direttamente riconducibili a tale profitto fossero rimasti (e vi fosse la prova che fossero riconducibili al profitto e che fossero rimasti) nella disponibilità della persona giuridica[26]. Successivamente, dopo la sentenza Lucci, è stato affermato[27] che la natura fungibile del denaro, nel caso in cui il contribuente sia titolare di un rapporto di conto corrente che alla scadenza del debito tributario abbia un saldo negativo, non è sufficiente a qualificare di per sé come “profitto” l’oggetto del sequestro, essendo necessaria la prova che la disponibilità della somma successivamente sequestrata costituisca essa stessa risparmio di spesa conseguito con il mancato versamento dell’imposta o che si tratti di liquidità rimasta nella disponibilità del contribuente per tutto il tempo che va dalla scadenza del termine (momento di perfezione del reato) alla data di esecuzione del sequestro. In altri termini, la somma di denaro prelevata, distratta o destinata ad altri fini dal contribuente prima della scadenza del termine, non può essere qualificata come profitto del reato, non potendovi essere “profitto” prima della consumazione del reato stesso. Sicché, per stabilire se il denaro costituisce profitto (e cioè risparmio di spesa) del reato di omesso versamento (e, dunque, che sia un bene aggredibile in via diretta) occorre aver riguardo esclusivamente alle disponibilità liquide giacenti sui conti del contribuente al momento della scadenza del termine previsto per il pagamento, tenuto conto non alla loro identità fisica, ma al loro valore numerario che potrà essere oggetto di sequestro diretto solo se di segno positivo sia al momento della scadenza del termine per il pagamento dell'imposta che a quello, successivo, del sequestro e non potrà mai essere considerato “diretto” per la parte eccedente il saldo al momento della scadenza, potendo essere concepito, in tal caso, solo “per equivalente”[28]. Cosicché è stato affermato il principio di diritto in forza del quale, in tema di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto (e di ritenute operate sulle retribuzioni dei dipendenti), il profitto del reato consiste nel corrispondente risparmio di spesa e, in particolare, nelle disponibilità liquide giacenti sui conti del contribuente alla data di scadenza del termine per il pagamento, disponibilità non versate all’erario. Ne consegue che il sequestro, per essere qualificato come finalizzato alla confisca diretta del danaro costituente il profitto del reato omissivo, non può mai essere disposto, né essere eseguito, per importi comunque superiori ai saldi attivi giacenti sui conti bancari e/o postali di cui il contribuente disponeva alla scadenza del termine per il pagamento. Sulla stessa linea si registra un successivo arresto della giurisprudenza di legittimità che, procedendo ad una rilettura della sentenza Lucci e richiamati i principi espressi dalle Sezioni unite, ha sostenuto che proprio l’affermazione, secondo la quale, per disporre la confisca in forma diretta, è necessario che le disponibilità monetarie del percipiente si siano corrispondentemente accresciute, consente di ritenere che, ove si abbia invece la prova che il denaro non possa in alcun modo derivare dal reato (come nel caso di specie, dove il conto, dopo essere sceso quasi a zero, era stato alimentato con rimesse di terzi, e quindi da nuova finanza, in virtù di un piano concordatario), le somme non possono rappresentare il risultato della mancata decurtazione del patrimonio quale conseguenza del mancato versamento delle imposte, non costituendo risparmio di imposta e, quindi, profitto, finanche mediato, del reato[29]. Si tratta di impostazioni, almeno in apparenza distoniche rispetto alle sentenze Gubert e Lucci, che non sono rimaste isolate. E’ stato infatti affermato che la natura fungibile del denaro non consente la confisca diretta delle somme depositate su conto corrente bancario del reo, ove si abbia la prova che le stesse, non derivando dal reato, non costituiscano profitto dell'illecito[30]. In un successivo arresto, è stato precisato nuovamente che, ai fini della confisca diretta delle somme sequestrate sul conto corrente bancario, la natura fungibile del denaro non è sufficiente per qualificare come “profitto” del reato l’oggetto del sequestro, essendo necessario anche provare che la disponibilità delle somme, successivamente sequestrate, costituisca un risparmio di spesa conseguito con il mancato versamento dell’imposta, conseguendo da ciò che, per accertare se il denaro costituisce profitto del reato tributario, e, cioè, un risparmio di spesa aggredibile in via diretta, è necessario avere riguardo non all’identità fisica delle somme, ma al valore numerario delle disponibilità giacenti sul conto dell’obbligato alla scadenza del termine per il versamento dell’imposta, mentre il denaro versato successivamente a detto termine, che fosse stato sequestrato, non può essere ritenuto “profitto” del reato, ma rappresenta un’unità di misura equivalente al debito fiscale scaduto e non onorato, confiscabile se ricorrono i presupposti per la confisca per equivalente[31]. Recentemente, a proposito di un sequestro preventivo di una somma di denaro adottato, nei confronti di persona fisica e giuridica, quale profitto del reato di esercizio abusivo della professione (art. 348 cod. pen.) e di gestione senza autorizzazione di presidi medico-sanitari (art. 193 R.D. n. 1265 del 1934), sono state chiaramente esposte[32] le coordinate ermeneutiche che fondano la distinzione tra sequestro “diretto” o “in forma specifica” e sequestro di “valore” o “per equivalente”. E’ stato ribadito, seguendo l’impostazione esegetica adottata in materia dalle Sezioni unite[33], che esiste una netta differenza tra la confisca diretta e la confisca di valore (o per equivalente), che risiede nel nesso di derivazione qualificata dal reato, nel senso che, nel primo caso, quel rapporto di derivazione esige che l’autore del reato venga privato del bene, fisicamente individuabile, che rappresenta il “beneficio” diretto dell’illecito, laddove nel secondo caso, non potendo essere disposta la confisca diretta, l’agente viene privato di beni nella sua disponibilità economica che, senza alcuna pertinenzialità con il reato, abbiano una consistenza equivalente al prezzo o al profitto dell’illecito. Tuttavia il profitto o il prezzo del reato può essere costituito da una somma di denaro, ossia da un bene che perde la sua identificabilità fisica e che, per la sua fungibilità, si confonde con le altre disponibilità economiche dell’agente. In tal caso, non potendosi, in genere, individuare nella sua materialità il bene destinato alla confisca diretta, è sufficiente constatare che il patrimonio dell’interessato si sia accresciuto in misura pari a quell’importo, con la conseguenza che in tali ipotesi l’ablazione di somme di denaro depositate su un conto corrente bancario deve sempre essere qualificata come confisca diretta, indipendentemente da una previa verifica di una diretta pertinenzialità con il reato e, quindi, prescindendo dalla prova che proprio quella somma di denaro sia stata versata sul conto e indipendentemente dai movimenti effettuati sul conto medesimo, in quanto ciò che rileva è che si sia accresciuto il numerario nella disponibilità economica del reo[34]. Date queste premesse, la sentenza[35] si fa carico di fornire una diversa esegesi applicativa del principio di diritto enucleabile dalla sentenza Lucci, affermando come la stessa, nel declinare i precedenti principi di diritto, richieda, nella sostanza, che, nell’ipotesi in cui il profitto del reato sia consistito in una somma di denaro, la confisca diretta possa legittimamente avere ad oggetto un importo di pari entità comunque presente nei conti bancari o nei depositi nella disponibilità dell’autore del reato, purché si tratti di denaro già confluito nei conti o nei depositi al momento della commissione del reato ovvero al momento del suo accertamento: solo in tali ipotesi sarebbe, infatti, possibile ragionevolmente sostenere che il denaro sia sequestrabile e poi confiscabile in via diretta come profitto accrescitivo, dunque indipendentemente da ogni verifica in ordine al rapporto di concreta pertinenzialità con il reato, perché tale relazione sarebbe considerata in via fittizia sussistente proprio per effetto della confusione del profitto concretamente conseguito con tutte le altre disponibilità economiche del reo. Diversamente argomentando, cioè ammettendo che il vincolo reale possa estendersi anche su importi di denaro indistintamente accreditati sui conti o nei depositi dell’autore del reato, sulla base di crediti lecitamente maturati in epoca successiva al momento della commissione del reato - momento che giuridicamente finirebbe per recidere ogni rapporto di pertinenzialità con il reato stesso - si finirebbe per trasformare una confisca diretta in una confisca per equivalente: in quanto avente ad oggetto somme di denaro che, sebbene oggetto di movimentazione sui conti o sui depositi nella disponibilità dell’autore del reato, solo con una inaccettabile “forzatura” possono essere qualificate come profitto accrescitivo, perché del tutto sganciate, dal punto di vista logico e cronologico, dal profitto dell’illecito. D’altro canto, se la finalità della confisca diretta è quella di evitare che chi ha commesso un reato possa beneficiare del profitto che ne è conseguito, bisogna ammettere che tale funzione è assente laddove l’ablazione colpisca somme di denaro entrate nel patrimonio del reo certamente in base ad un titolo lecito ovvero in relazione ad un credito sorto dopo la commissione del reato, e non risulti in alcun modo provato che tali somme siano collegabili, anche indirettamente, all’illecito commesso. Su queste basi, è stato pertanto riaffermato il principio di diritto in forza del quale - laddove il profitto del reato sia costituito da denaro non più fisicamente identificabile - è sempre legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta, senza che sia necessaria la dimostrazione del nesso di derivazione dal reato, delle somme di denaro di valore corrispondente che siano attribuibili all’indagato, cioè che siano presenti sui conti o sui depositi nella disponibilità diretta o indiretta dell’indagato al momento della commissione del reato ovvero al momento del suo accertamento, con l’ulteriore precisazione che la medesima forma di sequestro deve ritenersi legittima anche sulle somme di valore corrispondente accreditate su quei conti o su quei depositi in epoca posteriore al momento della commissione o dell’accertamento del reato, purché si tratti di numerario che risulti dimostrato essere in qualche modo collegabile al reato, perciò allo stesso legato da un rapporto di derivazione anche indiretta[36].
