ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Realtà storica e Costituzione: una problematica dualità?
di Stefano Tocci
sommario: 1.La Sentenza n. 97/2020: problema di contestualizzazione- 2. Illegittimità del divieto tra principio astratto e applicazione concreta - 3. Ragionevolezza della legge e storicità del diritto.
1.La Sentenza n. 97/2020: problema di contestualizzazione.
Con la pronuncia in esame la Corte delle Leggi ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevede l’adozione delle necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata «la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti» anziché «la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità».
Senza particolari approfondimenti la sentenza (n. 97/2020) ha risolto la questione sollevata dalla Corte di Cassazione ritenendo che “il divieto di scambiare oggetti, nella parte in cui si applica anche ai detenuti inseriti nel medesimo gruppo di socialità, non risulta né funzionale né congruo rispetto alla finalità tipica ed essenziale del provvedimento di sottoposizione del singolo detenuto al regime differenziato, consistente nell’impedire le sue comunicazioni con l’esterno. In queste condizioni, non è giustificata la deroga – da tale divieto disposta – alla regola ordinariamente valida per i detenuti, che possono scambiare tra loro «oggetti di modico valore» (art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 230 del 2000), e la proibizione in parola finisce per assumere un significato meramente afflittivo, in violazione anche dell’art. 27, terzo comma, Cost.”
Il problema giuridico sembra quasi banale e l’argomento appare estremamente specifico e settoriale nel suo contenuto sostanziale, ma in realtà costituisce un ulteriore tassello, in questo caso forse minuscolo, che s’inserisce nel quadro di una questione ermeneutica e normativa che si sta sviluppando in termini sempre più rilevanti nella giurisprudenza della Consulta, e nei suoi precipitati applicativi, sul tema più preoccupante per la vita democratica del Paese: la lotta alla mafia ed alla criminalità terroristica ed eversiva.
“Lotta alla mafia” e “lotta al terrorismo”, sembrano meri slogan, ma costituiscono forse il punto centrale della grande sfida che lo Stato di diritto è oggi chiamato ad affrontare per consentire lo svolgimento regolare di ogni aspetto della vita sociale, politica ed economica della nostra nazione, e forse non solo.
Il termine “mafia” come dato giuridico ha trovato la sua prima menzione nella L.n. 575/1965, contenente disposizioni da applicarsi a soggetti “indiziati” di appartenere ad associazioni mafiose. Come è noto trattasi di un primo tentativo del legislatore di intervenire sul fenomeno sociale, non più occultabile tra le pieghe della irrisolta “questione meridionale”, con l’estensione del sistema delle misure di prevenzione a soggetti individuati come appartenenti a sodalizi mafiosi; lodevole tentativo inficiato da una vistosa lacuna: il corpus normativo non contiene una definizione giuridica di “mafia”.
Toccherà alla legge “Rognoni – La Torre”, nel 1982, introdurre una definizione normativa di ciò che per il diritto penale debba intendersi per “associazione mafiosa”, e la formulazione strutturale di tale ente giuridico ha risentito dell’inevitabile risonanza sociologica del fenomeno: la delineazione del reato si sviluppa infatti intorno a tre poli descrittivi: forza di intimidazione del vincolo associativo – assoggettamento – omertà: elementi costitutivi del reato la cui enucleazione ermeneutica non trova certo fonte o scaturigine nei principi generali del diritto.
La “mafia” infatti non costituisce un mero “fatto”, un evento territorialmente e temporalmente circoscrivibile, ma un fenomeno sociale e subculturale, contraddistinto da proprie regole, “istituti” e simbolismi che, approfittando delle libere dinamiche istituzionali di un Paese democratico, ne inquina e corrompe i gangli vitali, condizionando il vivere civile, e non solo nei territori in cui il fenomeno è storicamente radicato. Si pensi quanto il farraginoso sistema burocratico e la materia degli appalti pubblici siano pesantemente complicati proprio dalla necessità di fronteggiare il pericolo dell’infiltrazione mafiosa.
Nondimeno il terrorismo ha sempre radici ideologiche o religiose che impediscono la rigida definizione di precise strutture normative che ne contengano tutti gli aspetti fondativi.
Ma se il momento della risposta penale al fenomeno mafioso o terroristico può essere agevolato dal confluire dell’azione del sodalizio criminale in un fatto noto all’ordinamento giuridico penale (l’omicidio, il sequestro di persona, l’estorsione ecc.), estremamente più complicato appare il confronto con tali fenomeni in sede di prevenzione dei reati e di esecuzione delle pene.
Con tali realtà storiche, e la relativa esigenza di tutela sociale, deve confrontarsi la nostra Costituzione.
Mi rendo conto di aver palesemente invertito i termini del problema costituzionalistico: è il Legislatore che deve fare i conti con la Carta costituzionale, pena l’illegittimità della norma e la sua espunzione dall’ordinamento giuridico ex tunc. Ma i principi della Costituzione, così come formulati nel 1948, possono davvero essere intesi come dogmaticamente intangibili, anche se dovessero rivelarsi, alla luce dello sviluppo storico, non più perfettamente adeguati e corrispondenti allo spirito del popolo ed alle sue esigenze di tutela? Ma ancor più: è consentito all’ermeneutica costituzionalista disattendere la problematicità del dato fattuale rivolgendo il proprio sguardo al numinoso ed astratto empireo dei principi di diritto?
Non è questo il luogo per affrontare un tema così complesso, che attanaglia gli studiosi di diritto costituzionale e della filosofia del diritto, certo non da ora, e che merita approfondimenti e confronti molto seri, ma ritengo che la sentenza in esame alla fine si ponga proprio su tale sentiero problematico.
2.Illegittimità del divieto tra principio astratto e applicazione concreta.
La recente e progressiva erosione dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario ad opera della Consulta e il piccolo “ritocco” all’art. 41 bis operato dalla pronuncia in esame sono a mio avviso forti sintomi di una esigenza di maggiore riflessione, a tutti i livelli interpretativi, sulla concretezza storica del diritto, della dottrina e della giurisprudenza, troppo spesso lontane dalla vita quotidiana dei cittadini e sempre più perse negli intrichi del tecnicismo fine a sé stesso.
La Corte Costituzionale sembra consapevole di tale grave problema anche nella sentenza in esame, laddove, dopo aver sancito l’illegittimità del divieto di scambio di oggetti tra detenuti al 41 bis comunque ammessi alla socialità comune, tenta di “correre ai ripari”, affermando espressamente: “Invece, anche dopo la presente sentenza di accoglimento, in forza della disposizione di cui alla lettera a) del comma 2-quater dell’art. 41-bis, ordin. penit. – secondo cui la sospensione delle regole di trattamento e degli istituti di cui al comma 2 può comportare «l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna» – resterà consentito all’amministrazione penitenziaria di disciplinare le modalità di effettuazione degli scambi tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo (ad esempio, qualora concernenti oggetti di cui non sia consentita la detenzione durante i momenti di socialità, prevedendo in proposito una annotazione in appositi registri), nonché di predeterminare le condizioni per introdurre eventuali limitazioni (con riferimento a certi oggetti che, più di altri, si prestano ad essere veicolo di comunicazioni difficilmente decifrabili, come già previsto, ad esempio, per il divieto – già disciplinato dalla citata circolare DAP del 2 ottobre 2017 in via autonoma rispetto a quello, generale, qui censurato – di scambiare libri o copie parziali tra detenuti). Naturalmente, tali limitazioni dovrebbero risultare giustificate da precise esigenze, da motivare espressamente, e sotto questi profili ben potrebbero essere sindacate, di volta in volta, in relazione al caso concreto, dal magistrato di sorveglianza, in attuazione di quanto disposto dagli artt. 35-bis, comma 3, e 69, comma 6, lettera b), ordin. penit.”
In parole povere: il divieto imposto in linea di principio non va bene, ma poi il caso concreto può consentire la limitazione purché adeguatamente motivata.
La Consulta, quindi, è ben cosciente che quanto rilevato nelle proprie conclusioni dall’Avvocatura di Stato non è una considerazione peregrina: “il legislatore, con una scelta «non irragionevole», avrebbe voluto evitare che lo scambio di oggetti, sia pure all’interno dello stesso gruppo di socialità, possa essere utilizzato come forma di comunicazione non verbale e, come tale, «di assai più difficile leggibilità nello svolgimento dei necessari controlli a cui i detenuti sono sottoposti». Inoltre, sempre secondo l’Avvocatura generale, “per il tramite dello scambio o della cessione di oggetti potrebbero affermarsi, all’interno dello stesso gruppo di socialità, logiche di sopraffazione che condurrebbero «il detenuto più debole, per carisma personale o per carica rivestita all’interno dell’organizzazione criminale di appartenenza, a soggiacere alle prevaricazioni di uno di quei pochi soggetti con i quali egli può avere contatti con immaginabili conseguenze in termini di sicurezza all’interno dell’istituto penitenziario»”.
La stessa Suprema Corte di Cassazione aveva infatti già sottolineato che “il Legislatore ha inteso escludere, con scelta non sindacabile in quanto non irragionevole, che lo scambio di oggetti, sia pure all'interno dello stesso gruppo di socialità, possa essere utilizzato come forma di comunicazione non verbale e, come tale, di assai più difficile leggibilità nello svolgimento dei necessari controlli a cui i detenuti sono sottoposti” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 29300 del 18/04/2019 Cc. -dep. 04/07/2019- Rv. 276403 – 01; vds. anche Cass Sez. 1, Sentenza n. 5977 del 13/07/2016 Cc. -dep. 08/02/2017- Rv. 269185 - 01); è una forte sottolineatura dell’importanza del linguaggio simbolico che contraddistingue ad esempio la subcultura mafiosa e si estrinseca non semplicemente a parole, come testimonia del resto il requisito normativo descrittivo costituito dall’omertà (che non si riduce alla mera reticenza della vittima del reato a collaborare, ma si traduce in un vero e proprio “codice del silenzio”): trattasi di un elemento di valutazione che nasce dall’esperienza storica del fenomeno e che caratterizza lo stesso.
La Consulta però si eleva al di sopra del fenomeno storico negando la legittimità del divieto “in linea di principio”, per poi ridiscendere dall’empireo del numinoso per ricordare che in concreto il divieto può comunque essere giustificato nel caso specifico. Non è sbagliato quindi ritenere, che “lo scambio di oggetti, sia pure all’interno dello stesso gruppo di socialità, possa essere utilizzato come forma di comunicazione non verbale” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 29300 del 18/04/2019 Cc. -dep. 04/07/2019- Rv. 276403 – 01) ma toccherà all’Amministrazione dimostrarne il significato comunicativo e la relativa pericolosità: probatio diabolica? Sicuramente! Perché richiede che l’Amministrazione penitenziaria, per intervenire efficacemente nel “predeterminare le condizioni per introdurre eventuali limitazioni”, debba essere a conoscenza dei codici di linguaggio adottati dai soggetti coinvolti nello scambio: come potrebbe altrimenti interpretare il gesto e quindi motivare adeguatamente il proprio provvedimento ostativo, suscettibile di reclamo ai sensi del combinato disposto ex artt. 35 – 69 OP? Si richiede cioè che gli operatori penitenziari siano immersi nella cultura mafiosa o nell’ideologia del movimento terroristico, ne conoscano perfettamente il simbolismo e siano in grado di decrittare la comunicazione non verbale in modo così preciso ed esauriente da consentire una argomentata motivazione del proprio divieto per il caso concreto.
Può sembrare paradossale ma, in realtà, la regola di diritto determinata dalla Consulta, con la pronuncia in esame, sembra condurre in un’unica direzione effettiva possibile, ossia la indiscriminata liberalizzazione dello scambio di oggetti tra detenuti al 41 bis OP all’interno del proprio gruppo di socialità, con effettiva obliterazione della funzione preventiva connaturata alla disposizione, ormai assolutamente inattuabile nel fatto concreto.
3.Ragionevolezza della legge e storicità del diritto.
Anche a livello meramente logico comunque mi pare evidente l’imbarazzo argomentativo in cui si incorre in sentenza, perché se in linea di principio “alla certa compressione di una forma minima di socialità – estrinsecantesi, peraltro, nell’ambito di una cerchia assai ristretta di soggetti, e consistente nello scambio di cose di scarso valore e di immediata utilità, nella prospettiva di una (assai parziale) “normalità” di rapporti interpersonali – non corrisponde un accrescimento delle garanzie di difesa sociale e sicurezza pubblica” (sent. C. Cost. 97/2020 in esame) non si comprende cosa poi si voglia “salvare” per il caso concreto. C’è forse una netta dicotomia tra principio di diritto e realtà? Rectius: ciò che è escluso in via di principio può realizzarsi nel caso concreto? A mio avviso la ritenuta eventualità del caso concreto falsifica il principio astratto, e ciò tutto a nocumento delle esigenze di prevenzione e tutela sociale a cui tutto l’art. 41 bis OP sottende.
Al di là di un apparato argomentativo poco convincente (la ritenuta violazione dell’art. 27 Cost., ad esempio, è rimasta in alta mente reposta), la pronuncia in esame appare porsi nel solco di un orientamento ermeneutico della Consulta diretto a privilegiare una visione puramente tecnica e ideale delle norme sottoposte al suo vaglio, svalutando la ratio storica e sociale delle stesse. Tale problematica emerge fortemente laddove, come nel caso in esame, la norma scrutinata non si pone in evidente insanabile contrasto con una disposizione della Costituzione, ma se ne deduce l’irragionevolezza alla luce dell’art. 3 Cost.
È noto che il principio di ragionevolezza delle leggi costituisce un corollario del principio di uguaglianza, elaborato dalla Corte Costituzionale, ispirandosi ad un analogo principio individuato dalla giurisprudenza anglosassone. Il principio di ragionevolezza esige che le disposizioni normative contenute in atti aventi valore di legge siano adeguate o congruenti rispetto al fine perseguito dal Legislatore. Tale principio esige quindi che l’analisi della norma vada effettuato nella sua concretezza applicativa, non per mere ipotesi, attraverso una osservazione sul campo della sua funzione e della sua effettività secondo le peculiarità del caso, verificando che la stessa non assuma caratteri di arbitrarietà. Sicuramente il rischio della incongruità del portato legislativo è maggiormente forte laddove la norma si cala in una funzione emergenziale di prevenzione e tutela del corpo sociale, ma proprio su tale terreno le specificità del fenomeno, come la mafia o il terrorismo, devono essere considerate con maggiore attenzione nei relativi aspetti concreti. Una lettura idealisticamente tecnicista della ragionevolezza della legislazione antimafia e antiterrorismo, soprattutto per gli aspetti della sicurezza e dell’ordine pubblico, può comportare il pericolo di uno svuotamento dell’effettività della stessa, determinando situazioni che in concreto non consentono soluzioni applicative coerenti alla auspicata funzione di tutela. L’art. 3 comma 2 Cost. pretende, invero, decisa concretezza. Camminando guardando le stelle si rischia di cadere in un pozzo.
