ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il Consiglio di Stato nega l’efficacia di accertamento e l’ultrattività del principio di diritto affermato dalle sezioni unite in caso di sopravvenuta estinzione del processo.
Irrogata da un Consiglio dell’Ordine degli Avvocati ad un proprio iscritto la sanzione disciplinare della radiazione e confermata la sanzione dal Consiglio Nazionale Forense, la decisione di quest’ultimo viene impugnata innanzi alle Sezioni Unite che accolgono il ricorso ritenendo che la sanzione della radiazione sia fondata su una ricostruzione parziale e incompleta dei fatti e annullano la decisione con rinvio al CNF.
Il giudizio innanzi al CNF non viene però riassunto né dal ricorrente, né dal COA in quanto, a seguito della sentenza della Cassazione, l’avvocato viene reiscritto all’Albo in accoglimento d’istanza dal medesimo presentata.
L’iscritto promuove a questo punto azione risarcitoria innanzi al GA per il danno patito a causa della illegittima radiazione, che viene respinta nel presupposto che l’accertamento operato dalle Sezioni Unite sull’illegittimità della radiazione non sia sufficiente per esercitare l’azione risarcitoria perché “nel caso di specie non v’è stata una sentenza di annullamento passata in giudicato”.
Secondo la sentenza della Sezione Terza del Consiglio di Stato, l’accertamento alla base della pronuncia rescindente della Cassazione, che ritiene la sanzione fondata su un accertamento incompleto dei fatti, non sarebbe utilmente invocabile a fini risarcitori, anche perché avrebbe perso efficacia a causa della mancata riassunzione del giudizio innanzi al CNF. La mancata riassunzione avrebbe infatti comportato l’estinzione del solo giudizio svolto in forma processuale e la contestuale reviviscenza dell’originario provvedimento puramente amministrativo.
La sentenza esclude l’applicabilità dell’art. 393 c.p.c. a norma del quale il principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione sopravviverebbe all'eventuale estinzione del giudizio e ripropone la tesi della pregiudizialità dell’annullamento rispetto all’azione risarcitoria, della quale viene quindi nuovamente negata l’autonomia. Sembra pertanto che, sotto il profilo della pregiudizialità, i termini della questione vengano riproposti così come lo erano anteriormente all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo e alla pronuncia resa da Cass. S.U. 23 12 2008 n. 30254 che, enunciando il principio di diritto nell’interesse della legge, era esplicitamente finalizzata a confermare l’orientamento già espresso nelle ordinanze n. 13659, n. 13660 e n. 13911 del 2006 (le ordinanze con le quali le Sezioni Unite avevano affermato che “ Tutela risarcitoria autonoma significa tutela che spetta alla parte per il fatto che la situazione soggettiva è stata sacrificata da un potere esercitato in modo illegittimo e la domanda con cui questa tutela è chiesta richiede al giudice di accertare l'illegittimità di tale agire. Questo accertamento non può perciò risultare precluso dalla inoppugnabilità del provvedimento né il diritto al risarcimento può essere per sé disconosciuto da ciò che invece concorre a determinare il danno, ovvero la regolazione che il rapporto ha avuto sulla base del provvedimento e che la pubblica amministrazione ha mantenuto nonostante la sua illegittimità. Dunque il rifiuto della tutela risarcitoria autonoma, motivato sotto gli aspetti indicati, si rivelerà sindacabile attraverso il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione”).
La didattica di Franco Cordero
di Arturo Capone
La didattica di Cordero era caratterizzata dalla fascinazione verso un percorso di apprendimento impegnativo e irto di ostacoli, che apriva le porte a un livello superiore di conoscenza.
Franco Cordero incuteva soggezione. Erano tempi diversi da oggi, nei quali il professore si sforza di venire incontro agli studenti e, se ci riesce, persino di risultare simpatico. Decisamente non aveva questa preoccupazione. In aula entrava senza dire buongiorno o fare un sorriso di circostanza e incominciava direttamente a spiegare, con uno stile non troppo diverso da quello che si trovava sul manuale, deliberatamente preordinato più a disorientare che a semplificare. Lui stesso però non attribuiva grande importanza alle lezioni: la cosa importante – diceva – è studiare il manuale.
Il manuale – la Procedura penale – aveva un impatto enorme sugli studenti. Anche chi poi si è dedicato ad altro nella vita spesso lo ricorda ancora, a distanza di decenni, come un testo perturbante, che bisognava studiare mettendo in campo risorse nuove, non richieste in nessuna delle altre materie fino a quel momento incontrate nel corso di laurea in giurisprudenza.
Si trattava in effetti di un testo affascinante e difficile. Le sue peculiarità si sono via via intensificate nelle edizioni che si sono susseguite dal 1966 al 2012. Nelle ultime, non solo l’intero processo, nelle prime sfavillanti cento pagine, ma ogni singolo tema era preceduto da un’introduzione, che per semplicità si potrebbe chiamare “storica”, ma che in effetti era composta da una sorta di montaggio di riferimenti letterari, precedenti normativi, atti di processi antichi, discussioni dottrinali, ritratti di personaggi, fonti romanistiche, etc. Queste parti, di primo acchito, suscitavano nello studente l’impressione di un’oscura divagazione; distrarsi però era esiziale, perché il nucleo interpretativo della disciplina, quello che l’introduzione serviva a mettere piano piano a fuoco, era poi esposto, talvolta all’improvviso, in poche fulminanti parole.
A dispetto della molteplicità dei materiali che entravano a far parte del manuale, infatti, la sintesi era un tratto costitutivo del suo stile. Questa sintesi senza dubbio era una risorsa: consentiva di fornire una quantità smisurata di informazioni. La Procedura in realtà era un trattato ridotto a mille pagine. «C’è tutto!» - ci dicevamo ammirati ma anche un po' impressionati, quando ancora anni dopo, studiando qualche piccola questioncina su cui speravamo di poter scrivere qualcosa di nuovo, riguardando il manuale ne trovavamo menzione. Tre parole, ma c’era.
E queste brevi, icastiche espressioni, con cui Cordero sintetizzava problemi, sfondi, dibattito e soluzioni, avevano perciò una carica semantica enorme. Ogni volta che le rileggevamo, magari via via che si affinava la conoscenza della materia, riconoscevamo sempre nuove implicazioni, prima non colte.
La sintesi però era indubbiamente anche un divertissement letterario. Raggiungeva la sua acme in quel vero e proprio virtuosismo costituito dai brevi abstract che nel manuale erano anteposti ad ogni paragrafo: un terzo di pagina o poco più, in carattere più piccolo, che secondo Cordero avrebbero dovuto facilitare la memorizzazione del testo. Ma anche dopo lo studio approfondito del paragrafo, quell’abstract era talmente condensato da restare obiettivamente criptico.
L’apprendimento del manuale in genere aveva un decorso anomalo. Di solito, per quanto riguarda le discipline di base del corso di laurea in giurisprudenza, l’esposizione della materia, curata appunto in modo da risultare chiara, non comporta soverchie difficoltà di comprensione; bisogna però rileggere il testo più volte, magari anche ripeterlo a voce alta, per arrivare a una sua memorizzazione, sufficiente per affrontare l’esame. Con la Procedura penale le cose andavano diversamente. Bisognava leggere e rileggere più volte per comprendere il testo, o, meglio, il senso dei suoi riferimenti, la sua logica, le sue implicazioni, le sue soluzioni. Ma poi, una volta raggiunta tale comprensione, non era più necessaria alcuna rilettura o ripetizione; concetti e immagini si incistavano irreversibilmente nella memoria.
Aver studiato con Cordero, perciò, si rivelava a volte nella forma angosciante di una sorta di colonizzazione linguistica e del pensiero. Tutti coloro che hanno poi continuato a occuparsi di procedura penale hanno dovuto affrontare a lungo questa specie di condanna, per cui, al momento di scrivere, tornavano in mente, anche a tradimento, le frasi con cui Cordero scolpiva i concetti – come non si potesse nemmeno pensare la procedura con parole diverse. Quindi dopo, rileggendo, bisognava disincrostare il testo di tutto ciò che in effetti non ci apparteneva, e purtroppo, spesso, il meglio andava via.
Continuare a studiare all’ombra di Cordero non era facile. Anche per ragioni strettamente accademiche: non amava avere allievi, cerchie, clientes; solo rapporti, eventualmente, di stima, e ciascuno doveva badare a sé stesso. Ma, soprattutto, maturare il proprio punto di vista era particolarmente impegnativo. Bisognava confrontarsi con un interlocutore radicatissimo nelle sue opinioni e poco disposto a tollerare dissensi. Si trattava senza dubbio di una rigidità, non condivisibile, fondata però sulla obiettiva consapevolezza che il suo punto di vista era maturato all’esito di studi di ampiezza e spessore difficilmente eguagliabili. Ricordo la prima volta che gli chiesi di leggere un testo, che ambiva ad essere la mia prima nota a sentenza. La tesi centrale dello scritto stava nell’idea, allora negata dalle Sezioni unite, della possibilità di considerare alcuni vizi della motivazione alla stregua di errores in procedendo. Cordero non condivideva questa idea – lo sapevo già – ma speravo di convincerlo con le mie argomentazioni. Mi disse che, sì, nel complesso il lavoro non era male, tranne il fatto che sostenevo quella tesi, che a suo giudizio andava espunta dal novero delle opinioni giuridicamente predicabili. Poi aggiunse: «D’altra parte, guardi un po’ chi cita!», e, pronunciando il nome dell’autore che avevo usato per argomentarla, scoppiò in una risata che a me parve demoniaca. E che avesse qualcosa di oltremondano, ma ambivalente, a tratti mi capitava di pensarlo, quando scherzavo ad accostare il suo cognome – ‘agnello’, il simbolo sacrificale – al suo incedere leggermente claudicante. Naturalmente non bisognava arrendersi, ma studiare ancora a lungo, riverificare la sostenibilità delle proprie idee, argomentarle molto meglio. E così il suo essere straordinariamente esigente con gli altri, imponeva agli altri di essere straordinariamente esigenti con sé stessi.