Tuttavia occorre, a questo punto, dare conto del fatto che le ricadute interpretative scaturenti dalle sentenze delle Sezioni unite, in tema di confisca diretta o per equivalente del denaro, non siano state lette nel medesimo senso da una parte della giurisprudenza di merito e di legittimità. L’ordinanza[37] in commento costituisce una chiara dimostrazione in tal senso ed anche la giurisprudenza di legittimità[38], invocando gli arresti delle Sezioni unite Gubert e Lucci, ha tracciato coordinate non in sintonia con i precedenti orientamenti. L’ordinanza del Tribunale di Siracusa si segnala, infatti, anche per il fatto di aver meritoriamente colto una contrapposizione negli orientamenti espressi dalla giurisprudenza di legittimità, evidenziando un contrasto tanto esistente quanto inconsapevole. Le ragioni che costituiscono il fondamento del diverso indirizzo muovono dal presupposto[39] che la sequenza procedimentale, delineata nelle sentenze delle Sezioni Unite Lucci e Gubert, implica che, in caso di temporanea e reversibile infruttuosità del sequestro finalizzato alla confisca diretta, è possibile procedere al sequestro predisposto in vista della confisca per equivalente nei confronti dell’imputato ma ciò costituisce una facoltà per il pubblico ministero, facoltà che non preclude pertanto la possibilità di eseguire in qualsiasi tempo il sequestro in forma specifica, proprio perché il profitto del reato, in un primo momento non individuato, può essere successivamente scoperto. Secondo questa impostazione, le Sezioni unite Gubert e Lucci, con specifico riferimento al rapporto intercorrente tra confisca diretta nei confronti del soggetto percettore del profitto e confisca per equivalente nei confronti dei responsabili della commissione del reato, hanno chiarito che il sequestro in forma specifica ha natura di misura di sicurezza, mentre il sequestro di valore ha natura sanzionatoria[40] e che entrambe le misure vanno obbligatoriamente ordinate, ma che, in fase cautelare o in fase esecutiva, deve essere prioritariamente tentata l’apprensione del profitto del reato a carico della persona - fisica o giuridica che ne ha beneficiato, e che, solo in caso di incapienza, può essere aggredito, con la confisca per equivalente, il patrimonio dell’autore o degli autori del reato. In particolare, si sottolinea come le Sezioni Unite Gubert abbiano chiarito che in fase di esecuzione il rapporto tra i due provvedimenti ablatori è parallelo e progressivo, nel senso che è facoltà del pubblico ministero procedere al sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti dei responsabili del reato anche in caso di impossibilità solo temporanea e transitoria di recuperare l’intero profitto a carico del soggetto che ne ha beneficiato, senza necessità di pretendere la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto del reato, giacché, durante il tempo necessario per l’espletamento di tale ricerca, potrebbero essere occultati gli altri beni suscettibili di confisca per equivalente, così vanificando ogni esigenza di cautela[41]. Da ciò si deduce che, se la ratio della deroga alla regola generale della prioritaria esecuzione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta coincide con l’esigenza cautelare di evitare la possibile dispersione e/o sottrazione dei beni suscettibili di sequestro per equivalente da parte degli imputati e tale deroga rappresenta una facoltà e non un obbligo per il pubblico ministero, sarebbe del tutto evidente che, una volta constatata la temporanea transitoria e parziale incapienza della persona percettrice del profitto del reato, il pubblico ministero non avrebbe altra possibilità che quella di aggredire, con il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, il patrimonio dei soggetti responsabili del reato stesso, essendo preclusa la possibilità di continuare parallelamente e progressivamente l’esecuzione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta, e quindi di sottoporre al vincolo cautelare anche le somme di denaro che in momenti successivi fossero entrati nella disponibilità del soggetto percettore del profitto del reato. Tuttavia, una volta stabilito che quando il profitto e il prezzo del reato è costituito da denaro, non occorre dimostrare il nesso di pertinenzialità tra le somme da sottoporre a sequestro e il reato, sicché non può evidentemente porsi un limite di carattere temporale all’esecuzione del sequestro, ma solo quello della concorrenza dell’importo complessivamente corrispondente al profitto o al prezzo del reato. Questa impostazione è stata sostanzialmente convalidata dalla Corte di cassazione[42] sul presupposto che le Sezioni unite Gubert e Lucci hanno affermato che, ove il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato. Si afferma come le Sezioni Unite Lucci abbiano sottolineato proprio la natura fungibile del bene, che si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche del percipiente ed è tale da perdere - per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza - qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica, il che rende superfluo accertare, come si è in precedenza già evidenziato, se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell’illecito sia stata spesa, occultata o investita; ciò che rileva è che le disponibilità monetarie del beneficiario del profitto del reato si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo. Cosicché è la prova della percezione illegittima della somma che conta, e non la sua materiale destinazione: con la conseguenza che, agli effetti della confisca, è l’esistenza del numerario comunque accresciuto di consistenza a rappresentare l’oggetto da confiscare, senza che assumano rilevanza alcuna gli eventuali movimenti che possa aver subito quel determinato conto bancario. Quindi, soltanto nella ipotesi in cui sia impossibile la confisca di denaro sorge la eventualità di far luogo ad una confisca per equivalente degli altri beni di cui disponga l’imputato e per un valore corrispondente a quello del prezzo o profitto del reato, perché, in tal caso, si avrebbe quella necessaria novazione oggettiva che costituisce il naturale presupposto per poter procedere alla confisca di valore (non potendo l’oggetto della confisca diretta essere appreso, si legittima, così, l’ablazione di altro bene dell’imputato di pari valore). Da ciò l’ulteriore conseguenza che la confisca per equivalente, e prima ancora il sequestro finalizzato a detta confisca, ha funzione sussidiaria rispetto a quella tradizionale (confisca diretta) che ha connotati riparatori e finalità non repressive ma ripristinatorie dello status quo ante.
5. Futuri scenari e conclusioni.
Esaminate le ragioni che sono alla base dei segnalati orientamenti, la prima considerazione che se ne trae è che essi interpretano diversamente i dicta della sentenza Lucci. Inoltre, mentre per il primo indirizzo la sentenza Lucci sembrerebbe aver superato in parte qua alcune affermazioni contenute nella sentenza Gubert, per l’altro indirizzo le sentenze delle Sezioni unite disegnerebbero il medesimo percorso, impartendo principi complementari e, sulle medesime questioni, in perfetta sintonia tra loro. Ciò induce l’interprete ad interrogarsi su un problema di fondo, che è rimasto “sottotraccia” in seno alla giurisprudenza di legittimità, ossia sul se, in questa materia, le due sentenze delle Sezioni unite siano in consonanza tra loro, se e quali le eventuali differenze e quale il rapporto tra le Sezioni semplici e le Sezioni unite, qualora le prime affermino principi contrastanti con quelli declinati dal massimo organo di nomofilachia, tenuto conto della regula iuris di cui all’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen.
Partendo da quest’ultimo argomento, che, in questa sede, può essere soltanto sfiorato, meritando un approfondimento a parte per i temi che esso richiede di affrontare[43], va immediatamente precisato che la disposizione pone un vincolo, la cui inosservanza è sfornita di sanzione processuale, nei confronti delle Sezioni semplici, vincolo che, indipendentemente dal fatto se sia ed in quale misura costituzionalmente legittimo, impone alle Sezioni semplici della Corte di rimettere alle Sezioni unite, con ordinanza, la decisione del ricorso quando le prime ritengano “di non condividere il principio di diritto enunciato” da queste ultime. Premesso che la disposizione mira ad assicurare la prevedibilità delle decisioni giudiziarie, attribuendo maggiore consistenza al “valore del precedente” declinato dalle Sezioni unite e premesso che la prevedibilità delle decisioni costituisce, in generale, un valore che va perseguito e che deve trovare forme che, all’interno dell’organizzazione giudiziaria, ne assicurino l’effettività, appare preferibile ritenere che il vincolo a carico della Sezione semplice sussista in stretta correlazione al principio di diritto enunciato, senza limiti temporali, dalle Sezioni unite ma per il quale la questione sia stata espressamente rimessa. Non è tuttavia chiaro se il vincolo sussiste in stretta relazione al principio così come espresso nella sua formulazione letterale o se si debba anche tenere conto dei passaggi motivazionali che sono stati posti a fondamento di esso. Appare preferibile la seconda soluzione e la problematica non è di poco momento se si considera che, qualora il vincolo si ritenga affrancato da limiti temporali, la questione rimessa alle Sezioni unite Lucci, per quanto qui interessa, fu così posta: “se, nel caso in cui il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario debba essere qualificata come confisca per equivalente ovvero come confisca diretta e, ove si ritenga che si tratti di confisca diretta, se, ed entro quali limiti, debba ricercarsi il nesso pertinenziale tra reato e denaro” e la soluzione fornita fu la seguente: “qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme di cui il soggetto abbia comunque la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta; in tal caso, tenuto conto della particolare natura del bene, non occorre la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della confisca e il reato”.
Passando ora al secondo argomento, circa la sovrapponibilità o meno delle affermazioni contenute nelle sentenze Gubert e Lucci, va detto che, mentre quest’ultima ritiene che il profitto del reato si identifichi con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito[44], la Gubert, pur operando il riferimento a principi espressi dalle Sezioni semplici che evidentemente ha condiviso, sostiene che, nella nozione di profitto funzionale alla confisca, rientrano non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata dell’attività criminosa[45], pur avendo in precedenza riconosciuto che, quanto alla determinazione del profitto nei reati tributari, il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa come quello derivante dal mancato pagamento del tributo[46]. Quanto alla fungibilità di un bene della vita (es. denaro), sembra che la nozione di fungibilità sia intesa in senso diverso nelle due sentenze. Dice la Gubert[47]: “deve essere tenuto ben presente che la confisca del profitto, quando si tratta di denaro o di beni fungibili, non è confisca per equivalente, ma confisca diretta” e, per rafforzare l’assunto, subito dopo afferma: “qualora il profitto tratto da taluno dei reati per i quali è prevista la confisca per equivalente sia costituito da denaro, l’adozione del sequestro preventivo non è subordinata alla verifica che le somme provengono dal delitto e siano confluite nella effettiva disponibilità dell’indagato, in quanto il denaro oggetto di ablazione deve solo equivalenti all’importo che corrisponde per valore al prezzo o al profitto del reato, non sussistendo alcun nesso pertinenziale tra il reato e il bene da confiscare”, principio, quest’ultimo, ampiamente condivisibile ma che sembra funzionale alla confisca di valore e non alla confisca diretta. Sul punto, significativamente, la sentenza Lucci afferma che, quanto al denaro, bene fungibile per eccellenza e mezzo di pagamento, i “flussi possono essere, entro certi limiti, tracciabili e ricostruibili”, lasciando intendere che anche il denaro può essere oggetto di identificazione materiale o fisica e tuttavia afferma, in maniera perentoria, che, ove il profitto o il prezzo del reato sia rappresentato da una somma di denaro, questa, non soltanto si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell’autore del fatto, ma perde - per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza del reo - qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica. Successivamente, però, afferma che ciò che “rileva è che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma”, lasciando intendere che, ove ciò non si verifichi, non possono trarsi le auspicate conseguenze, ossia la legittimazione della confisca in forma diretta del relativo importo, aggiungendo tuttavia che “è la prova della percezione illegittima della somma che conta, e non la sua materiale destinazione: con la conseguenza che, agli effetti della confisca, è l’esistenza del numerario comunque accresciuto di consistenza a rappresentare l’oggetto da confiscare, senza che assumano rilevanza alcuna gli eventuali movimenti che possa aver subito quel determinato conto bancario” e concludendo che, “qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme di cui il soggetto abbia comunque la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta; in tal caso, tenuto conto della particolare natura del bene, non occorre la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della confisca e il reato”. In buona sostanza, la sentenza Lucci, da un lato, sembra che condivida i principi affermati dalla sentenza Gubert ma in tratti essenziali (concetto di fungibilità e tracciabilità del denaro, natura del profitto, accrescimento delle disponibilità monetarie) sembra tuttavia discostarsene.