Sottrazione di minori e sospensione dalla responsabilità genitoriale: incostituzionale l’automatica applicazione della pena accessoria(nota a Corte Costituzionale 29 maggio 2020, n. 102).
di Rita Russo
Sommario: 1. La sanzione, la relazione familiare e la irragionevolezza degli automatismi 2. La relazione familiare e la scelta della soluzione adatta al caso concreto. 3. Il miglior interesse del minore e il giudice idoneo ad accertarlo.
1. La sanzione, la relazione familiare e la irragionevolezza degli automatismi.
Con la sentenza in esame la Corte Costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 574-bis, terzo comma, del codice penale, nella parte in cui prevede che la condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di sottrazione e mantenimento di minore all’estero comporta la sospensione dell’esercizio della responsabilità genitoriale, anzichè la possibilità per il giudice di disporre la sospensione stessa, previa la valutazione in concreto della rispondenza di detto provvedimento all’interesse del minore, valutazione da compiersi all’attualità e cioè tenendo conto necessariamente anche dell’evoluzione delle circostanze successive al fatto di reato.
La Corte ha ritenuto non ragionevole l’automatismo sanzionatorio imposto dal legislatore, ponendosi nel solco di due precedenti decisioni, risalenti agli anni 2012 e 2013, in tema di pena accessoria ai delitti alterazione e soppressione di stato[1]. In entrambe le precedenti occasioni la Corte costituzionale ha affermato che la interruzione della relazione tra genitori e figli sul piano giuridico, ma anche naturalistico, si giustifica solo in funzione di tutela degli interessi del minore e ha dichiarato incostituzionale l’art. 569 c.p. (rispettivamente in relazione a gli artt. 566 e 567 c.p.) nella parte in cui stabilisce che, in caso di condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di alterazione e soppressione di stato, consegua automaticamente la perdita della potestà (oggi responsabilità) genitoriale, precludendo al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto. Interessante notare come la Corte costituzionale ha allora affermato che occorre assegnare al reato “null’altro che il valore di ‘indice’ per misurare la idoneità o meno del genitore ad esercitare le proprie potestà” e che, con una indicazione assai significativa, ha utilizzato, per definire la funzione genitoriale, il plurale anziché il singolare, definendo “le potestà” come “il fascio di doveri e poteri sulla cui falsariga realizzare in concreto gli interessi del figlio minore”. Anche la Consulta respirava l’aria di rinnovamento che, esattamente in quel periodo, ha condotto alla riforma della filiazione[2], riforma che, oltre ad avere enunciato i diritti (e i doveri) del minore, ha sostituito il termine potestà genitoriale con quello di responsabilità genitoriale, disegnando così la relazione tra i genitori e i figli in termini partecipativi e dando rilievo all’aspetto funzionale dell’impegno dei genitori, piuttosto che a quello autoritativo.
Oggi la Consulta rimarca l’importanza di questo processo di trasformazione, richiamando la relazione introduttiva al D.lgs. n. 154/2013, laddove si afferma che attraverso la nuova definizione dei rapporti tra genitori e figli si attribuisce «risalto alla diversa visione prospettica che nel corso degli anni si è sviluppata ed è ormai da considerare patrimonio condiviso: i rapporti genitori-figli non devono più essere considerati avendo riguardo al punto di vista dei genitori, ma occorre porre in risalto il superiore interesse dei figli minori».
Anche nella sentenza odierna la Corte Costituzionale richiama il concetto, sancito da diverse Convenzioni internazionali, prima tra tutte la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, di interesse superiore del minore, avvertendo della diversa sfumatura che esso ha nel testo in lingua inglese della Convenzione, ove la definizione è “best interests” cioè l’interesse migliore[3], e ricorda che esso è da considerare contenuto implicito dell’art. 8 CEDU (rispetto della vita privata e familiare) [4]. Esso è inoltre contenuto esplicito dell’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea che proclama il diritto di ogni persona al rispetto della propria vita privata e familiare (art. 7) e, nel riconoscere i diritti del minore (art. 24), prevede: che i minori hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere; che in tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l'interesse superiore del minore deve essere considerato preminente; che il minore ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse.
La Corte di Strasburgo, malgrado l’assenza nella Convenzione di Roma di un esplicito riferimento ai best interests of the child ha tuttavia recepito detto principio, concettualizzandolo alla luce dello human rights-based approach. Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte, infatti, la Convenzione non va interpretata da sola, ma in armonia con i principi del diritto internazionale e, in particolare, con le norme concernenti la protezione internazionale dei diritti dell’Uomo[5]. Nella giurisprudenza della Corte di Giustizia della UE, inoltre, l’interesse del minore assume connotati ancora più oggettivi, fino quasi a identificarsi con i diritti fondamentali del minore espressamente enunciati dall’art. 24 della Carta di Nizza [6].
Si esplicita così il principio della prevalenza dell’interesse del minore sul diritto di ciascun genitore, ma senza trascurare l’importanza del diritto del genitore alla relazione familiare, diritto che pure esiste e che sarebbe irragionevole negare, a maggior ragione considerando che gli stessi diritti del minore sono da intendersi in chiave relazionale. La prevalenza dell’interesse del minore non deve fare dimenticare, infatti, che nel processo vi sono anche altri diritti ed interessi coinvolti e che di tutti deve tenersi conto[7].
La Consulta ci ricorda altresì che già dagli anni ‘80 essa Corte aveva “declinato” il principio con riferimento all’art. 30 Cost., come necessità che nelle decisioni concernenti il minore venga sempre ricercata la soluzione ottimale in concreto per l'interesse del minore, quella cioè che più garantisca, soprattutto dal punto di vista morale, la miglior cura della persona. E, in verità, nonostante il cambiamento di terminologia sia un portato della riforma della filiazione del 2012/2013, che recepisce la definizione europea, già da tempo nel diritto vivente nazionale si era affermata l’idea che la posizione del genitore si configura non come un diritto, ma come un munus che trova nell’interesse del minore la sua funzione ed il suo limite. La relazione tra genitori e figli è descritta dall’art. 30, primo e secondo comma, della Costituzione come un insieme di “compiti” che in caso di loro incapacità vengono diversamente assolti nei modi determinati dalla legge, e quindi come diritto-dovere che trova nell’interesse del figlio la sua ragion d’essere. La nostra Costituzione, anche con lungimirante anticipo su quella che sarebbe stata l’evoluzione sociale e legislativa, ha focalizzato l’attenzione sul minore configurando i doveri che caratterizzano l’impegno dei genitori come un compito da svolgere [8].
Se questo è il contenuto della responsabilità genitoriale, non si può prescindere, prima di incidere su di essa per qualsivoglia ragione, dalla necessità di accertare quale sia -nella concreta fattispecie- la scelta migliore per il minore; ciò determina il giudizio di non compatibilità dell’automatismo sanzionatorio con il sistema costituzionale.
2. La relazione familiare e la scelta della soluzione adatta al caso concreto.
Il giudizio negativo sull’automatismo sanzionatorio non è impedito dal fatto che nel caso di specie la condotta illecita del genitore si connota per una particolare gravità. La Corte infatti tiene conto dei rilievi in merito dell’Avvocatura dello Stato e rimarca che la sottrazione internazionale di minore è un delitto “odioso”, causa di pregiudizi sia per il genitore left behind che per il minore stesso, pur quando egli sia consenziente, anche se in questo caso si pone quel delicato problema di valutare come, se e fino a che limite tentare interventi di recupero della relazione familiare compromessa; e in effetti molte variabili sono in gioco, legate alle ragioni della sottrazione, alla non coercibilità della volontà del minore in ordine ai contatti con il genitore avversato, e comunque deve considerarsi la diminuita offensività del fatto per gli interessi del minore ultra quattordicenne che consapevolmente acconsente a seguire il genitore [9].
La Corte rileva che la pena accessoria della sospensione ha caratteri del tutto peculiari rispetto alle altre pene previste dal codice penale, perché incide non solo sul reo e sulla sua sfera giuridica, ma su una relazione, e quindi provoca effetti anche sul minore, perché pur non comportando ipso iure il divieto di convivere con, o di frequentare il minore, è evidente che la privazione di ogni potere decisionale nell’interesse del minore impedirà, di fatto, al genitore sospeso dall’esercizio della propria responsabilità di vivere il proprio rapporto con il figlio al di fuori della immediata sfera di sorveglianza dell’altro genitore, o comunque di persona che sia titolare della relativa responsabilità e sia, pertanto, in grado di assumere in ogni momento le necessarie decisioni per il figlio. In altre parole il rapporto diventa una limping relationship, una relazione carente di quelle facoltà decisionali che, traducendosi in scelte educative, contribuiscono a formare la personalità del minore. La relazione familiare è infatti una dimensione dell’individuo assai complessa, che si svolge all’interno di modelli familiari diversi e non necessariamente fondati sul matrimonio; in essa si intrecciano senso della identità personale, legami biologici, giuridici e sociali, sentimenti, aspirazioni, diritti, doveri, competenze, capacità di autodeterminarsi e di protezione. La sua salvaguardia, pertanto, richiede misure diverse ed appropriate, connotate dalla flessibilità e anche dalla tempestività della risposta, dal momento che il fattore tempo è, per la vita del minore, di primaria importanza[10].
Ed è proprio alla importanza del fattore tempo nella dinamica della relazione familiare che la sentenza fa riferimento nell’affermare, ed in questo se ne percepisce la modernità e l’attitudine a sviluppare un pensiero armonico con il contesto della cultura europea, che il principale problema dell’automatismo è la sua cecità rispetto all’evoluzione, successiva al reato, delle relazioni tra il figlio minore e il genitore autore del reato medesimo. La pena accessoria si applica al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, il che significa anche dopo alcuni anni dal fatto delittuoso, quando i rapporti familiari potrebbero essersi sanati o comunque evoluti in termini tali che sarebbe contrario all’interesse del minore applicare la sanzione.
Un esempio molto chiaro della necessità di scindere il profilo della valutazione del comportamento dell’adulto e quello delle conseguenze giuridiche e fattuali che incidono sulla vita del minore è il caso Šneersone e Kampanella contro Italia, di cui la Corte EDU si è occupata alcuni anni fa, emettendo sentenza di condanna contro l’Italia, per violazione dell’art. 8 della Convenzione[11]. Il caso Kampanella è esemplificativo perché si tratta appunto di una sottrazione internazionale e nella fattispecie non vi era dubbio alcuno che la madre, portando il bambino in Lettonia, contro la volontà del padre, rimasto in Italia, avesse agito illecitamente; per questa ragione il competente tribunale per i minorenni aveva emesso l’ordine di rimpatrio previsto dal reg. Regolamento(CE) n. 2201/2203 del 27 novembre 2003 (Bruxelles II bis).
Ciononostante la Corte EDU ha ritenuto che staccare il bambino dalla madre costituisse una violazione dell’art. 8 in considerazione del trauma psicologico derivante sia dalla rottura improvvisa e irreversibile degli stretti legami tra madre e figlio, sia dal fatto di essere inserito drasticamente in un ambiente linguisticamente e culturalmente straniero. Pur nella considerazione che il padre aveva assicurato che, ritornando il bambino a Roma, sarebbe stato seguito da uno psicologo, la Corte ha ritenuto che ciò non fosse una alternativa equivalente a benessere psicologico intrinseco nei legami forti, stabili e tranquilli tra un bambino e sua madre. L’interesse del minore, in altre parole, pur non essendo sempre “superiore” nel senso che non è sottratto al bilanciamento con altri interessi[12]può prevalere, in taluni casi, anche sulle esigenze di far seguire, all’accertamento del comportamento vietato, le conseguenze previste dalla legge. Ciò anche in virtù di quanto ritenuto dalla stessa Corte di Strasburgo in una altra decisione, che costituisce un leading case in tema di best interests del minore (citata anche dalla nostra Corte Costituzionale) e riferita anch’essa ad un caso di sottrazione internazionale. La Corte EDU ha affermato che l’interesse del minore comprende tanto l’interesse a mantenere regolari rapporti con i genitori quanto l’interesse a crescere in un ambiente sano, stabile e affidabile (sound enviroment). Il contatto con la famiglia si può recidere solo se essa è “particularly unfit”[13]. In questa come in altre decisioni, la Corte di Strasburgo sembra adottare una sorta di presunzione, secondo la quale il miglior interesse dei figli è il fatto di mantenere rapporti con i propri genitori, che lo Stato ha il dovere di garantire, con un adeguato “arsenale” di misure positive e salvo ricorrano circostanze di particolare gravità [14]. È chiaro poi che tra la famiglia perfetta (o la migliore famiglia possibile) e quella “particolarmente” inadeguata, o i cui membri siano adeguati in misura diversa, vi è tutta una scala di grigi dove l’indice misuratore e determinante diviene quello del diritto del minore a vivere in un ambiente sano, affidabile, stabile. Si tratta quindi di un accertamento estremamente complesso e che deve tenere conto della realtà dei fatti e del dinamismo che è connaturato alla relazione familiare, nonché del fatto che il tempo dell’adulto non è il tempo del minore, per il quale in spazi temporali brevi o relativamente brevi si gioca la partita della formazione armonica della personalità, con conseguenze talora non rimediabili. In questo contesto però non si deve dimenticare che le limitazioni all’esercizio della responsabilità genitoriale si pongono sempre come deroghe alla regola generale della pariteticità dei compiti parentali e quindi devono essere giustificate da una ragione forte e specificamente individuata. Il figlio, salvi i casi nei quali sia accertato un suo interesse di segno contrario, di regola fa riferimento ad entrambe le figure genitoriali, investite congiuntamente nei suoi confronti della responsabilità[15]. E’ questo il profilo qualificante e qualitativo del ruolo parentale, ben distinto da quello quantitativo, che si misura sui tempi di permanenza del minore presso l’uno o altro genitore; questo ultimo aspetto della relazione familiare, come rileva la Corte Costituzionale, non è impedito di per sé dalla pena accessoria, che però toglie alla relazione familiare la sua connotazione di paritetica funzione di scelta ed indirizzo del compito educativo.