Nel merito, ciò che caratterizza la didattica di Cordero potrebbe essere descritto, sia pure un po’ approssimativamente, come un invito a studiare il processo penale come parte della storia della cultura.
Come si accennava all’inizio, si tratta di una scelta non originaria; i due piani del discorso si sono a poco a poco intrecciati, come se, in termini di produzione scientifica, i materiali di Riti e sapienza del diritto, la monumentale opera del 1981, siano infine confluiti nella Procedura penale. Ecco perché studiarla risultava difficile e affascinante. Perché, per spiegare ogni frammento normativo, venivano chiamati a raccolta l’antropologia, la storia, la teoria del linguaggio, la sociologia, il pensiero giuridico, la politica, etc.; naturalmente, per via della necessaria sintesi, non esposti in una sequenza ordinata, ma messi in scena in una sorta di teatro dell’immaginario.
Ancora oggi che nell’insegnare uso un metodo agli antipodi, cercando cioè, per quanto riesco, di essere semplice e accessibile, vengo a tratti colto da alcuni dubbi radicali. Mi domando cioè se questo metodo non favorisca piuttosto – come direbbe Cordero – la pigrizia mentale; forse, invece di adattare la materia al livello di comprensione dello studente, bisognerebbe piuttosto saperlo attrarre, magari affascinandolo con una scrittura luccicante, verso un livello superiore. Personalmente sedo i miei dubbi con la consapevolezza che tanto non ci riuscirei.
I testi giuridici – si sa – invecchiano presto. Il pensiero che la Procedura possa smettere di essere un riferimento per le nuove generazioni di studiosi mi inquieta. Credo però che essa, anche una volta sorpassato il testo normativo di cui parla, possa conservare non solo un valore retrospettivo, ma una sua perdurante efficacia didattica. Cordero, in un certo senso, grazie alle sue molteplici peregrinazioni intellettuali ha portato tutto il mondo dentro la procedura. Spesso noi studiosi, quando vogliamo sapere qualcosa del mondo che sta oltre la procedura, in effetti ci accontentiamo di leggere Cordero. Il manuale ci invita piuttosto a intraprendere il percorso all’inverso; a usarlo come una porta, che dalla procedura consente di avventurarsi in quel mondo.
Franco Cordero Il lascito formativo di un grande Maestro
di Giuseppe Santalucia
Sommario. 1. Il senso di questo ricordo. – 2. La centralità scientifica del Manuale. – 4. Il contributo alla Procedura come settore scientifico autonomo. – 5. Il volto politico del processo. – 6. L’intellettuale impegnato. – 7. Una lezione di vita sul Potere.
1. Il senso di questo ricordo.
L’8 maggio è scomparso Franco Cordero, uno dei grandi Maestri della Procedura penale.
Non posso condividere con i lettori della Rivista ricordi personali dello studioso, per il semplice fatto che non ho avuto la fortuna di frequentarlo o anche soltanto di farne la personale conoscenza.
Ho solo memoria di un incontro a margine di un convegno veneziano di circa dieci anni fa sull’abuso del processo, in cui mi sorpresi a pensare come la gracilità del fisico minuto potesse sostenere – e accompagnarsi a – una tale possanza del pensiero.
Non ho neanche la pretesa di tratteggiarne la figura di intellettuale, troppo elevata e poliedrica – storico, filosofo, romanziere, opinionista politico, oltre che giurista – perché io possa misurarmi con un impegno all’evidenza al di fuori della mia portata.
Coltivo piuttosto, con queste poche righe, un proposito modesto: testimoniare che un’ampia platea di studenti e poi operatori del diritto – categoria vasta se si considerano i molti anni di influenza dell’insegnamento di Franco Cordero nell’Università italiana e in cui posso annoverarmi, uno fra i tanti – ha trovato nei suoi scritti, soprattutto nel poderoso Manuale, le chiavi per una lettura critica e consapevole di una materia che, per mezzo del suo insegnamento, ha saputo affascinare.
Allievi di Franco Cordero, in un senso ampio, sono stati molti di più di quelli che hanno avuto la fortuna di giovarsi del suo insegnamento diretto o, ancor più, di essere guidati e sostenuti nel percorso di studi post-universitari. In ciò risiede la grandezza dello studioso e del maestro, che attraverso i libri e gli scritti ha saputo contribuire alla formazione giuridica di un numero vastissimo di studenti e giuristi.
2. La centralità scientifica del Manuale.
Ne parlo come di un fenomeno raro, perché tale è.
In un periodo di copiosa, quasi alluvionale, produzione di volumi giuridici, anche nel settore del diritto processuale penale, sono poche, pochissime, le opere che si stagliano nella moltitudine dei testi e si pongono come punti fermi, guide sicure a cui attingere con mai inutili riletture che fanno scoprire e riscoprire aspetti prima non colti, non consapevolmente acquisiti in tutto il loro significato.
Molti hanno detto, e giustamente, che è riduttivo definire manuale un’opera che, in una pluralità di edizioni, ha accompagnato il passaggio dal vecchio al nuovo codice nelle sue molteplici e progressive novelle.
Un testo complesso, di impegnativa lettura per profondità concettuale e ricchezza di riferimenti storici, che si avvale di una scrittura asciutta, essenziale e densa, che non consente distrazioni, allentamenti di attenzione.
Con una molteplicità di livelli di approccio sa essere fruibile dallo studente e dallo studioso maturo, sa parlare a chi muove i primi passi nell’apprendimento della materia – seppure a condizione di una particolare ma adeguatamente contraccambiata determinazione ad apprendere – e a chi ne è invece cultore esperto, dando al primo il senso compiuto della struttura processuale col disvelamento del significato politico in uno alla spiegazione dei meccanismi di funzionamento, e offrendo al secondo spunti interpretativi prima rimasti in ombra, connessioni feconde di nuove sistemazioni e ricostruzioni.
3. Le ragioni del successo del Manuale.
Il Manuale sa mantenere vivo negli anni il dialogo con il lettore, evita che si esaurisca perché dischiude sempre nuovi orizzonti, fa sperimentare nuovi percorsi e stimola nuove riflessioni.
Da dove, ci si chiede allora, tanta ricchezza?
Anzitutto, penso di poter dire, dalla straordinaria capacità di storicizzazione degli istituti, dalla sapiente collocazione nella storia del pensiero e degli assetti culturali della società, che rendono viva la Procedura e danno immediata comprensione anche al meno attrezzato tra i lettori di come essa sia, come lo stesso Cordero ha ricordato, il prodotto e lo specchio del grado di civiltà di una comunità. Dalla dimensione storica, dalla individuazione delle radici di alcuni tra i più importanti istituti si è agevolati nel cogliere le ragioni del presente, a penetrare con maggior consapevolezza nel cuore del meccanismo processuale.
Il Manuale tratteggia la dimensione autenticamente politica del processo, luogo di esercizio di un potere terribile quale è quello dell’uomo che può disporre della libertà dell’altro. Il processo penale ha da sempre rappresentato una delle principali forme della relazione tra il Potere e la vita e i modi in cui questa relazione si è nel tempo declinata sono il precipitato della cultura politica che ne è stato e ne è contesto.
Questo postulato della dottrina processualistica è l’architrave democratica su cui prende corpo l’intero insegnamento del Manuale, condotto con eccezionale nitore logico nella spiegazione degli istituti e caratterizzato dalla semplicità delle soluzioni critiche
Qui si coglie, ritengo, l’altro grande carattere dell’opera che ne fa impareggiabile strumento di studio.
Si tratta dall’uso sapiente di un metodo improntato a rigore scientifico, che fa apparire, appunto, semplice quel che altrimenti, senza quella guida ricostruttiva, sarebbe risultato oltremodo ostico e complesso.
4. Il contributo alla Procedura come settore scientifico autonomo.
È lo stesso robusto pensiero critico che si ritrova in quell’altra importante opera, un classico della letteratura processuale, costituita dai Tre studi sulle prove penali, con cui Cordero definì, nei lontani anni sessanta del secolo passato, una sistemazione dommatica del procedimento probatorio e delle patologie della prova ancora attuale, e che ha favorito con largo anticipo la riforma della disciplina codicistica del 1988.
Sono scritti che, come più volte e da più parti è stato sottolineato, hanno contribuito alla strutturazione della procedura penale in settore scientifico autonomo dal Diritto penale, facendo cessare quel periodo di ancillare marginalità che, almeno fino agli anni trenta del secolo scorso, aveva segnato il rapporto tra la pratica processuale, roba da cerusici-flebotomi-barbieri del diritto, e il Diritto penale. Anche se, avverte Cordero, non era stato sempre così, perché nei secoli ancora precedenti la Procedura aveva avuto ben altre fortune, quando nel primo basso Medioevo italiano la letteratura penalistica originava come procedura.