Conclusivamente, quest’ultimo aspetto ed il fatto che la sentenza Lucci, in se stessa considerata, è stata fatta oggetto di diverse letture, entrambe plausibili, consente di ritenere che il tema sia ancora aperto e che la parola, che si auspica ultima, passi nuovamente alle Sezioni unite, indipendentemente dal principio espresso dall’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen.
[1] L’importanza che la giurisprudenza di merito riveste nella materia dell’interpretazione della legge e
nella ricostruzione esegetica degli istituti giuridici potrebbe ritenersi scontata. Essa tuttavia meriterebbe una riflessione “a parte”. Si deve infatti registrare come i buoni principi, che i giudici di merito declinano nel quotidiano esercizio delle funzioni, spesso si disperdano, restando racchiusi nelle pandette delle Cancellerie che periodicamente li raccolgono, non essendo i provvedimenti, dopo la loro pubblicazione, sempre editi dalle riviste giuridiche, che pure si occupano talvolta di massimarli o di annotarli, con criteri di selezione peraltro non conosciuti. Sarebbe perciò auspicabile che l’organizzazione giudiziaria, rafforzando gli organici Massimario, si attrezzi per selezionare, secondo il protocollo adottato dall’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione o in altro trasparente modo, i contributi offerti dalla giurisprudenza di merito, anche rivitalizzando il canale “Merito” del CED, in passato esistente.
[2] Per un’analisi ex professo del tema, si rinvia alla relazione n. 41 del 17 giugno 2014 dell’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione, redattore Piero Silvestri, dal titolo: La nozione di profitto confiscabile nella giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione.
[3] Sez. U, n. 9149 del 03/07/1996, Chabni, Rv. 205707, secondo cui “deve ritenersi pacifica in dottrina e giurisprudenza la definizione dei concetti di prodotto, profitto e prezzo del reato contenuti nell’art. 240 c.p. Il prodotto rappresenta il risultato, cioè il frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita; il profitto, a sua volta, è costituito dal lucro, e cioè dal vantaggio economico che si ricava per effetto della commissione del reato; il prezzo, infine, rappresenta il compenso dato o promesso per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato e costituisce, quindi, un fattore che incide esclusivamente sui motivi che hanno spinto l’interessato a commettere il reato”. In precedenza le Sezioni Unite avevano fondato la distinzione sulla dicotomia prezzo – provento, quest’ultimo costituito dal prodotto o dal profitto, affermando che, in tema di confisca, il “prezzo” del reato, oggetto di confisca obbligatoria ai sensi del secondo comma dell'art. 240 cod. pen., concerne le cose date o promesse per indurre l'agente a commettere il reato, mentre il “provento” dello stesso è invece riconducibile alla previsione normativa della confisca delle cose che siano “il prodotto o il profitto del reato”, contenuta nel primo comma del suddetto art. 240 (Sez. U, n. 1811 del 15/12/1992, dep. 1993, Bissoli, Rv. 192493).
[4] Sez. U , n. 29951 del 24/05/2004, Focarelli, in motiv.
[5] Sez. U, n. 29952 del 24/05/2004, Romagnoli, in motiv.
[6] Sez. U, n. 41936 del 25/10/2005 , Muci, in motiv.
[7] Sez. U, n. 10280 del 25/10/2007, dep. 2008, Miragliotta, Rv. 238700, Nel caso si specie, in tema di reato di concussione, il danaro era stato richiesto da un ufficiale di P.G. per l’acquisto di un immobile.
[8] Sez. U, n. 10280 del 25/10/2007, cit., in motiv.
[9] Si tratta di un aspetto opportunamente rimarcato nella relazione del massimario, cit,. dove si segnala come sia fondato ritenere, che, aderendo alla concezione causale, la giurisprudenza delle Sezioni unite per lungo tempo e in molteplici occasioni, da un lato, abbia richiesto, ai fini della confisca penale, un rapporto di pertinenzialità diretta del profitto con il reato, in forza del quale i beni da confiscare (anche per equivalente) sono stati determinati escludendo le maggiorazioni conseguenti ad attività ulteriori e non essenziali alla commissione del reato medesimo e, dall’altro, abbia attribuito alla derivazione causale del provento dal reato una valenza definitoria e delimitativa del concetto: il “profitto del reato” è tale in quanto, e solo in quanto, derivi causalmente dal reato medesimo. In tale quadro di riferimento, si sottolinea come, invece, nell’ambito della disciplina del d.lgs. n. 231 del 2001 sia stata maggiormente avvertita la necessità di una differente approccio metodologico nella individuazione della nozione di profitto del reato, privilegiando non già e non solo il profilo causale, quanto, piuttosto, i profili strutturali del medesimo, in quanto collegato ad attività economica imprenditoriale, come tale lecita.
[10] Il riferimento è all’articolo 618, comma 1-bis, cod. proc. pen. in forza del quale se una sezione della corte ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite rimette a queste ultime, con ordinanza, la decisione del ricorso.
[11] v. sub nota 7.
[12] Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008 Fisiaimpianti, Rv. 239924
[13] Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008 cit., Rv. 239927
[14] In particolare, Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, in motiv.
[15] V. Sez. U. n. 920 del 19/01/2004, Montella, in motiv.)
[16] Sez. U, n. 10280 del 25/10/2007, Miragliotta, cit.
[17] Ciò è accaduto a seguito della previsione di cui all’art. 1, comma 143, della legge finanziaria 24 dicembre 2007, n. 244 (ora art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000), rendendo applicabile l’art. 322-ter cod. pen. ai reati tributari.
[18] Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255036
[19] A proposito del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, di cui all'art. 11 del d.lgs. n. 74 del 2000.
[20] cfr. Sez. 5, n. 1843 del 10/11/2011, dep. 2012, Mazzieri, Rv. 253480; Sez. 3, n. 11836 del 04/07/2012, dep. 2013, Bardazzi, Rv. 254737.
[21] Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014. In dottrina cfr. L. DELLA RAGIONE, La confisca per equivalente nel diritto penale tributario, in Dir. Pen. Cont., 13 novembre 2010; F. MUCCIARELLI, C. E. PALIERO, Le Sezioni Unite e il profitto confiscabile: forzature semantiche e distorsioni ermeneutiche, in Dir. Pen. Cont. Riv. Trim, 4, 2015, p. 255; M. ROMANO, Confisca, responsabilità degli enti, reati tributari, in Riv. It. Dir e Proc. Pen., 4, 2015, pag. 1674 e ss.
[22] Sez. 6, n. 30966 del 14/06/2007, Puliga, Rv. 236984 secondo cui, nel caso in cui il profitto del reato (di concussione) fosse costituito da denaro, il sequestro preventivo di disponibilità di conto corrente dell’imputato è legittimamente operato in base alla prima parte dell’art.322-ter, comma primo, cod. pen.; Sez. 3, n. 1261 del 25/09/2012, dep. 2013, Marseglia, Rv. 254175, secondo cui , in tema di reati tributari, qualora il profitto tratto da taluno dei reati per i quali è prevista la confisca per equivalente sia costituito da denaro, l'adozione del sequestro preventivo non è subordinata alla verifica che le somme provengano dal delitto e siano confluite nella effettiva disponibilità dell'indagato, in quanto il denaro oggetto di ablazione deve solo equivalere all'importo che corrisponde per valore al prezzo o al profitto del reato, non sussistendo alcun nesso pertinenziale tra il reato e il bene da confiscare; Sez. 6, n. 23773 del 25/03/2003, Madaffari, Rv. 225757 secondo cui è ammissibile il sequestro preventivo, ex art. 321 cod. proc. pen., qualora sussistano indizi per i quali il denaro di provenienza illecita sia stato depositato in banca ovvero investito in titoli, trattandosi di assicurare ciò che proviene dal reato e che si è cercato di nascondere con il più semplice degli artifizi; Sez. 2, n. 45389 del 06/11/2008, Perino, Rv. 241973 secondo cui, in tema di sequestro preventivo, nella nozione di profitto funzionale alla confisca rientrano non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell'attività criminosa; Sez. 6, n. 4114 del 21/10/1994, dep. 1995, Giacalone, Rv. 200855 secondo cui la trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è di ostacolo al sequestro preventivo il quale ben può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito. Secondo questa impostazione, il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca e quindi nelle indagini preliminari, ai sensi dell'art. 321, comma 2, cod. proc. pen., il sequestro, deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa.
[23] Come si è visto, le Sezioni unite avevano ritenuto che, in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dall’art. 322-ter cod. pen., costituisse “profitto” del reato anche il bene immobile acquistato con somme di danaro illecitamente conseguite, quando l’impiego del denaro fosse causalmente collegabile al reato e fosse soggettivamente attribuibile all’autore di quest’ultimo (Sez. U, n. 10280 del 25/10/2007, dep. 2008, Miragliotta, cit.).
[24] Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264436.
[25] Sez. U, n. 31617 del 26/06/20, Lucci, Rv. 264437.
[26] Sez. 3, n. 39177 del 08/05/2014, Civil Vigilanza, non mass. sul punto, in motiv.
[27] Sez. 3, n. 28223 del 09/02/2016, Scarpellini, non mass., in motiv.
[28] cfr. P. VENEZIANI, La confisca obbligatoria nel settore penale tributario, in Cass. Pen., 4, 2017, p. 1694 e ss.
[29] Sez. 3, n. 8995 del 30/10/2017, dep. 2018, Barletta, Rv. 272353.
[30] Sez. 3, n. 41104 del 12/07/2018, Vincenzini, Rv. 274307. Nel caso di specie, si trattava del reato di omessa dichiarazione di cui all'art. 5 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in cui è stato escluso che le somme di denaro depositate sul conto corrente dopo la scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione IVA potessero rappresentare il profitto derivante dall'evasione fiscale.
[31] Sez. 3, n. 6348 del 04/10/2018, dep. 2019, Torelli, Rv. 274859.
[32] Sez. 6, n.6816 del 20/01/2019, Sena, in corso di massimazione.
[33] Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, cit.
[34] Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, cit.
[35] Sez. 6, n.6816 del 20/01/2019, cit.
[36] Sez. 6, n.6816 del 20/01/2019, cit.
[37] Trib. Riesame Siracusa, ord. 17/10-30/10/2018, v. sub §2.
[38] Ex multis, Sez. 2, n. 29923 del 12/04/2018, Salvini, non mass.
[39] E’ il caso di precisare che il ragionamento è sviluppato tenendo conto del contenuto del motivo di ricorso sviluppato, con ineccepibile logica giuridica, dalla Procura della Repubblica di Genova nel procedimento definito con la sentenza Sez. 2, n. 29923 del 12/04/2018, cit., in quanto in linea con le tesi recepite dall’indirizzo giurisprudenziale che si sta qui esaminando. Sul punto, v. Sez. 2, n. 29923 del 12/04/2018, cit., nella parte relativa al ritenuto in fatto.