3. Il miglior interesse del minore e il giudice idoneo ad accertarlo.
Ponendo al centro della questione la necessità di accertare in concreto il miglior interesse del minore è inevitabile, per chi abbia la cultura della giurisdizione intesa come momento in cui il diritto diventa reale perché ne viene assicurata (o talora negata) la tutela, porsi l’interrogativo di come si esegua questo accertamento e quale sia il giudice idoneo ad eseguire tale verifica. Ed è apprezzabile che la questione non resti sottotraccia nella sentenza, che ne tratta invece esplicitamente: pur nella consapevolezza che si tratta di scelte riservate al legislatore, la sentenza non manca di suggerire una via per affrontare la questione e cioè la necessità di assicurare un coordinamento con le autorità giurisdizionali – tribunale per i minorenni o, se del caso, tribunale ordinario civile – che siano già investite delle decisioni che riguardano direttamente il minore. E ciò anche al fine di garantire il rispetto della previsione – sancita espressamente dall’art. 12 della Convenzione sui diritti del fanciullo e dagli artt. 3 e 6 della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, e ripresa in linea di principio a livello di legislazione ordinaria dagli artt. 336-bis e 337-octies cod. civ. – di sentire il minore.
In queste poche parole si scolpisce qui plasticamente il compito del giudice minorile -poiché tale è anche il giudice civile quando si occupa dei provvedimenti che riguardano il minore- e cioè quello di assicurare la tutela dei diritti alla persona vulnerabile e legalmente incapace, quindi in condizione di minor potere rispetto all’adulto; la condizione di svantaggio non deve però precludere al minore di partecipare alle decisioni che lo riguardano e di esercitare i propri diritti personalissimi nella misura in cui lo consente il suo grado di maturità. Si tratta quindi di un giudice che deve rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla adeguata partecipazione del soggetto ai processi decisionali che lo riguardano. L’errore in cui talvolta si incorre quando si tratta dell’interesse del minore è quello di dargli una colorazione paternalistica e cioè ritenere che gli adulti competenti e il giudice, in quanto adulto super competente e se il caso coadiuvato da esperti delle scienze psicologiche, possano eterodeterminare, in via esclusiva, i contenuti dell’interesse del minore. In questo modo però l’interesse del minore finisce per diventare “una nozione confusa e ambigua, sfuggente e indeterminata, idonea a essere impiegata con modalità molto fortemente condizionate dalle scelte di valore di chi vi ricorre”[16].
L ’interesse “migliore” non è infatti quello che risponde a parametri astratti ma quello che corrisponde alle esigenze di quello specifico minore di cui si tratta, ed alla individuazione del quale deve partecipare lo stesso minore, nella misura consentita dalla sua capacità di discernimento. Per questo la Corte di Cassazione ha in più occasioni affermato che l'ascolto del minore di almeno dodici anni, e anche di età minore ove capace di discernimento, costituisce una modalità, tra le più rilevanti, di riconoscimento del suo diritto fondamentale ad essere informato e ad esprimere le proprie opinioni nei procedimenti che lo riguardano, nonché elemento di primaria importanza nella valutazione del suo interesse[17].
Sembra quindi che la Corte Costituzionale nell’esprimere un giudizio esplicito di illegittimità degli automatismi sanzionatori che non tengono conto degli interessi del minore, abbia anche indirettamente espresso un giudizio negativo sulle decisioni non assunte in esito ad un procedimento che consenta al minore di esprimere le proprie istanze ed opinioni tramite l’ascolto; decisioni che per questo rischierebbero di rivelarsi standardizzate e non attente alla peculiarità delle situazioni in concreto prospettate, valutate all’attualità. Il giudice penale dovrebbe quindi fondarsi o comunque tenere in debita considerazione i provvedimenti adottati, (e le valutazioni ad essi sottese), dalle altre autorità giudiziarie competenti per l’affidamento del minore stesso e la regolamentazione della responsabilità genitoriale. Del resto, è da presumere che dette decisioni, pur nella forma di provvedimenti provvisori o comunque modificabili rebus sic stantibus intervengano prima del giudicato penale, sicché di regola il giudice penale potrà avere a disposizione il provvedimento prima di adottare la sua decisione.
[1]V. Corte cost. 15/2/ 2012 n. 31; Corte Cost. 23/1/ 2013, n. 7.
[2] Attuata tramite la legge 10 dicembre 2012 n. 219 e il D.lgs. 28 dicembre 2013 n. 154.
[3] Approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 a New York, la Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176 è un fondamentale strumento di tutela giuridica dell’infanzia. Da ricordare anche la Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata in Italia con legge 20 marzo 2006, n. 77 sull’esercizio dei diritti del fanciullo.
[4] Corte EDU, Grande Camera, 6/7/2010, Neulinger e Shuruk c. Svizzera; Corte EDU, Grande Camera, 26/11/ 2013, X c. Lettonia.
[5] LONG, Il principio dei best interests e la tutela dei minori, in Questione Giustizia, speciale Corte Strasburgo, aprile 2019.
[6] LAMARQUE, L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in tema di giustizia minorile, in Famiglia e Diritto, 2018, 13, 294.
[7] CONTI, Alla ricerca del ruolo dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel pianeta famiglia in www.minoriefamiglia.it L’A. osserva che i diritti viaggiano, o meglio devono viaggiare, “su binari che continuamente si intersecano e si intrecciano, di guisa che l'omessa considerazione anche di uno solo di quei diritti incide, danneggiandola, sulla tutela dell'altro, apparentemente garantito, ma in realtà non pienamente tutelato”.
[8] Cass. 19/4/2002, n. 5714, in Fam. e Dir., 2002, 415; Corte Cost. 27/3/1992, n. 132, in Giur. cost., 1992, 1108. In dottrina cfr. ARCERI, Dello scioglimento del matrimonio e della separazione dei coniugi, in SESTA (a cura di), Codice della famiglia, 2a ed., I, Milano, 2009.
[9] Per la valutazione negativa delle misure coercitive nei confronti del minore si veda Corte EDU, V.A.M. c. Serbia, 13/3/2007; Corte EDU, Amanalachioai c. Romania, 26/5/2009.
[10] Da ricordare che le Linee guida del Consiglio d’Europa sulla giustizia a misura di minore richiedono al giudice una diligenza eccezionale nelle questioni di diritto di famiglia, che venga costantemente applicato il principio della urgenza per fornire una risposta rapida e per proteggere al meglio l’interesse del minore.
[11] Corte EDU, 12/7/ 2011 , Šneersone e Kampanella c. Italia.
[12] Corte Cost. 18/12/2017 n. 272; Cass. sez. un. 12/6/2019 n. 15750, laddove con riferimento al permesso di soggiorno speciale previsto dall’art. 31 del Dlgs d.lgs. n. 286 del 1998 si afferma che “il preminente diritto del minore a non vedersi privato della figura genitoriale fino ad allora presente nella sua vita di relazione non è assoluto, potendo risultare in concreto recessivo, all'esito di un circostanziato esame del caso”; in particolare si tratta qui delle esigenze di ordine pubblico con le quali l’interesse del minore viene in bilanciamento.
[13] Corte EDU, Neulinger e Shuruk c. Svizzera, cit.
[14] Si vedano Corte edu, Lombardo c. Italia, 29/1/2013; Corte edu, Piazzi c. Italia, 2/11/2010.
[15] Si veda, anche per i riferimenti bibliografici, AL MUREDEN “La responsabilità genitoriale tra condizione unica del figlio e pluralità di modelli familiari” in Famiglia e Diritto, 2014, 466.
[16] LENTI “L’interesse del minore nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: espansione e trasformismo”, in NGCC 2016, 1 148. L’A. osserva che nella giurisprudenza della Corte EDU è frequente che la Corte ritenga i minori che hanno raggiunto l’età del discernimento come migliori interpreti del proprio stesso interesse, attribuendo un ruolo spesso decisivo alle loro scelte e non mettendo in dubbio che non siano eseguibili in via forzata le decisioni che se ne discostano.
[17] Cass. 07/05/2019 n. 12018; Cass. civ. 26/3/2015 n. 6129.
di Maria Alessandra Sandulli
Sommario: 1. Le misure di “semplificazione e liberalizzazione” introdotte dall’art. 264, comma 1, del d.l. rilancio; - 2. La “trappola” del secondo comma: le sanzioni “nascoste”; - 3. L’interdizione biennale da contributi, finanziamenti e agevolazioni; - 4. La revoca dei benefici già erogati; - 5. La “confusa giustificazione” proposta dai Servizi studi della Camera e del Senato; - 6. Conclusioni.
1. Le misure di “semplificazione e liberalizzazione” introdotte dall’art. 264, comma 1, del d.l. rilancio
L’art. 264 del d.l. 19 maggio 2020 n. 34, sotto il promettente e accattivante titolo di “decreto rilancio”, introduce nuove misure di “semplificazione e liberalizzazione” delle attività tradizionalmente soggette a controllo pubblico. Come ripetutamente denunciato in precedenti occasioni[1], la tecnica, ormai tristemente collaudata, utilizzata per eliminare i cd “lacci e lacciuoli” della burocrazia amministrativa, è in realtà semplicemente quella di trasformare i controlli preventivi – che “rassicuravano” il privato della legittimità del suo modus operandi, offrendogli un titolo amministrativo spendibile e tendenzialmente stabile – in un rischioso e vischioso sistema di verifiche postume sulla correttezza della procedura autoresponsabilmente seguita e sulla effettiva sussistenza dei presupposti autodichiarati per fruire di un titolo, agevolazione, beneficio, partecipare a una procedura valutativa o selettiva, avviare un’attività e simili. A ogni “sgravio” di compiti e di responsabilità dell’amministrazione corrisponde invero un aggravio di quelle del privato, chiamato a rilasciare “dichiarazioni sostitutive” di atti e documenti pubblici che, se in origine si limitavano a proprie situazioni personali (nascita, residenza, cittadinanza, stato civile, titolo di studio, reddito, e simili), si estendono ora indebitamente a profili di ordine giuridico e tecnico sempre più complessi, sui quali gli stessi organi pubblici istituzionalmente competenti (amministrazioni e giudici) dimostrano oggettive difficoltà di orientamento. Difficoltà tanto note e tanto vere che la giurisprudenza assume spesso posizioni disomogenee e che le più recenti proposte di riforma spingono per intervenire sul reato di abuso d’ufficio e per una riduzione della responsabilità amministrativa alle ipotesi di dolo, consapevoli che i ritardi e i silenzi delle amministrazioni trovano la loro prima causa nella “paura della firma”, che “paralizza i funzionari alle prese con un dedalo normativo spesso contraddittorio”[2]. All’opposto, i privati costretti a rinunciare all’ombrello protettivo dei controlli preventivi combattono con l’estrema difficoltà di spendere i titoli autocertificati (SCIA e CILA) e addirittura gli stessi provvedimenti impliciti (per “silenzio assenso”) che, in spregio alle disposizioni che ne ribadiscono la piena equiparazione ai provvedimenti espressi, alcuni giudici continuano a ritenere “non formati” in assenza dei presupposti di legge[3]. Sicché lo stesso legislatore ha rimesso al privato la scelta di rinunciare alla SCIA per avvalersi del permesso di costruire e alcuni giudici hanno ancora recentemente riconosciuto il diritto dell’istante a pretendere in ogni caso il provvedimento espresso senza accontentarsi di quello implicito[4].
Anche la normativa emergenziale COVID-19 segue tuttavia imperterrita la strada delle “autodichiarazioni” (le cui difficoltà di compilazione sono state per vero la migliore remora per uscire dalle nostre case) e l’art. 264 ne amplia ulteriormente l’ambito in relazione alle istanze di benefici e agevolazioni legate alla nuova, drammatica, emergenza pandemica, apparentemente curandosi di garantirne la massima stabilità. Il primo comma dell’articolo, infatti, sempre all’apparenza, conferma e rafforza i limiti all’autotutela caducatoria. Si riduce invero, in via eccezionale, con riferimento agli atti adottati (o all’attività intrapresa) in relazione alla stessa emergenza, da diciotto a tre mesi, il termine perentorio entro il quale, in forza degli articoli 19 e 21-nonies della legge generale sul procedimento amministrativo (l. n. 241/1990, come modificati dalle riforme dell’ultimo decennio), l’amministrazione può intervenire d’ufficio per annullare (id est rimuovere, con effetto ex tunc, per vizi originari), sempre che lo giustifichino ragioni attuali di interesse pubblico, gli atti (anche impliciti) di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, o per rilevare, in sede di “controllo di secondo livello”, vizi originari di validità/idoneità della SCIA. Il legislatore dell’emergenza si dà in proposito espressamente cura di ribadire, e dunque fa testualmente propria, la regola che tale limite, come disposto dall’art. 21-nonies, trova un’unica eccezione nel caso (e soltanto nel caso) in cui detti titoli siano frutto di “false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenze di condanna passate in giudicato”. Si conferma dunque che la deroga al limite temporale per inesatte “rappresentazioni dei fatti” richiede l’elemento della “falsità” e che, anche a voler accettare la lettura (a mio avviso strumentale e non conforme all’intentum legis[5]) che “sdogana” le “false rappresentazioni dei fatti” dal giudicato penale, quantomeno per le “dichiarazioni sostitutive”, stante il loro valore probatorio, tale garanzia è ineludibile. Si tratta di una precisazione molto importante, dal momento che le amministrazioni, avallate purtroppo in vari casi dalla giurisprudenza, attraverso una interpretazione inammissibilmente “creativa” di una regola iuris opposta alla lettera e allo spirito della legge[6], hanno ritenuto di poter autonomamente ricondurre alla falsa rappresentazione dei fatti, in tesi sganciata dall’accertamento penale della falsità, anche pretesi errori di ricostruzione del quadro normativo o tecnico (quali la validità di un titolo, la qualificazione di un intervento edilizio, la sussistenza di un vincolo, l’individuazione della regula iuris correttamente applicabile, e simili).