In questa direzione, che lo individua come uno dei Padri del diritto processuale penale appunto perché tra gli artefici dell’autonomizzazione dommatica e quindi fautore della dignità scientifica della disciplina, va richiamato un lavoro monografico precedente, Le situazioni soggettive nel processo penale, del 1956.
Un’opera che innovò rispetto alle tradizionali teorizzazioni del processo incentrate sulla nozione di rapporto giuridico e dei presupposti processuali di impronta manziniana, e pose attenzione al fenomeno processuale in termini di combinazione e di convergenza dei comportamenti degli attori, parti e giudice, riguardati nella loro relazione con una norma attributiva di una situazione definibile in termini di potere, facoltà, onere e dovere; e quindi esaminati nella loro rilevanza secondo le previsioni di fattispecie normativamente qualificate.
Come osserva Cordero, l’adesione alla categoria del rapporto giuridico per spiegare il fenomeno processuale aveva prodotto non pochi guasti nella giurisprudenza che, utilizzando quella metafora, era giunta a negare la qualità di imputato al non comparso davanti al giudice istruttore che aveva emesso un mandato. Anche se – è lo stesso Cordero a evidenziarlo –, proprio lavorando intorno alla nozione di rapporto giuridico, la Corte di cassazione, notoriamente aliena da mosse libertarie, era riuscita a contenere i dannosi effetti della riforma autoritaria degli anni trenta del secolo scorso con cui erano state relativizzate tutte le nullità; per i casi – ad esempio – di nullità, precocemente sanate, del decreto di citazione e quindi di dibattimenti svolti in assenza dell’imputato non citato oppure in assenza del difensore, del pari non avvisato, la giurisprudenza aveva risposto dando vita, in ragione del mai costituito rapporto processuale e quindi dell’assenza dell’imputato e/o del difensore, ad una forma patologica atipica, l’inesistenza, rendendo così rilevabile anche d’ufficio e senza alcun termine il vizio dell’atto compiuto in assoluto spregio delle garanzie difensive.
5. Il volto politico del processo.
Riguardato dal punto di vista delle situazioni giuridiche soggettive il fenomeno processuale è colto nella configurazione dinamica, nella sua struttura progressiva, e assai meglio si adatta al modello accusatorio per atteggiarsi a spettacolo dialettico, tensione agonistica, partita aperta, duello, secondo regole e forme che plasmano il conflitto, e in cui più che l’esito contano, appunto, le regole del gioco: perché la caccia val più della preda e cioè il modo in cui si agisce val più del risultato.
Da qui la necessaria attenzione alle forme, perché il processo è prassi ragionata, e l’implicito monito a non farsi suggestionare da progetti di de-formalizzazione del rito in nome di risultati più facilmente o più speditamente raggiungibili; indiscusso che le forme non devono imbrlgliare l’azione, ma regolarla e che quindi la considerazione di esse non può risolversi in vuoto formalismo.
Ma l’in-sé del processo sta nel rispetto della dignità dell’uomo, nella tutela dei suoi diritti fondamentali, condizione essenziale per rendere tollerabili gli errori che sono a volte inevitabili nell’accertamento della verità.
Non può dunque ipotizzarsi un processo senza contraddittorio, metodo epistemologicamente imposto per la formazione delle prove e regola moralmente necessaria.
Il processo è prassi ragionata, non ammette idee precostituite che non siano soggette alle verifiche di un ragionamento rigoroso, condotto secondo lo stretto principio di conseguenzialità logica, anche inesorabile, che tiene fuori dal suo raggio di azione considerazioni di risultato e accomodamenti di convenienza.
6. L’intellettuale impegnato.
La fedeltà al pensiero critico, conformato a una rigorosa geometria – come è stato di recente detto da R. Bonsignori, La geometria nel pensiero di Franco Cordero, in giurisprudenzapenale.com, 16 maggio 2020 – oltre che metodo scientifico, è principio etico.
Lo si ritrova negli anni della serrata polemica con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, presso cui era titolare della cattedra di diritto processuale penale, quando il suo volume Gli osservanti. Fenomenologia della norma, pubblicato nel 1969, fu ritenuto un testo eterodosso, la cui lettura avrebbe potuto far perdere immediatamente la fede ai malcapitati; e determinò le autorità ecclesiastiche a revocare il nulla osta necessario a entrare a far parte del corpo docente (e a permanervi) dell’Università.
Non vi fu ostinazione o rigidità ideologica, non vi fu carenza di flessibilità – così, invece, F. D’Agostino, in Avvenire.it, 10 maggio 2020 – nella scelta di non chiedere il trasferimento ad altra sede; e, invece, di insistere in un contenzioso che infine approdò dinnanzi alla Corte costituzionale per la valutazione della legittimità della disposizione concordataria secondo cui la nomina dei professori di quella Università doveva essere preceduta dal nulla osta della Santa sede.
In quel comportamento si individua piuttosto il rifiuto etico del dogma, quale che ne sia la natura o la provenienza, ostacolo allo sviluppo del pensiero critico, che risponde e deve rispondere soltanto alle sue regole e non può recedere in vista di accomodamenti, magari utili anche in una prospettiva di utilità personale.
Lo stesso atteggiamento di intransigenza si apprezza nel più recente periodo in cui Cordero si è dedicato all’osservazione della vita e del costume politico. In quegli anni ha prodotto numerosi articoli di opinione per La Repubblica, e ha pubblicato vari volumi – Le strane regole del signor B., Nere lune d’Italia, Morbo italico –, con cui ha condotto una serrata analisi della decadenza della vita pubblica, cogliendo con lucida visione le forme, a volte sguaiate e spesso grottesche, del Potere.
7. Una lezione di vita sul Potere.
La distanza dal Potere, nelle sue manifestazioni deteriori, a tratti percorse da prevaricazione, può essere eletta a carattere distintivo delle plurime espressioni del pensiero di Cordero.
Un intellettuale che ha vissuto l’impegno universitario tenendosi lontano dalla gestione del potere accademico, che si esprime anche nell’assegnazione delle cattedre e dei posti. Non ha dato vita ad una Scuola – ed è questo il rammarico che oggi può avvertirsi –, non ha cresciuto allievi da sistemare in quella o in quell’altra Università.
È rimasto estraneo agli affari faticosi di chi assume la responsabilità del futuro professionale di altri in un mondo che ha ipocritamente dismesso i meccanismi di una lecita, trasparente e responsabilizzante cooptazione, per affidarsi a un sistema di concorsi che, oltre a mortificare a volte (spesso?) i meriti scientifici dei concorrenti, si è rivelato inadeguato ad assicurare la legittimità, o quanto meno l’immagine di essa, nelle procedure di promozione.
E su questo terreno la figura di Franco Cordero è di monito non solo all’Accademia; lo è, in misura non minore, alla Magistratura che, al pari dell’Università, si avvale degli strumenti dell’autogoverno nella gestione del potere, delle promozioni e degli avanzamenti per così dire di carriera.
Occorrerebbe accostarsi a quegli affari, a cui è pur necessario attendere, con il rigore e l’intransigenza dell’intellettuale che non devia verso i compromessi.
È un dover essere molto impegnativo, con cui le grandi figure riescono a misurarsi assai più agevolmente di quanto capita ai molti altri.
Traguardo che sembra irraggiungibile, che tollera umane défaillance e passi falsi ma che deve orientare – per quel che ora interessa – i giuristi, accademici e non.
È questo un lascito non meno rilevante dell’insegnamento di Franco Cordero. Il rigore dello scienziato che diviene fondamento etico dell’impegno pubblico.
Il parere preventivo della Corte edu e il diritto vivente italiano in materia di maternità surrogata: un conflitto inesistente o un conflitto mal risolto dalla Corte di Cassazione?
di Gabriella Luccioli
SOMMARIO: 1. La Corte di Cassazione al bivio tra diritto vivente e parere preventivo della CEDU. 2. La lesione del principio di dignità e l’ordine pubblico internazionale.
1.La Corte di Cassazione al bivio tra diritto vivente e parere preventivo della CEDU.
Avevo auspicato che la sentenza delle Sezioni Unite n. 12193/2019 in tema di maternità surrogata avrebbe costituito un punto fermo per la giurisprudenza successiva, di legittimità e di merito, ed in tal senso avevo titolato una mia nota adesiva a detta decisione[1]. Come è noto, quella sentenza aveva negato il riconoscimento di efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero con cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’ estero mediante ricorso alla pratica di surrogazione ed il genitore di intenzione italiano, stante il divieto posto dall’ art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, ed aveva affermato che la tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’ istituto dell’ adozione, non irragionevolmente ritenuti dal legislatore prevalenti sull’ interesse del minore, non escludeva la possibilità di conferire rilievo al rapporto genitoriale mediante altri strumenti giuridici, quali l’ adozione in casi particolari.
Il mio auspicio si è purtroppo dissolto alla lettura dell’ ordinanza n. 8325 del 2020 della prima sezione della Corte di Cassazione, che dopo meno di un anno ha preso le distanze dalla suindicata decisione ed ha proposto la questione di costituzionalità dell’ art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, degli artt. 18 del d.p.r. n. 396 del 2000 e 64, comma 1, lett. g), della legge n. 218 del 1995, nella parte in cui non consentono, secondo il diritto vivente, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l’ ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all’ inserimento nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestazione per altri del c.d. genitore d’ intenzione non biologico, per contrasto con gli artt. 2, 3, 30, 31, 117, comma 1, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 della CEDU, 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione ONU sui diritti dei minori, e art. 24 della Carta dei Diritti dell’ UE.