[40] In dottrina: P. VENEZIANI, La confisca obbligatoria nel settore penale tributario, in Cass. Pen., 4, 2017, p. 1694 e ss.; A. MACCHIA, Le diverse forme di confisca: personaggi (ancora) in cerca d’autore, in Cass. Pen., 7-8, 2016, pag. 2719 e ss.; G. BIONDI, La confisca per equivalente: pena principale, pena accessoria o tertium genus sanzionatorio? In Dir. Pen. Cont. Riv. Trim., 5, 2017, p. 51 e ss.; L. DELLA RAGIONE, La confisca per equivalente nel diritto penale tributario, in Dir. Pen. Cont, 13 novembre 2010; P. AURIEMMA, La confisca per equivalente, in Archivio Penale, 1, 2014; F. PALAZZO, in Cass. Pen., 2, 2018, p. 461 e ss.; M. ROMANO, Confisca, responsabilità degli enti, reati tributari, in Riv. It. Dir e Proc. Pen., 4, 2015, pag. 1674 e ss.
[41] Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258648.
[42] Sez. 2, n. 29923 del 12/04/2018, cit.
[43]G. Fidelbo, Verso il sistema del precedente? Sezioni unite e principio di diritto in www.penalecontemporaneo.it, 2018; F. Paglionico, Il precedente vincolante e la rimessione obbligatoria alle Sezioni Unite: tra tradizioni giuridiche e spinte europeiste, in www.iusitinere.it, 2018, secondo cui si impone una necessaria analisi dei profili di compatibilità del precedente vincolante con i caratteri distintivi del nostro ordinamento giuridico, in cui l’adesione al precedente avviene in virtù della sua persuasività, determinata dall’autorevolezza riconosciuta alle decisioni dell’organo da cui promanano, e non perché la legge imponga un obbligo ai giudici, previsione che, peraltro, si porrebbe in contrasto con la regola costituzionale secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge (art. 101 comma 2 Cost.); Nello stesso senso, C. Iasevoli, Le nuove prospettive della Cassazione penale: verso l’autonomia dalla Costituzione? in Giur.it., ottobre 2017, 2300, ove si sottolinea che «le modifiche legislative apportate nella direzione dell’affermazione della vincolatività del principio di diritto enucleato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione rischiano di erigere a fonte del diritto penale o del diritto processuale penale le stesse Sezioni Unite. Se da un lato vi è l’esigenza di garantire la prevedibilità delle decisioni giurisprudenziali, dall’altro vi è la inderogabilità dei principi fondanti lo Stato di diritto: il bilanciamento presuppone che l’adesione ai dicta delle Sezioni Unite avvenga per convinzione e non per legge»; G. Civinini, Il valore del precedente nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Questione Giustizia, 2018; A, Caligaris, Le modifiche all’art. 618 cpp: verso un effettivo ed auspicato potenziamento della funzione nomofilattica, in Legislazione penale, 2018; M. Giualuz, Alla ricerca di soluzioni per una crisi cronica: sezioni unite e nomofilachia dopo la "riforma Orlando", in processo penale e giustizia, 2018.
[44] Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, cit., Rv. 264436.
[45] Pagine 9 e 10 della motivazione.
[46] Pagina 8 della motivazione.
[47] Pagina 9 della motivazione.
La recente fenomenologia dell’immigrazione irregolare via mare, caratterizzata da una deliberata segmentazione dell’iter di ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato italiano, pone questioni giuridiche indubbiamente complesse, che attengono ai profili di rilevanza penale della condotta dei soccorritori e, soprattutto, dei trafficanti e dei migranti. Le pronunce che “rispolverano” lo schema dogmatico dell’autore mediato per ritenere sussistente la giurisdizione italiana in riferimento alle condotte poste in essere dai trafficanti, nonché quelle sentenze che, in direzione per certi aspetti speculare, precisano come l’intervento dei soccorritori impedisca di ipotizzare una responsabilità per ingresso irregolare dei migranti trasportati sulle coste italiane, sono un chiaro indice delle difficoltà della giurisprudenza, chiamata a orientarsi tra le maglie di un tessuto normativo indubbiamente disorganico e, per certi aspetti, “sovrabbondante” (almeno) sul versante del diritto penale.
Sommario: La distinzione tra trafficking of human beings e smuggling of migrants. Criteri generali e rilevanza penale delle condotte poste in essere dal migrante. – 2. Il quadro normativo offerto dall’ordinamento giuridico italiano: la tratta di esseri umani (art. 601 c.p.) e il favoreggiamento all’immigrazione irregolare (art. 12 TU imm.) – 3. Il traffico di migranti via mare. La triade soggettiva “soccorritori-trafficanti-migranti”. – 3.1. Possibili profili di rilevanza penale dell’attività dei soccorritori – 3.2. Profili di rilevanza penale dell’attività dei trafficanti: il nodo pregiudiziale della giurisdizione e la “rinascita” dell’autore mediato – 3.3. Profili di rilevanza penale della condotta dei migranti: il migrante “scafista” e il migrante “passeggero”.
1.La distinzione tra trafficking of human beings e smuggling of migrants. Criteri generali e rilevanza penale delle condotte poste in essere dal migrante
Il tradizionale punto di partenza nelle indagini relative alla risposta penale in materia di immigrazione irregolare è rappresentato dalla distinzione tra trafficking e smuggling. Il trafficking of human beings, in particolare, si riferirebbe al fenomeno della “tratta di esseri umani”, mentre allo smuggling of migrants andrebbe ricondotta l’eterogenea fenomenologia di quelle condotte compendiate sotto l’etichetta del “traffico di migranti”.
La distinzione tra trafficking e smuggling è stata individuata essenzialmente sulla base di tre elementi, che il più delle volte sono chiamati a operare congiuntamente ai fini di un’actio finium regundorum indubbiamente complessa e che attengono, rispettivamente, alla direzione finalistica dell’attività posta in essere dai trafficanti o dagli sfruttatori, al ruolo svolto dal migrante e al bene giuridico tutelato.
Inutile precisare come spesso il traffico di migranti funzioni da anticamera per vere e proprie forme di sfruttamento di soggetti che, in cerca di condizioni di vita migliori rispetto a quelle del Paese di origine, finiscano per trovarsi coinvolti in situazioni a volte prossime alla riduzione in schiavitù[3].
Il più evidente elemento di criticità mostrato da questo criterio di distinzione è indubbiamente quello relativo alla particolare condizione di vulnerabilità in cui, di regola, si trovano i migranti non solo quando gli stessi siano vittime di tratta, ma anche quando “accettino” di prendere parte a viaggi finalizzati al loro ingresso irregolare nel territorio di uno Stato estero. Si tratta, altrimenti detto, della riproposizione di un quesito “tradizionale”: fino a che punto sia possibile individuare una manifestazione di volontà libera e consapevole in una “scelta” proveniente da “soggetti vulnerabili”.
Da questa premessa potrebbe derivare come conseguenza quella di ispirare le scelte di intervento penale in materia di smuggling non tanto alle esigenze di tutela della persona umana quanto a non meglio precisate logiche di “sicurezza”[4].
Al di là della effettiva validità dei criteri in questione e al netto dei loro rapporti reciproci, la conseguenza di immediato ed evidente interesse sul versante del diritto penale è il ruolo attribuito al migrante. Se, infatti, nel trafficking il migrante è vittima del reato (premessa da cui deriva come necessaria conseguenza la irrilevanza penale delle condotte poste in essere dallo stesso), nello smuggling l’ordinamento dei singoli Stati membri ben potrebbe decidere di criminalizzare non solo l’attività dei trafficanti, ma anche quella dei migranti “trasportati” che facciano ingresso irregolare nel territorio degli Stati stessi.
La distinzione tra trafficking e smuggling, con particolare riferimento proprio alle conseguenze che ne derivano in termini di rilevanza penale della condotta del migrante, trova riscontro tanto nella normativa internazionale ed europea quanto sul piano del diritto interno. Sul versante “non nazionale” il riferimento obbligato (al quale, per ragioni di economicità espositiva ci si limiterà in questa sede) è alla Convenzione ONU contro la criminalità organizzata del 2000 (c.d. Convenzione di Palermo) e, in particolare, ai relativi protocolli addizionali, relativi, rispettivamente al trafficking (Protocol to Prevent, Suppress and Punish Trafficking in Persons, Especially Women and Children) e allo smuggling (Protocol aganist the Smuggling of Migrants by Land, Sea and Air)[5].
Le definizioni offerte dai protocolli in questione sono le seguenti:
“Smuggling of migrants” shall mean the procurement, in order to obtain, directly or indirectly, a financial or other material benefit, of the illegal entry of a person into a State Party of which the person is not a national or a permanent resident.
“Trafficking in persons” shall mean the recruitment, transportation, transfer, harbouring or receipt of persons, by means of the threat or use of force or other forms of coercion, of abduction, of fraud, of deception, of the abuse of power or of a position of vulnerability or of the giving or receiving of payments or benefits to achieve the consent of a person having control over another person, for the purpose of exploitation. Exploitation shall include, at a minimum, the exploitation of the prostitution of others or other forms of sexual exploitation, forced labour or services, slavery or practices similar to slavery, servitude or the removal of organs.
L’art. 5 del c.d. Protocollo smuggling prevede che i migranti oggetto di una delle condotte descritte al successivo art. 6 non debbano considerarsi penalmente rilevanti. L’opinione più diffusa, tuttavia, è quella per cui mentre dagli strumenti internazionali si ricavi inequivocabilmente l’obbligo di punire coloro che sfruttano o favoriscono l’immigrazione irregolare e, all’opposto, il divieto di punire il migrante vittima di tratta, i singoli Stati conservino un “margine di apprezzamento” relativo alla scelta di punire o meno il “migrante volontario”, sia pur nel rispetto delle norme internazionali a tutela dei diritti umani (a partire dalla Convenzione di Ginevra del 1951)[6].
2.Il quadro normativo offerto dall’ordinamento giuridico italiano: la tratta di esseri umani (art.601 c.p.) e il favoreggiamento all’immigrazione irregolare (art. 12 TU imm.)
Per quanto riguarda le scelte compiute dal legislatore nazionale, le fattispecie che vengono in considerazione sul versante, rispettivamente, del trafficking e dello smuggling, sono la tratta di esseri umani di cui all’art. 601 c.p. e il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, previsto extra codicem dall’art. 12 TU imm.
L’evanescente linea di confine che, già a livello “definitorio”, è dato rinvenire tra il trafficking e lo smuggling si è tradotta (anche) in alcune incertezze applicative relative ai rapporti tra la tratta e il favoreggiamento all’immigrazione irregolare e, in particolare, a un possibile concorso apparente di norme tra l’art. 601 c.p. e l’art. 12 TU imm.
Posto che tanto il primo quanto il terzo comma dell’art. 12 TU imm. si aprono con la clausola di riserva “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, parte della giurisprudenza ha ritenuto che il reato di favoreggiamento dovesse ritenersi assorbito in quello di tratta di persone, con conseguente applicazione del solo art. 601 c.p. a fronte di condotte che fossero riconducili ad entrambe le fattispecie: l’ipotesi sarebbe, in particolare, quella in cui l’agevolazione all’ingresso in Italia di uno straniero costituisca al tempo stesso un mezzo per realizzare la tratta del migrante[7].