Nella medesima ottica di garanzia di stabilità del beneficio, lo stesso comma 1 dell’art. 264 dispone che, sempre fino al 31 dicembre 2020, il potere generale di revoca (rimozione con effetto ex nunc degli atti ad efficacia durevole) per ragioni sopravvenute di interesse pubblico è limitato, per i benefici e le agevolazioni Covid-19, alla sopravvenienza di ragioni “eccezionali”.
2. La “trappola” del secondo comma: le sanzioni “nascoste”
Come ho immediatamente rappresentato in un articolo pubblicato sul quotidiano Il dubbio del 22 maggio, tuttavia, il secondo comma dell’articolo deputato alle misure di semplificazione e liberalizzazione nasconde un potente veleno.
Accanto alle riferite misure “emergenziali”, esso introduce, infatti, una serie di disposizioni “a regime”, dirette dunque a valere in via generale e senza limiti temporali. In particolare, nel dichiarato obiettivo di accelerare la massima semplificazione dei procedimenti amministrativi e l’attuazione delle misure di “sostegno” a cittadini e imprese e di “rilancio” dell’economia, la novella introduce, alla lettera a), un inedito, e potenzialmente sproporzionato, regime sanzionatorio nei confronti dei soggetti che l’amministrazione competente alla verifica abbia ritenuto latori di dichiarazioni non veritiere.
Dietro la conclamata finalità di disporre “misure urgenti” per “assicurare piena attuazione ai principi che non consentono alle pubbliche amministrazioni di richiedere la produzione di documenti e informazioni già in loro possesso” (!), il legislatore dell’emergenza interviene infatti sulla disciplina generale dei controlli amministrativi sulle autodichiarazioni dettata dal Testo Unico n. 445 del 2000 e, nell’intensificare i controlli a campione sulla relativa veridicità, aggrava sensibilmente gli effetti del loro eventuale esito negativo, aggiungendo alla tradizionale (mera) “decadenza” dal beneficio prevista dall’art. 75, l’espressa previsione, al comma 1-bis dello stesso articolo, che, “La dichiarazione mendace [non si richiede quindi la prova del falso, né si pongono limiti temporali] comporta, altresì, la revoca degli eventuali benefici già erogati nonché il divieto di accesso a contributi, finanziamenti e agevolazioni per un periodo di 2 anni decorrenti da quando l'amministrazione ha adottato l’atto di decadenza”, oltre a un significativo aggravio delle sanzioni penali (che, con un periodo aggiunto al primo comma dell’art. 76, vengono aumentate “da un terzo alla metà”).
In buona sostanza, perdendo un’importante occasione per fare chiarezza sulla portata dell’eccezione ai limiti temporali dell’annullamento d’ufficio degli atti di autorizzazione e di attribuzione di vantaggi economici (e, a catena, del controllo tardivo sulla SCIA) per “false rappresentazioni dei fatti”, confermando la necessità del relativo accertamento penale, o, quanto meno, circoscrivendole a quelle incontrovertibilmente risultanti da dati oggettivi inopinabili (come l’iscrizione in pubblici registri), il legislatore ha inserito di soppiatto nella disciplina della semplificazione per l’emergenza, inopinatamente proponendola come norma diretta a garantire il rispetto da parte delle pubbliche amministrazioni dell’obbligo di non “richiedere agli amministrati la produzione di documenti e informazioni già in loro possesso”, un significativo inasprimento delle conseguenze delle autodichiarazioni di cui le stesse amministrazioni abbiano eventualmente ritenuto, in sede di verifica postuma e senza alcun limite temporale, la non veridicità.
3. L’interdizione biennale da contributi, finanziamenti e agevolazioni
Ciò è di immediata evidenza per l’aggravio delle sanzioni penali ed è, comunque, innegabile per l’interdizione biennale da qualsiasi contributo, finanziamento e agevolazione. Si tratta, invero, pacificamente di una misura che, per il suo palese carattere afflittivo, rientra a pieno titolo, alla stregua dei c.d. Engel criteria, nel genus delle sanzioni amministrative, soggette, come tali, ai principi di stretta legalità, irretroattività e proporzionalità propri delle sanzioni penali[7]. Ne consegue, oltre all’inapplicabilità della norma interdittiva alle dichiarazioni rese prima dell’entrata in vigore della novella, la radicale illegittimità costituzionale della stessa, per il rigido automatismo che la connota[8]. L’impatto della misura è peraltro ancora più grave quando si consideri che il generico riferimento alle “agevolazioni”, senza l’aggiunta dell’aggettivo “economiche”, può essere ritenuto idoneo ad abbracciare anche sanatorie, deroghe e simili. Per una siffatta interpretazione sembra del resto far propendere anche il successivo periodo, che tiene “fermi” gli interventi “anche economici” in favore dei minori e le situazioni familiari e sociali di particolare disagio. A prescindere dall'assoluta incertezza di quest’ultima espressione, che rinvia a concetti assolutamente indeterminati, l’inciso “anche economici” potrebbe invero avvalorare il timore che il termine agevolazioni possa essere considerato inclusivo anche quelle a carattere non economico. Con buona pace della certezza delle regole e del principio di stretta legalità delle pene.
4. La revoca dei benefici già erogati
La “trappola” delle autodichiarazioni con cui, sempre più frequentemente, il privato è chiamato ad assumersi responsabilità interpretative e ricostruttive di un sistema estremamente complesso e incerto in luogo degli uffici istituzionalmente competenti (e per il cui “servizio”, non dimentichiamolo, la collettività sopporta pesanti oneri fiscali), vale però in termini non meno gravi per il recupero dei benefici eventualmente medio tempore ottenuti.
La disposizione deve essere letta in parallelo con il richiamato art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 in tema di annullamento d'ufficio. La revoca ex tunc dei benefici in tesi indebitamente ottenuti in base a una dichiarazione non veritiera è legata infatti evidentemente a un vizio originario dell’atto che lo ha attribuito: il beneficio deve essere restituito perché è stato riconosciuto/concesso in forza della dichiarazione dell’esistenza di un presupposto che, in realtà, secondo l’amministrazione vigilante, non esisteva. Dunque, perché il suo riconoscimento/conferimento era ab origine viziato. La rimozione con effetto ex tunc di un atto amministrativo per originario difetto dei relativi presupposti rientra però in una precisa categoria giuridica, che corrisponde al nome di “annullamento”, che, con una precisa scelta legislativa – che l’art. 264 non smentisce, ma, al primo comma, come visto espressamente ribadisce e addirittura rafforza – il legislatore ha sottoposto a precipui limiti sostanziali e procedurali, che il nuovo art. 75, comma 1-bis, del D.P.R. n. 445 del 2000 chiaramente elude.
Oltre all’evidente intento di “aggirare” i limiti temporali, generali e speciali, imposti dalla legge per l’annullamento d’ufficio, l’utilizzo del termine “revoca” in luogo di quello di “annullamento”, più correttamente idoneo a qualificare un provvedimento diretto a rimuovere con effetto ex tunc un atto/beneficio in tesi originariamente viziato (per essere stato indebitamente ottenuto in base alla dichiarazione non veritiera), tradisce per vero la volontà di sottrarre la misura anche all’obbligo motivazionale sul bilanciamento dei contrapposti interessi, in relazione all’affidamento riposto dal dichiarante in buona fede nella legittimità e stabilità del titolo/beneficio (esplicitamente o implicitamente) rilasciato o comunque non tempestivamente contestato. È importante a questo proposito segnalare che la prima disposizione introduttiva di un limite temporale al potere di annullamento d’ufficio degli atti amministrativi (art. 1, comma 136, l. n. 311 del 2004) si riferiva proprio a quelli incidenti su rapporti negoziali o convenzionali: essa bilanciava la previsione di una deroga al predetto obbligo motivazionale con la garanzia di un indennizzo per l’eventuale pregiudizio patrimoniale arrecato al privato contraente e con la fissazione di un limite temporale rigido – tre anni dall’acquisizione di efficacia del provvedimento – che non ammetteva alcuna eccezione (neppure in caso di falso!). La successiva estensione della regola del limite temporale (dimidiato a diciotto mesi) a tutti i provvedimenti autorizzativi o attributivi di vantaggi economici (disposta, come noto, dalla l. n. 124 del 2015, c.d. “riforma Madia”) ha poi implicato, per un verso, l’introduzione della relativa derogabilità in caso di falso e, per l’altro, l’esplicita abrogazione della suddetta disciplina speciale, con conseguente generalizzata riespansione dell’obbligo motivazionale sul contemperamento dei contrapposti interessi, che deve quindi in ogni caso supportare la caducazione ex tunc del provvedimento o del titolo, escludendo in radice la possibilità di invocare motivazioni in re ipsa, per determinate categorie di interessi pubblici, men che meno di mero carattere economico[9]. Come evidenziato da una recentissima sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana a proposito dello speciale regime dell’annullamento regionale dei titoli edilizi[10], infatti, “la stabilità dei provvedimenti amministrativi costituisce un valore che acquista una rilevanza sempre maggiore in un sistema che vuole l’agere della pubblica amministrazione ispirato al principio di correttezza e buon andamento di matrice costituzionale”. Osserva in merito condivisibilmente l’autorevole organo giudicante che “il principio costituzionale dell'art. 97 Cost. fissa un limite al potere discrezionale autoritativo di ritiro”, che “trova fondamento anche nell'art. 3 Cost., su cui si fonda il principio di ragionevolezza e proporzionalità dell’agire pubblico”, sottolineando, più in particolare, come “non si tratta di una preclusione del potere ma di un limite all'esercizio del medesimo, di tipo motivazionale e procedurale, che si collega al principio di correttezza, ragionevolezza, proporzionalità, in quanto vieta l'uso scorretto, irragionevole e sproporzionato del potere pubblico”; e significativamente concludendo che “L'obbligo di motivazione è ancora più stringente quando le primigenie scelte che hanno ampliato la sfera giuridica dei privati non sono frutto di comportamenti fraudolenti da parte degli stessi, ma maturano in un rapporto con la pubblica amministrazione caratterizzato apparentemente dalla reciproca buona fede”.
La scelta del legislatore dell’emergenza è dunque anche sotto questo profilo fortemente criticabile, dal momento che la “revoca” ex tunc dei benefici, configurando in realtà una forma di “annullamento travestito”[11], si pone in aperta e insanabile contraddizione con i limiti temporali e motivazionali imposti a quest’ultimo istituto e specificamente richiamati dal primo comma dello stesso art. 264, addirittura, come visto, con la testuale riproduzione della puntuale eccezione di cui al comma 2-bis.
Non vi è dubbio, dunque, che, non diversamente dall’interdizione, la revoca persegua piuttosto un intento sanzionatorio.
Nel ricordato contributo pubblicato “a prima lettura” sul quotidiano Il dubbio concludevo pertanto con un’osservazione che mi piace riportare “È certamente giusto prevenire e severamente reprimere l’imprenditore disonesto e chiunque fraudolentemente dichiari/rappresenti il falso per accedere a vantaggi pubblici della più varia natura, ma non si deve dimenticare che le sanzioni sono soggette a regole ben precise e che, in ogni caso, le misure di semplificazione privano di fatto gli operatori delle garanzie del controllo preventivo dell’amministrazione. Si impone quindi particolare attenzione al confine tra dichiarazioni/ rappresentazioni effettivamente “mendaci” ed errori interpretativi di contesti giuridici e tecnici spesso scarsamente chiari, che per questo vengono tendenzialmente “scusati” alle amministrazioni e ai giudici. Ciò che appare comunque inaccettabile è il fatto che, soprattutto in un momento di massima confusione legislativa, tale inasprimento non sia stato segnalato, in modo chiaro ed espresso, in un apposito articolo e sotto un’apposita rubrica, come il rapporto di leale collaborazione tra le istituzioni e i cittadini avrebbe richiesto (invece che essere “celato” tra le misure di liberalizzazione e semplificazione dell’emergenza Covid-19, senza peraltro farne cenno neppure nella Relazione illustrativa). Perché ci meravigliamo se gli imprenditori non si fidano?”.
5. La “confusa giustificazione” proposta dai Servizi studi della Camera e del Senato
Dopo la pubblicazione dell'articolo e l’eco che esso ha avuto su vari media, il Servizi studi della Camera e del Senato, nelle schede predisposte per i parlamentari in vista della conversione in legge del decreto 34, hanno finalmente alzato il velo steso dal governo sulle misure introdotte dal comma 2, lettera a), dell’art. 264.
Le schede confermano però le criticità della novella e la totale confusione tra categorie giuridiche che ne ha indotto l'introduzione.
Sottolinea infatti, apertamente, la scheda relativa alle misure in commento che “per quanto concerne le sanzioni”, l’articolo aggiunge una disposizione all’articolo 75 del D.P.R. n. 445, stabilendo che la dichiarazione mendace comporta, oltre alla decadenza dai benefici indebitamente ottenuti, anche la revoca di quelli già erogati nonché il divieto di accesso a contributi finanziamenti e agevolazioni per un periodo di due anni decorrenti da quando l'amministrazione ha adottato l'atto di decadenza.
Nella parte esplicativa, la stessa scheda aggiunge peraltro, con un linguaggio evidentemente atecnico che non può non deludere per la fonte da cui promana, che in tal modo il dl rilancio “rafforza le sanzioni amministrative per le dichiarazioni mendaci”.
Se dunque la scheda ha il forte merito di segnalare ai parlamentari l’introduzione di nuove “sanzioni”, essa rivela sin da subito una superficialità di rappresentazione del contesto normativo e ordinamentale, laddove riconduce impropriamente la “decadenza” al genus delle “sanzioni amministrative”; e la superficialità aumenta quando, nel cercare di spiegare la disposizione, confonde le finalità della decadenza con quelle della revoca e dell’interdizione.