Il passaggio argomentativo attraverso il quale la sezione semplice si è sottratta al vincolo del precedente delle Sezioni Unite è costituito dal richiamo al parere espresso in materia dalla Grande Camera della Corte Europea ai sensi del Protocollo n. 16, che nell’ assunto si porrebbe in contrasto insanabile con il diritto vivente cristallizzato nella suindicata pronuncia delle Sezioni Unite.
Tale impostazione suscita serie perplessità. In primo luogo va rilevato che l’ordinanza in commento muove da un presupposto errato lì dove afferma che successivamente alla sentenza delle Sezioni Unite è intervenuto il parere della Grande Camera: ed invero il parere in discorso è stato emesso il 10 aprile 2019, mentre la pubblicazione della sentenza delle Sezioni Unite è dell’8 maggio 2019, così da doversi escludere l’esistenza di un contrasto sopravvenuto con la giurisprudenza della CEDU.
In secondo luogo, se pure non può negarsi che anche in mancanza di ratifica del Protocollo Addizionale da parte dell’ Italia il parere può rivestire un indiretto rilievo interpretativo nel nostro ordinamento, sembra ardito assumere il parere stesso, per sua natura non vincolante neppure per il giudice francese richiedente, quale parametro di riferimento imprescindibile ai fini della affermazione del diritto del minore nato da maternità surrogata ad essere riconosciuto figlio anche del genitore di intenzione.
Ed invero lo strumento di dialogo con le Corti nazionali introdotto dal Protocollo n. 16 è per sua natura rivolto a fornire in via preliminare una mera opinione della Corte di Strasburgo su una questione di principio relativa all’ interpretazione o all’ applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla CEDU, fornendo al giudice nazionale richiedente un ausilio al fine di prevenirne la violazione nella soluzione del caso concreto.
Ed ancora, il denunciato contrasto con il diritto vivente italiano non è affatto scontato, atteso che in sede consultiva la Corte di Strasburgo, dando risposta ai due quesiti formulati, concernenti i limiti e la discrezionalità degli Stati in materia di trascrizione dell’ atto di nascita formato all’ estero, da un lato ha affermato che il diritto del minore al rispetto della vita privata ai sensi dell’ art. 8 della Convenzione richiede che il diritto interno offra una possibilità di riconoscimento del legame di filiazione con la madre intenzionale, indicata nell’atto di nascita come madre legale, ma dall’ altro lato ha precisato che il rispetto della vita privata del bambino non esige che tale riconoscimento avvenga mediante la trascrizione nei registri dello stato civile di detto atto di nascita, potendo il riconoscimento avvenire in altro modo, ad esempio con l’ adozione da parte della madre intenzionale, sempre che la procedura stabilita dall’ ordinamento nazionale garantisca una sua tempestiva ed efficace attuazione, nel rispetto del superiore interesse del minore. A tale riguardo la Corte Europea ha fatto riferimento ad ulteriori fondamentali componenti del diritto alla vita privata che devono essere tutelati, come quelli concernenti il rischio di abusi che il ricorso alla gestazione per altri può comportare e l’ impossibilità per il figlio di conoscere le proprie origini.
Ciò vale a dire che, escluso che il superiore interesse del bambino si realizzi solo con la sua iscrizione anagrafica come figlio della coppia committente, resta rimessa alla discrezionalità del legislatore statale la scelta del mezzo utilizzabile per il soddisfacimento del diritto alla bigenitorialità. La sussistenza di un vincolo genetico con il minore viene così a segnare il limite oltre il quale appartiene alla discrezionalità del legislatore statale l’individuazione degli strumenti più adeguati per conferire rilievo giuridico al rapporto genitoriale, fermo l’obbligo di assicurare una tutela comparabile a quella ordinariamente collegata allo status filiationis.
Va peraltro ricordata al riguardo la sentenza emessa dalla stessa Grande Camera il 24 gennaio 2017, nel caso Paradiso e Campanelli c. Italia, che riformando la pronuncia della seconda Camera del 27 gennaio 2015 ha escluso la violazione dell’art. 8 della CEDU da parte dell’Italia nel caso di un minore nato da maternità surrogata e sottratto ai genitori a causa dell’inesistenza di un legame biologico con i coniugi. In tale decisione la Corte di Strasburgo, premesso il riconoscimento della discrezionalità degli Stati nella disciplina del fenomeno, ha affermato la legittimità dell’ allontanamento del minore da parte dello Stato italiano in ragione dell’ interesse pubblico superiore di ripristinare la legalità violata e dell’ urgenza di adottare misure a tutela del bambino, così rifiutando la logica del fatto compiuto e della esaltazione della genitorialità di intenzione, ed ha anche negato che il superiore interesse del minore, in termini di continuità affettiva, costituisca criterio prevalente rispetto a detto interesse pubblico.
Tale decisione, espressione anch’ essa della più alta articolazione della Corte di Strasburgo, è stata del tutto ignorata dall’ ordinanza in esame, che pure avrebbe dovuto illustrare le ragioni della prevalenza ai fini interpretativi del parere espresso ai sensi del Protocollo n.16.
D’ altro canto l’idoneità dell’adozione in casi particolari a porsi come clausola di chiusura del sistema e come adeguato strumento di tutela del diritto del minore di veder riconosciuti i legami sviluppatisi sul piano affettivo ed educativo con altri soggetti, all’ unica condizione della constatata impossibilità, anche di diritto, di procedere all’ affidamento preadottivo era stata espressamente riconosciuta dalle stesse Sezioni Unite e costituiva quindi diritto vivente, in chiara sintonia con il parere della CEDU, pur non menzionato in motivazione.
È allora evidente il cortocircuito che inficia il ragionamento della Corte, la quale da un lato ritiene non esserle consentito fornire un ‘ interpretazione che si contrapponga a quella adottata dalle Sezioni Unite, in ragione della sua attitudine a radicare il diritto vivente al fine di garantire la certezza e l’ uniformità dell’ applicazione del diritto, quale bene fondamentale dell’ ordinamento giuridico, dall’ altro lato si avvale proprio dell’ autorità di quel precedente per sollevare una questione di costituzionalità volta a rimuovere la disposizione sottostante al principio enunciato dalle Sezioni Unite.
Non può ancora non sottolinearsi la linea di convergenza tra le Corti sulle modalità di tutela del nato da gestazione per altri, atteso che anche la Corte Costituzionale ha fatto riferimento all’istituto dell’ adozione nella sentenza n. 272 del 2017, lì dove ha affermato che non possono non assumere oggi particolare rilevanza da un lato le modalità del concepimento e della gestazione e, dall’ altro, la presenza di strumenti legali che consentano la costituzione di un legame giuridico col genitore contestato, che, pur diverso da quello derivante dal riconoscimento, quale è l’ adozione in casi particolari, garantisca al minore una adeguata tutela.
2.La lesione del principio di dignità e l’ordine pubblico internazionale.
La posizione della sezione semplice di netto dissenso rispetto alla sentenza n. 12193 del 2019 è ancor più evidente nella seconda parte della motivazione dell’ ordinanza, che reca come titolo Conflitto con i principi d’ inviolabilità dei diritti fondamentali del minore, d’ uguaglianza, non discriminazione, ragionevolezza e proporzionalità: qui si censurano in modo diretto, senza più lo schermo del parere della CEDU, i vari passaggi della decisione delle Sezioni Unite, ravvisando in essi un contrasto con gli artt. 2, 3, 30 e 31 della Costituzione, e specificamente contestando l’ accezione in essa assunta del concetto di ordine pubblico internazionale e del suo rapporto con il principio del superiore interesse del minore.
Mi limito in questa sede a qualche breve osservazione sull’ ordine pubblico internazionale, un concetto che inevitabilmente chiama in gioco il principio di dignità, quale elemento costitutivo dell’ordine pubblico e valore fondante dell’intero ordinamento.
La Cassazione evita di confrontarsi con la problematica che la lesione del principio di dignità solleva, affermando che il riconoscimento della sentenza straniera non implica alcun riconoscimento del contratto di maternità surrogata, e quindi non incide sulla dignità della donna ferita dalla pratica di surrogazione, ma produce soltanto l’ effetto di riconoscere lo status e l’ identità del figlio, come acquisiti all’ estero: è agevole replicare che il riconoscimento di detto status involge comunque l’ accertamento di un rapporto genitoriale radicato nel fatto di surrogazione, che non può essere bypassato seguendo una prospettiva fondata esclusivamente sull’ esigenza di tutela dell’ interesse del minore.
In realtà il veloce riferimento contenuto in alcuni passaggi della motivazione alla dignità della gestante, ritenuta in ogni caso non idonea ad affievolire i diritti inviolabili del minore, denota una insufficiente consapevolezza della rilevanza primaria di quel valore che Stefano Rodotà definiva il diritto dei diritti, il supervalore da cui discendono tutti gli altri diritti, il principio che l’art. 3 della Costituzione antepone al principio di eguaglianza.
Come è noto, nell’ ampio dibattito sviluppatosi in dottrina negli ultimi anni sul significato del principio di dignità, giustificato dall’ evidente polisemia del termine, è emersa una contrapposizione tra gli studiosi, divisi tra coloro che tendono ad esaltare il profilo soggettivo del concetto, e quindi il principio di autodeterminazione, l’ autonomia morale, i convincimenti più profondi di ciascuno, e coloro che propendono per una concezione oggettiva della nozione, in essa ravvisando un nucleo assoluto, una dimensione comune a tutta l’ umanità che ha riguardo all’ esistenza stessa di ogni persona[2].