In senso contrario, tuttavia, valorizzando il profilo attinente al diverso bene giuridico tutelato, si è osservato che l’operatività della clausola di riserva sarebbe condizionata alla circostanza per cui il reato più grave sia posto a tutela del medesimo bene giuridico di quello che si rinviene nella fattispecie “da assorbire”: poiché, per contro, il favoreggiamento all’immigrazione irregolare mira a tutelare l’interesse dello Stato al controllo dei flussi migratori, mentre quello di tratta è posto a presidio della personalità umana, mancherebbero i presupposti per ipotizzare un concorso apparente di norme, imponendosi dunque la soluzione del concorso di reati[8].
Quanto invece alla rilevanza penale delle condotte poste in essere dal migrante trasportato, a venire in considerazione è anzitutto il discusso art. 10-bis TU imm., anche noto alle cronache come il reato di immigrazione clandestina. Tralasciando le perplessità relative al ricorso alla sanzione penale e le ragioni portate a favore di una depenalizzazione delle ipotesi in questione, il primo comma dell’art. 10-bis TU imm. punisce (anche) l’ingresso irregolare dello straniero nel territorio dello Stato: si tratta dunque di una disposizione almeno potenzialmente applicabile ai migranti volontari, che fanno ingresso nel territorio italiano attraverso condotte di “traffico” poste in essere da altri.
Posto che le questioni più problematiche sul piano applicativo sono indubbiamente quelle poste dall’immigrazione irregolare e, dunque, dal fenomeno dello smuggling, sembra opportuno fare riferimento agli orientamenti giurisprudenziali registratisi al riguardo, prendendo in considerazione, più in particolare, il quadro emerso in materia di traffico di migranti via mare.
3.Il traffico di migranti via mare. La triade soggettiva “soccorritori-trafficanti-migranti”
Il dato più significativo, da un punto di vista non solo “politico” ma anche più strettamente “giuridico”, è quello relativo alle differenti modalità del trasporto di migranti irregolari e al conseguente sbarco degli stessi sulle coste italiane.
Il modus operandi più risalente, in effetti, era quello dello “sbarco diretto”: il natante con a bordo i migranti giungeva direttamente e autonomamente sulle coste italiane, rendendo sufficientemente agevole l’individuazione dei profili di rilevanza penale delle condotte poste in essere dai diversi “attori” del traffico di migranti. Più di recente, invece, i trafficanti ricorrono a modalità di trasporto basate su una deliberata segmentazione dell’iter che, dal Paese di partenza (nei casi più recenti, i Paesi nordafricani) conduce fino alle coste italiane: il tutto minimizzando il rischio per i trafficanti e aumentando quello per i migranti. Solitamente, infatti, il “viaggio” si divide in due parti. Nella prima parte i migranti sono trasportati a bordo di navi robuste e capienti, mentre nella seconda parte gli stessi sono traferiti su imbarcazioni più piccole, inadeguate a raggiungere la riva perché prive di carburante, viveri e strumenti di sicurezza, spesso affidate alla guida di uno dei migranti che abbia competenze minime relative alla conduzione di un’imbarcazione. L’obiettivo è quello di provocare “ad arte” le condizioni che legittimano (e, anzi, rendono doveroso) l’intervento da parte dei soccorritori, in conseguenza del quale i migranti raggiungono infine il nostro Paese[9].
Nella complessa vicenda che si viene a determinare si intravede dunque una triade soggettiva, costituita dai soccorritori, dai trafficanti e dai migranti trasportati, che diviene il crocevia di una serie di questioni problematiche, a mezza via tra diritto e processo penale.
3.1 Possibili profili di rilevanza penale dell’attività dei soccorritori
L’inquadramento giuridico delle condotte poste in essere dai soccorritori, almeno fino alle più recenti e note vicende che hanno visto coinvolte le imbarcazioni di alcune ONG, sembrava sufficientemente chiaro.
Il “popolo dei soccorritori” presenta un volto particolarmente eterogeneo, nel quale confluiscono l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera Frontex, le Guardie Costiere Nazionali e le ONG, solo per restare alle ipotesi più ricorrenti. Le attività sono coordinate dal Comando generale del Corpo delle Capitanerie di porto-Guardia Costiera, con sede a Roma. Anche l’imbarcazione di una ONG, dunque, deve comunicare l’esistenza di una situazione di pericolo in mare al Comando generale, che procederà a coordinare le attività di soccorso: queste ultime potranno considerarsi concluse solo con lo sbarco nel porto sicuro indicato a livello “centrale”. Dalle fonti di riferimento (codice della navigazione, Convenzioni delle Nazioni unite sul Diritto del mare, Convenzione di Londra del 1989 sul salvataggio in mare) si ricava la sussistenza di un vero e proprio obbligo di soccorso in mare per tutti coloro che vengano a conoscenza di una situazione di pericolo in mare: quest’ultima potrebbe sussistere anche in presenza di oggettive situazioni di difficoltà del natante, quali la difficoltà a galleggiare, il suo sovraffollamento, l’assenza di equipaggio professionale a bordo e/o di un’adeguata strumentazione di sicurezza[10].
L’art. 12 TU imm., al primo comma e al terzo, richiede che le condotte di chi promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato siano poste in essere in violazione delle disposizioni del testo unico, estendendo altresì l’incriminazione agli altri atti diretti a procurare l’ingresso illegale nel territorio dello Stato. Se, dunque, la condotta di soccorso risulta conforme alla normativa di settore, i requisiti di antigiuridicità speciale contenuti nell’art. 12 TU imm. non possono certo ritenersi integrati in presenza di un’attività di soccorso in mare che, tra l’altro, è coordinata dallo Stato[11].
In riferimento ad alcune delle più recenti operazioni di soccorso, tuttavia, si è ipotizzato da parte dell’autorità giudiziaria che le operazioni di soccorso si fossero svolte al di là dei “limiti di liceità” delineati dall’ordinamento: si pensi, in particolare, al caso che ha riguardato la nave Iuventa della ONG Jugend Rettet. I membri dell’equipaggio sono stati accusati di aver posto in essere una serie di condotte, antecedenti e successive al salvataggio, finalizzate a consentire l’ingresso in Italia del più elevato numero possibile di migranti, sebbene lo scopo restasse di carattere umanitario. I “soccorritori”, più esattamente, avrebbero tenuto un incontro in alto mare con i trafficanti libici, a seguito del quale quest’ultimi avrebbero provveduto a scortare un barcone carico di migranti, prontamente traferiti a bordo della Iuventa; concluse le operazioni, gli stessi soccorritori avrebbero restituito ai trafficanti le navi usate per il trasporto, provvedendo altresì alla distruzione di video e foto che avrebbero consentito una loro identificazione[12].
In ipotesi di questo tipo, che rappresentano in ogni caso la patologia (e non la fisiologia) delle operazioni di soccorso, potrebbe ipotizzarsi una responsabilità dei soccorritori per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Più esattamente, si tratterebbe di un concorso nel delitto previsto dall’art. 12 TU imm., secondo lo schema della c.d. coautoria. Meno convincente sembrerebbe l’ipotesi per cui i soccorritori che “restano in attesa” di migranti da soccorrere al largo delle coste libiche rafforzerebbero il proposito criminoso dei trafficanti, nella forma almeno dell’istigazione (concorso morale).
3.2 Profili di rilevanza penale dell’attività dei trafficanti: il nodo pregiudiziale della giurisdizione e la “rinascita” dell’autore mediato
Nessun particolare dubbio sussiste sull’applicazione dell’art. 12 TU imm. ai trafficanti. Trattandosi di un reato di pericolo, si ritiene comunemente che lo stesso possa ritenersi consumato indipendentemente dal fatto che l’ingresso illegale avvenga o meno; quindi, potrebbe dirsi, indipendentemente dal fatto che la condotta posta in essere dai trafficanti giunga fino alle coste italiane oppure si arresti in alto mare.
Le diverse modalità dell’iter attraverso cui si realizza lo smuggling, tuttavia, non risultano del tutto indifferenti, rappresentando anzi la ragione di quella che per il traffico via mare assume la veste di vera e propria questione pregiudiziale: si tratta infatti di verificare se, nel caso in cui il soccorso dei migranti avvenga fuori dalle acque territoriali italiane, sia possibile o meno ritenere sussistente la giurisdizione del nostro Paese.
Proprio al fine di sciogliere questo interrogativo la giurisprudenza di legittimità, in maniera per certi versi inaspettata, ha rispolverato dagli scaffali dell’antiquariato dogmatico la figura del c.d. autore mediato: nelle pronunce più recenti, in effetti, lo schema in questione si trova utilizzato, con intenti che sostanzialmente non vanno al di là del piano descrittivo-classificatorio, soprattutto in riferimento all’errore determinato dall’altrui inganno ex art. 48 c.p.[13]. In questo caso, invece, dall’espediente dogmatico dell’autoria mediata derivano conseguenze indubbiamente decisive sul piano della giurisdizione.
L’intervento dei soccorritori, ad avviso della giurisprudenza, sarebbe solo l’ultimo segmento di un’attività ab initio pianificata da parte dei trafficanti. I soccorritori, dunque, agirebbero in qualità di autore mediato, ex art. 54, comma terzo c.p., in quanto gli stessi si sono trovati a operare in uno stato di necessità provocato e strumentalizzato dai trafficanti e quindi a loro riconducibile[14].
Neppure, precisano i giudici di legittimità, potrebbe invocarsi la scriminante dell’adempimento del dovere in riferimento alla condotta dei soccorritori: «anche ad ammettere che l’intervento di salvataggio fosse doveroso, ai sensi delle convenzioni internazionali sul diritto del mare, nulla ciò toglierebbe al fatto che l'antecedente condotta illecita - posta in essere da chi, salpando dalle antistanti coste mediterranee, trasporta e abbandona i clandestini in acque extraterritoriali, facendo sì che le condotte ulteriori, incluso lo sbarco finale in Italia, siano riconducibili agli esiti del salvataggio medesimo - debba essere intesa come pianificazione complessiva, unitaria ed organica, che si caratterizza per l'elevato rischio fatto correre ai trasportati, opportunamente strumentalizzato al fine di provocare l'intervento dei servizi di soccorso in mare; intervento da ritenere pertanto un tassello essenziale e pianificato di una concatenazione articolata di atti, che non può essere interrotta o spezzata nella sua continuità, ponendosi in diretta derivazione causale rispetto all'azione criminale di abbandonare in mare le persone in attesa dei soccorsi»[15].
La conseguenza è duplice: i soccorritori non rispondono del reato di favoreggiamento (ovviamente il presupposto è che non siano ravvisabili quelle situazioni “patologiche” cui si è fatto cenno nel paragrafo precedente), mentre il fatto dei trafficanti può considerarsi commesso nel territorio italiano ex art. 6 c.p.
Si tratta di una soluzione che non ha mancato di suscitare delle perplessità, non solo e non tanto per la “tenuta dogmatica” dell’autoria mediata: quest’ultima, infatti, è stata elaborata nell’esperienza giuridica tedesca per colmare alcune lacune che sembravano derivare dalla teoria dell’accessorietà e che, soprattutto, sono legate alle peculiarità di un quadro normativo molto diverso da quello italiano.