Ricordo che la decadenza ex art. 75, D.P.R. n. 445 del 2000, che correttamente il predetto Testo Unico non qualifica “sanzione”, risponde (rectius, dovrebbe rispondere), correttamente e ragionevolmente, alla logica di precludere la fruizione dell’utilitas in tesi indebitamente conseguita per effetto del mendacio, impedendo che il dichiarante goda di un beneficio che non avrebbe avuto titolo a ottenere: essa coerentemente opera ex nunc e, in questi termini e con questi limiti, prescinde dall'elemento soggettivo e dalla gravità del mendacio. Già con riferimento a tale disposizione è stata peraltro opportunamente sollevata la questione di legittimità costituzionale della lettura datane dal “diritto vivente”, nel senso di ritenerla applicabile, con un “meccanico automatismo legale (del tutto contestualizzato dal caso specifico)” e con “assoluta rigidità”, per qualsivoglia errore “sostanziale” della dichiarazione[12], a prescindere dalla sua concreta rilevanza e dalla sua effettiva gravità, anche sul piano dell’elemento soggettivo[13].
È indubbia comunque la differenza tra la preclusione al conseguimento o all’ulteriore godimento di un’utilitas cui il dichiarante non avrebbe avuto in tesi diritto e la revoca ex tunc dei benefici medio tempore ottenuti per l’inefficienza dei controlli amministrativi (o, più spesso, perché gli originari responsabili del procedimento avevano accolto una diversa interpretazione del quadro normativo e fattuale).
Per sottrarre tale misura al regime dell’annullamento d’ufficio (categoria cui, per quanto sopra detto, essa sarebbe più correttamente riconducibile), bisogna invero ricondurla, come ben compreso dai Servizi studi, al genus delle sanzioni. Ma ciò ne implica la soggezione ai principi di stretta legalità, proporzionalità e rilevanza dell’elemento soggettivo tipici di queste ultime.
Tanto l’interdizione biennale da ogni contributo, finanziamento o agevolazione, quanto la revoca di cui al novello art. 75, comma 1-bis, del D.P.R. n. 445 del 2000 devono pertanto rigorosamente rispettare i principi e le regole che la Costituzione, la CEDU e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta di Nizza) univocamente impongono per le pene.
Da ciò la palese erroneità della scheda quando unifica e assimila istituti come decadenza, revoca e interdizione e concetti come falsità e non veridicità, assumendo (con un’impropria estensione del surrichiamato “diritto vivente” sulla decadenza) che anche per le misure sanzionatorie (revoca ex tunc dei benefici e interdizione biennale da ogni agevolazione) introdotte dall’art. 264, comma 2, del dl rilancio la “dichiarazione falsa o non veritiera
6. Conclusioni
La confusione, purtroppo sempre più diffusa e frequente, tra le categorie giuridiche è uno dei più gravi difetti del nostro sistema e aumenta gravemente l'incertezza delle regole e, per l’effetto, la sfiducia degli investitori e degli operatori economici nel nostro Paese.
Allo studioso non resta quindi che auspicare che il Parlamento colga autonomamente la gravità e l’irragionevolezza delle nuove misure, e la loro macroscopica incompatibilità con le garanzie costituzionali, eurounitarie e convenzionali in tema di sanzioni. E che, in questa o altra occasione il legislatore (magari lo stesso Governo nel preannunciato “decreto semplificazioni”), si prenda doverosa coscienza e si rimarchi che, come lucidamente e provvidenzialmente sottolineato in una recentissima sentenza del Consiglio di Stato, “Il concetto di “falso”, nell’ordinamento vigente, si desume dal codice penale, nel senso di attività o dichiarazione consapevolmente rivolta a fornire una rappresentazione non veritiera. Dunque, il falso non può essere meramente colposo, ma deve essere doloso”[14] e si operi un attento e ragionevole ripensamento sul regime delle conseguenze degli errori eventualmente commessi dagli amministrati – obbligati ad assumersi la responsabilità di una corretta lettura e applicazione di un quadro normativo straordinariamente caotico e incerto – nel rendere le prescritte dichiarazioni sostitutive. Non si deve infatti dimenticare che le misure di semplificazione e liberalizzazione sono, sì, volte a rendere più efficace ed efficiente l'azione amministrativa, ma sono altrettanto inequivocabilmente finalizzate a garantire i diritti dei singoli costituzionalmente tutelati e di volta in volta coinvolti nel procedimento amministrativo attivato[15] e non possono quindi provocarne un sostanziale indebolimento, imputando ai relativi titolari “responsabilità oggettive” per condotte legate a deficienze del sistema normativo da cui si cerca di tenere indenni le amministrazioni.
[1] Da ultimo, “Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela”, Relazione al 65° Convegno di Studi amministrativi, Varenna, 2019, in federalismi.it, 18/2019, ma già in numerosi altri scritti (inter alia, Le novità in tema di silenzio, in Libro dell’anno del diritto, Treccani, 2014 e Dalla DIA alla SCIA: una liberalizzazione a rischio, in Riv. giur. Edil., 2010, II, 645 ss.) a partire da Riflessioni sulla tutela del cittadino contro il silenzio della p.A., in Giust. Civ. 1994, 485 ss. Per ulteriori approfondimenti M. Calabrò, Silenzio-assenso e dovere di provvedere, in Federalismi.it, 16 aprile 2020; G. Mari, L'obbligo di provvedere e i rimedi preventivi e successivi alla sua violazione, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell'azione amministrativa, Milano, 2017; R. Caponigro, I comportamenti taciti, in www.giustizia-amministrativa.it.
[2] Così testualmente G. Trovati, Prove di semplificazione sulla responsabilità contabile, Il Sole 24 Ore del 25 maggio scorso. Il fenomeno è richiamato, da ultimo, da P. Severino, (La burocrazia difensiva, su La Repubblica del 30 maggio), che, parimenti, sottolinea come esso trovi la sua causa nelle “norme che hanno dato luogo a interpretazioni oscillanti e incerte” che inducono i funzionari pubblici “ad una tattica prudenziale e attendista come garanzia di impunità” e autorevolmente rimarca che tale atteggiamento è provocato anche dall’ “ambiguo confine della responsabilità erariale, che dovrebbe scattare solo a seguito di una condotta del soggetto pubblico accompagnata da dolo o colpa grave” (mentre “proprio la qualificazione di colpa grave” ha “subito una graduale erosione fino a identificarsi a volte con qualunque comportamento non conforme a canoni interpretativi più consueti”) e dall’incertezza nella delimitazione del reato di “abuso d’ufficio”, che, risente della difficoltà di “differenziare ciò che è legittimo da ciò che è illegittimo sotto il profilo amministrativo o addirittura illegale sotto il profilo penale”, portando a “considerare meritevoli di pena anche comportamenti del pubblico ufficiale che faccia cattivo uso del potere discrezionale”.
[3] Da ultimo, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15 aprile 2020, n. 634.
[4] TAR Puglia, Bari, Sez. II, 30 marzo 2020 n. 454. Il Collegio, confermando l’orientamento della Sezione (cfr. sent. 20 maggio 2019 n. 725) ha evidenziato che “La natura rimediale (e derogatoria) del silenzio-assenso va qualificata in senso per così dire “protettivo” dell’interesse del richiedente all’irrinunciabilità dell’atto esplicito e formale, preordinato ad evitare l’avvio di un’attività a gravoso impatto territoriale ed economico, peraltro non facilmente reversibile”. La giurisprudenza ha colto, infatti, che il provvedimento espresso, infatti, garantisce al privato un “maggior grado di stabilità e certezza del rapporto”, che rileva “in relazione all’impegno economico-finanziario per l’edificazione, di avere contezza del termine finale dei lavori e della certezza del titolo edilizio, per l’avvio delle pratiche bancarie e finanziarie propedeutiche all’inizio delle opere, per il trasferimento del bene o del permesso, per la sottoscrizione del preliminare di acquisto delle porzioni di fabbricato, etc.” (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 1 agosto 2019 n. 10227; TAR Campania, Salerno, Sez. II, 7 novembre 2019 n. 1936).
[5] Cfr. M.A. Sandulli, L’autotutela perde i limiti temporali imposti dalla «Madia», in Il sole 24 ore, 9 luglio 2018; Id., Autoannullamento dei provvedimenti ampliativi e falsa rappresentazione dei fatti: è superabile il termine di 18 mesi a prescindere dal giudicato penale?, in lamministrativista.it.
[6] Si rinvia, in tema, a M.A. Sandulli, Principi e regole del diritto amministrativo: riflessioni sul rapporto tra diritto scritto in realtà giurisprudenziale, in federalismi.it, n. 23/2017 e Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il processo, 3, 2018.
[7] Sull’equiparazione delle sanzioni amministrative alle sanzioni penali, cfr., ex plurimis, C. cost., sent. n. 63 del 2019, che ne ha addirittura dedotto l’applicabilità anche alle prime della regola della retroattività della legge più favorevole.
[8] Cfr. per tutte, C. cost., sent. n. 112 del 2019.
[9] Sul punto, cfr. però le ambigue considerazioni svolte dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n.8 del 2017, su cui sia consentito il rinvio a M.A. Sandulli, G. Strazza, L’autotutela tra vecchie e nuove incertezze: l’Adunanza Plenaria rilegge il testo originario dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, in S. Toschei (a cura di), L’attività nomofilattica del Consiglio di Stato, Roma, 2019.
[10] Sez. I, 26 maggio 2020, n. 325.
[11] Così testualmente i pareri della Commissione speciale del Consiglio di Stato sugli schemi dei decreti delegati di attuazione della legge Madia (pareri nn. 839 e 1784 del 2016). Sull’annullamento d’ufficio nella riforma Madia, cfr., per tutti, C. Deodato, L’annullamento d’ufficio, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017; M. Sinisi, Il potere di autotutela caducatoria, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, cit..
[12] Il richiamo è a Cons. Stato, Sez. V, 9 aprile 2013, n. 1933, 3 febbraio 2016, n. 404 e 15 febbraio 2017, n. 1172; Sez. VI, 20 agosto 2019, n. 5761; CGA reg. sic., 9 dicembre 2019, n. 1039; TAR Lazio, Sez. III ter, 24 maggio 2017, n. 6207; TAR Liguria, Sez. I, 14 giugno 2017, n. 534.
[13] Cfr. TAR Puglia, Lecce, Sez. III, ord.n. 92 del 2020, che, riprendendo e sviluppando gli argomenti svolti nelle ordd. nn. 1346, 1531, 1552 e 1544 del 2018, dichiarate inammissibili per difetto di motivazione sulla rilevanza C.cost., n. 199 del 2019), ha (ri)sollevato la questione in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., sotto il profilo dell’irragionevolezza e sproporzione della misura impeditiva e decadenziale automatica, anche alla luce delle aperture create dall’ordinamento attraverso il soccorso istruttorio. Sottolinea invero l'ordinanza che “il giudizio di ragionevolezza, lungi dal limitarsi alla (sola) valutazione della singola situazione oggetto della specifica controversia da cui sorge il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, sia appalesa idoneo (…) a vagliare gli effetti della Legge sull’intera realtà sociale che la Legge medesima è chiamato a regolare, anche in funzione dell’ <<“esigenza di conformità dell'ordinamento a valori di giustizia e di equità” … ed a a criteri di coerenza logica, teleologica, …, che costituisce un presidio contro l'eventuale manifesta irrazionalità o iniquità delle conseguenze della stessa (sentenza numero 87 del 2012)>> (Corte costituzionale sentenza 10 giugno 2014 n. 162)”.
[14] Sez. V, 12 maggio 2020, n. 2976.
[15] Così chiaramente la citata ordinanza leccese n. 92 del 2020.
L'oralità (ir)rinunciabile nel processo penale
di Sandra Recchione
Sommario: 1. Il processo da remoto e l’oralità rinunciabile; - 2. Il dibattimento, luogo di elezione dell’oralità; - 3. L’oralità irrinunciabile; - 4. Il diritto dell’eccezione; - 5. Una occasione per riflettere sul degrado dell’oralità.
1. Il processo da remoto e l’oralità rinunciabile
Il dibattito acceso sul diritto dell’eccezione e, segnatamente sul processo senza oralità diretta o “da remoto” induce a chiedersi se, e quando, l’oralità “diretta” sia irrinunciabile.
Domanda tanto più rilevante ed attuale dopo l’intervento normativo effettuato dal D.l. n. 28 del 2020 che consegna alle parti la facoltà di celebrare “da remoto” le udienze di discussione e quelle nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti e periti (art 83, comma 12 bis d.l. n. 18 del 2020 come riformato dal d.l. n. 28 del 2020)[1].
Partiamo da una prima banale osservazione: l’oralità nella “formazione della prova” si disperde visibilmente nel corso della progressione processuale: in appello è limitata ai casi in cui si dispone la rinnovazione ed in cassazione è assente.
Diversa è la sorte dell’oralità nella “discussione” che caratterizza, invece, tutti i gradi di giudizio.
La discussione è il momento in cui i difensori ed il pubblico ministero, anche facendo ricorso alle loro abilità retoriche, offrono al giudice la loro valutazione sulla legittimità ed efficacia dimostrativa delle prove. Le parti confidano molto (forse troppo) in questo momento “persuasivo”.
Va detto che la rilevanza della discussione si attenua nel corso della progressione processuale: una brillante disamina orale non sana infatti eventuali deficienze degli atti scritti di impugnazione.
L’atto di appello, per esempio, è decisivo. Ed è scritto.
Un appello aspecifico, oltre a rischiare di essere dichiarato inammissibile non perimetra l’area del devoluto e si ripercuote negativamente sulle possibilità di successo dell’ultima impugnazione dato che interrompe la catena devolutiva ed impedisce la rilevazione in sede di legittimità dei vizi non dedotti e non rilevabili ex officio.
Un processo (proclamato come) orale ed immediato è, invero, visceralmente legato alla qualità degli atti scritti che determinano la progressione e sotto il profilo probatorio si cartolarizza inesorabilmente nel corso della progressione con le poche finestre riservate alla rinnovazione in appello.
2. Il dibattimento, luogo di elezione dell’oralità
Il luogo di elezione dell’oralità sembra invece essere il dibattimento di primo grado: è lì si sviluppa la cross examination nell’esame dei testimoni, dei periti e dei consulenti tecnici e si esprime a pieno il progetto accusatorio nella formazione in contraddittorio della prova.
Ma quanta di tale oralità è davvero irrinunciabile? Quanta di tale oralità contribuisce davvero a fornire al giudice la prova epistemologicamente più affidabile per la decisione?
I dibattimenti spesso sono il teatro del fallimento del progetto accusatorio.