Ritengo sia possibile sottrarsi al dilemma di tale alternativa attribuendo al principio di dignità un contenuto ampio, comprensivo sia del valore originario e non comprimibile che la Costituzione e le Carte dei diritti assegnano alla persona sia del riconoscimento delle esperienze e delle sensibilità che caratterizzano il patrimonio spirituale di ognuno. Tale capacità inclusiva rende possibile declinare il principio secondo direttrici diverse, in relazione alle situazioni concrete oggetto di esame: se il diritto di morire con dignità non può non essere ancorato alla visione soggettiva del malato ed alla sua personalissima percezione della dignità nel momento estremo del distacco dalla vita, altre situazioni, come quella del celebre lancio dei nani sparati da un cannone per il diletto degli spettatori esaminato dalla giurisprudenza francese, richiamano il valore assoluto della dignità innata, che appartiene al patrimonio irrinunciabile della persona umana e che per questo non lascia spazio a scelte di volontaria rinuncia.
È indubbiamente vero che l’assunzione in termini oggettivi del concetto di dignità carica il giudice di una forte responsabilità, in quanto lo chiama a dare significato e sostanza a quel principio, evitando di ancorarlo a valori del tutto personali, ma è altrettanto certo che in tale percorso la stella polare non può che essere il rispetto della persona.
Come appare evidente, assumere il concetto di dignità quale valore assoluto, oggettivo ed irrinunciabile a fronte di comportamenti lesivi vuol dire identificare il bene tutelato non solo o non tanto nella dignità del soggetto coinvolto, ma in quella di ogni essere umano.
L’ operazione che tende a cancellare il rapporto tra la donna e il bambino che porta in grembo, ignorando i legami biologici e psicologici che si stabiliscono tra madre e figlio nel lungo periodo della gestazione, così smarrendo il senso umano della gravidanza e del parto, trascurando i pesanti limiti cui devono sottostare le donne durante la gestazione rispetto all’ alimentazione, allo stile di vita, ai controlli medici, riducendo la donna a mero strumento riproduttivo e la nascita del figlio ad evento conclusivo di tale prestazione servente, assumendo la filiazione come mezzo di autorealizzazione del soggetto committente, e non più come rapporto nascente dal fatto generativo[3], costituisce un attacco demolitore della relazione materna ed una ferita alla dignità non solo di quella donna, ma di tutte le donne. La rinuncia preventiva ai diritti materni si risolve in un atto contrario alla libertà non solo di quella donna, ma di tutte le donne.
Ed è appunto questa valenza oggettiva, nel caso di gestazione per altri, del concetto di dignità che rende improponibile la posizione di quanti invocano quel principio di autodeterminazione che esige di essere rispettato in tutte le sue espressioni, in nome di un neoliberismo culturale che postula la totale disponibilità da parte delle donne del proprio corpo.
Al contrario, la natura penale della sanzione prevista dall’ art. 12, comma 6, della legge n. 40 esprime con chiarezza la funzione della norma di tutela di interessi di rilevanza costituzionale, ed in particolare del valore supremo della dignità umana.[4]
Se non si dà senso a parole che lo hanno smarrito si finisce con il pensare che far nascere un bambino con la surrogata sia un gesto di libertà e di progresso, mentre il rifiutare una pratica che riduce le donne a meri supporti materiali per la realizzazione di un progetto altrimenti irrealizzabile ed i bambini a oggetto di scambio, secondo una logica meramente proprietaria, sia segno di bigottismo reazionario. Peraltro, contrariamente a quanto osserva l’ordinanza in esame, nulla cambia per il bambino, ma per molti aspetti anche per la madre, se ciò avviene a titolo oneroso o gratuito.
Susanna Tamaro ha definito la gestazione per altri la più sofisticata e atroce forma di schiavismo inventata dalla modernità, …. uno schiavismo che furbescamente si ammanta della parola “amore”. [5]
La Corte Costituzionale ha in più occasioni affermato, nello scrutinare varie norme contenute nella legge n. 40 del 2004, che restava ferma in ogni caso l’illegittimità della gestazione per altri ed ha rimarcato nella richiamata sentenza n. 272 del 2017 che la maternità surrogata offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane.
Ma è anche la dignità del figlio, il soggetto più debole del rapporto, che resta ferita nel momento in cui se ne fa oggetto di scambio, alterando alla nascita i suoi dati anagrafici. Il minore diventa lo strumento per soddisfare il desiderio di genitorialità dell’adulto - che non è un diritto, ma una mera e legittima aspirazione - attraverso l’interruzione in modo netto e definitivo, immediatamente dopo il parto, di quel legame simbiotico con colei che lo ha generato, con una lacerante destrutturazione della relazione materna, associata alla soppressione del diritto fondamentale di conoscere da adulto la propria identità biologica. Per tale via il bambino non è più soggetto, ma oggetto di diritto fin dal momento del suo concepimento.
Non si può ancora non tener presente, allargando lo sguardo oltre i nostri confini, che è in atto a livello mondiale una seria ridefinizione dei margini di operatività della gestazione per altri, atteso che vari Stati, in passato molto aperti in favore di detta pratica, hanno avviato un processo di revisione in senso limitativo delle proprie posizioni: la Thailandia ed il Nepal hanno vietato nel 2015 la maternità surrogata commerciale; l’ India nel dicembre 2018 ha approvato una legge che ne riduce l’ applicazione alle coppie sposate da almeno cinque anni, o almeno a quelle in cui uno dei committenti abbia passaporto indiano, disponendo altresì che la gravidanza sia gestita da una parente stretta della coppia e ponendo il divieto assoluto di maternità surrogata commerciale.
Quanto ai Paesi Europei, ricordo che la gran parte di essi, a diverse latitudini, come, tra gli altri, l’Austria, la Spagna, la Francia, la Germania, l’ Ungheria, la Norvegia, la Finlandia, la Romania, la Svizzera, vietano ogni forma di maternità surrogata (il parere della CEDU ne indica 24, oltre la Francia, tra quelli che sono parti della Convenzione); che il Parlamento Europeo con la Risoluzione del 17 dicembre 2015 ha condannato la pratica in discorso in quanto compromette la dignità umana della donna, dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usati come una merce; che il Consiglio d’ Europa l’ 11 ottobre 2016 ha bocciato la proposta di raccomandazione della parlamentare belga De Sutter diretta, tra l’ altro, a dettare le linee guida per la disciplina dello status dei bambini venuti al mondo a seguito di maternità surrogata, ritenendo che detto intervento potesse favorire la legalizzazione diffusa di detta pratica.
Mi sembra ancora utile segnalare che il 2 febbraio 2016, a conclusione di un convegno svoltosi a Parigi nella sede del Parlamento francese, è stata votata e approvata da organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani, da rappresentanti del mondo politico e della comunità scientifica la Carta di Parigi, un documento volto a proporre a tutti gli Stati europei l’abolizione della maternità surrogata, ritenuta disumanizzante e contraria alla dignità e ai diritti delle donne e dei bambini.
A fronte delle tante resistenze che la gestazione per altri incontra a livello mondiale e dei tanti problemi sul piano etico e giuridico che essa solleva nei Paesi in cui è consentita ( ad esempio, quale sorte per il concepito in esubero o non corrispondente a quello ordinato?), la questione posta nell’ordinanza della Corte di Cassazione si profila come una disinvolta e pericolosa apertura verso una pratica lesiva dei diritti umani delle donne e dei bambini. E tale apertura appare ancor più discutibile in presenza dei limiti rigorosi che l’ultimo comma del novellato art. 374 c.p.c. impone alle sezioni semplici nei confronti dei principi di diritto enunciati dalle sezioni unite.
Una dimostrazione di autoreferenzialismo giuridico, che ignora i problemi etici e manifesta una radicale scissione dalla realtà, e anzi tende a superare la realtà con un uso non corretto dello strumento del diritto.[6]
[1] V. LUCCIOLI, Dalle Sezioni Unite un punto fermo in materia di maternità surrogata, in Foro It. 2019, I, c. 4027.
[2] Per un interessante scambio di opinioni sul tema della dignità v. l’intervista di CONTI ai costituzionalisti D’Aloia, D’ Amico e Repetto in Giustiziainsieme, 22 maggio 2019.
[3] In tal senso, tra gli altri, NICOLUSSI, La natura dell’umana generazione: una prospettiva giuridica, Milano, 2017, p. 143.
[4] V. sul punto, nella sterminata letteratura sul tema, RENDA, La surrogazione di maternità ed il diritto di famiglia al bivio, in Eur.dir. priv .2015, II, p.421.
[5] Intervento svolto il 23 marzo 2017 alla Camera dei Deputati, nel corso dell’incontro internazionale su Maternità al bivio, dalla libera scelta alla surrogata, una sfida mondiale.
[6] V.sul punto DI BENEDETTO, La maternità surrogata: le principali questioni bioetiche, in diritto.it, 18 dicembre 2019.
Jürgen Habermas e Klaus Günther - Diritti fondamentali: “Nessun diritto fondamentale vale senza limiti” *
Che cosa conta di più nella lotta contro la pandemia: la tutela della vita o la libertà? Da giorni questo dibattito rimane sospeso nel discorso pubblico. Ma i diritti fondamentali sono fondamentalmente bilanciabili fra loro? Uno scambio di riflessioni tra il filosofo Jürgen Habermas e il teorico del diritto Klaus Günther.