Anche a voler ritenere che lo schema in questione, specie se usato in riferimento a fattispecie specifiche, quale, appunto quella del terzo comma dell’art. 54 c.p., abbia un qualche diritto di cittadinanza anche nel nostro ordinamento, resterebbero pur sempre due nodi da sciogliere.
Anzitutto, è sufficientemente consolidata l’opinione per cui 12 TU imm. individui un reato di pericolo a consumazione anticipata e non un reato di evento, non rendendosi dunque necessario, ai fini del suo perfezionamento, l’ingresso illegale nel territorio dello Stato; le Sezioni unite, anzi, hanno di recente ritenuto che la medesima premessa valga per anche per il terzo comma dello stesso articolo 12 TU imm[16]. L’opinione rapidamente riassunta, secondo alcuni, rischierebbe invece di veicolare una surrettizia trasformazione del favoreggiamento all’immigrazione irregolare in reato di evento: la “prosecuzione” dell’attività dei trafficanti, in effetti, si apprezza solo in riferimento all’esito finale, rappresentato dallo sbarco sulle coste italiane[17].
La disposizione di cui all’art. 54, terzo comma c.p., inoltre, non si rivela né utile né necessaria per rendere lecita la condotta dei soccorritori. Non è utile, perché ricondurre la condotta dei trafficanti a una “minaccia” sembra per la verità un’operazione piuttosto ardita dal punto di vista interpretativo[18].
Non è necessaria, perché, come già precisato, l’irrilevanza penale della condotta dei soccorritori non si fonda sull’operatività di una causa di giustificazione, ma, a monte, sul difetto di tipicità per carenza del requisito di illiceità speciale previsto dall’art. 12 TU imm.
Analoghe questioni “pregiudiziali” relative alla giurisdizione si sono poste in riferimento alle associazioni per delinquere (art. 416 c.p.) “con sede” in Africa, ma dirette a produrre effetti in Italia. In proposito, più esattamente, si è affermato che, trattandosi di associazione transnazionale, potrebbe trovare applicazione l’art. 7, n. 5 c.p., secondo cui si applica la legge italiana per ogni reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana. In questo caso a venire in considerazione sarebbe l'art. 15, comma 2, lett. c), ii) della Convenzione di Palermo: la disposizione de qua afferma che lo Stato può determinare la propria giurisdizione in riferimento a quei reati di particolare gravità commessi al di fuori del proprio territorio[19].
Si è efficacemente rilevato come l’art. 7, n. 5 c.p. sembrerebbe riferirsi a quelle norme internazionali che direttamente stabiliscono la giurisdizione di un certo Stato (come i Patti Lateranensi), non già a quelle che, come l’art. 15 della Convenzione di Palermo, prevedono per lo Stato la possibilità di introdurre un nuovo criterio per l’applicazione della propria legge penale, possibilità cui l’Italia non sembra in effetti aver dato seguito alcuno[20].
3.3 Profili di rilevanza penale della condotta dei migranti: il migrante “scafista” e il migrante “passeggero”
Quanto alla responsabilità penale dei migranti trasportati a bordo delle imbarcazioni, si rende necessaria una distinzione preliminare tra i migranti che, nell’ambito della segmentazione dell’iter criminis cui già si è fatto riferimento, si vedono affidata la guida del natante, e i “passeggeri semplici”.
Per il migrante “capitano”, l’ipotesi di reato sarebbe quella di cui all’art. 12 TU imm. Trattandosi di un reato di pericolo, è indifferente (tranne a fini di giurisdizione) che l’imbarcazione guidata dal migrante giunga sulle coste o che lo sbarco avvenga a seguito dell’intervento dei soccorritori.
Nel caso in cui, ovviamente, sia dato ravvisare gli estremi dello stato di necessità, la sua condotta potrà ritenersi scriminata ex art. 54 c.p.: si pensi al caso del migrante che, minacciato dai trafficanti, assuma il controllo dell’imbarcazione, soprattutto dopo aver assistito all’omicidio di un altro migrante, che si era rifiutato di dar seguito alla medesima richiesta[21].
Per il migrante “passeggero semplice”, l’ipotesi di reato sarebbe quella di cui all’art. 10-bis TU imm. Anche in questo caso un eventuale intervento dei soccorritori non risulta indifferente, segnando anzi il confine tra penalmente rilevante e penalmente irrilevante.
Secondo un primo orientamento, qualora l’imbarcazione fosse stata soccorsa in acque internazionali e quindi trasportata, per motivi di soccorso pubblico, fino alla costa italiana, l’art. 10-bis TU imm. sarebbe integrato solo a livello di tentativo, che però, trattandosi di una contravvenzione risulterebbe penalmente irrilevante. Solo nel caso in cui il migrante giunga sulle coste italiane al di fuori di un’operazione di legittimo soccorso, potrebbe ipotizzarsi una responsabilità dello stesso per ingresso irregolare[22].
Si tratta di una questione che produce conseguenze di evidente rilievo sul piano processuale, con particolare riguardo alla veste giuridica da attribuire al migrante: si tratta cioè di chiarire se, una volta giunti sul territorio italiano, i migranti debbano essere sentiti dall’autorità giudiziaria come persone informate sui fatti-testimoni o come indagati.
L’opinione prevalente è quella per cui, qualora sia dato ravvisare una intermediazione da parte soccorritori, la veste giuridica sarebbe quella di persone informate sui fatti prima e di testimoni poi.
A questo risultato si perviene valorizzando giuridicamente l’opera dei soccorritori in una direzione esattamente speculare rispetto a quella che, in riferimento dei trafficanti, ruota attorno al concetto di autore mediato. In questo caso, infatti, si ritiene che, a seguito dell’intervento dei soccorritori, l’ingresso nel territorio italiano, lungi dal potersi considerare volontario, sarebbe addirittura da ritenere coatto, imposto dall’autorità competente[23]: l’opera dei soccorritori, altrimenti detto, interromperebbe naturalisticamente e giuridicamente la condotta dei migranti, impedendo di considerarla unitariamente sul piano di una possibile rilevanza penale.
L’impressione che ne deriva è quella di una coperta troppo corta per coprire, in maniera sistematicamente coerente, le diverse ipotesi riassunte dalla triade “soccorritori-trafficanti-migranti”, le cui componenti, pur distinte, sono tenute insieme da una fitta trama di relazioni reciproche.
A prevalere sono le esigenze di tutela che di volta in volta si considerano prevalenti. Nel caso dei trafficanti, la priorità è quella di radicare la giurisdizione in Italia, anche perché, in caso contrario, avrebbe gli effetti sperati quella “segmentazione del viaggio” che sempre più spesso rappresenta lo strumento per raggiungere le nostre coste. Nel caso dei migranti, l’esigenza è piuttosto quella di contenere al massimo i costi che deriverebbero da una generalizzata estensione della qualità di indagati ai migranti trasportati a bordo delle imbarcazioni. Costi che, come evidenziato, non sono solo economici e di sistema (assistenza del difensore nelle varie fasi delle audizioni fino alla conclusione del procedimento; iscrizione nel registro degli indagati di tutti i migranti giunti via mare in Italia), ma anche umani: trattare come indagati anche coloro che giungono in Italia a seguito di viaggi disperati o di naufragi mortali per alcuni dei loro compagni di viaggio, prima ancora di conoscere la loro posizione in termini “umanitari”, vorrebbe dire “mancare di rispetto” a delle persone che versano in una condizione di estrema vulnerabilità[24].
La sfida, in questo momento storico, è probabilmente tutta qui: incrociare lo sguardo di chi ha occhi che, per citare Manzoni, non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante. Si tratta solo di verificare se e fino a che punto il diritto penale sia dotato di spalle sufficientemente solide per sopportare il peso dell’arduo fardello di cui si trova caricato.
[1] Il presente contributo costituisce il testo, rivisto e corredato di note essenziali, della relazione tenuta in occasione del Convegno Disciplina penale dell’immigrazione e dello sfruttamento lavorativo, svoltosi presso il Palazzo di Giustizia di Firenze il 4 febbraio 2019.
[2] V. Militello, La tratta di esseri umani: la politica criminale multilivello e la problematica distinzione con il traffico dei migranti, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2018, 90, al quale si rinvia fin da ora anche per più ampie indicazioni bibliografiche.
[3] V. Militello, La tratta di esseri umani, cit., 104.
[4] V. Militello, La tratta di esseri umani, cit., 91 ss. evidenzia l’opportunità di una visione integrata, che tenga conto tanto della tutela dei diritti umani quanto di logiche più strettamente securitarie.
[5] V. sul punto L. Goisis, L’immigrazione clandestina e il delitto di tratta di esseri umani. Smuggling of migrants e Trafficking in persons. La disciplina italiana, in Dir. pen. cont., 18 novembre 2016.
[6] R. Barberini, La rilevanza penale del fenomeno migratorio, in Quest. giust., 30 ottobre 2015, § 1.
[7] Cass., Sez. V pen., 25 marzo 2010, n. 20740.
[8] Cass., Sez. III pen., 8 ottobre 2015, n. 50561. Cfr. Cass., Sez. IV pen., 28 febbraio 2017, n. 13849, che, in ragione della clausola di riserva contenuta nell’art. 323 c.p., ha escluso il concorso formale di reati tra l’abuso d’ufficio e il falso in atto pubblico, osservando anche come l’omogeneità del bene giuridico tutelato non rappresenti un presupposto necessario all’operatività della clausola e che, anzi, ridurrebbe il meccanismo in questione a mero duplicato del principio di specialità.
[9] A. Giliberto, Favoreggiamento dell’immigrazione irregolare e soccorso in acque internazionali: il problema della veste processuale da attribuire ai migranti trasportati, in Dir. pen. cont., 3/2017, 326-327.
[10] Per più ampie indicazioni, in una prospettiva penalistica, S. Bernardi, I (possibili) profili penalistici delle attività di ricerca e soccorso in mare, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 1/2018, 137-138.
[11] S. Bernardi, I (possibili) profili penalistici, cit., 138, che, condivisibilmente, ritiene superfluo il riferimento all’art. 51 c.p. registratosi nella giurisprudenza più risalente.
[12] Amplius R. Barberini, Il sequestro della Iuventa: ong e soccorso in mare, in Quest. giust., 18 settembre 2017. Sui “casi” Open Arms e See Watch v. A. Natale, Open Arms: l’avviso di conclusione indagini. Se la disobbedienza diventa violenza…, in Quest. giust., 18 dicembre 2018; S. Greco, Le ong in acque agitate tra Sicilia orientale e Sicilia occidentale, ivi, 18 luglio 2018; G. Licastro, Una breve e mirata notazione. Contra la criminalizzazione delle ONG: una rilevante apertura all’osservanza degli obblighi discendenti dalle convenzioni internazionali, in Giurisprudenza penale Web, 10/2018. Più in generale v. anche L. Masera, L’incriminazione dei soccorsi in mare: dobbiamo rassegnarci al disumano?, in Quest. giust., 2/2018; S. Manacorda, Il contrasto penalistico della tratta e del traffico di migranti nella stagione di chiusura delle frontiere, in Dir. pen. proc., 11/2018.