La maggior parte dei testimoni viene infatti udito a distanza di tempo dai fatti: gli ufficiali di polizia sono spesso autorizzati a leggere gli atti (che non ricordano); i sanitari che leggono i referti (che non ricordano). Anche i periti spesso leggono le loro relazioni; mentre i testi semplici sono tempestati di contestazioni perché, anche loro, a distanza di tempo dai fatti non ricordano.
Il tutto si svolge non in una sola udienza, o in poche udienze ravvicinate, come da progetto accusatorio, fondato sui principi di oralità ed immediatezza: per un processo medio in genere si celebrano almeno otto-dieci udienze che si sviluppano in un arco temporale di circa un anno.
E’ sempre oralità necessaria? Forse no.
3. L’oralità irrinunciabile
Ma una oralità irrinuciabile esiste e va difesa. Con forza.
L’oralità che non si rinuncia è quella che si esprime nell’esame dei testi decisivi: nell’esame del perito sulle parti della relazione poco comprensibili o contestate dai tecnici di parte; degli ufficiali di polizia giudiziaria sulle parti non chiare o incomplete degli atti che hanno stilato; dei sanitari sui dati non refertati, ma rilevanti (come ad esempio le condizioni psichiche della persona curata).
A ben guardare non tutto il compendio dichiarativo è ad “oralità irrinunciabile” ed anche le prove tecnico scientifiche (talvolta) possono prescindere dall’esame orale, quando gli esiti e le relazioni scritte sono chiari (si pensi agli esami sulla sostanza stupefacente).
A ciò si aggiunge un dato che segnala una vera e propria mutazione genica del processo: la maggior parte delle prove ad oralità irrinunciabile, ovvero quelle dei testi “coinvolti nel fatto”, sia come vittime che come imputati di reato connesso o collegato, vengono raccolte prima e fuori dal dibattimento, in incidente probatorio. La capsula incidentale è diventata infatti la sede privilegiata per la raccolta della prova dichiarativa decisiva. Ed anche di quella scientifica. Con buona pace dell’immediatezza; ma con salvezza dell’oralità.
L’anticipazione del contraddittorio orale nella raccolta di queste prove decisive incide non solo sulle valutazioni “processuali”, ma anche su quelle procedimentali in ordine all’esercizio dell’azione penale (si pensi ad un incidente probatorio peritale in un processo per colpa medica o relativo ad un infortunio sul lavoro).
Ebbene: nella capsula incidentale le prove dichiarative che spesso vengono assunte con forme di oralità “attenuata”: perché i testi sono vulnerabili e sono protetti dal contatto con le parti dal vetro specchio o perché i dichiaranti sono collaboratori di giustizia uditi a distanza con le forme previste dall’art. 146 bis disp. att. cod. proc. pen.
La dispersione dell’immediatezza viene tuttavia spesso bilanciata dal ricorso a forme di documentazione aggravata come la videoregistrazione che rende l’evento testimoniale a “fruibilità permanente” anche i contenuti extraverbali dell’esame.
La prova decisiva, dunque, nella maggior parte dei casi si assume prima del dibattimento ed in modo “distanziato”, attraverso una parziale compressione dell’oralità ed una totale dispersione dell’immediatezza.
Lo stesso principio di oralità è, peraltro, sottoposto a vistose fibrillazioni interpretative: la Corte costituzionale con due sentenze emesse a distanza di pochi mesi la ritiene irrinunciabile in caso di riedizione della testimonianza in appello[2] e rinunciabile nel caso di mutazione del collegio[3]. Le sezioni Unite hanno rivisitato l’art. 525 cod. proc. pen. offrendo una inedita lettura dell’ obbligo di rinnovazione del dibattimento in caso di mutazione del collegio, di fatto affidando alle parti l’onere di allegare le ragioni per la irrinunciabilità della reiterazione degli esami di fronte al nuovo collegio[4][5].
4. Il diritto dell’eccezione
Se questo è lo stato dell’arte la discussione sull’oralità a distanza poterebbe assumere toni diversi ed essere l’occasione per rivalutare l’oralità essenziale. E, indirettamente, anche di salvaguardare l’immediatezza, annichilita da tempi processuali biblici, e da udienze frazionate che, di fatto, trasformano le prove “orali” in prove “di carta”, dato che al momento della decisione il giudice rileggerà i verbali di prove assunte molto tempo prima e che non ricorda più. Immediatezza che potrebbe risorgere se si ideasse una architettura processuale ad oralità variabile.
Forse per dare attuazione al mandato costituzionale accusatorio bisogna avere il coraggio di “isolare” e difendere l’oralità decisiva rinunciando alle “parate” formali di testi e periti che nulla aggiungono agli atti scritti e che erodono l’effettività del diritto al contraddittorio orale subdolamente trasformando in processi di carta anche i processi di primo grado.
Insomma: il processo ad “oralità variabile” che difenda e valorizzi il contraddittorio nella formazione della prova decisiva potrebbe essere la risposta al conclamato fallimento del dibattimento.
L’adesione a tale prospettiva selettiva richiederebbe un esame accurato delle fonti predibattimentali che conduca anche alla identificazione delle prove critiche ed incerte, oltre che di quelle “fisiologicamente” decisive. Alle parti sarebbe richiesto un atteggiamento processuale “direttivo” e non passivo funzionale alla trasformazione del dibattimento da “defatigante e formale” in “irrinunciabile e decisivo”.
Sarebbe importante inoltre - si ritiene sommessamente - che le prove orali siano sempre documentate in forma aggravata (ovvero con la videoregistrazione) in qualunque fase siano raccolte, dunque anche in dibattimento. La videoregistrazione renderebbe infatti la comunicazione extraverbale ed il contegno del dichiarante a “fruibilità permanente” e consentirebbe di contenere le rinnovazioni riservandole ai soli casi in cui nel corso della prima audizione vi siano contenuti (testimoniali o tecnici) incerti o inesplorati.
5. Una occasione per riflettere sul degrado dell’oralità
Tornando al diritto dell’eccezione: per il legislatore del Covid quello che è disponibile non è l’oralità tout court, che continua ad essere garantita (tranne che nel processo in Cassazione), ma l’oralità diretta, non distanziata, quella che si ottiene con la presenza in aula.
L’alternativa proposta dal legislatore del Covid, e rimessa al consenso delle sole parti[6], non è, infatti, tra processo di carta e processo orale ma tra processo ad oralità remotizzata e processo ad oralità piena. Il “salto” verso la cartolarizzazione consensuale è stato invero compiuto solo per il rito della cassazione (art. 83 comma 12 ter del D.l. n. 18 del 2020 convertito con modificazioni dalla legge n. 27 del 2020): passaggio facilitato dal fatto che il processo in quella fase è già “di carta” e residua uno spazio orale solo per la discussione, che, nella prassi, spesso si risolve in un formale rinvio ai motivi del ricorso.
Si tratta di diritto dell’eccezione. Nessuno si augura che diventi regola[7]. Se non altro per tornare a celebrare con continuità (e devozione) la liturgia dell’udienza che giustifica con le “forme” la (terribile, se si percepisce) sovrapposizione della realtà processuale a quella reale, e la rinnovata accettazione collettiva della convenzione secondo cui giustizia è amministrata dagli uomini, per gli uomini.
Tuttavia il Covid ci ha imposto di ragionare sulle oralità irrinunciabili, su quelle salvaguardabili in forma attenuata (da remoto) e su quelle inutili.
Resta fermo, ed in questo si condividono pienamente le osservazioni di G. Santalucia[8], che il diritto dell’eccezione non può incidere in via permanente sulla regola: si tratta di un diritto “temporaneo” che non può ambire ad alcuna stabilizzazione[9].
Tuttavia la scelta di prevedere che le parti possano scegliere di rinunciare all’oralità piena per scegliere l’oralità telematica o addirittura, in Cassazione, il processo “di carta” ha condotto a riflettere su quanta oralità sia irrinunciabile. E non per deprivare il processo e farlo regredire a stadi inquisitori, ma per valorizzare davvero l’oralità decisiva, quella davvero irrinunciabile. Quella sulle prove-cardine, che oggi vengono assunte senza essere “isolate” e rischiano di essere travolte ed “oscurate” da dibattimenti interminabili e defatiganti, nei quali l’oralità diffusa offusca e disperde quella necessaria.
Forse è arrivato il momento di chiedersi se la salvaguardia cieca ed acritica della oralità sia davvero una garanzia o se, invece, difendendo l’oralità diffusa si incida negativamente sulle pretese delle parti, disperdendo l’immediatezza ed elidendo di fatto la essenziale dimensione orale delle prove decisive, che valutate a distanza di molto tempo rispetto a quando sono state assunte, saranno paradossalmente esaminate su carta, attraverso la lettura dei verbali.
Si tratta di una riflessione che potrebbe condurre ad un miglioramento del processo se la tensione ideale per la tutela del progetto costituzionale si orientasse verso la massima valorizzazione della oralità nella assunzione delle prove decisive, e verso la diffusione della videoregistrazione.
In sintesi, se tale tensione si indirizzasse verso la ridefinizione di un processo “gestito” dalle parti e non “subito” come un ineluttabile ed, a tratti, inutile dispiegarsi di episodi di oralità formale.
Un’ultima notazione: le “rinunce” all’oralità non dovrebbero (come scelto dal Legislatore del Covid) essere mai sottratte al controllo del giudice, che può avere bisogno del contatto diretto con la prova, come anche della discussione orale. Al giudice deve essere infatti riservata l’ultima parola sulla sufficienza della “prova di carta” e deve potere “accendere” il processo ogni volta che ritiene l’oralità indispensabile, anche se le parti vi rinunciano.
Forse la immane tragedia del Covid ci porterà a progettare un processo gestito, pensato e non subito. Vedremo.
[1] Sul diritto processuale dell’eccezione v. G. Santalucia, “L’impatto sulla giustizia penale dell’emergenza da Covid 19: affinamenti delle contromisure legislative – note a prima lettura del d.l. n. 18”, in questa rivista 18 marzo 2020; nonché dello stesso autore “La giustizia penale di fronte all’emergenza da epidemia da Covid 19 (brevi note sul d.l. n. 11 del 2020, in questa rivista, 9 marzo 2020.
[2] Corte cost. n. 124 del 2019.
[3] Corte cost. n. 132 del 2019.
[4] Secondo le Sezioni unite l'intervenuto mutamento della composizione del giudice attribuisce alle parti il diritto di chiedere sia prove nuove sia, indicandone specificamente le ragioni, la rinnovazione di quelle già assunte dal giudice di originaria composizione, fermi restando i poteri di valutazione del giudice di cui agli artt. 190 e 495 cod. proc. pen. anche con riguardo alla non manifesta superfluità della rinnovazione stessa (Sez. U, n. 41736 del 30/05/2019 - dep. 10/10/2019, PG C/ BAJRAMI KLEVIS, Rv. 276754).
[5] Tra i commenti si segnalano Mangiaracina Annalisa, Mutamento della persona fisica del giudice e rinnovazione del dibattimento. (Immutabilità del giudice versus efficienza del sistema: il dictum delle Sezioni Unite), in Processo Penale e giustizia, 2020, 1, p. 136; nonché Galluccio Mezio Gaetano-Caligaris Anna, “Sezioni unite e ideale accusatorio: una relazione in crisi. (Galluccio Mezio Gaetano) - Quando l'immediatezza soccombe all'efficienza: un discutibile (ma annunciato) sviluppo giurisprudenziale in tema di rinnovazione del dibattimento per mutamento del giudice. (Caligaris Anna), in Cass. Penale, 2020, 3, sez. 2, 1030.
[6] V. G. Santalucia, decreto legge 30 aprile 2020 n. 28, in questa Rivista, 1 maggio 2020.
[7] Sulla transitorietà della disciplina e i rischi di snaturamento del processo v. G. Santalucia, “La tecnica al servizio della giustizia penale. Attività giudiziaria a distanza nella conversione del decreto “cura italia”, in questa rivista, 10 aprile 2020. V. anche C. Intrieri “La tecnologia nel processo penale e “l’abbaglio della normalità” in questa rivista 13 maggio 2020.
[8] G. Santalucia, “La tecnica al servizio della giustizia penale. Attività giudiziaria a distanza nella conversione del decreto “cura Italia”, cit., § 8.
[9] Sulla natura temporanea del diritto dell’eccezione v. T. Epidendio “il diritto nello “stato di eccezione” ai tempi dell’epidemia del coronavirus, in questa Rivista, 30 marzo e 19 aprile 2020,
"Fare (dello stato) di necessità, virtù”. Il decreto Pres. Cons. Stato n. 134/2020 visto dal Garante della privacy
di Piergiuseppe Otranto
Sommario: 1. Premessa. - 2. Il quadro normativo di riferimento. - 3. L’ “udienza da remoto” e la piattaforma prescelta. - 4. Il consenso al trattamento dei dati personali. - 5. Il digital divide cognitivo. - 6. Considerazioni di sintesi.
1. Premessa
Il 22 maggio 2020 il Presidente del Consiglio di Stato ha adottato il decreto n. 134 recante “regole tecnico-operative per l’attuazione del processo amministrativo telematico, nonché per la sperimentazione e la graduale applicazione dei relativi aggiornamenti”.
In questa sede si svolgeranno alcune considerazioni sulle questioni giuridiche di maggior rilievo che rinvengono dall’analisi del parere – n. 88 del 19 maggio 2020 – reso dal Garante per la protezione dei dati personali sullo schema di decreto.
2. Il quadro normativo di riferimento
L’art. 4, comma 1, del d. l. n. 28 del 30 aprile 2020, ha disposto che nel processo amministrativo, a partire dal 30 maggio e fino al 31 luglio 2020, la trattazione delle cause possa esser svolta non solo in forma “cartolare” (con il deposito di “note di udienza”), ma anche attraverso una discussione orale “mediante collegamento da remoto”[1].
La norma primaria, in particolare, dispone che la trattazione a distanza debba svolgersi secondo modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione dei difensori all’udienza e a garantire, altresì, “la sicurezza e la funzionalità del sistema informativo della giustizia amministrativa e dei relativi apparati”.
Il successivo comma 2 rimette ad un decreto del Presidente del Consiglio di Stato l’individuazione delle “regole tecnico-operative per la sperimentazione e la graduale applicazione degli aggiornamenti del processo amministrativo telematico”, ma “nei limiti delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente” [2].