Aumenta la pressione per allentare le regole severe nella lotta contro la pandemia da Corona. Ma la politica del Governo Federale incontra non solo il contrasto di economisti e di gruppi di interessi economici; il presidente dei ministri del NRW (Nord Rhein Westfalen), Armin Laschet, e il presidente della FDP Christian Lindner si possono richiamare anche ad eminenti giuristi ed altri esperti quando rilevano i notevoli danni sociali, fisici, morali e culturali come effetti secondari della politica di quarantena, e quando contro una “ assolutizzazione della tutela della vita” fanno valere i diritti di libertà e di partecipazione dei cittadini. Già il Comitato Etico tedesco [N.d.R.: organo analogo al nostro Comitato Nazionale di bioetica] aveva precisato: “Il dovere di tutela della vita umana non vale in modo assoluto”; un “rischio generale di vita” dovrebbe “essere accettato da ciascuno”. Il Presidente del Bundestag Tedesco, Wolfgang Schäuble (CDU) ha acuito questo conflitto con l’osservazione: Quando “io sento che di fronte alla tutela della vita tutto il resto dovrebbe cedere, allora devo dire: ciò non è giusto in termini così assoluti. I diritti fondamentali si limitano reciprocamente. Ma se nella nostra Legge Fondamentale esiste un valore assoluto, allora questo è la dignità dell’uomo. Questa è inviolabile. Ma essa non esclude che noi dobbiamo morire”. Come si può allora definire il rapporto tra dignità umana inviolabile e la tutela della vita e dell’inviolabilità fisica? Su queste questioni si sono confrontati il filosofo Jürgen Habermas e Klaus Günther, che dialoga con lui da anni ed è professore di teoria del diritto, diritto penale e diritto processuale penale all’Università Goethe di Francoforte sul Meno.
Jürgen Habermas:
Le dichiarazioni politiche non sono commentari giuridici. Ma nel contesto di riferimento [N.d.R.: la dichiarazione di W. Schäuble] mi inquieta che ora anche giuristi si uniscano al coro di coloro che relativizzano la “tutela della vita”, protetta nel secondo paragrafo del secondo articolo della nostra Legge Fondamentale, nei confronti della “dignità dell’uomo”, di cui all’articolo 1, la quale, in un certo senso, troneggia su tutti i diritti fondamentali. Così ragionando, in qualche modo si abbandona la tutela della vita al “bilanciamento” con tutti gli altri diritti di libertà e di partecipazione. Ciò può condurre a sbandamenti come quello del sindaco di Tübingen Boris Palmer [N.d.R.: che in TV si è interrogato sull’opportunità di bloccare il paese pur di assistere anziani che sarebbero comunque morti dopo pochi mesi]. D’altra parte, Wolfgang Schäuble, nel subordinare la tutela della vita alla dignità umana, si appella ad un’intuizione morale a prima vista evidente: ad una vita umana appartiene un qualcosa di più della semplice “vita”, che noi attribuiamo agli animali – la “buona” vita, come Aristotele l’ha definita.
Oggi è la vita autodeterminata e autoresponsabile ad essere quella “degna”. Possono darsi situazioni che fanno venire meno tale dignità, condizioni come quelle di una malattia incurabile, di soverchiante miseria o di umiliante privazione di libertà, nelle quali una persona preferisce la morte piuttosto che dover condurre una tale vita. Ma, a prescindere da situazioni tragicamente senza uscita, una tale decisione può essere presa soltanto in prima persona, e cioè dallo stesso interessato. Nessun altro, e certamente nessun potere dello stato vincolato ai diritti fondamentali può sottrarre ai cittadini una tale decisione. Lo stato può legittimamente bilanciare la sopravvivenza di alcuni cittadini o anche solo di un singolo a confronto con il benessere, diciamo la vita più o meno buona di grandi gruppi sociali?
Cosa potrebbe arrivare a fare un governo, se nelle attuali circostanze perseguisse una politica che, a fronte di un rischio – scientifico, ma pur sempre fallibile quanto ad entità prevedibile - di sovraccarico dei reparti ospedalieri di terapia intensiva, accettasse un probabile, ancorché evitabile, aumento delle percentuali di morti tra i malati infetti? Davvero ciò potrebbe essere visto solo come un esigere dalle persone interessate l’accettazione di un “generale rischio di vita?” - e ancorché allo scopo legittimo di evitare limitazioni della libertà difficilmente sopportabili e forse a lungo termine persino danni irrimediabili a bambini, scolari e genitori, all’industria e al commercio, a ristoratori e cittadini pronti alla protesta? Che cosa può significare, in questa situazione, il richiesto “bilanciamento” della tutela della vita rispetto a gravi ingerenze in altri diritti fondamentali?
Klaus Günther
La necessità di bilanciare diritti fondamentali deriva dalla circostanza che vi è più di un diritto fondamentale e nessun diritto è privo di limiti. Essi possono collidere l’uno con l’altro. Perciò anche la maggior parte dei diritti fondamentali (come vita e libertà) possono essere espressamente limitati tramite leggi, non solo per evitare prevedibili collisioni, ma anche per realizzare altri scopi legittimi sul piano giuridico - costituzionale.
All’effettivo bilanciamento tra due o più diritti, come da un lato vita e salute dall’altro libertà è, però, preliminare la verifica della proporzionalità dell’intervento. Oltre alla legittimità giuridico-costituzionale dello scopo così perseguito - qui tutela di vita e salute - devono essere verificate la sua obbligatorietà per il raggiungimento di tale scopo e la sua necessarietà rispetto ad alternative che incidano meno intensivamente sul diritto fondamentale - ad esempio la libertà di riunione – senza mettere in pericolo il fine della tutela contro l’infezione.
In questi tre passaggi lo stato - il legislatore, l’amministrazione della sanità - ha una prerogativa di valutazione. L’idea centrale del principio di proporzionalità è che lo stato possa limitare i diritti fondamentali non arbitrariamente né più di quanto sia assolutamente necessario, al fine di garantire il loro rispettivo contenuto essenziale. Solo al quarto e ultimo gradino si tratta di un apprezzamento esclusivamente giuridico, che certamente può essere pre-strutturato tramite un primato del diritto alla vita o con la tutela della dignità.
L’attuale crisi rende però difficile un tale controllo di proporzionalità, quanto meno con riferimento alle normative generalmente vigenti, e ciò per almeno due ragioni. Non si tratta senz’altro di tutela della vita in senso comprensivo, ma del c.d. mantenersi piatto della curva e dell’abbassamento delle percentuali di contagio sotto l’1%. Deve perciò essere garantito che il sistema della sanità possa reagire in modo adeguato coi mezzi disponibili e non debba confrontarsi con tragiche situazioni decisionali, il che è certamente uno scopo legittimo dal punto di vista giuridico-costituzionale.
La risposta alla domanda se le attuali limitazioni di libertà siano anche appropriate e necessarie al raggiungimento di questo scopo è resa più difficile dalla necessità di considerare molteplici fattori di rilevanti insicurezze prognostiche e non può basarsi, anche solo in parte, su una conoscenza sperimentale o comparativa.
Così introduco il secondo motivo di difficoltà rispetto al principio di proporzionalità: il diritto alla vita dell’art. 2.2 della Legge Fondamentale era originariamente, anzitutto, un diritto di difesa contro uno stato che spesso, con coazione e violenza, ha inciso arbitrariamente sulla vita dei suoi sudditi. Il dover morire in conseguenza di malattie apparteneva, nei tempi passati, al generale rischio di vita, che solo di rado poteva evitarsi o ridursi. Solo da quando disponiamo di un sistema di assistenza medica altamente complesso e dispendioso si pone fondamentalmente la domanda su cosa e quanto stato e società possano e debbano fare per impedire o per ridurre decorsi patologici prevedibilmente rischiosi per la vita.
Nell’ambito del diritto alla vita sorge, così, un secondo componente significativo - l’obbligo dello stato di tutelare vita e salute, e ciò non soltanto, come già in precedenza, nei confronti di aggressioni antigiuridiche di terzi, ma anche tramite la predisposizione di un’adeguata assistenza medica. Ciò è però sottoposto alla riserva del possibile; nessuna società può allocare tutte le sue risorse nel sistema sanitario. A seconda però di quanto una società abbia ben costruito e mantenuto efficiente il suo sistema sanitario, varia il confine tra conseguenze mortali inevitabili ed evitabili dei “rischi generali per la vita”. Qui mi sembra consista l’essenza del conflitto di bilanciamento: vi è diversità di vedute su dove tracciare il confine tra decorsi patologici mortali evitabili e inevitabili a fronte dell’elevato dispendio in rinunce alla libertà dalle conseguenze imprevedibili – tra minimo e massimo.
Jürgen Habermas
La Sua descrizione delle conseguenze imprevedibili della politica di contenimento mi convince. Noi dobbiamo in primo luogo sondare l’ambito per un allentamento delle misure di contenimento che non si esponga a rilievi giuridici. Ma la Sua descrizione tocca il punto controverso solo quando nelle sue premesse afferma che il bilanciamento può essere “pre-strutturato” da un primato del diritto alla vita: deve ciò significare che questa mantiene “sempre” il primato? Su cosa si potrebbe basare questo primato se il diritto alla vita e all’ inviolabilità corporale può essere bilanciato contro tutti gli altri diritti fondamentali?