[13] V. per esempio Cass., Sez. II pen., 23 gennaio 2013, n. 9226; Cass., Sez. V pen., 15 novembre 2012, n. 6388. Sui rapporti tra autoria mediata e concorso di persone nel reato Cass., Sez. II pen., 26 ottobre 2016, n. 3644 e, ovviamente, T. Padovani, Le ipotesi speciali di concorso nel reato, Giuffrè, 1973.
[14] Tra le più recenti Cass., Sez. I pen., 16 marzo 2018, n. 29832: «In punto di giurisdizione questa Corte ha ripetutamente affermato (da ultimo, Sez. 1, n. 20503 del 08/04/2015, Iben Massaoud, Rv. 263670) che sussiste quella del giudice italiano relativamente al delitto di trasporto e procurato ingresso illegale nel territorio dello Stato di cittadini extra-comunitari nella ipotesi in cui i migranti, provenienti dall'estero a bordo di navi “madre”, siano abbandonati in acque internazionali, su natanti inadeguati a raggiungere le coste italiane, allo scopo di provocare l'intervento dei soccorritori che li condurranno in territorio italiano, poiché la condotta di questi ultimi, che operano sotto la copertura della scriminante dello stato di necessità - espressamente richiamata nell'incipit del D. Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, comma 2 - è riconducibile alla figura dell'autore mediato di cui all'art. 54 c.p., comma 3, in quanto conseguente allo stato di pericolo volutamente provocato dai trafficanti, e si lega senza soluzione di continuità alle azioni poste in essere in ambito extraterritoriale (causa causae est causa causati: v. anche Sez. 1, n. 14510 del 28/02/2014, Haji Hassan)». In termini analoghi Cass., Sez. I pen., 10 dicembre 2014, n. 3345; Cass., Sez. I pen., 28 febbraio 2014, n. 14510. Cfr. Cass., Sez. I pen., 8 aprile 2015, n. 20503: «Ne discende che l'azione dei soccorritori, che consente ai migranti di giungere nel nostro territorio, è riconducibile alla figura dell'autore mediato di cui all'art. 48 c.p., conseguente allo stato di necessità provocato e strumentalizzato dai trafficanti, che è sanzionabile nel nostro Stato, ancorché materialmente questi abbiano operato solo in ambito extraterritoriale».
[15] V. ancora Cass., Sez. I pen., 16 marzo 2018, n. 29832.
[16] Cass., Sez. un. pen., 21 giugno 2018, n. 40982.
[17] M.T. Trapasso, Il richiamo giurisprudenziale all’“autoria mediata” in materia di favoreggiamento all’immigrazione clandestina: tra necessità e opportunità, in Arch. pen., 2/2017, 585.
[18] Neppure potrebbe farsi riferimento alla c.d. scriminante umanitaria prevista dall’art. 12, comma 2 TU imm., che può trovare applicazione per le attività di soccorso e assistenza prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti sul territorio dello Stato.
[19] Cass., Sez. I pen., 8 aprile 2015, n. 20503.
[20] R. Barberini, La rilevanza penale del fenomeno migratorio, cit., § 2.
[21] GUP Trapani, 9 novembre 2016, Abdallah.
[22] Cass., Sez. I pen., 18 dicembre 2017, n. 15849; Cass., Sez. un. pen. 28 aprile 2016, n. 40517. Contra, A. Giliberto, Favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, cit., 330, ad avviso del quale, sul piano oggettivo, non sussisterebbe ostacolo alcuno a ritenere integrato l’art. 10-bis imm. dalla condotta del migrante il quale, soccorso in mare, faccia ingresso su territorio nazionale: la fattispecie, infatti, non attribuisce alcun rilievo alle concrete modalità attraverso cui avvenga l’ingresso irregolare. Anche sul piano dell’elemento soggettivo non sussisterebbero particolari difficoltà ad accertare almeno la colpa del migrante.
[23] Cass., Sez. I pen., 21 settembre 2011, n. 44016.
[24] R. Barberini, La rilevanza penale del fenomeno migratorio, cit., § 5.
commento a Cass., sez. II, sentenza n. 13795 del 7 marzo 2019 (dep. 29 marzo 2019)
Sommario: 1. Lo strano destino dell'autoriciclaggio (un passo indietro) - 2. Gli opposti orientamenti giurisprudenziali nel caso de quo - 3. La leva dell'interpretazione estensiva (in materia penale) - 4. L'importanza sistematica della sentenza in commento.
1. Lo strano destino dell'autoriciclaggio (un passo indietro).
Quello dell'autoriciclaggio è uno strano destino: per più di un ventennio - a partire dal 1993, anno del consolidamento della fattispecie di riciclaggio nell'ordinamento italiano - l'istituto è stato oggetto di un vivo e mai interrotto dibattito dottrinale, a fronte del silenzio della giurisprudenza, che ossequiava un dato normativo eloquente nei suoi aspetti applicativi (e, sopratutto, disapplicativi); quasi d'improvviso, nel dicembre del 2014, l'autoriciclaggio è apparso sotto le spoglie dell'art. 648-ter.1 del codice penale, chiudendo un dibattito ed aprendone un altro, imperniato su questioni vertiginose, anche più complesse di quelle d'origine. Perché se prima ci si scontrava con l' innegabile deficit di effettività dell' art. 648- bis - laddove per effettività debba intendersi quel passaggio tra diritto e fatto, tra norma e realtà empirica ad essa sottesa -, la legge n. 186/2014 e la contestuale introduzione del delitto di autoriciclaggio ha dischiuso un inedito orizzonte problematico, nella misura in cui può arrivarsi a fagocitare ogni possibile condotta riciclatoria posta in essere da quel soggetto che abbia in precedenza commesso, o concorso a commettere, il delitto da cui derivino le utilità oggetto delle attività di ripulitura.
Per meglio dire: la norma fece il suo ingresso nell'ordinamento intessuta di formule del tutto generiche, semanticamente amplissime, tanto che fin da subito gli interpreti si sono chiesti quale ne sarebbe stata la sorte giudiziale[1]: sarebbe potuta rimanere (guardando anche alla pena straordinariamente elevata, dai 4 ai 12 anni di reclusione, e agli effetti processuali che questa produce[2]) del tutto disapplicata, a voler stringere le maglie dell'ermeneutica; sarebbe invece potuta appigliarsi a numerosissime tipologie di condotta post delictum - tutte le volte cioè che si maneggino il denaro o i beni provenienti da delitto -, ma ciò sarebbe potuto accadere solo grazie a decise spinte propulsive dei giudici di legittimità, a vere e proprie operazioni ermeneutiche "a lungo termine".
Una duplice impostazione plasticamente rappresentata dal contrasto ermeneutico tra il Tribunale della Libertà di Milano e la Cassazione, i cui giudici hanno assunto posizioni simmetricamente antitetiche.
2. Gli opposti orientamenti giurisprudenziali nel caso de quo.
Il primo organo giudicante si era trovato a vagliare il caso di un soggetto che aveva conseguito un profitto di circa 260.000 euro grazie ad una serie di truffe per poi impiegare parte di quei proventi (oltre 100.000 euro) in giochi (slot machines, poker ecc.) e scommesse sportive on-line. Secondo i giudici milanesi, in questo caso non può parlarsi di autoriciclaggio: anzitutto perchè le "arrività speculative" sono - recuperando anche la dizione fornita dalla Treccani - investimenti da cui si traggono utili per mezzo di attività commerciali o finanziarie, mentre i giochi e le scommesse sono caratterizzati (come insegna il codice civile) da un'alea ingovernabile, e rappresentano una mera spendita di denaro in attività che possono portare anche a nessun rientro economico - un conto quindi è la speculazione, altro è il gioco; ma poi, secondo il Tribunale della Libertà, a tutto voler concedere rimarrebbe da spendere la clausola di non punibilità di cui al comma quarto dell'art. 648-ter.1, secondo cui «Fuori dei casi di cui ai commi precedenti, non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale», tale dovendosi considerare anche la condotta di chi spende denaro al gioco o alle scommesse, per soddisfare un impulso personale, spesso di carattere patologico. L'indagato, insomma, non avrebbe compiuto alcuna delle attività previste dalla fattispecie che punisce l'autoriciclaggio; cosicché, per carenza di limiti edittali in relazione alla sola truffa, il Tribunale annullava l'ordinanza genetica di applicazione di misure cautelari, decisione cui faceva seguito il ricorso per Cassazione della Procura meneghina.
Nella sentenza in commento, la Cassazione - dopo i primi anni, a partire dalla legge n. 186/2014, segnati da incertezze e da talune pronunce invero poco inclini a conferire effettività alla norma[3] - mostra di voler proseguire nel solco del percorso tracciato dall'importante sentenza dell'anno precedente[4] che delimita in termini generali la clausola di non punibilità di cui al quarto comma; mostra insomma di volere "dare vita" al reato di autoriciclaggio, e rende pertanto palese l'intenzione dei giudici di legittimità di espandere, fin dove è possibile, i confini della norma, procedendo con una delle più importanti operazioni di politica ermeneutica degli ultimi anni, almeno in materia penale.
3. La leva dell'interpretazione estensiva (in materia penale).
Non avrebbe senso, altrimenti, il richiamo iniziale a principi generalissimi: la Cassazione afferma infatti nell'abbrivio che «non possono dimenticarsi i risalenti ed incontrastati insegnamenti di questa Corte, secondo i quali anche le norme penali sono suscettibili di una interpretazione estensiva [e questo] quando sia palese che lo stesso legislatore minus dixit quam voluit». E' un cambio di passo, un diverso registro assiologico dello stesso modo di pensare al reato di autoriciclaggio (che in dottrina aveva attratto invece, fin da subito, numerose interpolazioni restrittive[5]), resosi necessario «al fine di evitare conclusioni sostanzialmente abrogative della previsione in parola»; di talché, vengono attinti da censure entrambi i motivi che avevano portato i giudici milanesi a non ravvisare l'art. 648-ter.1.
Il primo punto riguardava, come detto, la taratura applicativa della locuzione "attività speculativa". Per il vero, l'accenno contenuto nella norma alle «attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative», agli interpreti è apparso fin da subito, tra i numerosi elementi della norma, quello meno controverso; anzi, pareva (e tutt'ora pare) piuttosto una superfetazione che nulla aggiunge al fatto di riciclaggio ricompreso nell'art. 648-bis, che è da sempre inteso come un delitto che può esplicarsi soltanto nella realtà economico-finanziaria. L' esistenza della locuzione si giustifica soltanto in quanto formale "tributo" al finitimo art. 648-ter, che fonda la sua punibilità in attività economiche o finanziare. Rispetto a quest'ultimo delitto, poi, l'aggiunta delle attività imprenditoriali o speculative non comporta un effettivo allargamento del recinto della punibilità, dal momento che, com'è stato opportunamente osservato, nell'attività economica si fa ricomprendere tutto ciò che è attinente allo scambio di beni e servizi nell'ambito di un'attività imprenditoriale, mentre le attività speculative (al netto dell'estrema genericità della formula), laddove non dovessero ricadere in quelle più propriamente imprenditoriali, sarebbero comunque da riporre all'interno di attività "finanziarie"[6].