La norma primaria, tuttavia, – ed è questo un profilo che meriterebbe un approfondimento adeguato – nella parte in cui affida al Presidente del Consiglio di Stato, la definizione di regole tecniche che assicurino “il contraddittorio e l’effettiva partecipazione dei difensori all’udienza”, rimette alla valutazione discrezionale dell’organo di vertice della Giustizia amministrativa il compito di determinare regole idonee ad incidere su aspetti fondamentali delle garanzie previste ex artt. 24 e 111 Cost. e sulla stessa riserva di legge in materia processuale.
Le disposizioni di legge, dunque, tracciano un cammino quasi obbligato per i vertici della Giustizia amministrativa: predisporre celermente (ed evidentemente ben prima del 30 maggio) regole tecniche che consentano lo svolgimento del processo da remoto, garantiscano il diritto di difesa ed il contraddittorio oltre che la “sicurezza del sistema”, con la consueta clausola di invarianza finanziaria.
È mancato, in concreto, il tempo sufficiente per approfondire, sotto il profilo tecnico e giuridico, gli effetti delle soluzioni tecnologiche astrattamente configurabili: a partire dal 30 maggio, la trattazione delle cause da remoto costituirà un diritto delle parti del processo con buona pace della gradualità e della attenta ponderazione dei risultati che sono proprie di ogni vera “sperimentazione”.
Il cambio epocale che, senza grande clamore, si introduce nel processo, deve avvenire, poi, in assenza di una dotazione finanziaria adeguata (recte di una qualsivoglia dotazione finanziaria).
Un cambio che il legislatore vuole sia implementato, in pochi giorni, con i mezzi e con il personale già a disposizione della giustizia amministrativa.
Un intreccio di obblighi stringenti e ritmi serrati nel quale il Consiglio di Stato – nel dialogo con l’Autorità garante – è stato chiamato a districarsi, individuando una soluzione che, tuttavia, dovrebbe auspicabilmente essere solo temporanea e legata alla situazione emergenziale.
Le considerazioni appena svolte non possono esser trascurate nell’analisi del parere reso sullo schema di decreto dal Garante per la protezione dei dati personali.
3. L’ “udienza da remoto” e la piattaforma prescelta
Il Garante non manca di ricordare che la celebrazione da remoto delle udienze esige una disciplina tecnica fino ad ora non prevista.
In altri termini, non si tratta di migliorare soluzioni tecniche già implementate nell’ambito del processo amministrativo, ma di introdurre in pochi giorni nuove tecnologie e modalità operative per lo svolgimento dell’udienza, per di più senza ulteriori oneri finanziari e nel rispetto di principi tassativamente indicati.
Tenendosi conto che i dispositivi in dotazione ai magistrati utilizzano il sistema operativo e gli applicativi della Microsoft, non sorprende che la scelta sia ricaduta su “Teams”[3], applicazione – ricompresa nel pacchetto “Office 365” del colosso di Palo Alto – attraverso cui gli utenti interagiscono online in uno spazio di lavoro ove è possibile condividere file e comunicare attraverso video-chiamate, chiamate vocali, messaggi.
Si tratta, quindi, di un software di tipo “proprietario” del quale non è noto il codice sorgente, cioè quell’insieme di istruzioni tecniche che, scritte in un linguaggio di programmazione, traducono l’algoritmo in una procedura computazionale intellegibile dalla macchina.
La mancata conoscibilità dell’algoritmo e del codice sorgente – sovente protetti come segreti commerciali – rende, così, non pienamente intellegibili e note le operazioni svolte dal software.
Accanto ai programmi a “codice sorgente chiuso”, esistono software open source il cui codice sorgente è pubblicato e può, a determinate condizioni, essere studiato, modificato, utilizzato e redistribuito[4].
È evidente che il principio di trasparenza dovrebbe sospingere le Amministrazioni ad utilizzare sempre software open source[5] di tal che si possa verificare la conformità al principio di legalità dell’azione realizzata attraverso il programma ed i cittadini possano essere pienamente edotti delle reali modalità di funzionamento di quegli applicativi che sempre più spesso utilizzano dati personali[6] e, da ultimo, finanche adottano (o suggeriscono il contenuto di) decisioni automatizzate[7].
Sotto altro profilo, occorre precisare che l’applicazione Teams si regge su una architettura cloud e dunque l’archiviazione ed il trattamento dei relativi dati avvengono su server controllati da Microsoft e non dall’utilizzatore finale[8]. Nel modello c.d. on premises, di contro, i dati sono archiviati su infrastrutture gestite o comunque controllate direttamente dal soggetto interessato.
È evidente che la disponibilità e la sicurezza del dato “pubblico” risultano maggiormente garantite da soluzioni on premises che, tuttavia, hanno costi notevolmente superiori rispetto a quelle cloud.
Sicché, come spesso accade, si registra uno iato tra “ciò che dovrebbe essere” e “ciò che è” e le Amministrazioni utilizzano quasi esclusivamente sistemi operativi e software a codice sorgente chiuso che si reggono su architetture cloud, ignare dei possibili effetti pregiudizievoli di tali scelte anche su diritti costituzionalmente garantiti.
Nell’argomentare dell’Autorità questi profili critici appaiono delineati ed immediatamente messi in rilievo.
Ed in vero, nell’incipit della parte argomentativa del parere, il Garante auspica che, una volta cessata l’emergenza sanitaria, “si adotti una piattaforma interna, gestita dagli (o sotto lo stretto controllo degli) organi di Giustizia amministrativa. Più in dettaglio, la disponibilità di software open source di affidabilità ed accuratezza del tutto comparabili ai migliori prodotti industriali offre il non trascurabile vantaggio di prestarsi a implementazioni di tipo on premises (quindi su datacenter e reti della Giustizia amministrativa) o comunque su infrastrutture gestite anche collettivamente da o con altre amministrazioni pubbliche”.
Tale auspicio si salda con la condivisibile preoccupazione che l’uso della piattaforma Microsoft Teams possa comportare flussi transfrontalieri di dati (anche verso Paesi extra europei)[9] in ragione dell’assoggettamento di Microsoft alla disciplina statunitense del “Cloud Act”[10].
La legge federale USA, infatti, dispone in capo al prestatore di servizi cloud avente sede negli Stati Uniti l’obbligo di copiare e rendere disponibili alle autorità di quel Paese ogni comunicazione elettronica ed ogni altro dato posseduto e relativo ai propri utenti, indipendentemente dal luogo ove tali comunicazioni o dati siano conservati[11].
Secondo il Garante, il rischio che le autorità USA realizzino un trattamento di dati personali non conforme alla disciplina europea sarebbe limitato alle informazioni relative all’identità delle parti coinvolte nell’udienza che verrebbero registrate nei “sistemi di autenticazione Microsoft e poi conservat[e] per finalità e per tempi previsti nelle privacy policy aziendali”[12].
Sembra cogliersi, tuttavia, “in filigrana” il dubbio che anche altri dati relativi allo svolgimento dell’udienza possano essere conservati da Microsoft (e quindi esser disponibili per le Autorità nordamericane).
Proprio la natura di software a codice sorgente chiuso, infatti, non consente di avere piena contezza del funzionamento dell’applicazione e, ad esempio, dell’eventuale registrazione della sessione (nel nostro caso coincidente con l’udienza) da parte del proprietario della piattaforma.
Sicché prudentemente il Garante osserva che “secondo quanto riferito dal Consiglio di Stato, in assenza di registrazione delle udienze e di scambi di messaggi su chat interna (condivisibilmente esclusi dallo schema di decreto), il provider delle videoconferenze non acquisirebbe alcun dato personale al di fuori dei metadati della videoconferenza (identificativi per l’autenticazione coincidenti con gli indirizzi email, indirizzi IP delle postazioni connesse, data e ora della connessione)”.
Stante il divieto di registrazione delle udienze (e dell’uso di messaggistica istantanea), sancito dall’art. 2, comma 11 del decreto[13], secondo l’Autorità garante il ricorso al sistema Microsoft Teams appare ammissibile “nell’attuale contesto emergenziale”.
Il parere cautamente positivo dell’Autorità si fonda anche sul rilievo per il quale “invece le camere di consiglio decisorie [sarebbero] svolte di norma in audioconferenza”.
Il rischio di registrazioni dell’udienza ad opera del gestore della piattaforma (Microsoft) aleggia come un “non detto” o, se si vuole, come un rischio “da ignoto tecnologico”, insito nella scelta di utilizzare un sistema proprietario per sua natura opaco.
Sembra, tuttavia, che, nell’argomentare del Garante, il momento della decisione giurisdizionale debba esser assistito da opportune ulteriori cautele se “invece” le camere di consiglio decisorie si svolgono “di norma in audioconferenza”.
A ben vedere, però, il decreto del Presidente del Consiglio di Stato dispone che per la camera di consiglio decisoria possano essere utilizzate in alternativa due distinte modalità: la “call conference, attraverso il servizio di audioconferenza, utilizzando gli apparati telefonici in dotazione ai magistrati della Giustizia amministrativa” ovvero una riunione virtuale attraverso la piattaforma Teams “con il divieto di utilizzare la messaggistica interna alla piattaforma e la funzione di invio di file”[14].
Diversamente da quanto ci si sarebbe potuti attendere dalla lettura del parere, nel decreto non ricorre alcuna indicazione in ordine alla tecnologia preferibile per lo svolgimento delle camere di consiglio decisorie (call conference) essendo la relativa scelta organizzativa rimessa alla discrezionalità dei magistrati.
4. Il consenso al trattamento dei dati personali
L’art. 4, comma 1, d.l. n. 28/2020 dispone che durante l’udienza telematica “si dà atto a verbale delle modalità con cui si accerta l’identità dei soggetti partecipanti e la libera volontà delle parti, anche ai fini della disciplina sulla protezione dei dati”.
Il consenso allo svolgimento dell’udienza da remoto, tuttavia, non può dirsi realmente libero. Ed infatti, in assenza di una piena ed assoluta chiarezza in ordine ai profili sopra richiamati – e relativi al funzionamento della piattaforma, all’archiviazione dei dati generati ed all’uso degli stessi – la volontà delle parti non è pienamente “libera” (in quanto consapevolmente formata), ma pare piuttosto condizionata da una incolmabile asimmetria informativa.
La “libera volontà delle parti” pare, così, più una fideistica (e quasi inevitabile) adesione all’istanza formulata da un’altra parte o – a più forte ragione – alla decisione del Collegio.
L’opacità del funzionamento della piattaforma, simmetricamente, fa sì che anche l’eventuale opposizione alla discussione da remoto – ammessa dall’art. 4, comma 1, d.l. n. 28/2020, ma solo nei casi in cui la discussione da remoto sia sollecitata su istanza di parte e non quando sia disposta d’ufficio – si possa fondare non già su puntuali ragioni tecniche ma, piuttosto, su argomenti relativi a potenziali violazioni di principi (quali ad esempio il principio di riservatezza dei dati personali, di trasparenza dell’azione amministrativa, di effettività del diritto di difesa, del giusto processo) rilevanti per l’ordinamento nazionale anche alla luce dei beni noti processi di integrazione europea.
Tuttavia, ove si ponga mente alla circostanza che l’ammissibilità della discussione da remoto si fonda su una norma primaria che ha rimesso a un decreto del presidente del Consiglio di Stato l’individuazione delle soluzioni tecniche e, quindi, anche la scelta della piattaforma, può facilmente ipotizzarsi che eventuali (coraggiose, verrebbe da dire) opposizioni fondate sui principi generali siano destinate ad esser disattese.
Sotto altro profilo, l’art. 4, comma 1, del d.l. n. 28/2020 prevede che a verbale sia acquisita una dichiarazione dei partecipanti in relazione alla loro “libera volontà anche ai fini della disciplina sulla protezione dei dati personali”.
A tal proposito il Garante ha osservato che la volontà espressa in relazione allo svolgimento dell’udienza secondo peculiari modalità, “non deve essere sovrapposta con i presupposti di liceità del trattamento che, nel caso di specie, sono rinvenibili negli artt. 6, par. 1, lett. e), 9, par. 2, lett. g), e 10 del G.D.P.R.”[15].
In altri termini, la liceità del trattamento non deriva dalla volontà espressa dall’interessato, ma direttamente dalla necessità di eseguire “un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento” (art. 6, par 1, lett. e)[16].
Secondo il Garante sarebbe stato opportuno che il decreto prevedesse l’informativa sul trattamento dei dati personali contestualmente all’avviso di avvenuto deposito di un’istanza di discussione da remoto (art. 2, comma 3 del decreto) “al fine di consentire alle parti una consapevole valutazione anche sotto il profilo della protezione dati, in ordine alla scelta sull’opportunità di presentare o meno opposizione”.
Tale suggerimento non è stato recepito, sicché l’avvertimento che la celebrazione dell’udienza da remoto comporta il trattamento dei dati personali “anche da parte del gestore della piattaforma” viene formulato nella comunicazione di fissazione dell’udienza (art. 2, comma 5), che comunque precede il momento in cui l’interessato effettivamente si autentica su Teams.
Anche sotto il profilo sostanziale, qualora l’informativa (ex artt. 13 e 14 G.D.P.R.) sul trattamento dei dati nelle udienze da remoto fosse già presente sul sito della Giustizia amministrativa (e dunque consultabile liberamente finanche prima dell’invio dell’avviso di avvenuto deposito ex comma 3), non pare che l’attuale disciplina comporterebbe un pregiudizio significativo per gli interessati.
5. Il digital divide cognitivo
Nel parere si sottolinea la necessità di utilizzare correttamente il sistema per evitare che possano prender parte alle udienze soggetti non autorizzati, quali ad esempio soggetti che abbiano titolo per partecipare a udienze precedenti o successive.
In proposito, l’art. 3, comma 4, dell’allegato 3 al decreto dispone che tutti coloro che vengono ammessi a partecipare a un collegamento da remoto in videoconferenza “terminata la discussione della causa (…) non abbandonano la riunione virtuale in autonomia, ma attendono di esserne rimossi”. Sembra, dunque, che spetti all’ufficio curare tanto l’ammissione alla riunione virtuale, quanto la rimozione dalla stessa, sicché appare particolarmente opportuno l’invito dell’Autorità a adottare iniziative volte alla formazione del personale.