Già Ronald Dworkin ci ha messo in guardia nei confronti della metafora del piatto della bilancia. I diritti non si riferiscono a “beni” che si possano bilanciare in base al peso. I diritti non sono neanche “valori”, che si possono collocare in una sequenza transitiva fondata su una condivisa preferenza politico-culturale. La decisione se un diritto sia adatto ad un caso consente solo un “si” o un “no”. Nel corso del processo di bilanciamento giudiziale i diritti fondamentali possono entrare in concorrenza tra loro. Ma, alla fine, la prevalenza resta di uno, il che significa che questo fa fuori tutti gli altri, ancorché esso debba, in caso di necessità, essere limitato in considerazione del pregiudizio agli altri diritti fondamentali che “devono arretrare”.
Dalla Sua osservazione incidentale traggo ora che un “arretramento” non può riguardare allo stesso modo la tutela della vita e gli altri diritti fondamentali. La prima traccia, in ogni caso, al bilanciamento uno stretto confine, ove per soddisfare concomitanti pretese di diritti fondamentali un governo dovesse fare il tentativo di accettare il rischio prevedibile della morte di alcuni più o meno anziani, che hanno già vissuto la loro vita. Piuttosto, il nucleo contenutistico della tutela della vita, sulla base del carattere individualistico del nostro ordinamento giuridico, non ha un effetto impeditivo di ogni arretramento, che gli altri diritti fondamentali non hanno?
Klaus Günther
In effetti, la prassi del bilanciamento riguardo al controllo di proporzionalità suggerisce che, con l’eccezione della dignità umana prevista nell’art. 1 GG, tutti i diritti fondamentali si lasciano reciprocamente relativizzare e che si potrebbe attribuire più peso talvolta a questo, talvolta a quello rispetto agli altri. La retorica del bilanciamento esclude che chi deve rispettare la norma debba sforzarsi di fare ciò che Dworkin esige da una buona giudice: interpretare ogni diritto come parte di una comprensiva teoria politico-morale dell’intero ordinamento costituzionale. Che non esista una classifica fra i diritti fondamentali è vero nella misura in cui non esiste un caso concreto di collisione che sia risolvibile senza limitazioni di un diritto a favore dell’altro e viceversa. Perciò anche la riserva di legge permette espressamente limitazioni nel rispetto del principio di proporzionalità e vale espressamente per il diritto fondamentale alla vita, secondo l’art. 1 [N.d.R: errata corrige 2] par. 2 frase 3 Legge Fondamentale.
Ma i casi in materia sono rari. Prima dell’entrata in vigore della Legge Fondamentale ciò valeva per la pena di morte, successivamente per il generale servizio militare obbligatorio. Un altro caso è quello, non del tutto incontestato, del c.d. sparo finale di salvataggio, nel quale è consentito alla polizia, sotto stretti presupposti, di uccidere un sequestratore. Ma qui il diritto alla vita di uno si contrappone a quello dell’altro, mentre noi, attualmente, abbiamo a che fare col rapporto tra vita, libertà ed altri importanti diritti fondamentali.
Coloro che ora in nome dei diritti fondamentali di libertà sostengono la causa di ulteriori allentamenti e si richiamano, in proposito, alla relatività del diritto fondamentale alla vita, credono, presumibilmente, di poter fare ciò perché è così difficile tracciare il confine sopra menzionato tra decorsi patologici mortali ancora evitabili e non più evitabili. Ma essi non dovrebbero allora soltanto dire quanto potrebbe salire il numero dei prevedibili casi di morte senza portare all’assurdo il diritto alla vita, ma dovrebbero inoltre spiegare al primo paziente che non possa essere fatto respirare in conseguenza dell’allentamento, che egli dovrebbe morire per amore della libertà di altri.
In tal modo si trascurerebbe anzitutto che è il Tribunale Federale Costituzionale ad attribuire nella sua giurisprudenza un alto rango al diritto alla vita. Il Tribunale Federale Costituzionale, nella sua prima decisione sull’interruzione della gravidanza del 1975, condivide un’argomentazione del futuro giudice federale costituzionale Ernst- Wolfgang Böckenförde, che trae dal diritto fondamentale alla vita l’obbligo per lo stato di porsi in termini di “protezione e sostegno” nei confronti della vita stessa e attribuisce a questa “ un altissimo valore all’interno dell’ordinamento della Legge fondamentale”, non da ultimo con riferimento al passato tedesco. Al riguardo la Corte costruisce anche un rapporto con l’articolo 1, che però non viene spiegato in termini più precisi: il diritto alla vita sarebbe “la base vitale della dignità umana e il presupposto di tutti gli altri diritti fondamentali” – dunque anche del diritto alla libertà.
Jürgen Habermas
In questa sentenza sono in gioco, naturalmente, questioni del tutto diverse. Ma entrambe le espressioni che Ella cita sono istruttive. Il riferimento a “un” anziché “all’ ” altissimo valore mostra l’inadeguatezza del linguaggio di valori: in una loro classifica ci sarebbe sempre, e soltanto, un unico valore supremo. Altrimenti quella formulazione deve intendersi nel senso che - diversamente da quanto ritengono Schäuble e il Comitato etico – il rilievo della “vita” è pari a quello della “dignità umana”. Ad esempio, ipotizziamo di aver abbandonato la zona grigia da Lei descritta e di conoscere con sufficiente sicurezza, ciò che andrebbe accettato in un determinato momento in materia di limitazioni di diritti fondamentali, per poter prevedibilmente escludere un aumento evitabile di percentuali di morte causate dall’epidemia. Un tale criterio ( diciamo: la “ curva piatta” ) indica forse una condizione necessaria per la scelta di giustificate strategie di uscita?
In questa direzione si pone il Tribunale Federale Costituzionale quando definisce la tutela della vita come “presupposto di tutti gli altri diritti fondamentali”. Ma entrambi i primi articoli della Legge Fondamentale sarebbero, allora, da intendere non già come proclamazione di determinati diritti, ma come chiarimento concettuale della concezione dei diritti dell’uomo. Ciò vale senz’altro per il comma 2 del primo articolo. E nella prima frase l’inviolabilità della dignità umana non viene neanche introdotta direttamente come diritto, ma come obbligo di tutela dello stato. Entrambe le cose rappresentano fondamentalmente una spiegazione del significato di diritti dell’uomo: questi devono proteggere una dignità dell’uomo che del significato pre-moderno di una “dignità” dipendente dallo status conserva solo il significato intersoggettivo secondo cui l’autodeterminazione dell’individuo richiede al contempo la responsabilità per la propria condotta giuridicamente rilevante nei confronti di tutti gli altri cittadini e a sua volta è reciprocamente destinata al riconoscimento da parte di tutti gli altri.
Resta ancora da spiegare fondamentalmente a chi si riferiscano i diritti che poi stabiliscono più precisamente la dignità dell’uomo. Ciò non si trova anche nell’articolo 2, se noi intendiamo le sue espressioni non soltanto riferite ai diritti della personalità? Il par. 2 di questo articolo spiega come gli “uomini” bisognosi di tutela siano da intendere come titolari individuali di tali diritti: la dignità s’incorpora in soggetti mortali di carne e sangue, che si muovono intenzionalmente e possono agire. L’obbligo incondizionato dello stato si riferisce allora, per motivi concettuali, non soltanto alla dignità del soggetto di diritto, ma anche alla vita e inviolabilità corporale, come pure alla libertà di movimento e di azione di questa stessa persona. Secondo questo tipo di lettura la tutela stabilita nell’art. 2, comma 2, a causa della sua limitazione concettuale tramite la dignità dell’uomo, non sorge nell’ambito di un diritto di personalità limitabile tramite legge.
Klaus Günther
Questa mi appare come una più precisa ricostruzione dell’intuizione del Tribunale Federale Costituzionale. Eh si, non manca di una certa ironia il fatto che alcuni di coloro che ora vogliono relativizzare il diritto alla vita nei confronti della dignità umana appartengono ad una posizione politica che allora salutò con favore il rifiuto dell’abolizione dei termini nell’interruzione della gravidanza.
D’altra parte vorrei esporre ancora più chiaramente un aspetto del Suo argomento: se l’articolo 2 (con l’articolo 1) chiarisce anche il senso di diritti umani e di persone che ne siano titolari, chiarirei questo “anche” in modo ancora più dettagliato. Secondo questa interpretazione spetterebbe all’articolo 2 un doppio significato – accanto alla spiegazione del contenuto dell’obbligo di tutela di vita, inviolabilità corporale e libertà esso conterrebbe al contempo, come evidenzia il suo tenore letterale, anche diritti soggettivi. Soltanto allora il suo titolare li può far valere contro intrusioni (anzitutto da parte dello Stato) tramite la proposizione di un’azione dinanzi ad un tribunale. Ciò perché la funzione di tutela sopra indicata deve restare garantita anche nei confronti di uno stato che agisca arbitrariamente.
Il contenuto dell’obbligo di tutela da parte di quest’ultimo si determina in una misura anche storicamente condizionata: come nelle società a rischio moderne la vita dei singoli viene sempre più condotta in modo autonomo, ma al contempo dipende da un sistema sociale di funzioni a rete e quindi diventa anche sempre più vulnerabile. Ne sono un esempio la pandemia e la dipendenza da un sistema sanitario funzionante. La funzione di tutela di quella triade di diritti soggettivi deve essere, perciò, posta in rilievo, perché, in tal modo, può essere esclusa una conformazione paternalistica del contenuto dell’obbligo di tutela che contrasta con l’autodeterminazione dei suoi titolari, come, ad esempio, in caso di interruzione del trattamento medico voluta dal paziente. Infine, al potere del legislatore d’incidere su questi diritti, contenuto nell’art. 2 par.1 frase 3, viene attribuito il senso che sono gli stessi titolari dei diritti dell’uomo che, nel ruolo di cittadini co-legislatori, devono conformare non solo i diritti umani come loro diritti fondamentali, ma anche gli interventi legislativi inevitabili in caso di conflitti nel senso esplicativo da loro stessi ricostruito.