Ecco perché la Cassazione si premura di palesare subito, e senza incertezze di sorta, la propria posizione su questo punto, giacché - anche alla luce del lungo e travagliato percorso che ha condotto il Parlamento a varare la legge n. 186/2014, e dell'intentio legis che se ne può ricavare - «del tutto logicamente deve ritenersi che [si sia] inteso perseguire, mediante l'utilizzo delle ampie locuzioni citate (attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative), qualsiasi forma di re-immissione delle disponibilità di provenienza delittuosa all'interno del circuito economico legale», ivi compresa, naturalmente, la scommessa o il gioco d'azzardo, che non sono certo avulsi dal perseguimento di significative finalità economiche.
Più densa di significato è la preclusione all'attivazione della clausola di non punibilità di cui al quarto comma nel caso di specie. Il Collegio condivide e richiama l'accurata ricostruzione ermeneutica già operata - come poc'anzi accennato - nella sentenza n. 30399 del 2018, secondo la quale la norma va interpretata in base al significato proprio delle locuzioni utilizzate, e cioè nel senso che la suddetta clausola non si applica a tutte le condotte descritte nei commi precedenti: l'espressione iniziale "fuori dei casi", su cui si regge, «a livello semantico, null'altro significa che la fattispecie in essa considerata è diversa ed autonoma rispetto a quelle previste nei commi precedenti. Con la conseguenza che, una volta che la fattispecie criminosa di cui al comma 1 dell'art. 648 ter.1 cp. sia integrata intutti i suoi requisiti, l'agente è sanzionabile penalmente, restando del tutto indifferente che, alla fine delle operazioni di autoriciclaggio, egli abbia "meramente" utilizzato o goduto personalmente dei suddetti beni a titolo personale».
In altri termini, se è vero che il cuore della fattispecie di autoriciclaggio è nel compiere una qualsiasi operazione in grado di "ostacolare concretamente l'identificazione della provenienza delittuosa" del provento illecito[7], una volta realizzato, sul piano della condotta, un siffatto modulo descrittivo, non ha alcun senso recuperare la clausola di non punibilità, avendo questa natura residuale; o forse, neppure.
4. L'importanza sistematica della sentenza in commento.
Si consideri - ed è in ciò che va colta l'importanza, diremmo sistematica, della sentenza in commento, anche per come si raccorda a quella del 2018 - che all'epoca gli interpreti più autorevoli, al cospetto del novum, avevano conferito una valenza ben diversa a questa clausola.
Nella formulazione dell'art. 648-ter.1, come noto, il legislatore si era imposto il compito di sopprimere il c.d. "privilegio dell'autoriciclaggio", congegnato nella formula "fuori dei casi di concorso nel reato" innestata nell'art. 648-bis. Sappiamo, però, che non si è operato su questo delitto mediante la "semplice" resezione della clausola di riserva, ma si è preferito profilare, nonostante le problematicità connesse, un nuovo reato (l'art. 648-ter.1, per l'appunto), e che quella clausola, intonsa, governa ancora il delitto di riciclaggio.
Ma proprio per evitare la creazione di una fattispecie dall'incalcolabile perimetro applicativo, il legislatore avrebbe consegnato all'interprete strumenti volti a "normalizzare" un delitto teoricamente onnipresente nelle indagini e nei processi, che sul piano empirico rischiava (e rischia) di trasformarsi, per ogni reato capace di generare un profitto apprezzabile, in un quid pluris: in una contestazione ulteriore, spesso più grave di quella afferente il reato da cui derivano i proventi illeciti. Cosicché il quarto comma dell'art. 648-ter.1, sempre secondo le prime tesi avanzate[8], vorrebbe porsi come limite alla tipicità e funzionare come clausola di interpretazione autentica del primo comma, che contiene il nucleo tipico della condotta: il legislatore avrebbe voluto dire - utilizzando un costrutto sintattico ambiguo se non proprio erroneo[9] - che l'utilizzo o il godimento personale è fuori dalla tipicità della norma, e le relative condotte risultano pertanto non punibili. Non saremmo dunque di fronte ad una causa di non punibilità ma, come più correttamente è stato rilevato, ad una clausola di delimitazione del tipo: essa «segna un limite negativo del tipo, in quanto descrive una modalità della condotta espressamente esclusa dalla rilevanza penale»[10].
A distanza di quattro anni, la Cassazione rigetta adesso con forza questa tesi "mitigatrice" e - benché sul piano dogmatico non può certo negarsi che una causa di non punibilità si innesta pur sempre su «di un "completo" disvalore oggettivo e soggettivo del fatto»[11], creando all’interno del quadro tipico sacche di impunità per ragioni di mera opportunità pratica - nega al quarto comma ogni funzione delimitativa della tipicità del reato, secondo una regola che potremmo definire dell'aut aut: o si configura il reato come descritto nei primi tre commi, oppure, non configurandosi - e solo in questo caso - può essere attivata la clausola di non punibilità di cui al quarto comma; che viene così relegata in un angolo di sostanziale irrilevanza; né può più, tale formula, neppure porsi in termini di sussidiarietà con il reato compiutamente descritto nei primi tre commi, se è vero che essa regola l' ipotesi - cristallizzata nel principio di diritto espresso nella sentenza del 2018 - in cui l'agente «utilizzi o goda dei beni provento del delitto presupposto in modo diretto e senza che compia su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa»: insomma, nulla deve indiziare nella sua condotta alcun intento riciclatorio, se si vuol utilizzare la clausola di non punibilità.
I giudici di legittimità finiscono così per dare vita al reato di autoriciclaggio per mezzo di un'interpretazione estensiva dei suoi elementi costitutivi principali, destinando all'aborto quei tentativi compiuti dai giudici territoriali di passare dalla clausola di non punibilità del quarto comma per mitigare[12] gli effetti dirompenti (quoad poenam, ma non solo) che l'art. 648-ter.1 cp. produce: tentativo appunto non riuscito al Tribunale della Libertà di Milano, che si vedrà ritrasmessi gli atti affinché provveda alla luce dei canoni interpretativi forniti.
[1] Il primo a porsi queste domande è stato, autorevolmente, F. Sgubbi, Il nuovo delitto di "autoriciclaggio": una fonte inesauribile di "effetti perversi" dell'azione legislativa, in Dir. pen. cont. (web), 10 dicembre 2014; ma già molti anni prima si ragionava su questi profili, a partire dai numerosi progetti di riforma: vd, ad esempio, S. Seminara, I soggetti attivi del reato di riciclaggio tra diritto vigente e proposte di riforma, in Dir. pen. proc., 2005, p. 239 ss.
[2] Basti pensare alla possibilità di applicare le più incisive misure cautelari mercé l'ampiezza della cornice edittale: così F. Sgubbi, Il nuovo delitto di "autoriciclaggio", cit., p. 4.
[3] Ci si riferisce, per esempio, a Cass., sez. II, sentenza n. 33074 del 14.7.2016, in C.E.D. n. 267459, secondo cui non integra il reato di autoriciclaggio il versamento del profitto di furto su conto corrente o su carta di credito prepagata, intestati allo stesso autore del delitto presupposto, perché non costituisce attività idonea ad occultare la provenienza delittuosa del denaro. Una sentenza che però andrà presto letta in combinato disposto con Cass., Sez. V, sent. 11.12.2018 (dep. 5.2.2019), n. 5719, in Dir. pen. cont. (web) del 28.3.2019, con nota di M. Barcellona, In tema di autoriciclaggio e "paper trail", nella misura in cui i giudici di legittimità affermano che «il mero trasferimento di denaro di provenienza delittuosa da un conto corrente bancario ad un altro, diversamente intestato e acceso presso un altro istituto di credito, integra il delitto di autoriciclaggio ex art. 648-ter.1 c.p.».
[4] Si tratta di Cass. sez. II, sentenza n. 30399 del 5.7.2018, in C.E.D. n. 19674.
[5] Tra queste, sotto vari profili, ricordiamo le tesi avanzate da F. Consulich, La norma penale doppia. Ne bis in idem sostanziale e politiche di prevenzione generale: il banco di prova dell'autoriciclaggio, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2015, p. 55 ss.; D. Brunelli, Autoriciclaggio e divieto di retroattività: brevi note a margine del dibattito sulla nuova incriminazione, in Dir. pen. cont., 1, 2015, p. 86 ss.; I. Caraccioli, Incerta definizione del reato di autoriciclaggio, in Il Fisco, 2015, p. 355 ss.
[6] Quand'anche, alla fine dei conti, la triplice aggettivazione non si consideri, pur diversamente declinata, come species del genus delle attività economiche. In questo senso, Troyer-Cavallini, Apocalittici o integrati? Il nuovo reato di autoriciclaggio: ragionevoli sentieri ermeneutici all'ombra del "vicino ingombrante", in Dir. pen. cont. (web), 23 gennaio 2015. p. 9.
[7] E, come è stato detto da ultimo: è «pressoché scontato che tale forma di ostacolo si concretizzerà ogni qualvolta non venga espressamente indicata la provenienza delittuosa del bene sul quale ricade l'azione» (Insolera-Guerini, Diritto penale e criminalità organizzata, Torino, 2019, p. 184).
[8] Cfr. A. M. Dell'Osso, Il reato di autoriciclaggio: la politica criminale cede il passo a esigenze mediatiche e investigative, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, p. 806.
[9] Netto è, in questo senso, A. M. Dell'Osso, Il reato di autoriciclaggio, cit., p. 806, secondo cui il legislatore è incorso in «un errore di italiano tanto banale quanto biasimevole, scrivendo "fuori dei casi" invece di "nei casi"»; ci si troverebbe allora, sempre secondo lo stesso autore, di fronte ad una «ipotesi di sciatteria legislativa da antologia, foriera, peraltro, di criticità applicative di non poco conto».
[10] F. Mucciarelli, Qualche nota sul delitto di autoriciclaggio, in Dir. pen. cont. (web), 24 dicembre 2014. p. 19.
[11] M. Romano, Cause di giustificazione, cause scusanti, cause di non punibilità, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, p. 65, a detta del quale, peraltro, la non punibilità sarebbe fondata su situazioni e accadimenti esterni alla meritevolezza della pena ed è collegata, di consueto, ad un singolo soggetto (p. 69).
[12] Nondimeno, essi possono ancora essere mitigati tramite il giudizio di pericolo concreto che - già sotto il profilo lessicale - importa l'avverbio "concretamente", non per caso inserito nella chiusa del primo comma («in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa»): al riguardo, sia permesso il rinvio a A. Apollonio, Condotta dell'autoriciclatore e interazioni con gli arti. 416-bis e 648-bis c.p.: problemi concorsuali e soluzioni esegetiche, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1-2, 2016, p. 8.
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