Ma anche sul punto la clausola di invarianza finanziaria finisce per attribuire ai vertici degli uffici della Giustizia amministrativa l’arduo compito di rinvenire nelle pieghe dei bilanci i fondi necessari a realizzare adeguati percorsi formativi a beneficio del personale.
Il digital divide cognitivo, infatti, come quello infrastrutturale, costituisce un ostacolo significativo per un uso efficace e consapevole delle tecnologie.
Con sempre maggior frequenza l’esercizio di diritti fondamentali, anche costituzionalmente garantiti, presuppone l’uso esclusivo della rete internet e di software specifici. Tali diritti possono essere in concreto esercitati solo qualora esista un’infrastruttura di telecomunicazione diffusa ed efficiente e qualora gli interessati non solo abbiano dispositivi hardware compatibili con i software utilizzati, ma siano in possesso di competenze culturali adeguate.
Sulla scorta del dettato dell’art. 97 Cost. e delle riflessioni anche risalenti della dottrina amministrativistica, per tal via il profilo dell’organizzazione amministrativa si salda con quello dell’azione, in un disegno finalizzato all’imparzialità e al buon andamento dei pubblici poteri.
Diviene, così, ineludibile un vasto programma di formazione (almeno) del personale pubblico, onde conseguire la piena ed effettiva attuazione dei diritti di cittadinanza digitale in particolare, nel caso che ci occupa, del diritto di difesa innanzi al Giudice amministrativo in un processo nel quale vivano pienamente le regole del contraddittorio, con le opportune garanzie di riservatezza.
Nella prospettiva del necessario superamento del digital divide cognitivo non pare convincente la disposizione dell’art. 3, comma 4, dell’allegato 3 al decreto ove si afferma che “la Giustizia amministrativa non fornisce alcuna assistenza tecnica ai soggetti ad essa estranei che partecipano alle udienze e, pertanto, spetta ad essi la preventiva verifica della funzionalità del collegamento telematico dalla propria sede”.
Si è ben consapevoli del carico di lavoro che grava gli uffici della Giustizia amministrativa. Pur tuttavia, considerata la repentina introduzione della disciplina dell’udienza “da remoto”, sarebbe auspicabile almeno la predisposizione di linee guida o tutorial a beneficio dei soggetti (diversi dai magistrati) chiamati a partecipare al “nuovo” processo amministrativo.
Superato il periodo emergenziale, dovranno esser realizzate – anche d’intesa con le associazioni che rappresentano l’avvocatura – opportune iniziative di formazione, per evitare che, dal processo amministrativo telematico e in particolare dalle udienze da remoto, restino di fatto esclusi avvocati che – magari solo per ragioni anagrafiche o per una certa avversione alle tecnologie – non abbiano una sufficiente dimestichezza con i nuovi applicativi ma che, non di meno, sono portatori di un sapere del quale, attraverso un proficuo scambio di vedute, da sempre si alimenta la stessa giurisdizione.
6. Considerazioni di sintesi
Come si è osservato, dal decreto del Presidente del Consiglio di Stato emergono numerosi profili critici meritevoli di quella ponderazione e quell’approfondimento tecnico-giuridico che, nelle condizioni date, è stato possibile svolgere solo parzialmente.
Anzitutto occorrerà riflettere sulla legittimità costituzionale della scelta operata dal legislatore di rimettere ad un atto regolamentare la definizione di aspetti che, attraverso norme di carattere tecnico, sono idonei a incidere su diritti fondamentali, sovente coperti da riserva di legge, come nel caso del principio del giusto processo.
In considerazione, tuttavia, dell’esiguo tempo a disposizione e della clausola di invarianza finanziaria che sovrastano tutto il disegno riformatore del processo amministrativo prefigurato dal legislatore, i vertici della Giustizia amministrativa hanno assolto al compito affidato attraverso soluzioni che, in una situazione emergenziale – e non oltre – paiono accettabili.
D’altra parte, l’esigenza ineludibile di una risposta di carattere emergenziale dell’ordinamento in presenza di eventi straordinari trova fondamento anche nelle riflessioni teoriche sullo “stato di necessità” come fonte del diritto sviluppate sin da epoca anteriore all’introduzione della disciplina positiva della decretazione d’urgenza[17].
Consapevole del proprio ruolo di garante di diritti fondamentali del cittadino ma, non di meno, di Autorità che opera nell’ordinamento generale e che – sempre nell’osservanza della legge – alle repentine evoluzioni dello stesso è chiamata ad adattarsi, il Garante per la protezione dei dati personali ha reso un parere nel quale adombra appena i profili più problematici della disciplina regolamentare introdotta, lasciando chiaramente intendere, tuttavia, che il proprio giudizio (che può dirsi cautamente positivo) trova un solido fondamento nell’esigenza, unitariamente avvertita dall’ordinamento, di far fronte all’emergenza sanitaria.
Le indicazioni di maggior rilievo, per tale ragione, si colgono nel riferimento ottativo alle azioni da porre in essere allorquando la situazione emergenziale sarà cessata: l’ordinamento dovrà dotarsi di regole che prevedano l’utilizzo di software open source e che siano fondati su data center e reti gestiti direttamente dalla Giustizia amministrativa o comunque da pubbliche amministrazioni, abbandonando soluzioni che, cessata l’emergenza, parrebbero di dubbia legittimità.
Non resta che auspicare che, per allora, il legislatore non chiami il sistema della Giustizia amministrativa (e, in parte qua, l’avvocatura) ad affrontare in solitudine la transizione epocale verso il “processo da remoto”, lasciandolo sguarnito di uomini e di mezzi adeguati alla complessità dell’obiettivo perseguito.
[1] “A decorrere dal 30 maggio e fino al 31 luglio 2020 può essere chiesta discussione orale con istanza depositata entro il termine per il deposito delle memorie di replica ovvero, per gli affari cautelari, fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza in qualunque rito, mediante collegamento da remoto con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione dei difensori all’udienza, assicurando in ogni caso la sicurezza e la funzionalità del sistema informatico della giustizia amministrativa e dei relativi apparati e comunque nei limiti delle risorse attualmente assegnate ai singoli uffici. L’istanza è accolta dal presidente del collegio se presentata congiuntamente da tutte le parti costituite. Negli altri casi, il presidente del collegio valuta l’istanza, anche sulla base delle eventuali opposizioni espresse dalle altre parti alla discussione da remoto. Se il presidente ritiene necessaria, anche in assenza di istanza di parte, la discussione della causa con modalità da remoto, la dispone con decreto. In tutti i casi in cui sia disposta la discussione da remoto, la segreteria comunica, almeno un giorno prima della trattazione, l’avviso dell’ora e delle modalità di collegamento. Si dà atto a verbale delle modalità con cui si accerta l’identità dei soggetti partecipanti e la libera volontà delle parti, anche ai fini della disciplina sulla protezione dei dati personali. Il luogo da cui si collegano i magistrati, gli avvocati e il personale addetto è considerato udienza a tutti gli effetti di legge. In alternativa alla discussione possono essere depositate note di udienza fino alle ore 9 antimeridiane del giorno dell’udienza stessa o richiesta di passaggio in decisione e il difensore che deposita tali note o tale richiesta è considerato presente a ogni effetto in udienza. Il decreto di cui al comma 2 stabilisce i tempi massimi di discussione e replica”.
[2] L’art. 4, comma 2, del d. l. n. 28 del 30 aprile 2020, ha sostituito l’art. 13, comma 1, dell’allegato 2 al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, disponendo: “Con decreto del Presidente del Consiglio di Stato, sentiti il Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei ministri competente in materia di trasformazione digitale e gli altri soggetti indicati dalla legge (…) sono stabilite, nei limiti delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, le regole tecnico-operative per la sperimentazione e la graduale applicazione degli aggiornamenti del processo amministrativo telematico”.
[3] Art. 2, comma 2, lett. b dell’allegato 3 al decreto.
[4] Secondo Corte cost., sentenza 26 marzo 2010, n. 122 in Foro it., 2010, I, 2650, «un programma open source è un software che il creatore ha deciso di mettere a disposizione degli altri utenti, autorizzandoli a studiare il codice sorgente, a modificarlo e a ridistribuirlo liberamente, sia pure con le limitazioni che le parti possono pattuire nell’ambito dell’autonomia negoziale».
[5] La propensione dell’ordinamento verso l’uso di software aperto da parte dell’Amministrazione emerge, ad esempio, dalla disciplina dettata dagli artt. 68 e 69 del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82. Si tratta, tuttavia, di una propensione più declamata che effettivamente praticata, come emerge, tra l’altro, anche dalla vicenda della quale ci stiamo occupando.
[6] Il 25 maggio 2020, ad esempio, è stato pubblicato il codice sorgente della app “Immuni”, sistema di notifica delle esposizioni al virus Covid-19.
[7] Secondo Cons. St., sez. VI, 13 dicembre 2019, in caso di decisione amministrativa automatizzata la “conoscibilità dell’algoritmo deve essere garantita in tutti gli aspetti: dai suoi autori al procedimento usato per la sua elaborazione, al meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionale e dei dati selezionati come rilevanti. Ciò al fine di poter verificare che i criteri, i presupposti e gli esiti del procedimento robotizzato siano conformi alle prescrizioni e alle finalità stabilite dalla legge o dalla stessa amministrazione a monte di tale procedimento e affinché siano chiare – e conseguentemente sindacabili – le modalità e le regole in base alle quali esso è stato impostato”.
[8] L’art. 3, comma 3, dell’allegato 3 al decreto precisa che la piattaforma Teams “ a) assicura il rispetto della sicurezza delle comunicazioni attraverso avanzati sistemi di crittografia del traffico dati; b) prevede, per gli utenti interni all’amministrazione, l’autenticazione centralizzata a livello di organizzazione e la crittografia dei dati in transito e a riposo; c) utilizza data center localizzati sul territorio dell’Unione europea, nei quali vengono conservati e trattati i dati raccolti per l’erogazione del servizio; d) procede al trattamento dei dati personali nel rispetto delle disposizioni del Regolamento (UE) 2016/679”.
[9] Sul punto, il rinvio è d’obbligo alla notissima sentenza della Corte di giustizia, grande sez., 6 ottobre 2015, in causa C-362/14, Schrems.
[10] “Clarifying Lawful Overseas Use of Data Act”, del 6 febbraio 2018 (H.R. 4943).
[11] “A provider of electronic communication service or remote computing service shall comply with the obligations of this chapter to preserve, backup, or disclose the contents of a wire or electronic communication and any record or other information pertaining to a customer or subscriber within such provider’s possession, custody, or control, regardless of whether such communication, record, or other information is located within or outside of the United States.” (18 U.S. Code § 2713. Required preservation and disclosure of communications and records).
Una posizione fortemente critica sulla compatibilità del Cloud Act rispetto ai principi in punto di tutela dei diritti fondamentali come interpretati dalla Corte di giustizia e dalla Corte EDU è stata espressa dal Council of Bars and Law Societies of Europe (CCBE), associazione che rappresenta oltre un milione di avvocati europei, nel documento CCBE Assessment of the U.S. Cloud Act (disponibile on line), ove si afferma: “The Cloud Act is in conflict with basic human rights, since it fails to provide the minimum standards set out by European Courts to restrict electronic surveillance by government. Both the European Court of Human Rights and the European Court of Justice have indicated a strong preference for prior judicial review and a requirement for a sufficient factual basis for any surveillance of an individual. Moreover, disclosure of personal data stored within the European Union to a US governmental agency based on a Cloud Act warrant violates the General Data Protection Regulation (GDPR). According to the GDPR provisions, a US warrant does not constitute a legal basis for such a transfer outside the European Union”.
[12]Ai sensi dell’art. 3, comma 4, dell’allegato 3 del decreto del Presidente del Consiglio di Stato “I difensori, le parti in proprio, i verificatori, i consulenti tecnici, i commissari ad acta e, in generale, tutti coloro che vengono ammessi a partecipare a un collegamento da remoto in videoconferenza utilizzano dispositivi dotati di videocamera e microfono, ed accedono al sistema di collegamento di cui all’articolo 2, comma 2, lettera b), [Microsoft Teams] unicamente tramite web browser, autenticandosi come ‘ospite/guest’ e immettono quale nome una stringa costituita obbligatoriamente dai seguenti dati nell’ordine indicato: «NUMERORG[spazio]ANNORG[spazio]INIZIALE COGNOME[spazio]INIZIALE NOME» del tipo «9999 2020 R. M. ». L’Avvocatura dello Stato utilizza un nome del tipo «AVVOCATURASTATO»”.
[13] Ai sensi dell’art. 2, comma 8, del decreto “all’atto del collegamento e prima di procedere alla discussione, i difensori delle parti o le parti che agiscono in proprio dichiarano, sotto la loro responsabilità, che quanto accade nel corso dell’udienza o della camera di consiglio non è visto né ascoltato da soggetti non ammessi ad assistere alla udienza o alla camera di consiglio, nonché si impegnano a non effettuare le registrazioni di cui al comma 11”. Il successivo comma 11 vieta la registrazione sia delle udienze, sia delle camere di consiglio svolte dai soli magistrati, nonché l’utilizzo di ogni strumento o funzione idoneo “a conservare nella memoria del sistema traccia delle dichiarazioni e delle opinioni espresse dai partecipanti all’udienza o alla camera di consiglio”.
[14] Art. 9 dell’allegato 3 al decreto.
[15] Si tratta, come è noto, del Regolamento (UE) 2016/679, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE.
[16] Nel parere il riferimento all’art. 9, par. 2, lett. g) (relativo alle ipotesi in cui il trattamento di dati sensibili “è necessario per motivi di interesse pubblico rilevante sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri”) pare riconducibile ad un mero refuso, laddove è la lett. f) che ammette il trattamento anche di dati sensibili quando “è necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali”. L’art. 10 del G.D.P.R., infine, ammette il trattamento dei dati personali relativi a condanne penali e reati soltanto sotto il controllo dell’autorità pubblica.
[17] Il riferimento è a Santi Romano, Sui decreti-legge e lo stato di assedio in occasione del terremoto di Messina e Reggio Calabria, in Riv. dir. pubbl., 1909, I, 257.
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