Jürgen Habermas
Si, sono del tutto d’accordo. I diritti dell’uomo solo attraverso il processo democratico di formazione della volontà possono ottenere validità positiva come diritti fondamentali. Quando però cittadini democratici si limitano ad ubbidire alle leggi generali che essi si sono dati da soli, e tutti insieme, essi non possono anche approvare una politica che contro la loro parità di trattamento, metta in gioco la vita di alcuni per gli interessi di tutti gli altri.
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Spunti da un dialogo d’oltralpe sui diritti fondamentali alla prova del fuoco
Lo scambio di opinioni fra il filosofo Jurgen Habermas e il giurista Klaus Günther, ospitato dalla più autorevole testata di approfondimento in Germania (die Zeit) colloca nel dibattito pubblico tedesco (richiamando voci come quelle del Presidente del Bundestag Wolfgang Schäuble e del Comitato etico) e nel contesto valoriale obiettivato in quell’ordinamento un interrogativo divenuto infuocato in tutte le società spazzate dalla pandemia nel giro di pochi mesi: quanto i conseguenti provvedimenti drastici di limitazione di libertà considerate come acquisite in via definitiva possano giustificarsi per prevenire i rischi a vita e incolumità personale dei cittadini.
Il tema si colloca a ben vedere al centro delle questioni, di ordine giuridico ed extragiuridico, sollevate dagli interventi adottati con urgenza per contrastare la diffusione del virus: fra le più rilevanti, quelle che attraversano tanto la politica, con il ruolo prioritario assunto dalle decisioni governative e l’articolazione fra il livello centrale e quello locale, quanto il ruolo del sapere tecnico come supporto e suggello delle scelte politiche, quanto il rapporto con l’assistenza sanitaria e la sua organizzazione sul territorio, quanto infine le conseguenze economiche e i risvolti psicologici di un fermo prolungato delle attività.
Rispetto ad uno scenario così ampio e complesso, l’uscita dalla fase più acuta dell’emergenza è stata ovunque caratterizzata da un braccio di ferro fra i fautori l’esigenza di fare ripartire una società ed una economia ingessata e quelli che invece richiamano i rischi di fare rialzare i tassi di diffusione del virus e aumentare le conseguenti vittime. Benché ogni Paese abbia finito per decidere autonomamente i termini specifici per la soluzione della questione, articolando piani più o meno differenziati per la riapertura delle varie attività - il che peraltro non stupisce visto che anche la fase dell’adozione dei provvedimenti restrittivi aveva visto i vari Paesi muoversi in ordine sparso, anche in relazione ai diversi tempi di diffusione del virus - la questione di fondo della scelta del punto di equilibrio fra le due contrapposte esigenze si è presentata in termini fondamentalmente comuni a qualunque decisore politico e in qualsiasi riflessione teorica sviluppata nelle nostre società.
L’interesse generale del dibattito fra i due pensatori è poi rafforzato dal dato che esso si sviluppa intorno a portata e limiti dei diritti umani in caso di collisioni reciproche, e dunque concerne una problematica politica e giuridica caratterizzato da uno statuto che travalica i singoli ordinamenti positivi dai vari Paesi e si staglia con una dimensione ultra o sovranazionale, grazie anche alle Carte internazionali che li riconoscono. Il convincimento che il dibattito riportato meriti un’attenzione anche più ampia rispetto al suo contesto di origine non deve fare trascurare che gli argomenti a cui i due disputanti ricorrono sono essenzialmente tratti dalle norme di apertura della fonte costituzionale tedesca (la Legge Fondamentale), e ricorrono anche alla relativa interpretazione della giurisprudenza di quel Paese. Interessante in proposito è il richiamo nel contesto attuale di una fondamentale sentenza della Corte costituzionale tedesca in materia di aborto, che nel 1975 dichiarò l’illegittimità della legge che adottava la soluzione temporale, in quanto non rispettava a sufficienza l’obbligo a carico dello Stato posto dall’art. 2 della Legge Fondamentale di tutelare la vita. Rispetto a temi così fondamentali, nel dialogo solo un accenno si fa ad un pensatore di lingua inglese, richiamato per arricchire il nucleo di argomenti addotti. Un atteggiamento così attento al circuito interno potrebbe ascriversi alla tendenza tradizionale e più generale degli autori tedeschi di matrice giuridica di non indulgere in ampie indagini comparatistiche, preferendo prevalentemente il dibattito interno per le proprie analisi.
Tuttavia, qui la presenza di un filosofo della statura internazionale di Habermas, unitamente all’oggettiva congruenza fra i temi approfonditi e questioni che - come quella del bilanciamento fra diritti fondamentali e della relativa gerarchia costituzionale – sono penetrate nelle Corti costituzionali di molti Paesi, Europei e non, consentono anche al lettore straniero di rinvenire motivi di riflessione importanti dallo sviluppo del dialogo. Senza poter menzionare tutti i punti degni di interesse, per la varietà e la profondità di essi, basterà segnalare il dato che al di là della ripetutamente dichiarata concordia di posizioni con cui si aprono i rispettivi interventi, i rispettivi iter si profilano con tratti ben differenziati.
Il filosofo perviene ad una più netta difesa della priorità della vita del singolo come non bilanciabile con gli interessi alla libertà di collettività più o meno estese. Invece il penalista e teorico del diritto sviluppa un’argomentazione più articolata, in cui muove dall’affermazione di principio che tutti i diritti fondamentali sono bilanciabili, ma poi riconosce che i vari livelli di controllo della decisione legislativa in materia non assicurano esiti sicuri e determinati e che lo stato mantenga una “prerogativa di valutazione” in proposito. Ancora, sempre il giurista, nel richiamare la riserva di legge che consente la limitazione dei diritti fondamentali della vita, incolumità fisica e libertà, se rinvia al processo di formazione democratica della volontà comune sul punto di bilanciamento fra di essi, d’altra parte pone in dubbio che il principio di proporzionalità possa tracciare il confine fra le morti evitabili e quelle inevitabili in caso di allentamento delle misure di contenimento: per la difficoltà di spiegare “al primo paziente che non possa essere fatto respirare [a causa della saturazione dei posti in terapia intensiva dovuta alla Pandemia], che egli dovrebbe morire per amore della libertà di altri”.
Affiora così sullo sfondo dell’intero dialogo l’impressione che nel contesto tedesco il bilanciamento fra vita ed incolumità fisica da un lato e libertà dell’altro (che nell’art. 2 par. 2 della Legge fondamentale sono equiparati almeno quanto a possibili limitazioni tramite legge) rimanga fortemente condizionato da una particolare concezione della “dignità dell’uomo” come valore supremo dell’ordinamento (non a caso così richiamata da Schäuble proprio nel contesto in esame). Essa, per trovare una interpretazione che la riempia di contenuti e che al contempo ne eviti una tirannia su ogni altro diritto fondamentale, finisce per recuperare, dopo la tragedia della storia tedesca nel periodo in cui se ne distaccò, il valore dell’imperativo categorico di Kant: trattare l’uomo sempre anche come fine, e mai come mezzo, sia pure al fine di allentare misure che limitino la libertà, almeno quando le relative conseguenze mettano in gioco la vita altrui. Insomma, la formula ancora diffusa in Germania del “generale rischio di vita” come fattore da accettare nelle svariate attività umane non può più suonare come l’antico motto della lega anseatica “navigare necesse, vivere non necesse”.
Vincenzo Militello
* Il 7 maggio 2020, nel corso di un’intervista sulle questioni che si agitavano attorno alla pandemia in Germania rilasciata al Corriere della sera il Direttore del settimanale tedesco Die Zeit Giovanni Di Lorenzo riferiva di un’importante intervista che stava per essere pubblicata in Germania sul tema della vita e della dignità.
Giustizia Insieme ha ottenuto i diritti di riproduzione di quell’intervista pubblicata il 9 maggio 2020 da Die Zeit col filosofo Jürgen Habermas ed il teorico del diritto Klaus Günther – Diritti fondamentali: “Nessun diritto fondamentale vale senza limiti”–. La traduzione in italiano è stata curata dal Presidente Enrico Altieri e dal Prof.Vincenzo Militello. Quest‘ultimo ha poi steso in calce alcune importanti riflessioni (Spunti da un dialogo d’oltralpe sui diritti fondamentali alla prova del fuoco) che offrono al lettore rilevanti chiavi di lettura per collocare i contenuti dei dialoghi nell’esperienza giuridica tedesca. Grazie ai protagonisti di questa ulteriore iniziativa comparatistica sul ruolo dei diritti fondamentali che la Rivista, in linea di continuità con quella che ha dedicato un focus all'esperienza statunitense – Tragic choices, 42 anni dopo. Philip Bobbitt riflette sulla pandemia – ha inteso promuovere a margine della crisi epidemiologica al fine di favorire la conoscenza ed il dialogo fra culture diverse, ma affini e complementari. (Die Zeit, 9 maggio 2020)
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